L’agonia del piccolo Charlie e il declino di un’informazione senza saperi 04/07/2017
"Non c'è più nulla fuori dalla medicina", diceva Michel Foucault.
Un aforisma che oggi si tinge di toni drammatici se riferito a quanto sta accadendo attorno al piccolo lettino di Charlie Gard, il bambino inglese che una malattia oggi incurabile è condannato ad uno stato vegetativo che la corte di Strasburgo ha decretato non più prolungabile.
Foucault intendeva che il potere della scienza medica tende ormai ad avvolgere e regolare ogni vita.
E il piccolo Charlie, insieme all'impotenza dei suoi genitori, e alla fredda logica giuridica che si trova oggi paradossalmente, per salvaguardare la dignità in infiniti altri casi, a condannare la sua esistenza, assicurata solo da marchingegni esterni al suo corpo, a concludersi, si trova oggi ad interpretarne l'applicazione, in un gorgo di principi ed emozioni strazianti.
Crescono gli imbarazzi dei media nel riportare e documentare il caso. Ma del resto come si fa a raccontare quella disperazione? Basta davvero comporre il mosaico delle posizioni? Rappresentare la tenacia della famiglia, le ragioni dei giudici, la passione di associazioni e volontari, gli appelli delle chiese? Certo è necessario, ma non è sufficiente. Non si spiega, non si descrive il caso semplicemente trincerandosi dietro al pastone tradizionale, magari corredato dalle solite interviste agli esperti: un genetista, un giurista, un filosofo e un religioso.
L'informazione si scopre fragile ed inadeguata dinanzi ad una notizia che non si limita ad un fatto. Ecco, siamo dinanzi all'insufficienza dei fatti. Alla palese contraddittorietà di eventi.
Volevano fatti. Fatti. Gli chiedevano fatti, come se i fatti riuscissero a spiegare qualcosa, diceva Jospeh Conrad nel raccontare il suo "Cuore di Tenebra".
"I fatti separati dalle opinioni", recitava un fortunato slogan che simboleggiava una prestigiosa cultura giornalistica. Oggi né gli uni né le altre esauriscono il campo dell'informazione: fra fatti ed opinioni irrompono i saperi.
I fatti e le opinioni oggi sono sempre più proiezioni, epifenomeni di saperi che irrompono nelle nostre vite. Biologia, tecnologia, etica, genetica, ma anche calcolo e filosofia sono ormai quotidianamente attorno a noi. Ogni evento di cronaca nera viene ormai sezionato da tecniche biotecnologiche, ogni nostro atto viene pianificato, censito e documentato da algoritmi, ogni nostro sintomo fisiologico è scannerizzato e trattato da microchip.
Raccontare questi fatti, senza maneggiare questi saperi è illusorio e ingannevole, come appunto la tragica vicenda del piccolo Charlie ci conferma.
Come raccontarla a chi vuol capire senza centrare il cuore del dramma: che aspettativa legittima si può avere sui protocolli di cura della malattia del bambino che sono ancora nella fase di prima sperimentazione negli Usa? Questo è il tema che modifica ogni discussione.
Staccare la spina significa innestare un terribile conto alla rovescia. Se fra un anno, due anni, o anche tre quel protocollo dovesse diventare terapia allora la decisione di non prolungare lo stato vegetativo di Charlie diventa crimine. Se invece il tempo scorrerà senza che questo avvenga allora i giudici sono stati garanti di giustizia.
Ma a chi delegare questa previsione? La magistratura ha avuto i consulenti, luminari che hanno assunto questa responsabilità, in virtù del proprio sapere e della propria abilità.
Un giornale, una comunità di che osserva e valuta l'avvenimento deve decidere se aderire a questa valutazione o trovare ragioni diverse. Al di fuori di questa scelta c'è solo un insipido e inutile resoconto di un fatto che, come diceva Conrad, non spiega nulla.
Il giornalismo oggi si trova su questa soglia: diventare soggetto e protagonista dei saperi, costruendo formule organizzative e tecniche gestionali che gli consentano di avere autonoma e sovrana consapevolezza dinanzi agli eventi, o lasciarsi trascinare in una deriva di insignificanza che accelererebbe il suo declino.
È una partita che investe la democrazia, le istituzioni, ognuno di noi. Buttare a mare questa esperienza professionale, senza avere una nuova e almeno analoga forma di produzione di opinione pubblica soffocherebbe ogni dialettica democratica. Ma non è nemmeno possibile far galleggiare il simulacro di informazione sempre più labile, fragile, insulso, sotto cui si celano ormai nuovi poteri della comunicazione che stanno crescendo e minacciando le nostre discrezionalità, giocando proprio sull'inadeguatezza della soggettività giornalistica. È una scelta estrema, di cui dobbiamo prendere consapevolezza e coglierne le matrici e le reali cause. Proprio come impone il destino di Charlie.
Huffingtonpost / michele-mezza