Il problema dei 3 corpi: Attraverso continenti e decadi, cinque amici geniali fanno scoperte sconvolgenti mentre le leggi della scienza si sgretolano ed emerge una minaccia esistenziale. Vieni a parlarne su TopManga.
 
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I misteri sul caso Aldo Moro & Mino Pecorelli

Ultimo Aggiornamento: 25/03/2014 20:33
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20/03/2007 12:05

PECORELLI E LE INQUIETANTI PREVEGGENZE SU MORO


– POCO PRIMA DELLA STRAGE DI VIA FANI SCRIVE:
“E PROPRIO IL SOLO MORO IL MINISTRO CHE DEVE MORIRE ALLE 13”

- SULLA RIVISTA “OP” LO CHIAMAVA “MORO-BONDO”…




Wladimiro Settimelli per “l’Unità”


Coincidenze, carte fatte sparire, indagini condotte malissimo per motivi ben chiari,
misteriose «consulenze» specializzate e interessate dagli Stati Uniti,
lotte all’interno dei servizi segreti, interventi incredibili della P2 di Licio Gelli
e le Brigate rosse che affermarono, mentendo spudoratamente:
«Niente sarà nascosto al popolo».
In realtà, nasconderanno moltissime verità e saranno tante le cose che non verranno mai davvero a galla.

Loro, poi, piano piano e un po’ alla volta, torneranno tutti in libertà, dopo un certo numero di anni in carcere.
E, ancora oggi, rimangono molti, moltissimi dubbi, misteri e segreti, per le stragi, le bombe, la strategia della tensione.
E gli anni di piombo.
Con morti e testimoni messi a tacere con le buone e, soprattutto, con le cattive.

Gli anni ’70 e ’80, tra processi e indagini parlamentari, sono tutto questo e il risultato lo sappiamo tutti:
Aldo Moro doveva essere fermato nella sua apertura al Pci
e venne fermato con l’assassinio.

Se ne occupa, ancora una volta, Sergio Flamigni, ex parlamentare del Pci dal 1968 al 1987 e uomo di primo piano nella commissione parlamentare d’inchiesta sulle fine di Moro, sulla P2 e sull’Antimafia.
Suo, non dimentichiamolo, è quel primo libro che ebbe grande successo e che si intitolava “La tela del ragno”, proprio su Moro. Un libro che indicava, con impagabile precisione, l’esistenza del «quarto uomo in via Fani» (poi il quarto uomo venne finalmente scovato) e la scomparsa di un importante rullino di fotografie, finite chissà dove.

E ancora la proprietà di alcuni appartamenti dei servizi segreti, nello stesso stabile dove Moro era stato in parte tenuto recluso e dove i brigatisti avevano abitato.
Insomma, quel libro, un capolavoro di ricerca e di indagine lasciò il segno a livello politico e giudiziario.
Poi sono venuti tutti gli altri:
“Trame Atlantiche”,
“Il mio sangue ricadrà su di loro”,
“Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br”,
“Convergenze parallele”,
“Il covo di Stato”,
“I fantasmi del passato”,
“La sfinge delle Brigate rosse”.


Ed ecco, ora, appunto, “Le idi di Marzo (Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli)”, della Kaos Edizioni.
Flamigni continua a mettere un tassello dopo l’altro e cerca, ogni volta, di ricomporre, il più grande mosaico di quel periodo, per capire, spiegare, raccontare a chi non sa o non c’era.
Ovviamente lo fa con una meticolosità, una attenzione e una onestà che solo un vecchio e lucido uomo del Pci, può avere.
Non è, il buon Flamigni, un «dietrologo» di professione, ma un lucido compulsatore di carte, fascicoli, deposizioni e un attento lettore di fascicoli giudiziari e di carte della polizia e dei carabinieri. E trova sempre: eccome!

Quest’ultimo libro è dedicato a Mino Pecorelli, lo strano giornalista creatore dell’agenzia di stampa “O.P.” che sta per “Osservatore politico”, legato ai servizi segreti e a Gelli, morto ammazzato con alcuni colpi di pistola sparati direttamente in bocca, dopo che il dramma di Moro era stato consumato fino in fondo.
Ma perché, questa volta, Pecorelli e Moro?

Per tutta una serie di incredibili circostanze e per le notizie pubblicate in anticipo dal giornalista spia-ma non troppo, su come si sarebbe conclusa la vicenda.
Insomma, coincidenze stranissime, annunci e «previsioni» che lasciano ancora oggi a bocca aperta.
Soprattutto se si pensa ai rapporti strettissimi di Mino Pecorelli con i servizi segreti.

Chi era Pecorelli?
Ricordiamolo un po’. Carmine «Mino» Pecorelli era nato a Sessano (Campobasso) nel 1928.
Di famiglia piccolo borghese, appena sedicenne, si era arruolato con gli alleati che stavano risalendo l’Italia. Poi si era laureato in legge a Palermo e quindi trasferito a Roma dove aveva cominciato una mediocre carriera da avvocato.
Nel 1967, aveva cominciato a fare il giornalista con “Mondo d’oggi”, giornale diretto da uomini di destra e legati ai servizi segreti. In quel giornale, Pecorelli era entrato in rapporti stretti con il capo di stato maggiore dell’Esercito Giuseppe Aloja. “Mondo d’oggi” pubblicava notizie riservate e montava campagne scandalistiche a pagamento. I maneggi che coinvolsero Pecorelli cominciarono subito e, guarda caso, proprio con Moro: un ufficiale dei corpi speciali raccontava alla rivista e al giornalista come, durante il progettato golpe del generale De Lorenzo, avrebbe dovuto uccidere il dirigente Dc.

Poi, su “Mondo d’oggi”, vennero altri scoop:
soldi del SID (il nuovo servizio segreto militare) a due deputati socialisti e l’annuncio che, da una cassa di documenti,
erano uscite le prove che la «Pro Deo» non era altro che una centrale spionistica americana diretta da padre Felix Morlion.
Un nome che tornerà tante altre volte nelle vicende italiane. Anche in rapporto all’attentato Agca.

La «Pro Deo», sempre secondo quelle carte, operava anche per conto del servizio di sicurezza del ministero dell’interno diretto dal questore Elvio Catenacci e dal suo vice Federico Umberto D’Amato.
Due personaggi che compariranno sempre nelle più torbide vicende italiane.
Ma i servizi annunciati non vennero mai pubblicati perché il Ministero dell’interno - secondo Flamigni - pagò direttamente la rivista e Mino Pecorelli, ottenendo anche l’impegno che la rivista stessa sarebbe sparita.

Così fu, ma Pecorelli, ripartì quasi subito (il 22 ottobre 1968) con “Op”. Direttore responsabile nominato da Pecorelli era Franco Simeoni, legato al capo del Sid ammiraglio Eugenio Henke. Fu Simeoni che previde, giorni prima, gravi disordini a Battipaglia, durante una manifestazione. Disordini che si verificarono puntualmente e che portarono alla morte di due manifestanti. Pecorelli, comunque, prese di nuovo in mano la situazione ed entrò in rapporti strettissimi con il generale Vito Miceli. La sua rivista non era altro, in quel periodo, che un notiziario ciclostilato inviato a poche centinaia di selezionatissimi personaggi: politici, militari, dirigenti statali, industriali, magistrati, alti prelati e giornalisti. A quel tempo, andava comunque avanti prima sotto la direzione dell’ex colonnello del Sid Nicola Falde e poi con la presenza diretta, in redazione, di Paolo Patrizi, militante di Potere Operaio.

Come osserva Flamigni, l’estremismo rivoluzionario di Patrizi e l’oltranzismo atlantico e reazionario di Pecorelli, si armonizzarono subito magnificamente. Certo, “Op” non era in grado di sostenersi da sola e dunque chiedeva e otteneva soldi dai servizi segreti e da aziende come la Montedison, la Finmeccanica, l’Iri, l’Enel e l’Egam. Oltre che da personaggi come Camillo Cruciani, l’uomo di Andreotti Franco Evangelisti e dal piduista Franco Cosentino, allora segretario generale della Camera dei deputati.

Da tutto il libro di Flamigni, risulta angosciosa e terribile la «preveggenza» di Mino Pecorelli. Sulla morte di Mattei, Pecorelli scrive per primo che lo hanno ammazzato per la politica petrolifera filo-araba. Una commissione parlamentare decide di far bruciare a Fiumicino, nell’inceneritore, i fascicoli abusivi raccolti dal Sifar (il servizio segreto militare) e Pecorelli pubblica subito una nota bene informata nella quale si dice che quei fascicoli sono stati prima fotocopiati e passati alla P2 di Licio Gelli. Più tardi si scoprirà che era vero e che il «venerabile» aveva portato quei materiali all’estero.

E sul caso Moro? Le coincidenze e la «preveggenza» diventano agghiaccianti. Ad un certo momento “Op” diventa un settimanale ben fatto, costoso e messo in vendita nelle edicole. L’esordio del giornale in forma rinnovata, avviene in coincidenza con la strage di Via Fani e il sequestro Moro. L’inizio della tragedia, fa proprio da trampolino di lancio per il giornale. Scrive Flamigni: «Forte è il sospetto che l’uscita di “Op” settimanale in contemporanea con il sequestro Moro non fosse una casuale coincidenza». È in quel periodo che Pecorelli, tra l’altro, incassò soldi, a quel che si dice, da Flaminio Piccoli, da Egidio Carenini, dal generale Miceli, capo dei servizi segreti, da Nino Rovelli, pare anche da alcuni noti costruttori romani e da Giuseppe Arcaini.

Il padrone di “Op”, tra l’altro, conosceva alla perfezione anche le faide interne dei servizi segreti e delle lotte tra i piduisti Miceli e Maletti, al Sismi dei piduisti Santovito, Grassini e Pelosi.
Mino Pecorelli, oltre che feroce anticomunista, è sempre anche caldamente e fermamente «americano», oltre che anti andreottiano a fasi alterne.
Lega presto anche con Gelli, entra nella P2
e conosce Federico Umberto D’Amato consigliere del Capo della polizia e poi dirigente dell’ufficio affari riservati. Si occupa di Moro fin dalle minacce americane al ministro degli esteri per la sua politica verso i comunisti e, da quel momento, non lo molla più. Poco prima della strage di via Fani scrive di tutto ed è terribile. Un giorno scrive: «E proprio il solo Moro il ministro che deve morire alle 13?».

E ancora «Moro-bondo» (sta, ovviamente, per moribondo) e sotto la notizia:
«Un funzionario al seguito del presidente Ford, qui a Roma, ha detto che “vede nero e che c’è una Jacqueline (la vedova di Kennedy) nel futuro della vostra penisola”».
Il 9 gennaio 1976 “Op” pubblica a tutta pagina una caricatura di Moro con il titolo: «Il santo del compromesso, Vergine, martire e... dimesso». E ancora: «Oggi, assassinato con Moro l’ultimo centro sinistra». Sa tutto sul famoso lago della Duchessa, e sulla scoperta «pilotata» di via Gradoli e scrive con chiarezza che il sequestro Moro e una «delle più grosse operazioni politiche compiute in un paese integrato nel sistema occidentale e che l’obiettivo primario è quello di allontanare il Pci dall’area del potere».



E continua: «il rapimento di Moro potrà risultare un faustissimo evento solo se sarà servito ad invertire l’attuale tendenza che spinge Dc e Pci verso una progressiva integrazione...».
Pubblica anche lettere inedite del prigioniero delle Br e forse entra in possesso di parti di un memoriale segreto.
Ad un certo momento - ed è di nuovo terribile - chiama il generale Dalla Chiesa il «generale Amen».
Mino Pecorelli annuncia, ad un certo momento, che pubblicherà altri materiali sul caso Moro.
Ha già accennato a Gladio e perfino a Berlusconi, un costruttore milanese ancora sconosciuto.
Naturalmente “Op” si è occupato di mille altri scandali politici degli anni ’70-’80 e di tutto l’universo politico italiano, Vaticano compreso. Siamo nel gennaio del 1979. Il 20 marzo 1979, il direttore di “Op” viene assassinato. Mandanti ed esecutori non saranno mai identificati.



Dagospia 19 Marzo 2007

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22/10/2007 23:30

GALLONI: GLI USA SAPEVANO DOV’ERA PRIGIONERO MORO,
E COSSIGA SI ASPETTAVA CHE FOSSE LIBERATO

– IL GATTOSARDO: POVERETTO, STA MALE. RISCHIA DI ESSERE INCRIMINATO

– FASANELLA: LO STATO E IL PCI USARONO I PENTITI DELLE BR PER “CONCORDARE” UNA VERITA’ …





1 - GALLONI: GLI USA SAPEVANO DOVE ERA LA PRIGIONE DI MORO…
(Ansa) -
Giovanni Galloni, gia’ vicesegretario vicario della Dc durante i 55 giorni del rapimento del presidente Aldo Moro, ha rivelato che gli Stati Uniti, ai primi di aprile del 1978, sapevano ’dove era la prigione di Aldo Moro’. Galloni e’ intervenuto oggi alla presentazione del libro di Giuseppe De Lutiis, ’Il golpe di via Fani’, edito da Sperling & Kupfer
, citando il viaggio che l’8 di aprile fece negli Usa, riservatamente, il generale Vito Miceli, uomo dei servizi segreti legato storicamente ad Aldo Moro.
’Ebbe incontri riservati con gli uomini importanti della Cia e con gli amici di Kissinger. In quella sede gli fu detto che Moro si poteva salvare soltanto scoprendo il covo e liberandolo. Miceli capi’ che gli americani sapevano molto, sapevano perfettamente dove era la prigione del presidente della Dc, dove era Moro.




(La copertina di Left sulla morte di Aldo Moro)

Le ipotesi erano due, o arrivare alla sua uccisione
o distruggere la sua politica della solidarieta’ nazionale e del compromesso storico.

Henry Kissinger si era persuaso che Moro poteva salvarsi, che poteva sopravvivere purche’ la sua politica, quella della solidarieta’ nazionale, uscisse totalmente distrutta da quella vicenda’.
Galloni ha insistito affermando, con sicurezza, che ’Cossiga non ha detto tutto a proposito della prigione’ e che questa non e’ stata ’quella di cui hanno parlato i brigatisti’. L’ex vice segretario della Dc si e’ rivolto proprio a Francesco Cossiga, che era ministro dell’Interno all’epoca: ’il 9 maggio del 1978 - ha detto Galloni - Cossiga sapeva e si aspettava che Moro sarebbe stato liberato. Accadde qualcosa’.

Identico il riferimento fatto da Giovanni Pellegrino, che per diversi anni ha guidato la commissione d’inchiesta sulle stragi e il terrorismo. ’ Cossiga sapeva bene che Moro il 9 di maggio doveva essere liberato. Credo che lui sia in buona fede: aveva dato forte credito ad una informazione che due giorni prima del 9 di maggio, e anche la sera prima del delitto, gli aveva fornito il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. ’Francesco non ti preoccupare che a liberare Moro ci pensera’ il Vaticano’’. E ancora: ’La trattativa per la liberazione di Moro era giunta al termine ma e’ successo qualcosa che ha fatto precipitare gli eventi’.

Galloni ha espresso anche un altro dubbio irrisolto: la mattina del 16 marzo 1978, giorno del rapimento, Moro era uscito presto di casa, prima delle 9, mentre il dibattito alla Camera
per la presentazione del governo era previsto per le 10. Infatti, lo statista, al momento del sequestro, si stava recando a casa del segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, che aveva in mente di dimettersi dalla guida del partito non appena il governo avesse ottenuto la fiducia. Moro andava da lui per scongiurare questa scelta. Come ha fatto questa informazione a finire alle Br che lo aspettavano all’incrocio di via Fani?

Per Rosario Priore, uno dei magistrati che hanno seguito l’inchiesta Moro, i servizi segreti francesi e la Stasi, che pedinavano gli uomini della Raf con i quali le Br intrattenevano stretti rapporti, sapevano anticipatamente che ci sarebbe stato il sequestro del presidente della Dc. Lo storico Giuseppe De Lutiis si e’ infine chiesto coma mai non sia mai stato approfondito il perche’ dei viaggi a Firenze del capo delle Brigate Rosse durante i 55 giorni e soprattutto la questione della ’prigione’ che ’non e’ quella indicato dai
brigatisti’. ’Il rapimento Moro - ha concluso - e’ un sofisticato golpe che colpisce un uomo cardine facendo naufragare una politica invisa a tante realta’ italiane e internazionali’.
(Francesco Cossiga - Foto U.Pizzi)

2 - COSSIGA A GALLONI: PROCURATORE IONTA LO CONVOCHI…
(Ansa) -
’Poverino mi avevano detto che stava male ma non credevo che fosse a questo punto. Se fossi il procuratore aggiunto Franco Ionta lo convocherei per sentirlo in
procura, a Roma’. E’ quanto risponde Francesco Cossiga alle rivelazioni fatte oggi, nel corso della presentazione del volume di Giuseppe De Lutiis, sulla conoscenza da parte degli americani, ai primi di aprile del 1978, della prigione dove era rinchiuso Aldo Moro. ’Lo convocherei Galloni perche’ forse c’e’ la possibilita’ che possa essere incriminato per appoggio esterno ad atti di terrorismo. Ma poi nel processo sarebbe certamente assolto per chiara infermita’ mentale’.

3 – LO STATO E IL PCI USARONO I PENTITI DELLE BR PER “CONCORDARE” UNA VERITA’
Giovanni Fasanella per
www.lastorianascosta.com

In un commento al mio post “La Braghetti e l’impunità in cambio del silenzio”, tale Nelson nega che lo Stato abbia avuto un occhio di riguardo nei confronti dei brigatisti del caso Moro.
Caro Nelson, mi spiace contraddirla, ma ho un’opinione molto diversa dalla sua. La legislazione premiale, che ha consentito ai brigatisti pentiti e dissociati di tornare in libertà, se da un lato è stato un utile strumento nella lotta al terrorismo, dall’altro ha prodotto una situazione davvero paradossale.

Brigatisti della prima generazione, che non hanno mai commesso reati di sangue, hanno vissuto in carcere più a lungo di tanti ex terroristi della seconda generazione (tra cui, i protagonisti del caso Moro), con due-tre-quattro-cinque e più omicidi sulla coscienza. Un’ingiustizia colossale. Come si spiega?

In parte era il prezzo che lo Stato doveva pagare per chiudere vittoriosamente la partita con le Br. Da un altro punto di vista, però, mi vado convincendo sempre più che, attraverso un uso sapiente delle confessioni dei pentiti, lo Stato, il Pci e gli ex terroristi abbiano tracciato –direi quasi di comune accordo- i confini della verità possibile, quella da dare in pasto all’opinione pubblica. Ognuno ha cancellato un pezzo di verità per ottenerne un vantaggio.

Lo Stato ha eliminato le connivenze di alcuni settori dei suoi apparati. Il Pci ha passato un colpo di spugna sui legami delle Br con la tradizione comunista e con i servizi segreti dell’Est. E i brigatisti, tacendo o raccontando mezze verità, hanno protetto entrambi -lo Stato e il Pci- in cambio della libertà o addirittura dell’impunità totale. La verità, caro Nelson, è che tutti hanno pensato di chiudere la stagione degli anni di piombo nascondendo la polvere sotto il tappeto.


Dagospia 22 Ottobre 2007
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27/10/2007 13:45

Parla Giovanni Galloni, nel 1978 vice segretario vicario della Dc
Moro, la prigione era un'altra

«La prigione di Moro non era quella che le Br hanno dichiarato. Gli americani sapevano dove era quella vera. Questo lo so con certezza».
Parole di Giovanni Galloni, nel 1978 vicesegretario vicario della Dc, corrente di sinistra, e dopo la morte dello statista tra le anime postmorotee dello scudocrociato


...
Gli Stati Uniti, secondo l'ex «ufficiale di collegamento tra la democrazia Cristiana e il Viminale»,
come lo ha definito Francesco Cossiga, dovevano essere al corrente degli «interna corporis» della vita politica italiana, visto che il suo nome è ampiamente citato in alcuni rapporti di Washington.
«In uno di questi - ha spiegato - l'ambasciatore Usa rimprovera Fanfani di non aver assunto provvedimenti disciplinari nei confronti di noi "basisti" che avevamo aperto a sinistra»
...
Gli Usa sapevano dunque dove le Br tenevano rinchiuso Aldo Moro?
«I servizi segreti sanno tante cose più dei giudici», ha detto Rosario Priore, l'ex giudice istruttore dell'inchiesta sulla strage di via Fani e l'omicidio del presidente Dc alla presentazione del libro di De Lutiis che larga parte dedica ai risvolti internazionali della vicenda.
Sull'evoluzione del sequestro di Moro, gli apparati, a giudizio di Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione stragi, «hanno certamente influito.
Del resto le Br, sono smentite dallo stesso Moro:
quello ritrovati nella Renault rossa in via Caetani non era il corpo di un uomo tenuto per 55 giorni in un buco dove non poteva neanche lavarsi. Fu prigioniero in condizioni diverse e in un luogo diverso».


L'articolo continua QUI su ilTempo.it
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25/02/2008 14:25

A 30 ANNI DALL’ASSASSINIO DI VIA FANI, LA PRIMA INTERVISTA DELLA VEDOVA ELEONORA
– “LO STATO VOLEVA LA MORTE DI ALDO MORO.
QUELLI CHE ERANO NEI VARI POSTI DI COMANDO LO VOLEVANO ELIMINARE. PERCHE’ ERA SCOMODO”…




Eleonora Moro


Questa, a trent’anni dall’uccisione di Aldo Moro, è la prima intervista rilasciata dalla moglie Eleonora su quei tragici momenti. Lo sfogo della vedova dello statista democristiano è stato raccolto da Ferdinando Imposimato, magistrato, docente, parlamentare, che lo pubblica nel volume "Doveva morire - Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell’inchiesta racconta".

Aldo Moro ha scritto: «Le cose saranno chiare, saranno chiare presto».
Lo ha scritto in una delle sue lettere più belle.
È una lettera che rileggo spesso...
«Non lo faccia perché è troppo triste...»

Quando ho riletto le dichiarazioni che lei ha fatto alla Commissione Moro, sono rimasto sconvolto. Lei afferma fatti e circostanze con precisione e verità assolute. Lei denuncia le inerzie del potere.
«Quella gente desiderava eliminarlo perché era scomodo. La gente scomoda sta dalla parte della giustizia e della verità. E poi c’è da dire che tutti avevano una paura terribile perché lui sapeva tutto di tutti, e quindi si sentivano sotto un riflettore che li inquadrava. Purtroppo non avevano capito che Aldo non avrebbe mai fatto del male a qualcuno se non fosse stato necessario per il bene comune...».

Nelle sue testimonianze, davanti alla Commissione Moro e alla Corte di Assise di Roma, lei fa un’affermazione che mi ha colpito. Dice che la tipografia delle Brigate rosse di via Pio Foà era stata scoperta molti giorni prima...
«Certo».

Lei domanda:
perché, se questa tipografia era stata individuata, non è stata fatta alcuna perquisizione?
E aggiunge:
perché i documenti trovati nell’appartamento brigatista di via Gradoli non sono stati esaminati?
Perché nessuno li ha letti? Perché sono rimasti imballati per tanto tempo? A lei chi aveva detto tutto questo?
«Erano cose che sapevano tutti. Le conoscevo io perché ero in contatto con la segreteria di Aldo. E le conoscevano quelli che avevano potere nel governo.
Vede, Aldo Moro era un uomo che non aveva paura. Camminava verso la sua morte tranquillo, come se andasse a fare una passeggiata.
Quando una persona non la si può corrompere, né spaventare, l’unica possibilità è quella di eliminarla perché troppo pericolosa.
Aldo conosceva fatti che risalivano a dieci, vent’anni prima. Loro si rendevano conto di essere i veri prigionieri.

E che c’era un’unica cosa da fare: ucciderlo.
Anche perché, conoscendo la profonda onestà di Aldo Moro, erano certi che egli non aveva lasciato scritto la storia di ognuno di loro su dei pezzi di carta, consegnandoli a un notaio».




Moro, dopo gli episodi avvenuti in via Savoia, davanti al suo studio, disse: «Questa è la prova generale».
«Anche gli uomini della sua scorta, che erano ragazzi buoni, dicevano: "Noi siamo i bersagli di un tiro a segno". Lo dicevano continuamente. Quindi Moro e i suoi custodi avevano la sensazione di essere sotto tiro. Era una sensazione che aveva anche il portiere di casa nostra. Erano tutti sorvegliati».

Ma perché non ci fu alcun controllo da parte dello Stato?
«Perché lo Stato voleva la morte di Aldo Moro. Quelli che erano nei vari posti di comando lo volevano eliminare».



Può indicare qualche persona?
«Io non posso indicare nessuno. Non li ho visti operare. Io sono una cristiana e se non ho la prova sicura che quello è un mascalzone, io non lo accuso. Prego Dio per lui. Prego affinché gli tenga la Sua santa mano sul capo».

Comunque in quei giorni prima del sequestro c’era una percezione di pericolo imminente.
«Gli uomini della sua scorta, e soprattutto l’autista, vivevano con l’idea chiara che un giorno o l’altro li avrebbero ammazzati. Perché Moro doveva essere ammazzato. Gli uomini della scorta erano sicuri di essere nel mirino di qualche gruppo, ma non erano intimoriti. Mi dicevano: "Signora, noi siamo certi del pericolo, ma non morirà da solo, noi siamo pronti a sacrificarci con lui"». [...]

A un certo punto della sua audizione davanti alla Commissione Moro, usa questa espressione:
«Quei poverini mi hanno detto che era stata trovata la tipografia delle Br molti giorni prima dell’uccisione di Aldo Moro e che non era stato fatto nulla».
Chi erano quei poverini?
«Credo gli autisti e anche la sua segreteria. Ad Aldo la gente voleva bene. E tutti quelli che gli volevano bene non hanno mai smesso di interessarsi alla sua sorte in quei terribili giorni.
Vede, a coloro che lo hanno fatto uccidere non posso stringere la mano. Se li incontro, li saluto da lontano e filo via rapidamente».

Non riesce a dar loro la mano?

«Io non sono una cristiana così santa. Sono una cristiana molto semplice...».



E questo accade quando ci sono le cerimonie commemorative?
«Sì. Ma succede anche quando li incontro per strada».

Quindi quando ci sono le cerimonie lei è costretta a incontrarli?
«Non vado mai alle cerimonie. Non ci volevo andare quando Aldo era vivo, ma lo dovevo fare come moglie di mio marito. Figuriamoci adesso. Ma il mondo è piccolo. Incontri la gente quando meno te l’aspetti. Per esempio: vado al funerale di una mia amica dell’Azione cattolica, ed ecco che me li trovo lì. Vede, dopo la morte di mio marito mi sono messa a studiare, dal punto di vista cattolico, la difficoltà del perdono. Perché uno può dire: li voglio perdonare. E io, nel profondo, li ho perdonati. Ma quando li vedo, attraverso la strada e vado dall’altra parte.
Più che la morte di mio marito, mi ferisce il fatto che sia morto un innocente a causa delle perverse mire di quattro stupidi mascalzoni. Se solo fossero stati modestamente intelligenti avrebbero capito che al potere non si arriva mai attraverso il delitto».[...]

Aldo Moro si è sacrificato per tutti.
«Io glielo dicevo: guarda come cammini verso la tua morte. E lui lo sapeva benissimo. Era il suo abito mentale, il suo modo di vivere.
Era un uomo che amava il merito, la pulizia morale, l’onestà delle persone, la bontà.
È un dato di fatto che Aldo, arrivato al potere, non lo abbia usato per fare del male a qualcuno. Continuamente il male gli cadeva sotto gli occhi: il tale aveva rubato, quell’altro aveva imbrogliato, l’altro ancora aveva messo nei guai tutta la famiglia.
Lui cercava sempre di riparare, ma poi cercava di mettere chi aveva sbagliato in un angolino, in modo che non potesse nuocere più di tanto. In un paese come l’Italia, con la voglia di fare carriera che hanno tutti, non era poco».[...]


25 Febbraio 2008

dagospia.excite.it/articolo_index_38299.html

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04/03/2008 20:59

MORO E LA “TERZA TRATTATIVA”
– LE LETTERE RITROVATE NEL COVO DI VIA MONTE NEVOSO FANNO PARTE DI UNO SCAMBIO:
NON PER SALVARE LA VITA A MORO, MA PER RECUPERARE “INFORMAZIONI SENSIBILI”…




Marcello Sorgi per “La Stampa”



Scriveva, scriveva tutto il giorno, a volte anche la notte, Aldo Moro.

Chiuso nel soffocante involucro della «prigione del popolo» - un’intercapedine di un metro per tre, un letto, una sedia, un cesso chimico, lo spazio per fare al massimo due, tre passi - vergava uno dopo l’altro i suoi fogli ordinati, e numerati, disteso. Con grafia incerta, che una perizia grafologica considerò come una prova della sua sottomissione ai brigatisti. Moro se ne dispiacque: «Come possono pensare che scriva con le comodità di un ufficio ministeriale!».

Nel trentennale del sequestro Moro (16 marzo 1978, il rapimento e la strage; 9 maggio l’assassinio), arriva in libreria una nuova serie di saggi su quel che rimane uno dei casi di terrorismo più emblematici del Novecento. Dopo il bel libro di Giovanni Bianconi – “Eseguendo la sentenza” (Einaudi), una minuziosa ricostruzione, basata su documenti e testimonianze inedite, da cui emerge l’assoluta impreparazione dello Stato, e in particolare dello Stato democristiano, di fronte alle Br -, Einaudi dà alle stampe “Lettere dalla prigionia”, la prima edizione critica dei messaggi del presidente Dc dal suo carcere, a cura di Miguel Gotor, un giovane e puntuale storico dell’Università di Torino. Ma se Bianconi confida, a trent’anni dai fatti, che molto o quasi tutto dell’accaduto sia chiaro, Gotor, al contrario, è convinto che gran parte sia ancora da svelare.

Novantasette lettere scritte in varie versioni, più il memoriale, in tutto 500 fogli vergati in 55 giorni, e in parte ribattuti a macchina con qualche errore di ortografia dalle «mani contadine» del Br Prospero Gallinari. Questo è quel che è stato trovato, dodici anni dopo il sequestro, nell’ottobre ’90, nel famoso covo di via Montenevoso a Milano, in un’intercapedine di un muro chiusa alla meno peggio con un po’ di gesso e sfuggita chissà come alle prime perquisizioni del 1978. Gli uomini di Dalla Chiesa rinvennero anzi lo stesso materiale, ma in copia dattiloscritta e senza la firma del prigioniero: lo dichiararono, perciò, «non autentico», salvo poi smentirsi quando saltarono fuori le copie degli originali.


L'ex brigatista Prospero Gallinari


È da questi materiali che il lavoro dello storico prende le mosse. Gotor denuncia innanzitutto due «inciampi» metodologici - così li definisce - da rimuovere prima di addentrarsi nella ricerca.
Il primo è il paragone tra le lettere di Moro e quelle dei condannati a morte della Resistenza, la base, o una delle basi logiche, su cui sarà poi avviata la demolizione politica del prigioniero. È un paragone senza senso - spiega - il partigiano essendo uno che ha scelto la lotta armata e ha messo nel conto di poter perdere la vita, e Moro, diversamente, «uno che non si sentiva in guerra con nessuno [...] e scriveva non per rendere accettabile a sé stesso e ai propri cari una morte probabile, ma per provare ad aver salva la vita».

Il secondo «inciampo» è quello, opposto, di Leonardo Sciascia, che vuol dimostrare come Moro fosse pienamente cosciente e in grado perfino di subordinare psicologicamente i suoi carcerieri. In realtà anche Gotor è convinto della lucidità del condannato, la sensazione è che la polemica con lo scrittore siciliano sia voluta per sminuirne la difesa di Moro, basata su un’intuizione letteraria. Lo storico tende insomma a presentare la sua come l’unica tesi scientificamente sorretta da dati.

Se meno di un terzo delle lettere viene reso noto durante i giorni del sequestro, e se poco più di un terzo viene recapitato ai capi democristiani che ne parlano, quando ne parlano, con reticenza o perché richiesti da un giudice, una ragione ci dev’essere. È la «doppia censura», dello Stato e delle Br, che cala come una ghigliottina sulla raffinatissima tela che il condannato sta tessendo, per scongiurare l’esecuzione.



Una tela che parte dall’accusa, rivolta da Moro ai democristiani, di trovarsi nella «prigione del popolo» per causa loro, passa per la minaccia di rivelare segreti di Stato che potrebbero compromettere il ruolo internazionale dell’Italia, arriva alla definizione della proposta, incardinata a precedenti storici italiani e stranieri, di «scambio di prigionieri», coinvolge il Vaticano e papa Paolo VI in una trattativa segreta, e si conclude con l’illusione, di Moro, di essere alle soglie della liberazione, e con l’offerta scritta, da parte sua, di una completa delegittimazione della Dc e della maggioranza di unità nazionale sostenuta dai comunisti, con l’abbandono del suo partito e il passaggio di fatto all’opposizione.


L'ex brigatista Adriana Faranda
© Foto U.Pizzi

Gotor nell’analisi delle due censure è spietato.
Nel denunciare l’approssimazione e l’artigianalità della costruzione da parte dello Stato di una versione che tende a presentare Moro come inattendibile, attraverso una sapiente opera di distribuzione di frammenti di notizie e interpretazione dei suoi scritti
- opera, va da sé, di cui i principali giornali e telegiornali sarebbero stati complici acritici -, e nel presentare il lavoro delle Br, sia all’esterno sia nei confronti del prigioniero, come fondato su una pretesa scientificità, si vede bene da che parte pende il giudizio storico.

Dunque lo Stato non pensava affatto, come faceva credere, che Moro fosse ridotto agli ordini delle Br. Piuttosto, conoscendolo come il migliore di loro, i capi democristiani temevano che avesse capito che non erano in grado, o non volevano adoperarsi più di tanto, per la sua salvezza. E di conseguenza, leggendo quel che scriveva, che volesse vendicarsi di loro, vivo o morto: «Il mio sangue ricadrà su di voi. [...] Io ci sarò ancora come punto irriducibile di contestazione e di alternativa».

Di qui le due trattative che, all’ombra di una formale linea di fermezza verso le Br, furono avviate con i rapitori.
Quella del Vaticano
, aperta con i capi brigatisti in carcere grazie al lavoro sotterraneo del capo dei cappellani militari don Cesare Curioni e di don Antonello Mennini: uomini di stretta fiducia del Papa e vicini a Moro, giungeranno a offrire un riscatto di dieci miliardi di lire e la liberazione di un detenuto straniero in cambio della libertà dell’ostaggio, che Mennini in persona sarebbe poi dovuto andare a prendere nella «prigione del popolo» per portarlo in Vaticano, dove la liberazione sarebbe stata ufficialmente annunciata.


L'ex brigatista Valerio Morucci
© Foto U.Pizzi

E la trattativa del Psi di Craxi, svolta da Claudio Signorile in collaborazione con Lanfranco Pace, un dirigente di Potere Operaio che riuscì a mettersi in contatto con Valerio Morucci e Adriana Faranda, i due «postini» del commando che teneva prigioniero Moro, e che si opposero all’esecuzione nella tragica ultima riunione della colonna Br che ne decise la fine. Malgrado l’intervento finale di Fanfani, pronto ad aprire ufficialmente la trattativa, anche questo tentativo fallì.

Fin qui, dettaglio più dettaglio meno, e sia pure con una sistemazione storica che rivela la professionalità dell’autore, non ci sono grandi novità. Ma Gotor fa un altro passo in avanti, e si inoltra nel giallo del doppio ritrovamento, o forse dell’accurato occultamento per dodici anni, dei documenti che sono al centro del suo libro. Se sono stati considerati inattendibili dopo il primo ritrovamento, e dichiarati autentici dopo il secondo, l’unica spiegazione, conclude l’autore, è che facevano parte della trattativa.


Una trattativa che non riuscì a salvare il prigioniero, perché forse non aveva neppure quest’obiettivo, ma riuscì a recuperare i documenti e le rivelazioni di Moro. Fatti trovare, non a caso, nel ’90, dopo la fine della Guerra fredda, e quando molte delle affermazioni del leader ucciso non avevano più valore.
Ma restituiti in copia, mentre gli originali, da tempo, erano forse stati depositati in qualche cassaforte di servizi stranieri.

Non documentata né documentabile, questa, come tante altre fiorite in più di trent’anni di ricerche sul caso Moro, è una conclusione affascinante. Anche se Gotor, sul finire del suo lavoro, cede un po’ alla fascinazione letteraria e alla dietrologia giornalistica, che pure aveva rinnegato all’inizio.


04 Marzo 2008
dagospia.excite.it/articolo_index_38531.html

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VI SEGNALO STASERA ORE 21,00 RAITRE UNO SPECIALE SU MORO [SM=x44462]
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Berlusconi su Aldo Moro (Presidente DC):

"Ogni volta che apre bocca
ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo.
Questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta"


"La Repubblica" 15 luglio 1977





Quindi anche da giovane era abituato a spararle grosse: è proprio un caso patologico [SM=x44522]

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LIBRO-BOMBA: "HO MANIPOLATO LE BRIGATE ROSSE PER FAR UCCIDERE ALDO MORO"
DOPO 30 ANNI LE AGGHIACCIANTI RIVELAZIONI DEL “NEGOZIATORE” USA PIECZENICK
COSSIGA: “HO UCCISO MORO. ESPIO QUANDO LA FAMIGLIA MI DA DELL’ASSASSINO”



1- "HO MANIPOLATO LE BRIGATE ROSSE PER FAR UCCIDERE ALDO MORO"
Francesco Grignetti per La Stampa


«Ho mantenuto il silenzio fino ad oggi. Ho atteso trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile.
Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere. Le Br si erano spinte troppo in là».
Chi parla è Steve Pieczenick. Un uomo misterioso, che volò in Italia nei giorni del sequestro Moro, inviato dall’amministrazione americana ad «aiutare» gli italiani. Pieczenick non ha mai parlato di quello che fece in quei giorni. Dice addirittura di essersi impegnato con il governo italiano di allora a non divulgare mai i segreti di cui è stato a conoscenza.
Ed è un fatto che né la magistratura, né le varie commissioni parlamentari sono mai riuscite a interrogarlo. Finalmente però l’uomo del silenzio ha parlato con un giornalista, il francese Emmanuel Amara, che ha scritto un libro («Abbiamo ucciso Aldo Moro», Cooper edizioni) sul caso.



Le rivelazioni sono sconvolgenti. Pieczenick, che è uno psichiatra e un esperto di antiterrorismo, avrebbe avuto un ruolo ben più fondamentale in quei giorni. E che ruolo. «Ho manipolato le Br», dice. E l’effetto finale di questa manipolazione fu l’omicidio di Moro.

Il «negoziatore» Pieczenick arriva a Roma nel marzo 1978 su mandato dell’amministrazione Carter
per dare una mano a Francesco Cossiga. E’ convinto che l’obiettivo sia quello di salvare la vita allo statista.
Ben presto si rende conto che la situazione è molto diversa da quanto si pensi a Washington e che l’Italia è un paese in bilico, a un passo dalla crisi di nervi e dalla destabilizzazione finale.

Da come maltratta l’ambasciatore e il capostazione della Cia si capisce che Pieczenick è molto più di un consulente. E’ un proconsole inviato alla periferia dell’impero.
«Il capo della sezione locale della Cia non aveva nessuna informazione supplementare da fornirmi: nessun dossier, nessuno studio o indagine delle Br... Era incredibile, l’agenzia si era completamente addormentata. Il colmo era il nostro ambasciatore a Roma, Richard Gardner. Non era un diplomatico di razza, doveva la sua nomina ad appoggi politici». Cossiga è molto franco con lui. «Mi fornì un quadro terribile dalla situazione. Temeva che lo Stato venisse completamente destabilizzato. Mi resi conto che il paese stava per andare alla deriva».

Nella sua stanza all’hotel Excelsior, e in una saletta del ministero dell’Interno, Pieczenick comincia lo studio dell’avversario. Scopre che invece sono i terroristi a studiare lui. «Secondo le fonti di polizia dell’epoca, ventiquattr’ore dopo il mio arrivo mi avevano già inserito nella lista degli obiettivi da colpire. Fu allora che capii qual era la forza delle Brigate Rosse. Avevano degli alleati all’interno della macchina dello Stato».



Una sgradevole verità gli viene spiegata in Vaticano:
«Alcuni figli di alti funzionari politici italiani erano in realtà simpatizzanti delle Brigate Rosse o almeno gravitavano nell’area dell’estrema sinistra rivoluzionaria.

Evidentemente era in questo modo che le Br ottenevano informazioni importanti». Così gli danno una pistola. «Ogni volta che uscivo in strada stringevo più che mai la Beretta che avevo in tasca».

Comincia una drammatica partita a scacchi. «Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile,
il tempo necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza,
calmare i militari, imporre la fermezza a una classe politica inquieta e ridare un po' di fiducia all’economia».


Ma la strategia di Pieczenick diventa presto qualcosa di più.
E’ il tentativo di portare per mano i brigatisti all’esito che vuole lui. «Lasciavo che credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza, sempre più forte, che lo Stato, pur mantenendo una posizione di apparente fermezza, avrebbe comunque negoziato».



Alla quarta settimana di sequestro, però, quando comincia l’ondata delle lettere di Moro più accorate, tutto cambia.
Una brusca gelata. Il 18 aprile, viene diramato il falso comunicato del lago della Duchessa.
Secondo Pieczenick è un tranello elaborato dai servizi segreti italiani.
«Non ho partecipato direttamente alla messa in atto di questa operazione che avevamo deciso nel comitato di crisi».
Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma serve soprattutto a choccare i brigatisti.
Una mossa che mette nel conto l’omicidio di Moro.
E dice Pieczenick: il governo italiano sapeva che cosa stava innescando.

«Fu un’iniziativa brutale, certo, una decisione cinica, un colpo a sangue freddo: un uomo doveva essere freddamente sacrificato per la sopravvivenza di uno Stato.

Ma in questo genere di situazioni bisogna essere razionali e saper valutare in termini di profitti e perdite». Le Br di Moretti, stordite, infuriate, deluse, uccidono l’ostaggio.
E questo è il freddo commento di Pieczenick: «L’uccisione di Moro ha impedito che l’economia crollasse; se fosse stato ucciso prima, la situazione sarebbe stata catastrofica. La ragion di Stato ha prevalso totalmente sulla vita dell’ostaggio».




2 - COSSIGA: “HO UCCISO MORO. ESPIO QUANDO LA FAMIGLIA MI DA DELL’ASSASSINO”
Fulvio Milone per La Stampa


Presidente Cossiga,
Steve Pieczenick nella sua lunga «confessione» coinvolge direttamente lei che all’epoca era ministro dell’Interno. Dice: «Abbiamo dovuto strumentalizzare le Br che uccisero Moro... Cossiga mi disse che lo Stato rischiava la destabilizzazione». E’ vero?
«Quando si decise per la linea della fermezza, che ebbe i suoi più fermi sostenitori in Berlinguer e l'intero Pci, in Pertini, in Andreotti e in me, eravamo tutti consapevoli che ciò avrebbe portato all’uccisione di Aldo Moro, a meno di possibili, ma improbabili, colpi di fortuna».

Pieczenick dice anche che le trattative erano solo un modo per prendere tempo e consentire a lei di riprendere il controllo dei servizi segreti.
«Lo Stato, se avessimo trattato, sarebbe stato, per usare le parole di Enrico Berlinguer, allo sbando.
E' vero che erano allo sbando le forze di polizia, di cui la sinistra aveva chiesto, fino al giorno del sequestro Moro, il disarmo.
I servizi segreti del ministero dell’Interno erano scompaginati per una dura offensiva del Pci e del Psi, e quelli militari erano vittime dell’abilissima azione di disinformazione del Kgb che riuscì a intossicare con il “Piano Solo” la stampa italiana e la sinistra».

Aggiunge Pieczenick: «Lasciavo che le Br credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza che lo Stato, pur mantenendo un’apparente fermezza, avrebbe comunque negoziato».

E’ vero?
«Quello era il consiglio del vice-capo dell'unità antiterrorismo del Dipartimento di Stato, ma io gli spiegai che se avessimo finto di trattare, tutta l'Italia avrebbe creduto che trattassimo sul serio… Un giorno Enrico Berlinguer e Ugo Pecchioli vennero a protestare, dicendo: "Così non si può continuare", perché il governo aveva dato via libera alla segreteria della Dc nel cercare di far intervenire Amnesty International e la Croce Rossa Internazionale, che però posero una condizione: il governo doveva riconoscere alle Br lo status di "combattenti". D'altronde, quando fu reso pubblico il primo messaggio di Moro che chiedeva la trattativa, Ugo Pecchioli, a nome del Pci, venne a dirmi che Aldo Moro, fosse ucciso o liberato, "era già politicamente morto"».



Veniamo al giallo del comunicato Br che annunciò la presenza del corpo di Moro nel Lago della Duchessa. Pieczenick dice che fu un falso dei servizi.
«Una fesseria! La Procura della Repubblica di Roma, la polizia e i carabinieri attestarono unanimemente che il comunicato era autentico».

Condivide l’analisi dell’esperto americano quando dice che «l’uccisione di Moro ha impedito il crollo dello Stato», e che «la ragion di Stato ha prevalso sulla vita dell’ostaggio»?
«E' una diagnosi crudele ma esatta: tutte le istituzioni democratiche sarebbero state forse colpite a morte».

Presidente, lei è uno dei protagonisti di una delle pagine più buie della nostra storia. Racconterà mai il caso Moro?
«Ho tenuto un diario giornaliero di quella vicenda, chissà che non lo pubblichi. Ma non vorrei creare imbarazzi a ex-fautori della linea della fermezza come Beppe Pisanu e Piero Fassino. Io sono rimasto con la stessa idea e con gli stessi incubi: ho ucciso Aldo Moro, l'uomo che mi gratificò della sua fiducia e a cui debbo la mia immeritata vertiginosa carriera. Ma credo di espiare ricevendo periodicamente dalla famiglia Moro l'epiteto di assassino».


09 Marzo 2008
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11/03/2008 21:29


IL SEQUESTRO MORO NON VIDE SOLO UNO STATO ALLA SBANDO; ANDÒ IN MALORA ANCHE L’INFORMAZIONE – UN CALVARIO SENZA IMMAGINI SALVATO DA RADIO E TV LOCALI – IL MASSMEDIOLOGO PER ECCELLENZA MCLUHAN CONSIGLIÒ DI “STACCARE LA SPINA”!...



Aldo Grasso per il “Corriere della Sera”




Il rapimento di Aldo Moro nel 1978
© Foto U.Pizzi

Anche dal punto di vista della storia delle comunicazioni, il rapimento Moro rappresenta un caso eccezionale, pieno di implicazioni reali e simboliche. Intanto è l'ultima volta in cui la radio è la grande protagonista, ancora al centro della scena mediatica italiana. Ma è anche la prima volta, il giorno del ritrovamento del cadavere, che la Rai è costretta ad ammettere l'esistenza delle tv locali, fino a quel giorno ignorate.

Il 16 marzo 1978 viene rapito l'onorevole Aldo Moro e trucidata la sua scorta. Fra i primi a dare la notizia il giornalista Rai Giorgio Chiecchi, che abitava in via Fani. Alle 9.10 il giornale radio manda in onda il primo flash. I 55 giorni del rapimento Moro hanno un epilogo imprevisto per la Rai. Il 9 maggio il cadavere viene fatto ritrovare nel bagagliaio della Renault 4, ma a riprendere le immagini del drammatico evento non ci sono le sue telecamere ma quelle di una piccola emittente romana, la Gbr, diretta da Franco Alfano.


La scorta di Moro uccisa a sangue freddo dai brigatisti
© Foto U.Pizzi

Un libro di Andrea Salerno, con annesso Dvd, ricostruisce i giorni del rapimento dell'onorevole Moro da parte delle Brigate rosse, cercando di restituire l'atmosfera «sonora» di quei tragici momenti: Radio Moro (Bur, pagine 144, e 19,50). Il Dvd indugia infatti sul puzzle radiofonico di quei giorni, come se l'assenza di immagini fosse un guadagno e non una perdita. In realtà, come scrive Salerno, «le immagini del rapimento di Aldo Moro si contano su una mano sola: la corsa dell'inviato del Tg1 Paolo Frajese per via Fani, il suo racconto affannato, i lenzuoli per terra, la faccia sgomenta di un giovane Bruno Vespa, in studio, che cerca di condurre una delle più difficili edizioni straordinarie. Poi, poco altro. Le manifestazioni dei sindacati a San Giovanni a Roma, le perquisizioni per le strade, le foto di Moro prigioniero, le aste dei sommozzatori che scandagliano il fondo di un lago per cercare il corpo dello statista, la Renault 4 parcheggiata in via Caetani».

Tocca dunque alla radio farsi testimone di quei drammatici momenti: era una radio che aveva ancora autorevolezza e che agiva come colonna sonora di un'atmosfera da dramma incombente, della lunga attesa, delle polemiche e dei sospetti. Nello smarrimento collettivo, il Consiglio d'amministrazione della Rai si mostra preoccupato di scegliere una linea di «informazione vigilata». Solamente nel primo e nell'ultimo di quei 55 giorni viene modificato il palinsesto.





In un'intervista dell'epoca, Emanuele Milano, allora vicedirettore del Tg1, dichiara: «Dopo quel giorno, anche quando si è deciso di mandare in onda notiziari fuori orario in dipendenza di fatti straordinari, li abbiamo presentati come "notizie del Tg1" e non più, come il primo giorno, come "edizioni straordinarie": l'annuncio "edizione straordinaria" crea nel pubblico un'aspettativa molto grossa e quindi, in noi che la diamo, un'altrettanto grossa responsabilità».

L'informazione è smarrita, alcuni intellettuali teorizzano che bisogna stare «né con lo Stato né con le Br», perché Moro rappresenta pur sempre la Democrazia cristiana («del potere per il potere, delle trame occulte, del doppio Stato» scrive ancora oggi Salerno) e perché le Br sono pur sempre il simbolo della lotta armata, tutt'al più «compagni che sbagliano». In quei giorni, uno dei programmi tv di maggior successo è il quiz Scommettiamo?
condotto da Mike Bongiorno. Stefano Benni su Panorama di fine marzo '78 immagina che due facchini ascoltino la radio del 16 marzo. «Antonio — scherza uno — scommettiamo che stasera salta anche Scommettiamo?». «Allora — risponde l'altro in dialetto — è la fine del mondo». Insomma, sul rapimento Moro si può anche scherzare.



La folla arriva sul luogo del rapimento
© Foto U.Pizzi

Il Corriere della Sera, a proposito di lotta al terrorismo, incarica Ugo Stille di intervistare il famoso massmediologo Marshall McLuhan. La sua risposta fa scalpore: «Bisogna staccare la spina». Voleva dire: bisogna togliere la comunicazione e cioè non diffondere i messaggi terroristici, bisogna fare silenzio sul terrorismo, è l'unico modo per spegnerlo. Anche se, francamente, appare ormai un'impresa impossibile nella debordante industria dei media.

Una curiosità infine: la radio è stata il medium della tragedia di Aldo Moro. Ebbene, un anno prima, 1977, il suo più stretto collaboratore, Corrado Guerzoni, era stato nominato direttore di RadioDue e per molti anni sarebbe stato uno degli artefici dell'ultima grande stagione di RadioRai. Destini crociati e incrociati.

CONVEGNO IN PROVINCIA DI FERRARA: A CONFRONTO SUI MISTERI DEL DELITTO
Dal “Corriere della Sera” - Ci saranno tutti, o quasi, i saggisti che si sono occupati del caso Moro e dei suoi veri o presunti misteri.
Tra gli altri: Giovanni Bianconi, Francesco Biscione, Gianni Cipriani, Marco Clementi, Andrea Colombo, Giuseppe De Lutiis, Aldo Giannuli, Franco Mazzola, Fernando Orlandi, Francesco Perfetti, Rosario Priore, Sandro Provvisionato, Vladimiro Satta, Salvatore Sechi. Non a caso il titolo del convegno, che promette scintille tra posizioni antitetiche, termina con il punto interrogativo: «Il delitto Moro: golpe internazionale e/o terrorismo italiano?». L'incontro si terrà a Cento (in provincia di Ferrara) dal 14 al 16 marzo, presso il Palazzo del Governatore. Organizzano il locale assessorato alla cultura, l'Università di Ferrara, la Luiss di Roma, la rivista Nuova Storia Contemporanea e il Centro studi sulla storia dell'Europa orientale.


Dagospia 11 Marzo 2008

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13/03/2008 21:49

MORO PER SEMPRE
– IL VATICANO DIVISO SULLA FERMEZZA
– IL VESCOVO BETTAZZI SI OFFRÌ AL POSTO DEL LEADER DC, MA GLI FU DETTO:
"BASTA, È MEGLIO CHE MUOIA UN UOMO SOLO PIUTTOSTO CHE TUTTA LA NAZIONE..."



Andrea Tornielli per “Il Giornale”



Paolo VI con l'allora cardinale Wojtyla

© Foto La Presse

Il vescovo Luigi Bettazzi voleva offrirsi in ostaggio ai brigatisti, in cambio di Aldo Moro.
Ma la Segreteria di Stato di Paolo VI lo invitò a lasciar perdere: «Ha già fatto tanto il Papa, non occorre esporsi di più».
Emergono nuovi retroscena sul ruolo avuto delle autorità ecclesiastiche nei terribili giorni del sequestro Moro.
Li ha descritti la giornalista Annachiara Valle nel libro “Parole, opere e omissioni. La Chiesa nell’Italia degli anni di piombo”
(Rizzoli, pp. 268, 17 euro), in libreria dal 19 marzo, del quale anticipa oggi un capitolo il settimanale “Famiglia Cristiana”.

La mattina del 3 maggio 1978
, sei giorni prima che Moro fosse assassinato dai terroristi che lo avevano sequestrato massacrando gli uomini della scorta, il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi, aveva varcato il Portone di bronzo per recarsi in Segreteria di Stato. Stava per incontrare Giuseppe Caprio, Sostituto della Segreteria di Stato, per presentargli una proposta concordata con altri due presuli italiani, Alberto Ablondi, vescovo di Livorno, e Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma. Bettazzi disse a Caprio: «Ci muoveremo noi, in prima persona. Ma vorremmo che il Vaticano ci desse il via libera».

Sulla proposta di offrirsi ostaggio, però, la Segreteria di Stato fu irremovibile. Secondo quanto riferito da Bettazzi, Caprio rispose: «Non vede che stiamo finendo in braccio ai comunisti? Ha già fatto troppo il Papa, non occorre fare di più. Non c’è nulla da fare. È meglio che muoia un uomo solo piuttosto che tutta la nazione perisca... Ora che è venuto e che ha chiesto il nostro parere, le proibiamo di offrirsi in ostaggio». «Posso dire, oggi – spiega lo stesso Bettazzi – che il modo in cui è stato trattato il sequestro di Moro, può essere interpretato come una “lezione” che si voleva dare a chi voleva inserire le “sinistre” nei gangli del potere. L’onorevole Moro anticipava troppo i tempi e per questo bisognava lasciarlo morire».



La novità più interessante nel capitolo del libro dedicato al ruolo della Chiesa in quei giorni riguarda i contatti e le informazioni che arrivavano sul dibattito interno alle stesse Brigate rosse.
«L’iniziativa di Bettazzi non era un colpo di testa. Tutt’altro. L’intervento dei tre vescovi era stato preparato dai padri della Corsia dei Servi, a Milano. Dopo averne discusso a lungo con padre David Maria Turoldo, Camillo De Piaz, suo confratello, aveva alzato il telefono: “C’è da fare qualcosa - aveva detto parlando prima con monsignor Ablondi e poi con monsignor Riva -. I vescovi non possono stare a guardare. Moro deve essere salvato”. Padre Camillo sapeva che bisognava offrire qualche spiraglio alle Br se si voleva ottenere la liberazione».



Padre De Piaz, oggi novantenne, rivela: «Non posso fare i nomi, ma posso dire che eravamo in contatto con persone che potevano dirci cosa stava avvenendo all’interno delle Br e sapevano che i brigatisti erano in disaccordo sulla decisione finale».

Secondo la giornalista c’erano molti collaboratori di Paolo VI in Vaticano perfettamente sintonizzati con quanti avevano «da sempre avversato il progetto politico di Aldo Moro». Mentre Papa Montini, isolato, era invece tra quelli che «vorrebbero la trattativa».

È noto che Paolo VI, amico di lunga data di Moro, aveva cercato in tutti i modi di aiutarlo. Erano stati allertati i cappellani delle carceri perché cercassero informazioni utili e il Vaticano era pronto a pagare un riscatto di 10 miliardi.
Certo, la testimonianza di Bettazzi tende ad accreditare l’esistenza di una Curia «cattiva», che riteneva Moro colpevole dell’apertura al Pci e non voleva liberarlo come invece cercava di fare Papa Montini.


Mario Moretti delle BR

Va ricordato però che la cosiddetta «linea della fermezza» era appoggiata non soltanto dalla Dc, ma dal Pci guidato da Enrico Berlinguer.
Così come va ricordato che la famosa «Lettera agli uomini delle Brigate rosse», contenente la famosa richiesta di liberare Moro «senza condizioni», che agli occhi dei brigatisti e dello stesso ostaggio sembrò chiudere alla possibilità di una trattativa, venne vergata interamente di proprio di pugno dal Papa, come ha rivelato il suo segretario, monsignor Macchi.

Quell’esperienza fu terribile per Paolo VI.
La indaga, in un intenso volume appena pubblicato, che ha i tempi dell’opera teatrale, lo scrittore Ferruccio Parazzoli. (“Adesso viene la notte”, Mondadori, pp. 128, euro 13). La tragica vicenda del rapimento dello statista viene letta attraverso la coraggiosa denuncia che lo stesso Pontefice aveva fatto sulla presenza del diavolo nella società e anche nella Chiesa, definendolo «un essere oscuro e conturbante che semina errori e sventure nella storia umana».



Dagospia 13 Marzo 2008
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13/03/2008 23:48

Interessantissima trasmissione (Radio3Mondo) sul caso Moro
trasmessa oggi (13 marzo) da Radio3.

Molti interventi. Tra gli altri, il
prof. De Lutiis in maniera definitiva classifica la scuola di lingue
parigina Hyperion come "luogo di compensazione tra servizi segreti
occidentali e dei paesi dell'est"
, impegnati a gestire il rapimento Moro
e ad infiltrare il terrorismo italiano, per confermare gli equilibri
decisi dagli accordi di Yalta.
La trasmissione puo' essere ri-ascoltata
on line.
Ecco il link al sito:
www.radio.rai.it/radio3/radiotremondo/view.cfm?Q_EV_ID=244733

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(Agi) - "Fantastico! Mi sta dando una splendida notizia...". Cosi’ Maria Fida Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate rosse 30 anni fa, commenta con l’Agi la notizia che la fiction Mediaset su Moro, in programma su Canale5 con interprete Michele Placido e’ saltata, ovvero slitta a maggio per questioni - e’ stato spiegato al produttore - di par condicio in periodo elettorale come questo. Maria Fida Moro, a margine della presentazione di ’Tutto sia calmo’, il libro di Franco Alfano che ricostruisce le ultime ore di Aldo Moro, ha aggiunto "una realta’ cosi’ tremenda in che cosa deve essere trasformata? In plastica? Speriamo che non vada mai in onda, non solo che sia slittata". La figlia di Moro partecipa ad un dibattito in Rai, coordinato da Sandro Curzi, presenti tra gli altri Giulio Andreotti, Ignazio La Russa, Giorgio La Malfa e Claudio Signorile. Era prevista anche la partecipazione di Francesco Cossiga, che pero’ e’ ricoverato in ospedale, e di Marco Follini, assente anch’egli.

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MORO PER SEMPRE/1
– DIECI MISTERI SENZA RISPOSTA A 30 ANNI DAL RAPIMENTO
- IL COLONNELLO DEL SISMI CHE “PASSAVA DI LÀ”, LA MOTO MISTERIOSA, LA SEDUTA SPIRITICA
– VIA MONTENEVOSO, ALESSIO CASIMIRRI…


Daniele Biacchessi per “Il Sole 24 Ore”



Trent'anni fa, 16 marzo 1978. Roma, via del Forte Trionfale.

Poco prima delle 9. Il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro esce dalla sua abitazione. Lo accompagnano gli uomini della scorta. Domenico Ricci, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Oreste Leonardi. In via Fani, i brigatisti sono già tutti nella loro posizione di tiro. Rita Algranati all'angolo della strada con un mazzo di fiori in mano, segnala a Mario Moretti l'arrivo del convoglio di Moro. Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Valerio Morucci e Franco Bonisoli, vestiti da avieri, si piazzano dietro a una siepe. Gli altri componenti del commando sono Barbara Balzerani, Roberto Seghetti, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono.

Alle 9,03 si scatena l'inferno. È l'attacco delle Brigate rosse al cuore dello Stato. Gli uomini della scorta vengono tutti uccisi. Moro viene rapito.
L'azione dura quattro minuti. In via Fani vengono raccolti 93 bossoli, 22 provengono da uno dei quattro mitra in dotazione al gruppo di terroristi vestiti da avieri. Le armi usate sono sei. I colpi sono calibro 9 lungo.

Aldo Moro viene trasportato nella base di via Montalcini 8 interno 1. Lo attendono Germano Maccari, Laura Braghetti e Prospero Gallinari. Mario Moretti si cala il passamontagna e avvia il primo interrogatorio di Moro nella cosiddetta "prigione del popolo". Esattamente da quel momento inizia il calvario dello statista democristiano.


Si snoda dalla strage di via Fani, il 16 marzo, fino al ritrovamento del suo cadavere nel baule di una Renault 4 rossa, il 9 maggio, in via Caetani, a Roma.
Per 55 giorni, il Paese segue la vicenda con passione e forte preoccupazione, tra speranze, delusioni, rabbia, fermezza e trattative segrete, comunicati dei brigatisti, lettere di Moro, telefonate dei terroristi ai centralini dei quotidiani, gravi depistaggi di funzionari dello Stato.

Trent'anni dopo restano interrogativi. Si poteva salvare Aldo Moro?
I brigatisti hanno raccontato tutto? Gli inquirenti erano a conoscenza dei piani dei terroristi?
Sulla vicenda sono stati scritti libri seri, altri improntati alla mera dietrologia, sono state formulate teorie bislacche e altre più verosimili.

Restiamo ai fatti.
Sono almeno dieci i misteri irrisolti del caso Moro:

1 - L'ANNUNCIO
16 MARZO 1978, ORE 8,30

Numerosi testimoni sostengono di aver ascoltato da Radio Città Futura, emittente di movimento, qualcuno adombrare la possibilità di un attentato contro un personaggio politico.
Davanti agli inquirenti, Renzo Rossellini, direttore della radio, ammetterà di aver solo accennato ad un'ipotesi:
«Negli ambienti dell'estrema sinistra circolava la notizia che, in occasione della formazione del nuovo governo di unità nazionale, le Brigate rosse stessero per tentare, molto prossimamente, forse lo stesso giorno, un'azione spettacolare, forse contro Aldo Moro».



2 - IL COLONNELLO DEL SISMI
16 MARZO 1978, ORE 9,00

In via Fani, è presente il colonnello Camillo Guglielmi, ufficiale del Sismi, il servizio segreto militare, addetto all'Ufficio "R" per il controllo e la sicurezza.
Anni dopo, davanti ai magistrati, il colonnello Guglielmi offre la sua versione: «Stavo andando a pranzo da un collega che abitava in via Stresa, a pochi passi dal luogo della strage».



3 - LA MOTO
16 MARZO 1978, ORE 9,03

Durante l'agguato, in via Fani transita una moto Honda di grossa cilindrata con due persone a bordo. Una spara alcuni colpi di mitra contro due testimoni. Nessun investigatore ha mai identificato queste persone. Nessuna conferma è mai giunta dai brigatisti, irriducibili, pentiti o dissociati.



4 - LA MANCATA PERQUISIZIONE
17 MARZO 1978, DI SERA

Alla direzione della Polizia giunge una segnalazione precisa: in via Gradoli, una traversa di via Cassia, al numero civico 96, vi è un covo delle Brigate rosse. In quello stabile, all'interno 11, vivono da giorni Mario Moretti e Barbara Balzerani. Il 18 marzo 1978 di prima mattina, agenti di polizia perquisiscono gli appartamenti di via Gradoli 96, tranne uno, quello occupato dai brigatisti.


5 - LA SEDUTA SPIRITICA
2 APRILE 1978

Località Zappolino, provincia di Bologna, Appennino Tosco- Emiliano. Un gruppo di professori universitari tiene una seduta spiritica.
Nel gioco del piattino compare la parola "Gradoli". Le persone presenti a Zappolino sono Mario e Gabriella Baldassarri, Franco e Gabriella Bernardi, Alberto, Carlo, Adriana e Licia Clò, Romano e Flavia Prodi, Fabio Gobbo.


6 - IL BLITZ DI GRADOLI
5 APRILE 1978

Blitz della Polizia a Gradoli, piccola località in provincia di Viterbo, vicino al lago di Bolsena. Tutte le abitazioni vengono perquisite. Del presidente della Democrazia cristiana e dei suoi rapitori, nessuna traccia. In quelle ore concitate, Eleonora, moglie di Aldo Moro, si rivolge alla segreteria del ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Chiede se Gradoli sia anche il nome di una via di Roma. La risposta è secca: a Roma, via Gradoli non esiste.




7 - IL FALSO COMUNICATO DEL LAGO DELLA DUCHESSA
17 APRILE 1978

Una telefonata al quotidiano romano Il Messaggero annuncia l'arrivo di un messaggio delle Brigate rosse.
Nel comunicato numero 7 si annuncia l'avvenuta esecuzione di Moro, il cui corpo si troverebbe «nei fondali limacciosi del lago della Duchessa». Ma il comunicato è visibilmente contraffatto.
Nonostante ciò le forze dell'ordine si recano con elicotteri e uomini lungo le rive del Lago della Duchessa, in provincia di Rieti.
Anche in questo caso, di Moro nessuna traccia.
Il documento viene scritto materialmente da un certo Tony Chicchiarelli, un falsario della banda della Magliana, gruppo criminale operante a Roma, in contatto con uomini del Sismi e della loggia massonica P2 di Licio Gelli.
Chicchiarelli sarà ucciso nel 1984.



8 - VIA GRADOLI
18 APRILE 1978

Un residente di via Gradoli 96 telefona ai vigili del fuoco per una perdita d'acqua.
Quando i pompieri entrano nella porta dell'interno 11 si trovano davanti ad un covo delle Brigate rosse. Entrano in bagno. Notano il telefono della doccia posato sopra uno scopettone a sua volta appoggiato sulla vasca. Gli occupanti volevano che l'acqua si dirigesse verso una fessura nel muro?
Nell'appartamento vengono rinvenute le divise da avieri utilizzate dai brigatisti per camuffarsi in via Fani, durante l'agguato a Moro e agli uomini della scorta.


Licio Gelli
9 - VIA MONTENEVOSO

1 OTTOBRE 1978
Blitz dei carabinieri e della magistratura milanese in via Montenevoso 8, a Milano. Arrestati Nadia Mantovani, Lauro Azzolini, Antonio Savino, Biancamelia Sivieri, Paolo Sivieri, Maria Russo, Flavio Amico, Domenico Gioia, Franco Bonisoli. Ritrovate le lettere originali scritte da Aldo Moro nella cosiddetta "prigione del popolo". Ma mancano dei pezzi. Alcuni di questi si ritrovano il 10 ottobre 1990, dodici anni dopo. Durante i lavori di ristrutturazione dell'appartamento, in un'intercapedine, un muratore trova altri documenti originali autografati da Moro e banconote.

10 - LA LATITANZA DI ALESSIO CASIMIRRI
1 OTTOBRE 1978

I brigatisti responsabili del rapimento sono stati quasi tutti arrestati. Resta libero Alessio Casimirri, nome di battaglia Camillo. È condannato in via definitiva nel processo Moro.
Vive oggi in Nicaragua, in una bella casa al dodicesimo chilometro della Carretera sur, quella che da Managua porta a El Crucero, cento metri a sud e cento metri ad est del Monte Tabor, non lontano dal suo ristorante "La Cueva del Buzo", protetto da un alto muro di cemento armato e da una torretta di legno.
L'Italia ha chiesto più volte la sua estradizione, ma tra il nostro Paese e il Nicaragua non esistono trattati bilaterali. Casimirri conosce certamente i nomi delle persone a bordo della Honda presenti in via Fani, il 16 marzo 1978.


Dagospia 17 Marzo 2008

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17/03/2008 21:24


MORO PER SEMPRE/2
– NELLE LETTERE LA TRACCIA DEL SUO DESTINO: “VI È FORSE, NEL TENERE DURO CONTRO DI ME, UN'INDICAZIONE AMERICANA O TEDESCA?”
- PRIORITÀ USA: TENERE LONTANO IL PCI DAL GOVERNO…




Gerardo Pelosi per “Il Sole 24 Ore”


Henry Kissinger

© Foto La Presse

Non ci poteva proprio credere Aldo Moro che la "novità" della linea della fermezza portasse in calce solo la firma italiana.
Meglio, dei suoi amici di partito. Ci doveva essere per forza qualche "suggeritore" straniero.
Nel "memoriale" diffuso il 10 aprile '78 insieme al comunicato n.5, ad un certo punto, Moro se la prende con Taviani perché aveva smentito di avere mai partecipato a riunioni Dc in cui si sarebbe discusso di come disciplinare i rapimenti.
Ma coloro che, come Taviani, sono per la fermezza, scrive Moro «sono convinti che sia questo il solo modo per difendere l'autorità ed il potere dello Stato in momenti come questi?
Fanno riferimento ad esempi stranieri? O hanno avuto suggerimenti? »
E poi, alla fine, un altro interrogativo: «Vi è forse, nel tenere duro contro di me, un'indicazione americana o tedesca?».

Nei mesi precedenti, Moro aveva avuto tre incontri a Villa Taverna con Richard Gardner, il nuovo ambasciatore americano che si era insediato nel marzo del ' 77 dopo la vittoria di Carter su Ford.
La posizione di Gardner era chiara: gli Stati Uniti preferivano non avere il Pci nel Governo di un Paese alleato, ma cominciavano anche a fare qualche distinzione.
Gardner fu il primo ambasciatore americano a concedere un visto di ingresso negli Stati Uniti al "comunista" Giorgio Napolitano
, responsabile Esteri del partito.
«Avevamo capito - dice Gardner - che da un lato c'era chi aveva rapporti molto stretti con Mosca come Cossutta, Ingrao, Pajetta e poi c'erano personalità più indipendenti come Napolitano con le quali il dialogo era utile e fruttuoso».

La vicenda del rapimento colse gli Stati Uniti impreparati. Gli scandali della Cia nell'era Ford avevano ridotto i margini di manovra dell'intelligence. «Noi – aggiunge Gardner – offrimmo tutto il sostegno logistico possibile, macchine blindate apparecchiature elettroniche ma fu chiaro subito che era il Governo italiano che doveva decidere come muoversi». Eppure Moro, nel covo di via Montalcini, sente sul collo il fiato americano e tedesco.



Quattro anni prima aveva raccontato alla moglie il tono tutt'altro che cordiale dell'incontro del settembre del '74 con l'allora segretario di Stato americano Henry Kissinger alla Blair House dove avrebbe ricevuto dal capo della diplomazia Usa forti pressioni per cambiare linea politica ed evitare accordi con i comunisti. Subito dopo Moro ebbe un malore e il medico Mario Giacovazzo preferì farlo rientrare in Italia annullando il resto degli appuntamenti.


Francesco Cossiga
© Foto U.Pizzi

«Le cose a quanto so non andarono così – spiega Cossiga in una lunga intervista concessa a Radio 24 - , Kissinger è un ebreo tedesco e lui stesso mi disse che tra i politici italiani capiva soltanto me perché non parlavo in cifra; non capiva l'avverbio "peraltro" di cui si fa largo uso nel linguaggio politico italiano». Una cosa però è vera e la rivela lo stesso Cossiga. Riguarda «l'esclusione di Moro a Portorico durante una riunione ristretta che si tenne tra i sette Paesi più industrializzati per volontà non americana ma del cancelliere tedesco Schmidt il quale temeva che le conversazioni riservate sarebbero finite a Botteghe Oscure».

Comunque sia il rapimento, aggiunge Cossiga, avviene sotto la presidenza del democratico Carter e gli americani, secondo l'ex presidente della Repubblica, apprezzavano Moro che aveva tenuto a battesimo la struttura Gladio e che in un famoso intervento in Parlamento aveva difeso la guerra americana in Vietnam. Quanto a qualche suggeritore proveniente da Mosca Cossiga dice di «non credere alla favola dell'ostilità sovietica all'ingresso del Pci nell'area di Governo anche perché nel Pci sia pure di Berlinguer si poteva essere asovietici ma non certo antisovietici».

Anche Andreotti ridimensiona l'incontro "burrascoso" con Kissinger. «Ne parlai con la sua interprete che ha lavorato poi con me per molti anni – afferma il senatore a vita – e non è assolutamente vero che i toni usati da Kissinger fossero polemici o critici, loro assimilavano i socialisti ai comunisti ma poi venne fuori che avevano stabilito già da tempo rapporti diretti con i socialisti». Emilio Colombo era presidente del Parlamento europeo da un anno quando il 16 marzo di trenta anni fa stava andando all'aeroporto per prendere un volo per Strasburgo. «Come presidente del Consiglio andai in visita negli Stati Uniti nel '71 accompagnato dal mio ministro degli Esteri Moro, incontrammo anche Kissinger che un po' non capiva e un po' si spazientiva a sentire Moro quel suo parlare ragionando a voce alta aveva come l'impressione che gli si volesse nascondere qualcosa».


Dagospia 17 Marzo 2008

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23/03/2008 18:42

Giovanni Fasanella per “Panorama”


Unità speciali» di Stay-behind, la rete atlantica in Italia meglio nota sotto il soprannome di Gladio
, «probabilmente sono state impiegate anche in occasione della ricerca di Aldo Moro».
È scritto in una relazione riservata del servizio segreto della Germania Federale, il Bnd (Bundesnachrichtendienst), inviata il 19 novembre 1990 a Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica. Cossiga la fece avere alla procura romana, ma depurandola delle parti sulle quali il Bnd aveva imposto il vincolo del segreto; e dalla magistratura il documento arrivò sul tavolo della commissione Stragi.



Uno dei brani secretati riguardava proprio quell’accenno a un ruolo di Gladio durante i 55 giorni del sequestro Moro. Panorama ne è venuto a conoscenza nel corso di una conversazione con uno storico tedesco esperto di cose militari, che sta preparando un saggio sull’argomento, e con un ex funzionario di Berlino. Entrambi, per ovvie ragioni, hanno preferito mantenere l’anonimato. Ma grazie al loro racconto e ai loro appunti Panorama ha potuto ricostruire il documento nella sua interezza. Un riscontro decisivo è poi venuto da un colloquio proprio con Cossiga (vedere l’intervista in basso). È un documento prezioso.

Perché, da un lato, aggiunge nuovi tasselli alla storia di Stay-behind, la rete clandestina destinata ad attivarsi «dietro le linee» nel caso in cui le truppe del Patto di Varsavia avessero invaso l’Europa occidentale. Dall’altro proiettando il caso Moro nella sua vera dimensione internazionale (geopolitica e non complottistica) può aiutare a comprendere quello che accadde durante quei drammatici 55 giorni di prigionia.

Le parti secretate di quella relazione parlano anzitutto degli sforzi, durante la guerra fredda, per coordinare l’attività dei servizi di informazione dell’area atlantica. Americani, inglesi e francesi avevano una rete comune (poi passata sotto il controllo del Bnd) nelle zone di occupazione in Germania, il ventre molle del fronte occidentale. E nel 1954 fu creato un «elemento superiore di coordinamento e direzione» dell’intelligence atlantica, di cui facevano parte i servizi di Francia, Lussemburgo, Gran Bretagna, Belgio e Usa, l’Allied coordination committee (Acc). Tra i compiti dell’Acc, in tempo di pace, c’era la preparazione di una «base operativa comune (Allied clandestine base)» e di un «sistema comune di telecomunicazioni».
Tra i compiti, in caso di difesa, quelli di «programmazione/ coordinamento di provvedimenti “Stay-behind” comuni», in appoggio delle forze armate della Nato.

La relazione analizza poi le varie organizzazioni nazionali Stay-behind. Particolarmente interessante quella italiana, che disponeva di reti «rigidamente separate tra loro» per il reperimento di informazioni, il sabotaggio e il trasferimento di persone e materiali. Non solo, esisteva anche una «unità speciale» con gruppi operativi addestrati sia sul piano militare che su quello delle operazioni di polizia. E potevano essere impiegate, in tempo di pace, «come “unità antiterrorismo” (probabilmente sono state impiegate anche in occasione della ricerca di Aldo Moro)».

C’è da dire, ancora, che all’epoca del sequestro Moro il coordinamento delle attività di intelligence atlantica era proprio del Bnd, a cui due anni prima, nel 1976, era stata affidata la presidenza dell’Acc. E questo, da un lato, spiega il perché di quella relazione inviata a Cossiga; dall’altro, rende ancora più significativo l’accenno al ruolo di Gladio durante i 55 giorni. Sorge, a questo punto, una domanda: come mai fu deciso l’impiego di «unità speciali» collegate alla rete Stay-behind?



La risposta, forse, è proprio nel personaggio Aldo Moro, uomo legato più di ogni altro esponente democristiano al mondo dei servizi (come testimonia Cossiga nell’intervista) e quindi a conoscenza di segreti militari delicati. Segreti atlantici, che riguardavano il sistema difensivo dell’Europa occidentale, che potevano finire nelle mani delle Brigate rosse. E da lì, chissà quali altre direzioni avrebbero potuto prendere.

Alla luce di questo documento, prende ancora più corpo l’ipotesi di una doppia trattativa, sulla quale ha molto insistito Giovanni Pellegrino, ex presidente della commissione Stragi. Quella per «proteggere » i segreti atlantici che Moro aveva rivelato o avrebbe potuto rivelare durante l’interrogatorio. E quella per la liberazione del prigioniero.

2 - MORO SAPEVA TUTTO DI STAY-BEHIND
Intervista a Francesco Cossiga


Francesco Cossiga era ministro dell’Interno durante i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro. Ma è anche il politico italiano più esperto di intelligence. «Panorama» gli ha chiesto di commentare i documenti del Bnd tedesco su Gladio e il caso Moro.

Panorama chiede a Francesco Cossiga: «Se in un documento classificato di un servizio segreto si afferma che “unità speciali” di Stay-behind “probabilmente” vennero impiegate durante il caso Moro, vuol dire che è probabile o che...». Ma lui non lascia nemmeno finire la domanda: «Vuol dire che è vero, che Gladio intervenne» risponde sicuro. «D’altronde, tenga presente che, passato il tempo nel quale io da sottosegretario di stato della Difesa mi occupavo di Gladio, di queste cose non ne seppi più nulla. Salvo un caso nel quale dovetti intervenire sulle autorità giudiziarie e di pubblica sicurezza locali per risolvere il delicato problema che si era creato con l’arresto di appartenenti alle forze speciali di un paese alleato che erano state paracadutate nel corso di un’esercitazione di Stay-behind per essere “esfiltrate” dalla rete locale dell’organizzazione.

Non solo, ma da quando io mi insediai al Viminale, sino al giorno in cui mi dimisi, fui tenuto sotto il costante controllo telefonico e fisico del prima Sid e poi Sismi, nel cui ambito era costituita la famosa Quinta divisione che era il vertice operativo ed amministrativo della Staybehind Net italiana. E poche erano le cose che il servizio segreto militare comunicava al ministero dell’Interno, anche per un’atavica diffidenza, che perdura tuttora, dei militari verso i civili» .


Cossiga presente al ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani nel 1978


Presidente, Moro le parlò mai di Stay-behind?
Più volte. Era una creatura cui teneva molto, avendo a suo tempo autorizzato l’accordo dell’allora Sifar con i servizi d’intelligence dei paesi dell’Alleanza atlantica, perché la Stay-behind Net era un organismo non della Nato, ma dell’Alleanza atlantica. Tanto che la Francia, che sempre rimase membro dell’Alleanza, continuò a farne parte, eccome. Anche quando, sotto De Gaulle, abbandonò la Nato. Ma la Stay-behind Net atlantica era legata anche a organizzazioni consimili di paesi neutrali come la Svizzera, l’Austria e la Svezia. E perfino la Iugoslavia di Tito, che aveva una forte struttura di «Ta», cioè di «armate territoriali» dipendenti dai governi delle repubbliche federate, forze armate che poi consentirono alla Croazia e alla Slovenia di difendere e garantire con le armi la loro dichiarazione di indipendenza contro l’Armata proletaria del governo, ormai quasi esclusivamente serbo, di Belgrado.

Una «creatura» a cui Moro teneva molto. E perché?
Me ne parlò molte volte. Moro, non lo si penserebbe, era molto interessato a questo genere di cose: servizi segreti, reparti speciali e altre diavolerie…



In che occasione gliene parlò?
Ricordo quando, io ero giovane ministro della Funzione pubblica, mi chiamò e mi chiese di andare a un incontro in casa di Flaminio Piccoli con l’avvocato Franco Coppi e con la moglie e il figlio del generale Miceli, capo del Sid, che era stato arrestato dal giudice Tamburrino, il quale stava per arrivare a scoprire Gladio. Io obiettai che non mi sembrava opportuno che un ministro avesse contatti con la famiglia di un arrestato e con il suo avvocato difensore. Ma egli non ne volle sapere, e mi disse di andare, sia perché si trattava di un servitore dello Stato sia perché, attraverso la famiglia e l’avvocato difensore, dovevo fargli giungere l’ordine del governo di opporre il segreto.

Se ci fosse stato Moro, per il cosiddetto scandalo Sismi… avrebbe fatto volare la procura della Repubblica di Milano, così come costrinse personalmente, «in nome di superiori interessi dello Stato», i magistrati romani a dare la libertà provvisoria ai due palestinesi accusati di aver cercato di far esplodere con missili terra-aria un aereo della compagnia civile israeliana El Al, al momento del decollo dall’aeroporto di Fiumicino. Poi li fece prendere in consegna da due ufficiali del Sifar e con un aereo del servizio, che serviva anche per i trasporti clandestini di Gladio (e io ci ho volato più di una volta!), li fece trasportare a Malta e consegnare a elementi dell’Olp.

Per la gioia degli israeliani, immagino.
Gli israeliani si vendicarono. Agenti del Mossad fecero saltare quell’aereo, che aveva la sigla di Argo 16, mentre era in volo. Conosco i capacissimi agenti del Mossad, e prima di fare uno sgarbo a Israele, per esempio ricevendo pubblicamente in Italia rappresentanti di Hezbollah o di Hamas, ci penserei non tre, ma «tre per tre» e il risultato moltiplicato per se stesso volte.

Lei è mai stato alla base algherese di Staybehind?
Molte volte! E mi feci lì insegnare a usare il plastico e le armi automatiche, Kalashnikov e le israeliane Uzi.

Chi era a conoscenza dell’esistenza di Staybehind?
Quando me ne parlarono per la prima volta, ero appena stato nominato sottosegretario alla Difesa, i dirigenti dei servizi mi esibirono l’elenco delle persone che erano a conoscenza dell’esistenza di questa organizzazione, e richiamarono la mia attenzione sul fatto che avrei potuto parlare solo con queste persone. Era un gruppo ristretto che comprendeva, in carica e fuori carica: i presidenti della Repubblica, i presidenti del Consiglio dei ministri, i ministri della Difesa e dell’Interno, i capi della Polizia e i comandanti generali dell’Arma dei carabinieri, i nostri rappresentanti, militari e civili, alla Nato e pochi altri.

Perché Giulio Andreotti, nel 1990, ne rivelò l’esistenza?
Perché Andreotti, contrariamente a quanto la gente comunemente ritiene, non credeva a questi pasticci. E poi la guerra fredda era finita.

È completo l’elenco dei 600 «gladiatori» consegnato al Parlamento?
No, mancano un bel po’ di nomi. Per esempio quelli di due membri del governo attualmente in carica.

Del governo Prodi? E chi sono?
Niente nomi. Posso solo dirle che sono della Margherita.



ANDREOTTI: MAI SAPUTO CHE DUE EX GLADIO NEL GOVERNO…
(Adnkronos) -
’Non ne so assolutamente nulla. Questa non l’ho mai sentita’. Il senatore a vita Giulio Andreotti - ospite della puntata di ’Porta a Porta’ dedicata ad Aldo Moro - smentisce le affermazioni fatte da Francesco Cossiga a ’Panorama’ a proposito della incompletezza della lista dei 600 uomini della struttura militare antinvasione Gladio. Andreotti sottilinea in particolare di "non sapere nulla" dell’affermazione di Cossiga su due ministro della Margherita che sarebbero ex appartenenti a Gladio. ’L’uso di Gladio durante i 55 giorni e’ una questione che ho sentito dopo la morte di Moro. Non so se e’ una cosa esatta o no’, ha poi aggiunto a poposito del documento del Bnd di cui ha parlato ’Panorama’ e della conferma dello stesso Francesco Cossiga. ’Posso capire a cosa Cossiga si riferisce. Quando parla Cossiga non fa certamente delle fantasie io pero’ non ho niente al riguardo’, ha detto Andreotti

GEN. INZERILLI: NESSUNO DELLA GLADIO SI MOSSE…
(Adnkronos) -
"Nessuna unita’ speciale della Gladio venne impiegata nel caso Moro. Io ero il capo della Gladio, e non ho dato nessun ordine ai miei uomini. Nessuno si e’ mosso". Il generale Paolo Inzerilli, capo dell’Organizzazione Militare dal ’74 all’ ’86, prima dall’interno dell’Ufficio ’R’ del Sismi e dal 1980 con il grado di direttore della VII Divisione del servizio segreto militare, nega che la struttura antinvasione in caso di attacco delle truppe del Patto di Varsavia abbia svolto un ruolo durante i 55 giorni del sequestro Moro. Almeno secondo quanto rivelerebbe un documento del Bnd, servizio segreto della Germania federale, inviato nel novembre 1990 all’allora Capo dello Stato, Francesco Cossiga, e pubblicato da ’Panorama’ in edicola domani. Il generale Inzerilli precisa quindi di aver approfittato in quel periodo di mobilitazione delle Forze Armate "per sperimentare se l’addestramento che facevo con i gladiatori funzionava facendo esfiltrare uno dei miei uomini da piazza Pio IX fino a Cerveteri nascondendolo dentro una cassa in un furgoncino pieno di materiale elettrico".

"Il camioncino parti’ da piazza Pio IX, che si trova in cima a via Gregorio VII e siamo arrivati a Cerveteri passando attraverso tutti i posti di blocco. Nessuno ci ha fermati. Dietro c’era una macchina con un mio uomo -spiega ancora il generale- un capitano dei carabinieri con la tessera, pronto ad intervenire qualora fosse successo qualcosa. Il capitano e’ ancora vivo, l’uomo dentro la cassa era un mio ufficiale". Quanto all’impiego di uomini di Stay-Behind nel caso Moro, il servizio di intelligence tedesco Bnd, afferma ancora il generale Inzerilli, "puo’ dire tutto quello che vuole". E ammette: "che Cossiga abbia ricevuto al tempo un documento dalla Germania e’ sicuro, riguardava la Gladio in generale e non la Gladio italiana facendo i distinguo tra Nato e Alleanza Atlantica".

E’ incompleto l’elenco dei 622 gladiatori consegnato da Andreotti al Parlamento? E comprende anche due "membri del governo in carica", secondo quanto affermato da Cossiga a ’Panorama’? "Non so chi siano questi due, ammesso che ci siano" risponde l’ex Comandante della Gladio. Che esista poi un secondo elenco e’ una balla colossale provata a livello giudiziario-aggiunge il generale- ed in base alle superperizie risulto’ che quella lista poteva comprendere tre nomi in piu’, e questo perche’ l’elenco fu stilato di corsa per poterlo consegnare entro 48 ore ad Andreotti, alla Polizia ed ai Carabinieri". "Posso ammettere che in un certo momento dissi ai miei uomini aprite gli occhi su fatti che potessero ricondursi al terrorismo, ma era successivo al sequestro Moro". Quanto al colonnello Camillo Gugliemi, presente in via Fani la mattina del 16 marzo 1978, il generale Inzerilli afferma: "e’ stato tirato in ballo come uomo della Gladio, ma non sapeva neanche che la struttura esistesse. Mi ricordo che di sicuro che nel marzo ’78 era comandante del gruppo carabinieri di Modena, incarico che ha mantenuto fino al 14 aprile 1978, e successivamente e’ stato assunto dal Sismi in qualita’ di consulente esterno"



Il cadavere di Moro
Foto Corriere Magazine

COSSIGA: NON SO SE GLADIO ABBIA LAVORATO ALLA RICERCA DEI BR…
(Ansa) -
’Premesso che io non ho avuto la possibilita’ di leggere il testo integrale della relazione inviata dal Bnd alla commissione del Bundestag sull’intelligence, cio’ che io ho dichiarato e’ che se il Bnd in questa relazione che, ripeto, io non conosco, ha detto che forse Gladio e’ intervenuta nella ricerca del caso Moro, lo ho detto perche’ il Bnd e’ un servizio estremamente efficiente anche se durante il caso Moro almeno al ministero dell’Interno che io ricordi non passo’ alcuna informazione che fosse apprezzabile’.

Lo afferma il senatore a vita Francesco Cossiga. ’D’altronde - spiega Cossiga - il Sid, poi Sismi, che dipendeva dal ministero della Difesa e nel quale era inquadrato il comando strategico di ’Stay Behind’, passava certo tutte le informazioni che aveva al ministero dell’Interno ma non gli riferiva del’uso degli strumenti che aveva a disposizione: ivi compreso ’Stay behind net’. Peraltro da quando diventai ministro dell’Interno a quando mi dimisi, il Sid (e per essere esatti il comando dei centri di controspionaggio di Roma) mise sotto controllo alcune mie linee telefoniche sia di casa sia del ministero e mi sottopose a una sorveglianza fisica di cui poi, eletto presidente del Senato, il comando generale dell’Arma dei Carabinieri che ne era venuto a conoscenza mi diede notizia. D’intesa con il procuratore aggiunto della Repubblica del tempo e con l’allora ministro dell’Interno, essendo stati i nostri servizi militari gia’ sufficientemente sputtanati si decise di Non farne nulla: perche’ in realta’, che durante gli anni di piombo il Sismi non avesse niente di meglio da fare che controllare il ministro dell’Interno era davvero, un po’ grossa...’.

COSSIGA: 'COMBATTENTI' SIA IN GLADIO BIANCA SIA IN ROSSA…
(Ansa) -
’Per chiudere ogni polemica presentero’ all’apertura delle Camere un disegno di legge che, sulla base delle conclusioni dell’Autorita’ giudiziaria di Roma, riconosca la qualifica di ’combattenti’ non solo ai membri della Gladio bianca ma anche a quelli della Gladio rossa’. Lo annuncia il senatore a vita Francesco Cossiga. ’L’autenticazione dei nomi della Gladio bianca - spiega - sara’ data dal ministero della Difesa sulla base degli archivi di Gladio. Per quella rossa, si ricorrera’ agli archivi dell’Istituto Gramsci; altrimenti, per i rapporti che ho con Mosca, ce li faremo dare dall’Istituzione che ha ereditato gli archivi del Kgb. Sono certo - conclude Cossiga - che l’amico senatore Massimo Brutti vorra’ firmare con me questo ddl’.


Giovanni Fasanella per “Panorama” 21 Marzo 2008
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27/03/2008 21:16


È CERTO: A CONDURRE IL “PROCESSO” NON FURONO LE BR
MA GRUPPI DIVERSI (AUTOP)
SUBENTRARONO AI “MILITARI” DI VIA FANI PER LA GESTIONE POLITICA DEL SEQUESTRO
PERCHÉ QUEL COLLOQUIO TRA DUE BR, NEL CARCERE DELL’ASINARA, FU SECRETATO?


Giovanni Fasanella per Panorama, in edicola domani


A condurre il «processo» ad Aldo Moro nella «prigione del popolo» non furono i brigatisti rossi che avevano partecipato all’azione di via Fani, ma gruppi diversi, tra cui probabilmente anche qualche dirigente di Autonomia operaia. Gli stessi che, una volta terminati gli interrogatori, presero in consegna le bobine con le dichiarazioni del prigioniero. Sino a oggi era solo un’ipotesi, per quanto fondata. Ora diventa una certezza, alla luce di un altro dei tanti documenti secretati che la magistratura non ha mai potuto utilizzare.



È una relazione del Cesis, con la trascrizione di un colloquio tra due brigatisti, uno dei quali «di alto livello terroristico», captata verso la fine del 1979 in un «carcere protetto». Venne trasmessa il 27 dicembre dello stesso anno ai giudici del caso Moro, Giovanni De Matteo e Achille Gallucci. Ma questi non vollero usarla perché il segreto copriva sia l’identità dei due detenuti sia il nome del carcere, e così scomparve dal processo. A ritrovarla, quasi un decennio dopo, tra le casse ancora imballate, fu l’avvocato Luigi Li Gotti, che assisteva la famiglia del maresciallo Oreste Leonardi, uno dei cinque uomini della scorta di Moro.

Il legale di parte civile presentò un’istanza per l’acquisizione del documento e per l’identificazione dei due brigatisti. Ma la corte d’assise la rigettò e quell’appunto sprofondò di nuovo negli abissi del caso Moro. Dov’è rimasto per 20 anni. Peccato, perché se quella traccia fosse stata seguita, oggi forse sapremmo di più sulle «altre intelligenze» (il copyright è di Oscar Luigi Scalfaro) che subentrarono ai «militari» di via Fani per assumere la gestione politica del sequestro.

La conversazione intercettata, scrive il Cesis, «riguarda la prigionia, l’interrogatorio e la fine dell’on. Moro». Ma «una prima trascrizione» venne effettuata «senza il filtraggio dei rumori», così diversi punti risultano di difficile decrittazione. Tuttavia, sono molti i brani comprensibili. I due brigatisti si soffermano sul trattamento riservato al prigioniero durante i 55 giorni di detenzione: «Non gli hanno mai messo le mani addosso», «non gli è stato torto un capello», otteneva «tutto quello di cui aveva bisogno, si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere, scriveva...», «è stato trattato come un signore».

Poi parlano del comportamento di Moro di fronte ai suoi carcerieri: «Non si è fatto vincere, non si è fatto prendere dal panico, non è stato zitto», ma rifletteva a lungo prima di parlare: «ci mette un’ora per risponderti».

Dal colloquio emerge che il sequestro era stato ideato da molto tempo e preparato nei minimi dettagli. La gestione dal punto di vista militare e logistico era stata affidata per intero alla colonna romana. Solo in un secondo tempo «sono subentrati altri compagni, che «hanno ancora tutti gli originali con i nastri dell’interrogatorio».




I brigatisti del secondo gruppo erano di un livello culturale e con una preparazione politica superiori, «sapevano la sua storia, della Democrazia cristiana, della sua corrente».
Qualità indispensabili per dirigere l’interrogatorio di un personaggio come Moro, perspicace e riflessivo: «Hai davanti una persona, capito?, che è molto intelligente». Tanto da incutere una certa soggezione nei suoi inquisitori: «Noi ti rispettiamo, sei un nemico serio, non sei un buffone», «la carica ce l’aveva anche qui (nel covo brigatista, ndr) come capo di Stato».

A questo punto è molto interessante la notazione del Cesis, che merita di essere citata integralmente. Il trattamento riservato a Moro «richiama alla mente il noto fumetto dal titolo “L’Affare Moro”, pubblicato su Metropoli, la rivista della Autonomia operaia: anche qui si sottolinea l’estremo rispetto assunto dai terroristi nei confronti dell’on.le Moro (“Signor presidente venga con noi”, frase pronunciata da un terrorista al momento del sequestro, durante o subito dopo la strage in via Fani; “Presidente, la situazione è precipitata”, espressione usata per comunicare la decisione della condanna a morte)».

Ed ecco la conclusione a cui giungeva il Cesis: «Questa considerazione potrebbe ulteriormente avvalorare l’ipotesi, già al vaglio della magistratura inquirente, di una correlazione tra i responsabili della strage ed elementi legati all’area dell’Autonomia operaia organizzata».

Certo, in sede giudiziaria la questione si è risolta negli anni successivi, dal momento che i processi contro i capi di Autonomia accusati di aver fatto parte del vertice brigatista si sono conclusi con sentenze di assoluzione. Una domanda, tuttavia, è più che lecita, alla luce dei continui ritrovamenti di materiali non esaminati dai magistrati perché coperti dal segreto: la vicenda giudiziaria dei capi di Autonomia si sarebbe conclusa allo stesso modo, se i giudici avessero potuto (e in qualche caso voluto) utilizzare tutte le informazioni al momento disponibili?



È la stessa domanda che pesa sull’intera storia giudiziaria del caso Moro. Ma restando al caso specifico, non può non colpire il fatto che siano state secretate informazioni apparentemente innocue, come il nome del carcere e quelli dei due brigatisti intercettati: che cos’altro si doveva proteggere?

Intanto oggi è possibile completare, almeno in parte, la relazione del Cesis. Per esempio: il carcere era quello dell’Asinara, dove nel 1979 erano detenuti tutti i brigatisti rossi più importanti. E incrociando un dettaglio contenuto nel documento con notizie note, è possibile anche stilare un elenco in cui dovrebbero figurare i due ex br intercettati. Il Cesis, come ricordato all’inizio, dice che uno dei due è «di alto livello terroristico, tanto da essere tra i firmatari dell’ultimo documento di Curcio e compagni sulla cosiddetta spaccatura».

Il documento di Renato Curcio sulla «spaccatura» era la condanna «contro i signorini» Valerio Morucci e Adriana Faranda, usciti dalle Br dopo l’assassinio di Moro. E a firmarla furono: Franco Bonisoli, Roberto Ognibene, Alberto Franceschini, Lauro Azzolini, Angelo Basone, Pietro Bertolazzi, Curcio, Maurizio Ferrari, Arialdo Lintrami, Tonino Loris Paroli, Giorgio Panizzari, Antonio Savino, Giorgio Semeria e Pierluigi Zuffada.


Dagospia 27 Marzo 2008
dagospia.excite.it/articolo_index_39166.html
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28/03/2008 12:49

MORO PER SEMPRE

– FASANELLA REPLICA: “PERCHÉ QUEL DOCUMENTO FONDAMENTALE NON FU CONSEGNATO AI MAGISTRATI?”
– “I BR NON POSSONO PARLARE AVENDO TUTTI LORO BARATTATO IL SILENZIO CON L’IMPUNITÀ”…





Giovanni Fasanella con l'ex brigatista Alberto Franceschini

© Foto U.Pizzi


LETTERA/1
In riferimento allo scoop di Fasanella, si sa già da tempo che uno dei due Br è Bonisoli (ammissione di Faranda) tutta l'informativa compare già in "Il Caso Moro, un dizionario italiano", di Stefano Grassi, Mondadori, 2008.
Stefano Grassi

LETTERA/2
Caro Dago,
In riferimento al "contro-scoop" di Stefano Grassi vorrei dire che, se è per questo, l'informativa del Cesis era finita per tre volte tra le mani dei giudici romani del processo Moro e di quelli perugini del processo Pecorelli. Certo che il documento era noto, e circa trent'anni prima che arrivasse il libro di Grassi. Questo è scritto chiaramente nell'articolo di Panorama, da te ripreso.
Qual è allora il punto che si continua a far finta di non vedere?
E' che i magistrati non usarono quel documento perchè parti fondamentali erano state secretate. E non avendolo potuto usare, non hanno scoperto:

1 - chi erano I brigatisti del "secondo gruppo", quelli che subentrarono ai "militari" per gestire il "processo" a Moro;

2 - che fine hanno fatto le bobine con le dichiarazioni di Moro ai suoi carcerieri;

3 - chi erano gli esponenti di Autonomia che facevano parte del cervello politico delle Br.




Ecco, caro Dago (e mi rivolgo anche a Stefano Grassi, che conosco soltanto attraverso la lettura del suo dizionario, assai utile peraltro, più utile del lavoro di tanti archivisti e giornalisti ciechi e sordi), sai qual è il vero scoop, oggi, a trent'anni dall'assassinio di Moro? E' scoprire che la verità giudiziaria raggiunta finora è del tutto insufficiente, perché centinaia di documenti importanti vennero secretati e non consegnati alla magistratura.
Che cosa aspettano, i giornali, a pretendere dal governo che quei documenti vengano desecretati e consegnati non dico alla magistratura, per carità, ma almeno all'opinione pubblica?

Giovanni Fasanella

P.S./1 - Uno dei due brigatisti intercettati nel carcere dell'Asinara era Franco Bonisoli, dice Grassi citando la Faranda. Molto bene. E l'altro chi era?
Perché a trent'anni di distanza il suo nome è ancora top secret?


P.S./2 – Sarebbe ora che i brigatisti del caso Moro raccontassero tutto quello che sanno. [SM=x44498]
Purtroppo dubito che possano farlo, avendo tutti loro barattato il silenzio con l’impunità.



Dagospia 28 Marzo 2008
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01/04/2008 14:41

HYPERION, UN FILO DA NON TOCCARE – UN DOCUMENTARIO SUL “CENTRO STUDI” PARIGINO DELLE BRIGATE ROSSE NON DEVE ESSERE VISTO
– MEGLIO UN BEL CORTOMETRAGGIO SULLA VITA DEI BRIGATISTI ESULI A PARIGI…



IL DOCUMENTARIO CHE NON DOVEVA ESSERE VISTO

Da:
www.lastorianascosta.com


Giovanni Fasanella e Sabrina Rossa
© Foto U.Pizzi


Gentile Fasanella,
un breve racconto circa il mobbing verso chi tocca certi fili.

Anni fa (10 e più) al termine del mio percorso di studi, realizzai un documentario intitolato con il nome della nota scuola di lingue parigina.

Il cortometraggio venne selezionato per il Festival Cinema Giovani di Torino e qualche giorno prima della proiezione fui chiamato da Rai Sat per un'intervista, a cui diedi ovviamente il mio consenso. Il giorno prima venni però contattato da una funzionaria della Rai che mi disse che la cosa era saltata per problemi di palinsesto. "Va bé, può succedere", pensai.

Qualche mese dopo il corto fu selezionato per il Roma Festival, forse l'antesignano della fiera del cinema andata in scena qualche mese fa. Vista l'occasione andai di persona a Roma, dove assistetti a diversi film e documentari senza che nulla accadesse. La sera della proiezione del mio cortometraggio, dopo alcuni film passati senza problemi, avvenne che l'audio saltasse ripetutamente e le immagini fossero sgranate e tremolanti all'inverosimile. Insomma il film fu letteralmente massacrato, tanto che a metà della proiezione me ne andai.



Tale esperienza iniziò a farmi sorgere qualche dubbio, ma poi le vicende della vita mi portarono in altre direzioni e così il corto rimase quasi un vecchio ricordo, fino a quando, due o tre anni fa, venni contattato da un collaboratore di Mimmo Calopresti che mi chiedeva l'autorizzazione a trasmettere il documentario nell'ambito di un festival su cinema e anni di piombo (rassegna che credo si chiamasse "A viso aperto"). Naturalmente acconsentii, ormai curioso di verificare cosa sarebbe accaduto, anche perché la persona che mi aveva chiamato aveva molto apprezzato il film.

Il finale è facile da intuire: la stessa persona mi chiamò uno o due giorni prima dell'inizio della rassegna e con comprensibile imbarazzo mi disse che la direzione artistica aveva ritenuto di operare altre scelte e via di seguito. Chiesi allora di inviarmi il programma della rassegna, dove tra gli altri figurava un documentario sulla vita dei brigatisti esuli a Parigi. A buon intenditor…

Cordiali saluti.
Fernando

RISPOSTA DI GIOVANNI FASANANELLA

Caro Fernando,
non ho difficoltà a crederle. So benissimo quanta influenza abbiano ancora oggi gli uomini di Hyperion sul ceto intellettuale che negli anni Settanta "ondeggiava" tra Autonomia e Brigate Rosse. E' una delle vergogne di questo Paese. Ma non bisogna gettare la spugna: è una battaglia che va combattuta.

www.lastorianascosta.com
Dagospia 01 Aprile 2008
dagospia.excite.it/articolo_index_39271.html
[Modificato da Etrusco 01/04/2008 14:42]

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05/04/2008 05:08


SQUITIERI SCOOP: IO, JANNUZZI E BALESTRINI E UN FLIM MAI FATTO SUI 55 GIORNI
IL DC D’AREZZO BRINDÒ ALLA MORTE: MORO CI PORTAVA LE BR IN PARLAMENTO
LEONE AVEVA PRONTA LA GRAZIA PER LA BR BESUSCHIO, QUALCUNO LA STRAPPÒ




1 - SQUITIERI: “TRE STRONZI” A UN PASSO DA GRUPPO FUOCO BR…
(Ansa) –
Un film mai fatto - per tante e diverse ragioni - sul ’caso Moro’ e una avventura che porto’ ’tre stronzi come noi’ ad un passo dal gruppo di fuoco delle Br. In una intervista all’Ansa Pasquale Squitieri rivela i retroscena di quel tentativo di realizzare ’in presa diretta’ un film sui 55 giorni, mai fatto, nonostante l’interessamento del produttore Cecchi Gori e la collaborazione di Lino Jannuzzi e Nanni Balestrini ed anche, alla fine, di un Leonardo Sciascia intento a trasporre in immagini il suo ’L’Affaire Moro’.


’Io stavo preparando la sceneggiatura de ’Il Prefetto di Ferro’ e lavoravo con Jannuzzi e Balestrini con cui avevo dei progetti insieme’, spiega il regista. ’Appena rapito Moro lo stesso giorno a Via Fani ’riprendo lo sgomento, gli elicotteri che volteggiavano, i carabinieri ecc. Nel pomeriggio mi chiama Cecchi Gori che mi propone di preparare in tempo reale una sceneggiatura. Ci pago’ anche.

Nanni, essendo di Potere operaio e partecipando a quel vasto parterre di grande contiguita’ di quegli anni, aveva canali suoi. ’Cominciammo l’inchiesta sul rapimento raccogliendo tutto il materiale utile. Appena pubblicano che noi tre stavamo impegnati a seguire la vicenda venimmo invitati da diverse ambasciate dell’Est e venimmo a sapere un sacco di cose. Ci presentarono a gente dei servizi i quali poco dopo la morte di Moro verranno scacciati dall’Italia’.

Il bello arrivo’ nella seconda settimana dell’inchiesta: ’Troviamo una serie di raccordi - non erano terroristi ma clandestini, tra cui alcuni palestinesi - e dopo 20 giorni arriviamo una notte ad Alessandria dove incontriamo qualcuno che ci dice ’ Secondo noi Moro e’ in questa zona qui’, se volete vi mettiamo in contatto con il gruppo di fuoco’. A quel punto dissi di no perche’ avremmo dovuto chiamare la polizia. La nostra meraviglia durante il viaggio era questa: ’se ci riusciamo noi, tre stronzi, come mai non ci riescono i servizi segreti, non ci riesce la Cia ecc’. Dopo quella notte decidemmo di fermarci’.


Squitieri ricorda altri fatti legati a quegli incontri ad Alessandria. ’Una sera, tre mesi dopo, a casa mia si sono presentati due dei servizi, ricordo che avevano nomi di citta’, mi hanno raccontato tutto il viaggio che avevo fatto. E mi hanno fatto capire di lasciar stare, di farmi gli affari miei’. Cecchi Gori - racconta ancora il regista- ci chiamo’ tempo dopo per fare il film sul caso Moro. Per non sottostare a rischi proposi di utilizzare ’L’Affaire Moro’ di Leonardo Sciascia che era uscito da poco in Francia. Arriva lo scrittore, lavoriamo, c’e’ un contratto. Prepariamo una sceneggiatura,decidiamo che l’interprete sarebbe stato Dirk Bogart. La signora Moro sarebbe stata Irene Papas’.



Ma le disavventure non erano finite. Si stava per cominciare a girare e Squitieri una mattina venne chiamato a casa da Cecchi Gori, ’fatto del tutto inusuale.’ Senti- mi disse- ti pago ma quel film tu non lo puoi fare’. Io all’epoca ero craxiano e un film ispirato ai dubbi sulla vicenda e che aveva come sceneggiatore Sciascia non si poteva fare. I comunisti sostennero quello di Giuseppe Ferrara con Volonte’. Alla fine facemmo ’Il pentito’ su Tommaso Buscetta, ma quel film mai fatto su Moro mi e’ rimasto nel cuore’.

2 - SQUITIERI: D'AREZZO, MINISTRO DC, BRINDO' ALLA MORTE DI MORO…
(Ansa) -
Fu Bernardo D’Arezzo il ministro Dc che brindo’ alla morte di Moro in casa del regista Pasquale Squitieri.

Intervistato dall’Ansa Squitieri indica il nome dell’esponente politico che in precedenti interviste aveva taciuto. ’Ci fu un brindisi a casa mia. La battuta che si faceva era: meno male che e’ morto altrimenti questo ci portava le Br in Parlamento. Se lo avessero lasciato libero portava le Br in Parlamento e magari al governo. Chi era? Bernardo D’Arezzo.’ D’Arezzo e’ lo stesso ministro a cui il capo dello Stato Sandro Pertini non volle stringere la mano al Quirinale suscitando un grande clamore all’epoca.

Lo stesso che si batte’ durante i lavori della commissione P2 affinche’ non venisse ascoltata Nora Lazzarini, la segretaria di Licio Gelli che voleva parlare dell’interessamento al sequestro del capo massonico. D’Arezzo sostenne che la Lazzarini, avendo una storia sentimentale con Gelli, non era un teste moralmente affidabile.



3 - LEONE FIRMO' LA GRAZIA, MA QUALCUNO LA STRAPPO'…
(Ansa) - L’allora capo dello Stato Giovanni Leone firmo’ la grazia per la terrorista Paola Besuschio al fine di arrivare alla liberazione da parte delle Br di Aldo Moro:
qualcuno si reco’, presumibilmente durante la notte tra l’8 e il 9 di maggio al Quirinale e la strappo’ dopo averla tirata via dalle mani di Leone. E’ questo il racconto che fa all’Ansa il regista Pasquale Squitieri, amico della famiglia. ’Leone dopo qualche settimana dalla morte di Moro si dimette. Un presidente della Repubblica se ne va dal Quirinale in taxi e non si riunisce il Parlamento. La sera vado a casa sua e lo trovo sulla veranda, distrutto.

’Presidente, Sciascia ha pubblicato in Francia ’L’Affaire Moro’, perche’ lei non pubblica in Italia ’La notte della grazia’, perche’ lo sappiamo che lei era pronto a firmare la grazia per una terrorista, la Besuschio’. Leone era per salvare Moro. E lui mi rispose: ’Pasqua’ io l’avevo firmata la grazia, era pronta. Vennero due e me la tolsero dalle mani’. ’Uno - disse Quitieri- era Zaccagnini, l’altro chi era?’ Lui mi rispose: ’ Tu non conosci i politici Pasqua’, ti uccidono i figli...’. ’Chi era l’altro? Posso fare solo delle ipotesi. Il ministro di grazia e Giustizia Paolo Bonfacio? Oppure Berlinguer, chi lo sa? Lo rividi molto tempo dopo Leone e gli dissi. ’Vi ricordate quella notte al Quirinale?’. Mi rispose:’ Quale notte Pasqua’?’.


Dagospia 04 Aprile 2008

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