«Qui purtroppo non è Ballarò», disse Pier Luigi Bersani il 27 marzo 2013, durante la prima consultazione in streaming tra un presidente del Consiglio incaricato del Pd e il MoVimento 5 Stelle. Un anno dopo, si può dire che sbagliava: l’incontro tra Matteo Renzi e Beppe Grillo è stato né più né meno uno di quei duelli verbali da talk show in cui, dopo attacchi personali e una radicale incapacità di dialogo, uno dei due interlocutori si alza e se ne va. A questo modo la «trasparenza», o l’orrenda caricatura prodotta nei pochi minuti del faccia a faccia, da strumento per consentire agli elettori il controllo degli eletti diventa un modo per assoggettare interamente una procedura democratica alle logiche della propaganda di partito.
E del resto non può esserci altro quando un leader politico, Beppe Grillo, prima definisce l’idea di sedere allo stesso tavolo di Renzi una «farsa», poi – all’ultimo minuto – la mette in votazione sul blog, poi ancora viene sconfessato dalla maggioranza dei 41 mila votanti e infine, una volta giunto a Montecitorio, dice quel che gli pare. Ma siamo sicuri, come si chiede il presidente dell’Associazione italiana per l’Open Government, Ernesto Belisario, che i quasi 21 mila che avevano chiesto all’ex comico di parlare davvero con il premier in pectore volessero limitarsi a un ben poco conciliante «qualsiasi cosa dici non sei credibile»? E allora perché sedere a quel tavolo? E se «la Rete» ha deciso che Grillo doveva recarsi all’incontro, chi ha deciso la sostanza della posizione politica che ha espresso? Non certo «la Rete».
A questo modo, con una parte che annuncia un programma che sa essere indigeribile per l’altra – e che ha tutta l’aria di essere presentato in toni concilianti solo perché sotto gli occhi del pubblico – e l’altra che rigetta qualunque discorso di merito sfruttando l’occasione per fare un comizio a reti unificate, si perde la possibilità di utilizzare strumenti digitali per rinvigorire la democrazia. Perché lo streaming, certo, non è di per sé trasparenza. Ma, evitando la recita, potrebbe contribuire a rendere più chiaro un passaggio della nostra Repubblica in cui la parola d’ordine è ancora una volta l’opacità.
Eppure la diretta video ha in ogni caso consentito a chiunque di farsi una propria idea su quanto è accaduto, liberandoci inoltre da infiniti retroscena per ricostruirne (più o meno accuratamente) i fatti essenziali. Trasformando poi lo streaming in prassi, forse per la prima volta al mondo, i cittadini sono stati in grado di valutare da loro stessi anche l’evoluzione dei rapporti tra le forze politiche: ai due precedenti incontri, la delegazione dei Cinque Stelle aveva argomentato pacatamente la propria posizione, dando modo a Bersani prima ed Enrico Letta poi di fare altrettanto. Oggi i toni sono molto più netti di allora. Contrariamente a Letta, per esempio, Renzi non ha potuto nemmeno terminare un ragionamento (sincero o meno che fosse, come detto) sulla possibilità di trovare una qualche sintonia sui punti programmatici in comune tra le due forze politiche – che pure ci sarebbero. E del resto, dice Grillo, «non sono più democratico con una persona come te».
È un imbarbarimento del confronto che la tecnologia può testimoniare ma non cambiare, come troppi analisti e commentatori avevano creduto sull’onda dell’entusiasmo per la «politica 2.0». Da cui, tuttavia, non dovrebbe derivare una condanna inequivocabile del mezzo – lo streaming – quanto delle persone che lo utilizzano male. Ecco, più di ogni altra cosa il pessimo spettacolo offerto dallo streaming della consultazione tra Renzi e Grillo – a prescindere dalle singole responsabilità individuali (di Grillo, in particolare) e dal giudizio su chi ne sia uscito vincitore – ci costringe a prendere atto che l’Italia, uno dei laboratori più avanzati al mondo per la democrazia digitale, ha già sostanzialmente sterilizzato (e soprattutto a causa di chi se ne è fatto il più ardente sostenitore) uno dei modi attraverso cui potrebbe esplicarsi. Non necessariamente con frutto, ma di certo con maggiori risultati e soprattutto senza dare per l’ennesima volta l’impressione che a rimetterci siano le istituzioni stesse. E noi, tutti, con loro.