È una battaglia storica della Lega. Una soluzione spiccia che da sempre, sottoposta a sondaggio, risulta di forte gradimento agli italiani: castrazione chimica per gli stupratori. Non stupisce quindi che, sull’onda della legittima indignazione per lo stupro di Palermo, Matteo Salvini torni a parlare di questa formula. «Porteremo avanti in Parlamento il disegno di legge della Lega chiedendo di calendarizzarlo in commissione per votare e approvare al più presto una proposta di buonsenso» ha annunciato sui social il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. «Se stupri una donna o un bambino hai evidentemente un problema: la condanna in carcere non basta, meriti di essere curato. Punto».

Così il leader del Carroccio, convinto che rendere impotente con un’iniezione chi si sia reso colpevole di stupro sia una buona soluzione, torna alla «tolleranza zero» lanciata sin dal 2005. All’epoca era stato l’allora ministro per le Riforme istituzionali Roberto Calderoli, attuale ministro per gli Affari regionali e le Autonomie. Poi è arrivata la raccolta firme del 2009 della Lega, terminata con un nulla di fatto. Nel 2019 invece, in occasione della discussione del cosiddetto “Codice rosso” (legge che ha introdotto alcune modifiche nella gestione dei casi di violenza di genere) Lega e Fratelli d’Italia presentarono un emendamento specifico, poi respinto.


Di cosa si tratta?
La soluzione drastica che incontra l’opposizione di molti medici, costituzionalisti e anche femministe consiste in una terapia farmacologica a base di ormoni, a volte associata a psicofarmaci, che ha l’effetto di ridurre la produzione e il rilascio degli ormoni sessuali, come il testosterone, e di inibire l’azione della dopamina, portando a un conseguente calo del desiderio sessuale. In Italia il trattamento è riservato a gravi malattie in prevalenza di natura tumorale e può avere effetti collaterali specifici come la riduzione della massa muscolare, effetti negativi sul metabolismo osseo, osteoporosi, anemia. A leggere il disegno di legge della proposta firmata da Roberto Calderoli e presentata il 29 aprile del 2019 il colpevole di stupro, con sentenza passata in giudicato, in alternativa al carcere: “Può sempre chiedere di essere ammesso volontariamente al trattamento farmacologico di blocco andro­ genico o al trattamento di castrazione chirur­gica di cui al presente articolo”, Insomma: castrazione su base volontaria.

I limiti 
L'attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel 2019 si era pubblicamente opposto alla soluzione leghista senza mezzi termini: «Ritorno al medioevo». Dalle colonne del Messaggero scriveva che avrebbe sovvertito «completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione» dove la pena ha una funzione retributiva e rieducativa: attribuire alla castrazione chimica una funzione retributiva significherebbe tornare «alla vecchia pena corporale» e per quanto riguarda la funzione rieducativa, essa si fonda «sul libero convincimento, non sull’effetto materiale di qualche molecola». Senza contare il rischio di incostituzionalità. L’articolo 32 della Costituzione dice chiaramente che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Ma non solo. Come spiega al Corriere della Sera il segretario dell’associazione nazionale Funzionari di Polizia, Enzo Marco Letizia, «Il farmaco non incide sulla personalità e il soggetto può continuare ad avere fantasie sessuali e perciò aumentare la sua aggressività», afferma Letizia. «È un’utopia che lo stupratore segua il protocollo medico. Questo farmaco va somministrato per via orale tre volte al giorno e appena si sospende la somministrazione il testosterone viene prodotto in maggiore quantità con l’aumento della libido del violentatore». Della stessa opinione era Nordio: «Una volta esaurito il tempo di espiazione e “di cura” la pericolosità infatti riemerge, probabilmente potenziata dal noto effetto contrario conseguente all’interruzione della somministrazione del farmaco».

C’è poi un altro aspetto: il rischio di minimizzare la violenza sessuale e ricondurre la responsabilità della violenza non alla persona, ma al suo organo genitale. Su questo punto attacca dall’opposizione Cecilia D'Elia senatrice Pd, vicepresidente della commissione Bicamerale d'inchiesta sui femminicidi e portavoce nazionale della Conferenza delle democratiche: «Parlare di malati e per questo di castrazione chimica come fa Salvini, significa non aver capito nulla della violenza maschile contro le donne, che è un fenomeno strutturale radicato nella cultura patriarcale della nostra società di cui purtroppo sono imbevuti anche tanti giovani maschi 'sani' nel nostro Paese. Serve che la giustizia faccia il suo corso e aiuti le donne, ma soprattutto serve una rivolta culturale». 

Il ministro Salvini tuttavia insiste su: «Quello che c'è già in via sperimentale in diversi Paesi al mondo, il blocco androgenico, ovvero la castrazione chimica, secondo me in via sperimentale anche in Italia potrebbe servire come dissuasione nei confronti di chi non definisco neanche bestie».

Dimentica di dire tuttavia che il Consiglio Europeo ha già condannato questi Paesi, in quanto, oltre ad essere una pratica lesiva nei confronti dell’integrità corporea dell’individuo, la castrazione chirurgica viene attualmente vista più come una “punizione” che come una prevenzione della recidiva, in un’ottica quindi più riparativa che riabilitativa: “Nessuna pratica coercitiva di sterilizzazione o castrazione”, si legge nella risoluzione 1945 del 2013, “può essere considerata legittima nel ventunesimo secolo”. 

«Il nostro sistema non brilla di civiltà. Ma poiché credo che in politica l’errore sia il peggiore dei crimini, credo che questa iniziativa debba esser fermata. Perché, appunto, prima di ogni altra cosa sarebbe un errore, forse fatale» a dichiararlo era sempre l’attuale ministro Nordio. 

«Non ha a che fare con un impulso sessuale irrefrenabile che si può contrastare con dei farmaci – spiega Antonella Veltri, presidente della rete dei centri-antiviolenza D.i.Re al IlPost.it –  Lo diciamo da almeno trent’anni, ma le motivazioni della violenza maschile contro le donne stanno nella cultura. Serve un impegno responsabile, strutturale e trasversale da parte di tutti i soggetti coinvolti, in particolare su formazione e prevenzione. E servono finanziamenti». Prevenzione e formazione. Di tutto questo per adesso, dal Governo, neanche l’ombra. 

Fonte: La Repubblica