ARPE DIEM - “DIETRO A “REPORT”, UN GIORNALISMO DI ALTISSIMA QUALITÀ, CHE ESCLUDE CHE DIETRO CI SIA QUALCUNO. SPESSO CHIEDERSI CHI C’È DIETRO SERVE A SVIARE L’ATTENZIONE DAL CONTENUTO”…
Paola Pilati per l’Espresso, in edicola domani
Non ho voluto firmare un “confidentiality agreement” perché non ce n’era bisogno:
vengo da un mondo in cui la riservatezza, non l’omertà, è un valore essenziale... Matteo Arpe rompe con “L’espresso” un silenzio di quasi sei mesi.
Da quando, la sera del 31 maggio, uscì dal portone di Capitalia, la banca romana di cui era stato l’amministratore delegato, con i soldi della sua buonuscita e un buon numero di stock options, ma anche con un bel groppo in gola.
Dopo cinque anni, l’avventura alla guida della banca romana si era conclusa con la vendita del gruppo Capitalia a Unicredito. Vendita che non è stato Arpe a condurre in porto, ma da cui anzi è stato
tagliato fuori dal presidente della banca, Cesare Geronzi. Con il seguito di inevitabili dimissioni. Ultimo atto di un rapporto di vertice sempre più ruvido e conflittuale.
Ora Arpe torna con un suo gruppo finanziario,
Sator.
Il duello a distanza, anche se ovviamente da tutti smentito, resta. È tuttora pendente una vicenda giudiziaria, il rinvio a giudizio di Geronzi per il caso Ciappazzi-Parmalat, che ha coinvolto anche Arpe. Ed è troppo piccolo il circuito bancario italiano, troppo ambizioso l’orizzonte dei due protagonisti. L’anziano banchiere proiettato al centro del sistema di potere che fa capo a Mediobanca, di cui è diventato presidente del consiglio di sorveglianza, il giovane che, dopo essere stato corteggiato per incarichi di prestigio all’estero (anche il ruolo di ceo per un grande gruppo bancario europeo), sceglie di restare e di costruirsi un’attività finanziaria su misura.
Una holding in cui mette tutto il suo denaro, la sua reputazione, e il suo team di collaboratori, in maggioranza provenienti da Capitalia. Quasi a ribadire che la scommessa professionale si fa con la stessa moneta umana, e che il successo di Capitalia resta un suo asset personale, da reinvestire altrove.
Cosa pensa della fusione tra Unicredito e Capitalia? È vero che non le è piaciuta?
«Non ho mai detto questo: nella mia lettera di commiato ai dipendenti l’ho definita un progetto di grande valenza industriale, e ne ero convinto».
Capitalia è stata valutata poco?
«È un tema mal posto. C’è una differenza sostanziale tra la cessione di un’azienda, dove chi vende cerca di massimizzare il valore, e una fusione tra due realtà, dove gli azionisti scommettono sul successo dell’aggregato e partecipano al risultato complessivo nell’ambito di una governance comune. In quest’ultimo caso la bontà dell’operazione si può valutare solo ex post».
Per ora le cose al titolo Unicredit dopo la fusione non sono andate molto bene. Ma forse è stata anche colpa della crisi dei mercati che ha coinvolto le banche: dai subprime ai derivati...
«La crisi dei subprime ha investito l’intero settore finanziario a livello mondiale. Ed è comunque seguita ad anni in cui c’è stata in tutti i mercati un’eccezionale abbondanza di liquidità ed una ridotta percezione del rischio».
Capitalia aveva i subprime?
«Al momento della mia uscita Capitalia non aveva alcuna esposizione diretta o indiretta ai subprime».
Come ne siete rimasti fuori?
«Avevamo scelto di non investire in questi prodotti, anche se davano ottimi rendimenti. Il perché lo abbiamo dichiarato all’epoca. In primo luogo, se il rendimento di questi prodotti è altissimo, è evidente che c’è un rischio elevato. Secondo, se la banca è disponibile a prendersi un alto rischio, meglio che lo faccia direttamente, e non comprando attività di altri. Del resto, anche per quanto riguarda i nostri mutui immobiliari in Italia, la nostra politica è sempre stata molto conservativa: quelli al 100 per cento del valore dell’immobile noi non li abbiamo mai trattati e anche quando tutto il mercato li offriva, abbiamo fatto un accordo con General Electric per vendere un loro prodotto. Lo stesso vale per la rata del mutuo: se è il 70 per cento del reddito, è evidente che il cliente si sta prendendo un bel rischio, perché il primo rialzo dei tassi lo metterà in difficoltà, compromettendo il suo tenore di vita. Per redditi medi a Capitalia non andavamo oltre il 40 per cento del rapporto rata-reddito. Forse avremo perso qualche operazione, ma penso che i clienti oggi ce ne siano grati».
E dei derivati che ne pensa?
«Di per sé sono solo uno strumento finanziario, e non sono né buoni, né cattivi. Quello che importa è l’utilizzo che se ne fa. In tutto il mondo c’è una forte dicotomia tra la specializzazione di chi opera nel mondo finanziario e bancario e la capacità del cliente di percepire la sofisticazione degli strumenti offerti. Ma questo vale per qualsiasi prodotto. Non si può vendere una polizza a capitalizzazione ventennale a un ottantenne. In generale è importante che la banca sia investita della responsabilità di valutare il cliente, le sue effettive necessità e il suo profilo di rischio. Nel nostro caso avevamo investito importanti risorse in un sistema informatico che aiutava i colleghi a meglio individuare le esigenze finanziarie del cliente, impedendo addirittura la vendita di prodotti inadatti a quel determinato cliente».
Non ritiene necessario quindi che si stabiliscano nuove e più stringenti regole al comportamento degli intermediari finanziari?
«Francamente no. L’aspetto essenziale è l’autodisciplina degli operatori, perché è impossibile che il legislatore inibisca tutte le fattispecie di comportamenti “inadeguati”. La legge definisce il perimetro delle cose lecite rispetto a quelle illecite. Le regole della “compliance” stabiliscono, all’interno di quel perimetro, limiti di correttezza ben più severi: anche se è legale vendere prodotti con un elevato profilo di rischio, non sempre questo risponde a un comportamento corretto».
Torniamo a lei. Il “Financial Times”, ha scritto che nella vicenda Capitalia lei è stato una vittima, e anche che nel mettere in piedi la sua nuova attività qualcuno le ha dato filo da torcere. È vero? E chi è stato?
«Nell’economia non ci sono né vittime né carnefici. L’unica legge che conta è il giudizio dei clienti e dei colleghi. Considero la storia di Capitalia un grande successo e rimango profondamente legato alla banca e alle tante persone che ne hanno reso possibile un rilancio, che molti giudicavano impossibile. Quanto a Sator, è arrivato qualche attacco. Ma non ha rilevanza. L’iniziativa è stata lanciata come volevamo noi».
Molti pensano che ci sia stato lei dietro alle denunce di “Report” di un paio di settimane fa su come venivano gestiti disinvoltamente alcuni finanziamenti della banca. Come risponde?
«Molti? Forse qualcuno, che non mi conosce. Penso che dietro a “Report” ci sia solo un giornalismo di altissima qualità, e una deontologia professionale che ammiro. Giudizio largamente condiviso, che esclude che dietro ci sia qualcuno. Spesso chiedersi chi c’è dietro serve a sviare l’attenzione dal contenuto».
Perché ha scelto di restare in Italia?
«Credo che in Italia, a dispetto della grande litigiosità e della mancanza di spirito di sistema che ci caratterizza, ci sia un enorme potenziale di talenti e di opportunità. Ci sono molte aziende ben gestite, che magari non stanno tutti i giorni sotto i riflettori, ma che fanno la gran parte del loro fatturato fuori dall’Italia. Oggi per un’azienda di successo è vitale aprirsi al mondo, capire che il nostro mercato domestico ormai è l’Europa. Per questo abbiamo voluto caratterizzare Sator come un gruppo europeo con sede in Italia».
Con sede a Roma, anche se avrete uffici a Milano e Londra. Controcorrente. Come mai?
«Ho ritenuto importante restituire un centro finanziario alla città. E a Roma ci sono le persone che rendono possibile fare banca nel modo migliore. Le dirò di più: uno dei moventi fondamentali, nell’intraprendere questa nuova attività, è rappresentato dalla volontà di riunire professionisti che hanno un idem sentire nel modo di fare business. Si trattava di mettere assieme non soltanto professionisti, ma soprattutto persone che stimo».
Che ne pensa dell’incrocio di poteri che domina la finanza italiana, dove due “grandi vecchi” come Cesare Geronzi e Giovanni Bazoli governano non solo le rispettive banche, ma anche, grazie a un incastro di partecipazioni e patti di sindacato, una serie di aziende, dalla Rcs alla Telecom, alle Generali?
«Non ne farei una questione generazionale: in Mediobanca Enrico Cuccia, quando mi ha nominato direttore del servizio finanziario, aveva oltre 80 anni, mentre io ne avevo 33. Quanto al nostro capitalismo, oggi le sfide che si trova di fronte sono la competizione europea, il fenomeno delle aggregazioni, della crescita dimensionale. Tanto più un’azienda cresce, tanto più ha bisogno di entrare nei mercati internazionali e di attrarre capitali internazionali. Le grandi aziende quotate in Italia hanno una sostanziale e crescente presenza di azionisti esteri che affianca gli azionisti stabili italiani, frequentemente raccolti nei patti di sindacato».
Prevede la fine dei patti di sindacato così tipici nella galassia del nostro capitalismo?
«Chi compra e vende ogni giorno i titoli quotati, chi insomma fa crescere il valore del titolo, che rimane l’unica vera difesa in un mercato non più domestico, sono gli investitori istituzionali, non gli azionisti stabili. I patti di sindacato hanno il compito di garantire la stabilità. Se il patto è in grado di accompagnare la crescita, fa il suo mestiere, se agisce come limite, se si difende dal mercato, no».
Dica una parola definitiva sulla sua liquidazione da Capitalia.
«Qualcuno ha voluto enfatizzare l’attenzione sul momento della mia uscita dalla banca forse per distogliere l’attenzione sui sei anni dentro la banca. Comunque sia, è pubblico: 30 milioni lordi più le stock options che non ho ancora esercitato; ai prezzi attuali, molto inferiori a quelli prima della mia uscita dalla banca, la plusvalenza netta ha un valore virtuale di 4 milioni circa. Non le ho esercitate perché non ne avevo necessità».
E le altre azioni Capitalia che aveva comprato sul mercato come suo investimento personale, le ha ancora?
«Nel corso degli anni ho comprato più volte azioni Capitalia, nei momenti di difficoltà del titolo, per dare il segnale che il management stesso era il primo a credere negli obiettivi di crescita che si era dato. Ora ho esercitato il diritto di recesso. Il corrispettivo che mi sarà liquidato si aggirerà sui 14 milioni di euro. Sostanzialmente tutto il mio patrimonio l’ho reinvestito per creare Sator. Ci credo».
Dagospia 15 Novembre 2007
Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.