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E un giorno in Europa ritornarono gli DEI

Ultimo Aggiornamento: 22/12/2008 20:06
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22/12/2008 20:06

«La letteratura e gli dèi».
MITI
Al tempo della guerra di Troia erano già stati «abbandonati» dagli uomini, ma divennero protagonisti delle grandi opere letterarie.
Seguì un lungo periodo di oblìo, finché vennero riscoperti dai primi romantici
E un giorno in Europa ritornarono gli DEI

Pubblichiamo la prima parte della prima delle otto lezioni che Roberto Calasso ha tenuto all' università di Oxford per la Weidenfeld Chair of European Comparative Literature.
Il titolo generale del ciclo è «La letteratura e gli dèi». Questa prima lezione, che Calasso ha tenuto ieri, è sul tema «La scuola pagana». Gli dèi sono ospiti fuggevoli della letteratura. La attraversano, con la scia dei loro nomi. Ma presto anche la disertano. Ogni volta che lo scrittore accenna una parola, deve riconquistarli. La mercurialità, che preannuncia gli dèi, è anche il segno della loro evanescenza. Non sempre così era stato. Almeno, finché sussisteva una liturgia. Quell' intreccio di gesti e parole, quell' aura di controllata distruzione, quell' uso di certe materie e non di altre: questo appagava gli dèi, finché gli uomini ritennero di volgersi a loro. In seguito rimasero soltanto, come brandelli volanti in un accampamento abbandonato, quelle storie degli dèi che erano il sottinteso di ogni gesto. Strappate dal loro suolo ed esposte alla cruda luce nella vibrazione della parola, potevano anche apparire impudenti e vane. Tutto finisce in storia della letteratura. Così sarebbe piuttosto tedioso e insipido elencare le occasioni in cui gli dèi greci si mostrano nei versi della poesia moderna, a partire dai primi romantici. Quasi tutti i poeti dell' Ottocento, dai più mediocri ai sublimi, hanno scritto qualche lirica dove gli dèi vengono nominati. E lo stesso vale per una larga parte dei poeti del Novecento. Perché? Per le più svariate ragioni: per secolare abitudine scolastica - o magari per sembrare nobili, esotici, pagani, erotici, eruditi. Infine, per la ragione più frequente e tautologica: per sembrare poetici. Che in una lirica venga nominato Apollo o invece una quercia o la schiuma del mare non fa grande differenza, né è molto significativo: sono tutti termini del lessico letterario ugualmente levigati dall' uso. Eppure ci fu un tempo in cui gli dèi non erano innanzitutto una consuetudine letteraria. Ma un evento, una apparizione subitanea, come l' incontro con un bandito o il profilarsi di una nave. E non occorreva neppure che la visione fosse totale. Aiace Oileo riconosce dall' andatura Poseidone camuffato da Calcante, vedendolo camminare da dietro: lo riconosce «dai piedi, dalle gambe». Poiché, per noi, tutto ha inizio con Omero, ci chiediamo allora: come viene nominato, nei suoi versi, questo evento? Quando scoppia la guerra di Troia, già gli dèi frequentano assai meno la terra rispetto a un' età precedente. Solo una generazione prima, Zeus aveva generato Sarpedonte con una mortale. E tutti gli dèi erano discesi sulla terra per le nozze di Peleo e Teti. Ora, Zeus non si mostra più fra gli uomini - e manda altri Olimpi in avanscoperta: Hermes, Atena, Apollo. Vedere gli dèi ormai è diventato difficile. Lo ammette Odisseo, parlando ad Atena: «Arduo, o dea, è riconoscerti, anche per chi molto sa». E l' inno a Demetra ci offre la formulazione più sobria: «Difficili da vedere per gli uomini sono gli dèi». Ogni età primordiale è un' età in cui si dice che gli dèi si sono quasi dileguati. Soltanto a pochi, prescelti dall' arbitrio divino, gli dèi si mostrano: «Non a tutti appaiono gli dèi in piena evidenza, enargeis», ci dice ancora l' Odissea. Enargés è il terminus technicus dell' epifania divina: aggettivo che contiene in sé il bagliore del «bianco», argós, ma finirà per designare una pura indubitabile «evidenza». Quella specie di «evidenza» che poi venne ereditata dalla poesia. Ed è forse il tratto che la differenzia da ogni altra forma. Ma come si manifesta il dio? Nella lingua greca non si dà vocativo per theós, «dio», osservò un illustre linguista, Jakob Wackernagel. Theós ha innanzitutto senso predicativo: designa qualcosa che accade. Un magnifico esempio si trova nella Elena di Euripide: «O theoí. theòs gàr kaì tò gignóskein phílous», «O dèi: è dio il riconoscere gli amati». In questo Kerényi isolava la «specificità greca»: nel «dire di un evento: "E' theós"». E quell' evento che si designa nella parola theós può facilmente diventare Zeus, che è il dio più vasto, onnicomprensivo, il dio che è il rumore di fondo del divino. Così Arato, accingendosi a scrivere dei fenomeni del cosmo, dava al suo poema questo esordio: «Da Zeus sia il nostro inizio, da lui che gli uomini non lasciano mai innominato. Piene di Zeus sono tutte le vie, tutte le piazze degli uomini, pieni il mare e i porti. Tutti noi di Zeus abbiamo bisogno in ogni modo. Infatti siamo una sua stirpe». «Iovis omnia plena», scriverà poi Virgilio. Suona in queste parole la certezza di una presenza che si incontra ovunque nel mondo, nella molteplicità dei suoi eventi, nell' intrecciarsi delle sue forme. E parla anche una profonda familiarità, quasi una certa sprezzatura nel parlare del divino. Che era evidentemente un incontro consueto, atteso, provocato. Mentre la parola átheos, molto più spesso dell' essere increduli verso gli dèi, designava il venir abbandonati dagli dèi stessi, che si sottraevano a ogni commercio con il mortale. Arato scriveva nel quarto secolo prima di Cristo, ma che cosa è accaduto, nella storia successiva, di questa esperienza che per lui era così ovvia, così pervasiva? Che cosa ne ha fatto il tempo? L' ha dissolta, lacerata, sfigurata, vanificata? O si tratta di qualcosa che ancora ci viene incontro, indenne? E dove? Una mattina del 1851, racconta Baudelaire, Parigi si svegliò con la sensazione che fosse successo «un fatto considerevole»: qualcosa di nuovo, qualcosa di «sintomatico», che però si presentava come un qualsiasi fait divers. Nelle teste ronzava con insistenza una parola: rivoluzione. Ora si dava il caso che, a un banchetto commemorativo della rivoluzione del febbraio 1848, un giovane intellettuale avesse proposto un brindisi al dio Pan. «Ma che cosa c' entra il dio Pan con la rivoluzione?» aveva chiesto Baudelaire al giovane intellettuale. «Ma come?», era stata la risposta. «E' il dio Pan che fa la rivoluzione. E' lui la rivoluzione». Baudelaire insisteva: «Allora non è vero che è morto da tanto tempo? Credevo che si fosse sentita planare una grande voce al di sopra del Mediterraneo, e che questa voce misteriosa, che si ripercuoteva dalle colonne d' Ercole sino alle rive dell' Asia, avesse detto al vecchio mondo: IL DIO PAN E' MORTO». Ma il giovane intellettuale non sembrava turbato. Disse: «E' una voce che corre. Sono delle malelingue; ma non c' è niente di vero. No, il dio Pan non è morto! Il dio Pan vive ancora -, continuava alzando gli occhi al cielo con bizzarra tenerezza - ...Tornerà». Baudelaire chiosa: «Stava parlando del dio Pan come del prigioniero di Sant' Elena». Ma il dialogo non era finito, Baudelaire vuole sapere qualcosa di più: «Allora, non sarà forse che siete pagano?». Il giovane intellettuale risponde con tracotanza: «Ma certo; ignorate forse che solo il Paganesimo, se ben inteso, ovviamente, può salvare il mondo? Occorre tornare alle dottrine vere, offuscate, per un istante, dall' infame Galileo. D' altronde, Giunone mi ha gettato uno sguardo favorevole, uno sguardo che mi ha penetrato sino all' anima. Ero triste e melanconico, mentre guardavo il corteo e imploravo con occhi amorosi quella bella divinità, quando uno dei suoi sguardi, benevolo e profondo, è venuto a risollevarmi e incoraggiarmi». Al che Baudelaire aggiunge: «Giunone vi ha gettato uno dei suoi regards de vache, Bôôpis Êré. Questo disgraziato forse è pazzo». L' ultima battuta si rivolge a un anonimo terzo, che partecipava silenziosamente al colloquio e ora sentenzia: «Ma non vedete che si tratta della cerimonia del vitello grasso? Lui guardava tutte quelle donne rosa con occhi pagani, e Ernestine, che lavora all' Hippodrome e recitava nel ruolo di Giunone, gli ha fatto un occhiolino pieno di ricordi, un vero occhio di vacca». A questo punto il dialogo, così altisonante e visionario all' inizio, è diventato puro Offenbach, un frammento di spirito boulevardier che precede di poco l' esistenza stessa dei boulevards. E il giovane intellettuale chiude la conversazione mescolando ancora una volta i toni. «Ernestine quanto le pare», disse il pagano scontento. «Lei cerca di disilludermi. Ma l' effetto morale è stato prodotto lo stesso, e considero quell' occhiata come un buon presagio». Così, con il regard de vache di una Giunone dell' Hippodrome, che era poi un circo vicino all' Arco di Trionfo, bruciato pochi mesi prima, gli dèi dell' Olimpo annunciavano il loro ritorno sulla piazza di Parigi. E, come spesso accade a Parigi, si annunciava come una novità - o almeno come qualcosa che esiste soltanto se accade sotto quel cielo - un evento che già si era manifestato altrove e da molto tempo, per esempio nella Germania di Hölderlin e di Novalis, circa cinquant' anni prima: il risveglio e il ritorno degli dèi. Eppure i parigini avevano avuto il privilegio di essere stati introdotti a quella Germania da una vistosa esploratrice. Quando Madame de Staël aveva cominciato a percorrere le strade tedesche come un cronista che freme per l' impazienza di rivelare qual è il tema caldo del momento, la Germania era la foresta incantata al centro dell' Europa. Le sue fronde, appena stormivano, emettevano gli accordi del pianoforte romantico. Anche se non per l' orecchio di Mme de Staël, che era ricettiva solo per le idee, e sapeva usarle come armi improprie. Viaggiando sotto il vasto cielo di un Paese dove riconosceva con stupore «le tracce di una natura non abitata», la prima impressione che sentì fu di lieve scoramento: «Un non so che di silenzioso nella natura e negli uomini di primo acchito stringe il cuore». Fra la petulanza ferale e ticchettante della società parigina e quella mutezza meditabonda si stendeva una distanza che non era spaziale ma speculativa. La prima singolarità che la cronista osservava era che in terra tedesca «l' impero del gusto e l' arma del ridicolo non esercitano alcuna influenza». Quando gli dèi fossero tornati a manifestarsi in quei luoghi, non sarebbero stati subito corrosi dall' ironia e dal sarcasmo, come a Parigi. Il pericolo, anzi, era che la loro epifania fosse soverchiante. Come accadde a Hölderlin, folgorato da Apollo sulla strada di Bordeaux: «Come si racconta degli eroi, posso dire che Apollo mi ha colpito», scrisse a Böhlendorff. Ma perché Apollo, «colui che colpisce da lontano», si imponesse con tale violenza a un poeta tedesco vagante per la Francia dell' ovest, «costantemente commosso dal fuoco del cielo e dal silenzio degli uomini», e perché «il fuoco del cielo» tornasse a significare qualcosa di terrorizzante e ammaliante, e non già una locuzione esornativa in una pomposa tragédie classique, occorreva che davvero una «rivoluzione» - o piuttosto un possente scuotimento del cielo e della terra - fosse avvenuto. Siamo così ricondotti al giovane intellettuale parigino di cui Baudelaire evidentemente si faceva beffe e che brindava al dio Pan, perché il dio Pan «è la rivoluzione».
E osserviamo che Baudelaire scriveva L' école païenne nel 1852, mentre la lettera di Hölderlin a Böhlendorff è del novembre 1802, esattamente cinquanta anni prima. Ciò di cui Baudelaire ci parla è dunque un caso di parodia involontaria di un' esperienza estrema, quella di Hölderlin nel periodo che precede immediatamente la follia, esperienza che per altro non solo era allora ignorata in Francia ma non era propriamente filtrata neppure in Germania, innanzitutto per il sacro terrore che incuteva. Ma gli eventi sussistono, significano e operano di per sé, anche se non vengono immediatamente percepiti. Per capire come si era arrivati a quel goffo brindisi parigino al dio Pan, occorrerà tornare a Hölderlin sulla strada di Bordeaux. E vi saranno tappe intermedie. La prima ci è offerta dall' unico emissario che la Germania della Romantik avesse consegnato a Parigi: Heinrich Heine. Ed è Baudelaire stesso a commentare il suo dialogo con il giovane intellettuale devoto al dio Pan riferendosi a Heine: «Mi sembra che questo eccesso di paganesimo sia tipico di un uomo che ha letto troppo e letto male Heinrich Heine e la sua letteratura marcia di sentimentalismo materialista». L' asprezza di questi toni indurrebbe a pensare che Baudelaire aborra Heine. Ma è vero il contrario. Di lì a poco lo avrebbe definito «questo incantevole ingegno, che sarebbe un genio se si volgesse più spesso verso il divino». Non solo, ma quando Jules Janin pubblicò, nel 1865, un feuilleton deprecatorio verso Heine, Baudelaire venne preso da «una grande rabbia», come se quell' articolo gli avesse toccato un nervo scoperto. E si lanciò a scrivere una veemente difesa di Heine, poeta - affermava - al quale «la Francia non è in grado di contrapporre alcuno». Ma tutto sarebbe rimasto in quello stato di furibonda ebollizione: «Poi, una volta fatta la cosa, e contento di averla fatta, me la sono tenuta; non l' ho spedita a nessun giornale». Per fortuna però ci sono rimasti gli appunti. Dove spicca innanzitutto una frase che è l' insorpassabile epitaffio su ogni increscioso culto del bonheur: «Je vous plains, monsieur, d' être si facilement heureux». Attaccando Heine, Janin aveva attaccato tutti i poeti «melanconici e beffardi» ai quali Baudelaire sapeva di appartenere. Da qui il tono vibrante, esacerbato della risposta, come di una estrema autodifesa. Se dunque Baudelaire giungeva nella sua ammirazione per Heine a identificarsi con lui, ne consegue che le righe irrispettose dell' École païenne su Heine non rappresentano certo il suo pensiero. E questa è la spia che conferma un sospetto decisivo: Baudelaire aveva scritto l' intero articolo mettendosi dalla parte dei suoi avversari. Dall' inizio alla fine, il pezzo è composto come una beffarda messa in scena. E c' è di più: non solo Baudelaire assume la posizione dei suoi avversari, ma sembra suggerire loro argomenti ben più efficaci e sferzanti di quelli che essi stessi avrebbero mai escogitato contro di lui. Questo illumina soprattutto la sezione finale del pezzo, dopo l' a parte su Heine. Qui subito si ripiomba in Offenbach: «Ritorniamo all' Olimpo. Da qualche tempo ho tutto l' Olimpo alle calcagna, e ne soffro molto; mi cascano gli dèi sulla testa come fossero comignoli. Mi sembra di essere in mezzo a un brutto sogno, come se mi precipitassi nel vuoto e una folla di idoli di legno, di ferro, d' oro e d' argento cadessero insieme a me, mi inseguissero nella caduta, mi urtassero e mi spezzassero la testa e i reni». Questa visione esilarante e sinistra potrebbe essere il galop conclusivo della prima metà dell' Ottocento, che aveva visto non solo gli dèi della Grecia invadere di nuovo la psiche, ma dietro di loro un vasto corteo di idoli dai nomi spesso impronunciabili: la renaissance orientale, filtrata dagli studi dei filologi che traducevano per la prima volta testi capitali, proliferante in forma di statue, rilievi, amuleti nelle vaste cripte dei musei. Finalmente gli idoli tornavano ad assediare l' Europa, e proprio negli anni in cui si elaborava il ricco sottisier del Progresso e della Ragione rischiaratrice. Appare perciò obbedire a un mirabile tempismo scenico il fatto che, a distanza di pochi mesi dall' École païenne, la «Revue des deux mondes» pubblicasse Les dieux en exil di Heine, che ne sono quasi un controcanto. Heine vi spiegava come, prima di tornare a invadere la scena, gli dèi pagani avevano dovuto condurre una lunga vita tormentosa e clandestina da esiliati, «tra le civette e i rospi nei ruderi bui del loro trascorso splendore». Una gran parte di ciò che il mondo chiama oggi «satanico» - aggiungeva - era in origine beatamente pagano. Ma che cosa accade quando gli dèi tornano a mostrarsi nella loro piena malia, quando Venere ancora una volta seduce un mortale, che sarà Tannhäuser? Allora non potremo dire incessu patuit dea e neppure riconosceremo in lei una «nobile quiete», secondo il dettame di Winckelmann. Ma piuttosto Venere ci verrà incontro come una «donna demone, quella diavolessa di donna che, pur con tutta la sua boria olimpica e la magnificenza della sua passione, lascia trasparire tuttavia la dama galante; è una cortigiana celeste e profumata di ambrosia, è una divinità delle camelie, e per così dire una déesse entretenue». La vera notizia del giorno è dunque questa: le divinità dell' Olimpo esistono ancora e agiscono, ma abitano nel demi-monde. Complici come due prestigiatori, Baudelaire e Heine fanno convergere il risveglio degli dèi e la parodia in una commistione irreversibile. E con ciò prefigurano uno stato delle cose al quale ancora oggi apparteniamo.
(1 - continua)

DIZIONARIO


Gli abitanti dell' Olimpo da Afrodite a Zeus AFRODITE:
Dea dell' amore, identificata a Roma con la vecchia divinità Venere. Figlia di Zeus e Dione secondo una tradizione, figlia di Urano secondo un' altra.
APOLLO:
Figlio di Zeus e di Latona, fratello di Artemide. Dio pastorale, legato al sole, alla divinazione oracolare, alla musica e alla poesia. Presiede ai giochi delle Muse sul Parnaso.
ATENA:
Identificata a Roma con Minerva, è figlia di Zeus e di Meti. Presiede alle attività dell' intelletto, in special modo alla filosofia e allo spirito guerriero.
ERA:
Assimilata a Roma con Giunone. Moglie di Zeus, gelosa e vendicatrice, protegge le spose ed è simbolo di fecondità.
HERMES:
Identificato a Roma con Mercurio. Figlio di Zeus e Maia, ha funzione di araldo degli dei. Dio del commercio come del furto, accompagna le anime agli Inferi.
PAN:
Dio dei pastori e delle greggi, mezzo uomo e mezzo animale. E' animato da perenne istinto sessuale.

ZEUS:
Assimilato al Giove dei Romani, è il sovrano dell' Olimpo. Figlio di Crono e di Rea, è considerato potenza universale.

Calasso Roberto

Pagina 35
(4 maggio 2000) - Corriere della Sera

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Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.
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