PIZZI ALZA IL SIPARIO SULLA DISSOLUZIONE DELLE NOTTI DI ROMA, L’ETERNA SCROFA
CROCI PRECIPITATE NEGLI ABISSI DI TETTE, FROCETTI DA SCANNATOIO A FAR CONTORNO
GUARDATE LA RITA RUSIC, PARATA E RAPPRESENTATA SUB SPECIE “INFERMIERA SORCA”
Pietrangelo Buttafuoco per Panorama
Fotografie di Umberto Pizzi
Che porci, i porci della comitiva dei gaudenti romani.
Moralisti e storici non possono che spalancare il sipario sulla dissoluzione e ingraziarsi l’osceno nell’obbligo voyeuristico.
Guardate dunque: libbre perfino frolle di carne esposte su tiranti autoreggenti che fanno il porno quotidiano di Roma, l’eterna scrofa. Anni e «dibbbattiti» sul femminismo per piegare le donne alla deturpazione botulinica del corpo e farle simili a indistinti transessuali, ovvero macchine da letto senza più morbidezze, fianchi e cicce, ma solo e solamente buchi.
Guardate: una ragazza s’appecora. La torsione del busto impegna la triangolazione di gambe, tacco e dita: sta esplorando l’antro impudico. Il flash assapora l’acido velame di un effetto lucido. È (s)vestita con un abituccio zebrato.
Guardate: un’altra si tocchiccia la «pertusella» su una tavola imbandita nel frattempo che scaraventa le poppe da un affaccio, una camicia bianca stretta. È bionda la Poppea, è «bona» assai. Guardate.
E pensate: anni ed emancipazioni per approdare all’involuzione del femminile. Sono signore che si comportano come uomini ed è per questo che fanno le cose più maschie: fumano, ostentano, si sbatacchiano, sbattono al muro la più ghiotta fra le prede di una sera. Nel segno maldestro della rappresentazione caricaturale. Guardate: sono due gran belle cosce quelle della signora Rita Rusic, già produttrice-protettrice di talenti cinematografici, adesso parata e, definitivamente, rappresentata sub specie «infermiera sorca». Si dirà: «Quentin Tarantino è il suo modello». Sì, buonasera. Pensate. Pensatelo.
E però: che piacere, il piacere. È l’eterno dominio della «Bona Dea», il mai sopito culto della prostituzione sacra nella città ospitale: «Il canale di scolo dell’umanità» dice con deforme arguzia padre Celeste, monaco cappuccino di via Veneto. «La solennità del vizio» aggiunge. Ne fa un proclama di dolcezza in fondo il monaco. È giorno pieno e le facce dei passanti sono ministeriali, nulla di peccaminoso li attraversa.
Le foto arrivano di sera. Sul marciapiede di fronte, lungo la strada che fu di Ava Gardner e Walter Chiari, la libreria Arion accoglie un evento di gradevole mondanità: la presentazione dell’ultimo libro della scrittrice glam Januaria Piromallo. Titolo: Bella d’annata, il fascino irresistibile delle donne mature ma non troppo cresciute. Che dolcezza la vita, tutto a Roma è irresistibile, e tutto ritorna a Johann Jakob Bachofen e al suo Matriarcato. Ritratte nell’apoteosi della pop mistica contemporanea le femmine romane di oggi sono ancora le Arbuscola, le Tertia e le Citeris di tempi e tempi fa. Chissà cosa faranno mai di giorno: la depilazione, lo shampoo, il taglio delle unghie, i versamenti degli assegni familiari.
Guardate: si divertono un sacco le matrone, ma solo a partire dalla sera tardi. E se la filologia greco-romana mi soccorre, Muccassassina, la discoteca romana delle figure sessuali indeterminate, l’ara sacrificale di Vladimir Luxuria, è il luogo della notte gioiosa e buia. Che piacere, il piacere. Che trionfo d’ilarità è la festa. È la notte della «perversitas», la messa in mostra attiva e passiva del corpo. Solo che qualcuno poi accende la luce.
Guardate, guardatele: si guardano in faccia, la mano corre al filo del perizoma incastrato nelle chiappe, scendono dal tacco e come Adria di Vita e morte di Massimo Bontempelli, come la signora che «si chiude dentro casa e non esce più», anche loro non escono più. Di notte capita che le signore si lecchino un po’ tra loro, per gioco (guardate, che slurp). È la festa. Le signore agitano e frullano sottovesti e sudori, svolazzano, fanno guazza e ricotta e poi pipì, ma leste leste corrono verso la ritirata prima che la cocaina spinga nello sfintere più trista urgenza.
Pensate: la mattina si svegliano e si ritrovano con l’alito guasto, le monelle. Guardate: c’è pure quello che disturba le dirette televisive, il tipo con i preservativi in mano. Lui non ostenta elaborazioni glossiche. Solo bacetti con uno, un altro, dopo di che sprofonda sulle tette di Milly D’Abbraccio. Ma solo per farne un cuscino. È ninna nanna per lui. È tutto uno spartire il proprio corpo con chiunque. E cosa non è infine questa matrona romana, guardate: è l’equivoco afroditico, è la carne dell’immaginario intesa come condizione onorata della rovina sociale. Non è solo per cortesia di avidità goduriosa che si decide di evadere nella decadenza, imbellettarsi è un destino.
Guardate dunque: una stangona bionda nuda (calzante solo stivali d’arrapo e capezzoli duri) si trascina un nano enfio di sola panza, debitamente esposta fino al peduncolo di una sgorbia mentula. Guardate (cronisti e soloni nulla possono) e ci soccorre allora solo la cronaca: gli scatti di Umberto Pizzi, il massimo dei fotoreporter del costume romano e, in ragione di ciò, vetta della letteratura. Come lui (come Pizzi, il compilatore di un album Satyricon costantemente aggiornato su Dagospia) c’è Petronio. Come lui, dunque, Federico Fellini. Come Pizzi infine, solo Luciano Canfora, se vi prende la briga della storiografia sofisticata. Oppure Pierre Klossowski, la filosofia.
E, infatti, Le Dame romane sono loro: ludi scenici totalmente blasfemi squadernati su stampa digitale. Croci precipitate negli abissi di tette, poppe offerte all’occhio ormai orbo di ogni flebile erezione, frocetti da scannatoio a far da contorno e (guardate) un rachitico manager del pelo, il furbissimo (e magari benemerito) Riccardo Schicchi, titolare della premiata ditta porno Diva futura, ritratto in mutande nel frattempo che Milly D’Abbraccio mette mano in direzione della mentula e glielo/a tasta.
E infatti questi sono i fatti e, pensate, Roma si racconta in quattro modi diversi. La prima è quella del Ratto delle Sabine, la storia, il piacere, lo scandalo tra gli scandali, lo stupro esibito come strumento di potere. Questa selvatica Roma conclude il suo ciclo con Lucrezia violentata «per mano» di Tarquinio il Superbo. E la seconda Roma, invece, è quella di Caligola, quella dell’ellenismo dell’Asino d’oro, ovvero la sceneggiata giunta a noi per tramite della rivisitazione pop di Roma, quell’americanata di sesso, droga e cetra rock di gran successo e dubbia filologia che tanto avvicina a una certa idea dell’onnipotenza fottitoria.
Pensate, poi, la terza Roma. È quella del grasso Papato del Cinquecento.
Si dirà: «Là dove ci sono campane ci sono sempre puttane».
È ben detto. E quindi i grandissimi Borgia con una Lucrezia, un’altra, a far da nemesi.
È il cattolicesimo pronto a coniugarsi coi misteri pagani quello della terza Roma, è la potenza olimpica dell’arte offerta alla pietas della sontuosa sagrestia. Pensate: la magnificenza carnosa della Cappella Sistina ha ragione d’essere solo nella leccornia prevaricatrice del Papato, così il sublime artifizio del potere con la «fabbrica di San Pietro». La meta del trionfo terreno foraggiata dalle indulgenze, una fabbrica non ancora toccata dalla tetra e cupa eresia luterana, Dio ce ne scampi. Meglio un tango con il principe Giovanelli (guardate).
La quarta Roma, sabauda per disegno della Provvidenza, la stessa che arriva ai nostri giorni, è invece quella dei salotti di Gabriele D’Annunzio. Poeta immenso, instancabile cercatore di amori, il romanziere della perfezione erotica (a sua volta ritratto cinematograficamente da Luchino Visconti per far morire l’autunno dolcemente sulle labbra di Laura Antonelli) è colui che forgia la Roma dai nomi desueti. Ancora una volta Lucrezia. E ancora una volta Il piacere. E poi lasciare presagire Claretta, l’amante venuta dai Parioli.
Cronache di ieri uguali a quelle di oggi a loro volta perfette a uniformare nel protrarsi dell’Urbe quelle dell’altrieri a dispetto della severità dei cesari, della santa pazienza di Romana Chiesa e dell’amorevole filantropia di Walter Veltroni. Croniche in «dispitto» ai nuovi trasgressivi che, «je piacerebbe», vorrebbero innalzare nuove depravazioni quando Roma già di suo fa dell’empietà la ragione sociale, il marchio, lo statuto di malizia e impostura.
Guardate: ad azzardare un altro paragone, nelle sequenze degli scatti Pizzi ci mette il ritmo degli epigrammi. Guardate: solo Marziale può mostrare la faccia mesta e reclusa di Amedeo Goria stretto tra due dame. Solo Marziale. E Pizzi. Che mestiere il vivere romano. Il lenocinio degli umanoidi di rango dediti all’obbrobrio nella parte di terra laziale (parte dove pure abita il Santo Padre) è un compito di troppo ardua estetica. Certo, il colonnato della sacra Città Vaticana allunga le sue bretelle d’ombra addosso al Tevere, ma è guado di liquame osceno quello che dal fiume poi esala nell’etere e corre tra i ponti. E sono le etere, le zoccole, le puttane, ad amministrare il rito politico dell’infinito provvisorio. Ha ben annotato Pierre Klossowski: «I lenonia sono appena un surrogato»
Sempre a mezzo tra la fine della repubblica e il nascente impero. Dalle province dell’Impero arrivano i trionfi della Magna Grecia, come gli ingegni di Calabria, come Mario Caligiuri, scienziato della politica, che mette mano alla fisiognomica della gens romana per farli diventare tutti barbe finte, nientemeno che gli agenti segreti alla scuola di Francesco Cossiga. Un idolo del reportage fotografico, il presidente. Idoli tutti gli agenti segreti da impegnare, tra la fine della Repubblica americana e il sorgere dell’Impero d’Eurabia, nella ghiotta Vallettopoli.
Si dirà: «L’esibizione rivela la crisi». Il potere nell’apogeo mostra la virilità piuttosto che la copula, nello sfasciarsi del rito politico il godimento libidinale è solo l’istante che precede la necessità di accendere la luce e tirar su le mutande. Pensate: come un tempo, come sempre. Come per tutte le quattro possibilità di essere Roma. Compresa quest’ultima dove non si limitano a farsele, le matrone, ma ce le fanno vedere. Con la smorfia sazia dello slurp (guardate).
Dagospia 27 Luglio 2007
213.215.144.81/public_html/esclusivo.html[Modificato da Etrusco 28/07/2007 01:16]
Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.