Israele è di nuovo in guerra. Con Hamas. E di questa guerra per il momento due sole cose sono più o meno chiare.

La prima è che come in tutte le guerre si sa come la violenza comincia, ma non come finisce.

C’è dunque la possibilità – per il momento improbabile – di una estensione del conflitto ma c’è anche la possibilità che da questo conflitto – se contenuto – nascano condizioni per una tregua stabile. Quelle precedenti sono state permanentemente rotte da frange estremiste ideologiche islamiche, interessate forse più a indebolire il governo attuale dei fratelli musulmani che di ferire a morte Israele. Il fatto che il governo dei fratelli musulmani del Cairo abbia ritirato il suo ambasciatore da Israele ma non rotto i rapporti diplomatici è significativo. Questa crisi militare rappresenta infatti per l’Egitto una grossa sfida e occasione politica dal momento che il Cairo ha tentato ripetutamente, ma invano, di negoziare una tregua.

La seconda cosa più o meno chiara è che Netanyahu entra in guerra prima delle elezioni generali (in gennaio) con un paese compatto dietro di sè che non accettava più di essere esposto e sottoposto al bombardamento missilistico da Gaza (nei due giorni precedenti all’offensiva ne sono stati lanciati contro il territorio israeliano oltre 100). Una mancanza di decisione da parte del Primo ministro sarebbe stata la sua morte politica.

Ecco come si presenta il quadro miliare e politico:

Militarmente Israele ha interesse di dare prova della sua potenza anche per mandare un chiaro avvertimento agli hezbollah del Libano, alleati di Assad e dotati di mezzi militari offensivi forniti dall’Iran molto più pericolosi di quelli di Hamas e del suo alleato egiziano. Non si farà scrupolo, come invece fece il precedente premier Olmert, di colpire Hamas nei suoi centri vitali per timore della reazione dell’opinione pubblica internazionale. Rispetto alle violenze inter arabe, sia quelle delle “rivoluzioni arabe” che quelle della guerra civile in Siria, (contro le quali non c’è stata alcuna reazione popolare nel mondo arabo e in quello occidentale), quelle di e contro Hamas passano in seconda linea.

Politicamente la situazione é meno chiara e Gerusalemme deve tener conto:

della reazione post elettorale di Obama che con la sua vittoria ha ferito il “leone” Netanyahu. Il premier Israeliano è conscio di quanto dipenderà da Washington per il suo futuro e a Gaza ha invece bisogno di dimostrare la sua libertà d’azione;

della reazione turca, che ha tutto l’interesse di intervenire per ristabilire il suo prestigio ammaccato presso i palestinesi e i siriani, ma attende lo sviluppo della situazione prima di pronunciarsi e prendere parti.

della reazione dei palestinesi nella Cisgiordania e degli arabi israeliani che per il momento sono stranamente tranquilli e hanno tutto da guadagnare dall’indebolimento di Hamas.

C’è tuttavia un aspetto “storico” in questa crisi. A 24 ore dall’inizio dell’offensiva militare israeliana contro Gaza, si ha l’impressione che oltre che il desiderio collettivo israeliano di far scoppiare il bubbone dei bombardamenti missilistici di Hamas, ci sia anche da parte di Israele la volontà di adottare la tattica degli Orazi e Curiazi di buona memoria romana. In previsione di dover combattere su 3 fronti – Gaza, Libano, Iran – sbarazzarsene di almeno uno è allettante. Per cui farà il possibile perché il suo intervento militare sia rapido, massiccio e deterrente. Purtroppo in battaglia non è mai nato nessuno, incluse le condizioni di pace.

Dan Segre

Vittorio Dan Segre  Dan Segre, Professore Emerito di Pensiero Politico, ha partecipato con Indro Montanelli alla fondazione de il Giornale

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