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Fiat & Agnelli

Ultimo Aggiornamento: 11/05/2008 13:48
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11/05/2008 13:48

Intervista a Gebetti
TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLA FIAT E AGNELLI (PARLA GABETTI)
“DUE ERRORI DELL’AVV: CUCCIA E IL CORRIERE”
– COME FERMAI LA CORSA DI MORCHIO”
“NO PRESIDENZA FIAT PER JAKY – SWAP: FIAT SOTTO SCALATA
- LA SIGNORA DE PAHLEN

Paolo Madron per il Sole 24 Ore

Gianluigi Gabetti
rigira tra le mani un cd dell'Ave Verum che la segretaria gli ha appena consegnato. «L'ho fatta eseguire al funerale di mia moglie. Non è un pezzo raro, la cosa rara è Leonard Bernstein che dirige Mozart». E uno pensa subito alla curiosa coincidenza della passione per la musica classica che unisce quello che fino a martedì prossimo è ancora il presidente di Ifil a Sergio Marchionne. Una passione che aiuta a vivere, e forse a questo punto anche a fare dei buoni bilanci.
Sicuramente a ricordare senza rimpianti e piaggerie, come fa a quasi 84 anni Gabetti in questa intervista alla vigilia del passaggio di consegne a John Elkann, l'erede designato da Giovanni Agnelli a guidare nel futuro la dinastia sabauda.

Quando ha deciso che era ora di passare la mano?
Più che deciso l'ho auspicato all'inizio di quest'ultimo triennio. Volevo arrivarci con le cose che andavano bene, e adesso è il momento.

Anche perché non si può restare troppo a lungo eredi designati.
Proprio per questo a suo tempo ho voluto che il consiglio assegnasse a John Elkann la carica di vice presidente vicario, perché fosse chiaro che era lui il mio successore.

Quella di martedì 13 sarà una cerimonia degli addii?
Niente è definitivo, neanche gli addii. Cedo il comando al nuovo ammiraglio ma resto in consiglio. John Elkann mi ha chiesto di assumere il coordinamento delle attività strategiche, un modo perché il nostro dialogo continui.

Allora molla per finta...
No. Ho già detto a John che sono disponibile a consigliarlo. Ma solo su sua richiesta e se lo crede.

Qualcuno teme che senza di lei verrà meno il collante che ha tenuto unita la famiglia dopo la morte dell'Avvocato.
Se avessi questo timore non mi distaccherei.

John è ancora giovane, ha 32 anni, e il carisma è qualcosa che viene con la maturità. Poi l'Avvocato era estroverso, una inesauribile fucina di battute taglienti...
John invece è riservato. Ma nessuno può paragonarsi all'Avvocato. È stato il più importante italiano del secolo scorso.

I revisionisti la troverebbero un'affermazione esagerata.
Trovo che il revisionismo sia sovente prova di pochezza. Chi la pensava diversamente non occorreva che aspettasse la sua morte per parlarne male. In realtà l'Avvocato è stato un unicum che combinava diverse e spesso contraddittorie caratteristiche dell'homo italicus.

Lei è sempre stato considerato un consigliere con autonomia di giudizio, non un infatuato
Infatti non sono capace di infatuazioni.

E allora ci sarà pur stata qualcosa di Gianni Agnelli che non le piaceva...
All'epoca, se fossi stato al posto suo, non avrei comprato il Corriere della Sera.

Me ne dica un'altra.
Prima che lui arrivasse alla rottura con Mediobanca io avevo auspicato un netto distacco. Mi sembrava ci fosse una divergenza tra i nostri interessi e le visioni di Enrico Cuccia.

Vincenzo Maranghi poi tentò con un ultimo guizzo di ricucire prendendosi quel pezzo di Ferrari.
Sì, fu il colpo di coda di Maranghi quando si fece vivo con me. Andò in modo così strano...

Andò come?
Andò che Maranghi mi cercò e io non ritornai la chiamata. Allora mi ritelefonò dicendomi che doveva assolutamente parlare con Agnelli, che già stava molto male, per una cosa di massima importanza per la Fiat. Lo dissi all'Avvocato che, tipico suo, se ne uscì con un: «Allora me lo porti». Però siccome il tema era la Ferrari, cioè una controllata Fiat, chiesi a Paolo Fresco di essere presente all'incontro.

Proprio Fresco che Maranghi non sopportava.
Era reciproco.

Quando ha visto Gianni Agnelli per l'ultima volta?
La sera prima della notte in cui è mancato.

Non pensa che avesse cominciato a morire di fronte al corpo sfracellato del figlio ai piedi di un viadotto?
No. Fu molto colpito, ovvio. Mi stavo imbarcando per Parigi, stavano chiudendo il portellone dell'aereo, quando mi chiamarono per dirmi di accorrere subito ma l'Avvocato l'ho visto la sera. Era un uomo provato, come quando era mancato Giovannino.

Suppongo fosse molto preoccupato per l'incerto futuro dell'azienda.
Penso che per i guai della Fiat trascurò la sua salute. Verso il finire del 2001 capii che non stava bene. Glielo dissi e lui glissò, mi rispose che doveva fare degli esami ma non trovava il tempo.

Aveva paura della morte?
No, però si era fatto una cultura sulla vecchiaia, la considerava una malattia da cui non si guarisce. Sapeva tutto, aveva letto tutto. Ogni tanto si faceva delle gran chiacchierate sul tema con Norberto Bobbio.

È vero che oltre alla Fiat l'ultima preoccupazione fu raccomandare a Giovanni Bazoli di vigilare sui destini del Corriere della Sera?
Così dice Bazoli, e sarà sicuramente vero. Ma era normale che si preoccupasse del giornale, visto che lo aveva districato da tutta una serie di situazioni, dall'uscita dei Crespi passando per Rizzoli e via dicendo.

Perché lei non voleva che comprasse il Corriere?
Ero convinto che andasse a infilarsi in un ginepraio. Mi ricordo che quando mi disse di aver fatto l'operazione era il giorno di san Giuseppe, ma non mi chieda l'anno. Ci vedemmo qui dove ora c'è l'Ifil per parlare di altre cose. Poi uscimmo. L'Avvocato salì in macchina per andare a sciare. L'autista accese, lui tirò giù il finestrino e mi disse: «A proposito, Gabetti: guardi che ho comprato il Corriere». E poi sgommò via.

Il suo rapporto con l'Avvocato è diventato più stretto dopo che lui ha rotto con Cuccia e Mediobanca?
No, la rottura non cambiò le cose. Eravamo solidali nelle ragioni che portarono a quel progressivo deterioramento con Mediobanca.

Lei è l'uomo che ha scelto Sergio Marchionne.
Sì, anche se Marchionne era stato messo in consiglio Fiat da Umberto. Quando venni un giorno al Lingotto me lo presentò come un uomo interessante.



Non certo come il futuro amministratore delegato?
Da qualche battuta capii che Umberto aveva delle riserve su Giuseppe Morchio. Quando la sua salute precipitò, io che avevo la responsabilità di Ifil cominciai a preoccuparmi. Dissi a Morchio che avremmo dovuto trovare un futuro presidente che gli consentisse di continuare il lavoro.

E Morchio?
Rispose di non aver bisogno di nessuno, che aveva in mano tutto: azienda, rapporti con le banche e con la politica. Il giorno dei funerali di Umberto, alla della tumulazione nella cappella di Villar Perosa, io e Franzo Grande Stevens veniamo a sapere che aveva convocato un consiglio per la domenica, sostanzialmente per farsi eleggere presidente. Chiedemmo spiegazioni. Ci disse che, essendoci il lunedì successivo l'assemblea della Banca d'Italia, voleva andarci nella pienezza dei suoi poteri.

Stava preparando il golpe?
Scambiai uno sguardo di intesa con Franzo, e mi andai a piazzare alla porta della cappella come un sagrestano. Man mano che i parenti dell'Avvocato uscivano, gli sussurravo in un orecchio che dovevamo vederci subito nel mio ufficio la mattina dopo.

E vennero tutti?
Sì, quasi tutti quelli dell'accomandita. Dissi loro: «Qualcuno di voi avrà sentito parlare di corporate governance». Bene, le cose stanno da qua sin qua, io propongo che il successore di Umberto sia Luca di Montezemolo, solo che Morchio non vuole questa soluzione ». Qualcuno mi propose di convincerlo, ma mi chiese anche se avevo una soluzione alternativa.

Così saltò fuori Marchionne?
Giammai. Dissi agli eredi: «Massima fiducia nella vostra discrezione, ma se Morchio accetta poi si viene a sapere che c'era pronto il sostituto». Solo che fu Morchio a non volerne sapere e allora chiamammo Marchionne.

Scusi il salto in avanti repentino, ma non le suscita qualche dubbio la scarsa determinazione con cui l'uomo in maglione tacita le sirene di Ubs che periodicamente lo tentano...
Marchionne è diventata la star non solo in questo Paese. Perciò è ricercato da molti, politici compresi. In più è di una straordinaria generosità d'animo: se lo si coglie quando ha tempo con un problema appassionante lui si mette a studiarlo. Non mi ha stupito che conoscendo da anni i vertici di Ubs abbia definito un suo apporto, ma in una cornice molto precisa.

È vero che la famiglia gli ha dato un mandato a vendere l'Auto?
No, nessun mandato. La famiglia se crede può formulare le sue istanze in sede di accomandita, dove c'è anche John che è vicepresidente della Fiat. Le linee di governance sono rigorose.

A proposito di John: scaduto il mandato di Montezemolo, diventerà anche presidente della Fiat, come da tradizione?
Io rispetto le tradizioni, a patto di collocarle nel giusto quadro storico. La mia opinione è che l'attuale assetto risponda al miglior equilibrio di governance. La famiglia esprime il presidente dell'Ifil, e questi affida la Fiat, che è la sua più importante partecipazione, a dei manager responsabili.

Perché, a differenza di quanto fatto con Paolo Fresco, né Montezemolo né Marchionne sono stati fatti entrare nell'accomandita?
L'accomandita sancisce il principio d'autorità dell'azionista, e che da lì discende alle società a valle. Perciò può non essere opportuno che i controllati siano anche controllanti.

Marchionne dice che per l'Auto è un momento orribile. Meglio affrontarlo unendosi con altri?
A parte che penso sia difficile trovare soluzioni etica e metodo che vige in casa Agnelli. Qui non si è mai sentito fare l'elogio della pirateria, del furbismo, che altrove sono visti come prassi normale.

Quindi non si sente un furbone del quartierone. Le chiedo però se nella fretta di fare un'operazione la cui posta era la presa della famiglia sulla Fiat, ha commesso qualche errore.
Non c'è stato dolo, né credo di aver fatto qualcosa di illegale. L'equity swap, che di per sé suscita tanta riprovazione, era un'operazione conforme alla legge del tempo. Dove sta la presunta infrazione?

In un comunicato reticente, diciamo minimalista, che spiegava poco o nulla.
Se ci fosse stata un'infrazione della legge non ci sarebbe stata accordata l'esenzione dell'Opa. Sta di fatto che la Consob richiese un comunicato mentre io ero in America a letto per una polmonite. Mi mandarono a vedere il testo approvato da Grande Stevens, che al telefono mi disse che il comunicato era corretto alla luce dei rapporti avuti con l'authority. Diedi il via libera, senza mai avere la percezione che sarebbe successo quel che è successo.

La fretta è stata una brutta consigliera. Ma davvero eravate convinti che sulla Fiat si stesse per scatenare un attacco?
La lettera di Ruggero Magnoni della Lehman Brothers offriva alle banche di acquistare le obbligazioni convertende, così loro sarebbero arrivati al 28% di Fiat e noi saremmo scesi al 22. Secondo lei non era un attacco?

Magnoni è un banchiere. E un banchiere, salvo che sia impazzito, non si mette da solo a scalare la Fiat.
Non ho mai saputo chi ci fosse dietro. Ho solo sospetti, ma come tali li tengo per me.

La aiuto. Roberto Colaninno, Carlo De Benedetti, giusto perché quando si scala qualcosa l'Ingegnere viene sempre evocato.
Colaninno l'hovisto ma non mi ha mai fatto cenno di nulla. Carlo ha sempre smentito dicendo: «Figurati se ero io che sulla possibilità che la Fiat si riprendesse non avrei scommesso un euro».

La ribellione di Margherita come la spiega, con la sindrome del quinto dei Beatles?
E chi è il quinto dei Beatles?

Si chiamava Pete Best, è morto qualche mese fa. Fu uno che all'inizio lasciò il gruppo perché convinto che non andasse da nessuna parte.
Sì, è possibile. Mi dicono che la signora de Pahlen vendette perché il suo advisor le disse che le azioni che aveva in mano per come andava la Fiat erano praticamente carta straccia. Ma io, contrariamente a quanto lei sostiene, in quell'accordo non ci misi mai becco.

Margherita pensa che lei abbia accesso ai segreti patrimoniali del padre.
E sì sbaglia, perché l'Avvocato aveva troppo rispetto per il mio ruolo per confondere i piani. Mi ricordo come se la prendeva con i biellesi...

Cosa avevano fatto i biellesi?
Diceva che avevano il "ragionat", al quale per semplicità affidavano e i conti delle aziende e quelli dei loro patrimoni privati. Le dirò che anche alcuni soci della Giovanni Agnelli & C. chiesero in passato che l'accomandita si curasse anche delle loro fortune. Ma io dissi: ci sono banche che lo fanno, non noi. Se la signora de Pahlen pensa che io sia stato il "ragionat" o il maggiordomo di suo padre si sbaglia.

Infatti il maggiordomo era Brunetto.
Esatto. Agnelli aveva un grande rispetto dei ruoli e della professionalità delle persone con cui lavorava.

Non teme che a incoronazione di John avvenuta alcune componenti della famiglia possano non essere più interessate a restare?
Perché visto che lo pensa non mi dice anche chi?

Per esempio la componente che fa capo ad Andrea Agnelli, che oltretutto detiene un cospicuo pacchetto di azioni Fiat.
Con Andrea ho avuto in queste ultime settimane discorsi molto approfonditi e seri, alla luce di quella che potrebbe essere un giorno l'evoluzione della stessa accomandita. L'ho trovato legato al gruppo, con un grande senso di appartenenza forte. Lui poi è per noi un importante azionista, oltretutto l'ultimo che porta il nome Agnelli. Quella di martedì è una incoronazione condivisa da tutta la famiglia.


Paolo Madron per il Sole 24 Ore - 11 Maggio 2008

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Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.
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