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Quando il paradiso è in periferia

Ultimo Aggiornamento: 13/05/2010 15:43
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04/06/2009 18:10

Parliamo in immigrazione, di quartieri difficili in modo meno allarmistico del solito.

Un quartiere difficile di Torino raccontato dai giovani immigrati: “Ci sono delinquenti e brutta gente, però qui è bellissimo”

ROCCO MOLITERNI
TORINO

In una rotonda nel mio quartiere c’erano stati i tossici che hanno bruciato una macchina. E io l’ho ripresa col telefonino. Ma questa è una bella zona, non ci sono tanti delinquenti, e a me piace stare qua»: a parlare è il moldavo Nicolaj, tredici anni, maglietta bianca e sguardo furbo, da otto anni in Italia.

Io invece sono andata a casa e ho ripreso mia madre che faceva il cous-cous. Il cous cous è la cosa che mi piace di più perché mi fa sentire ancora in Marocco»: dice Imane, volto magro e velo portato con eleganza fra i capelli scuri. Lei ha 14 anni e da due è nel nostro Paese. «Vivevo in corso Emilia ed era una brutta zona, così abbiamo cambiato quartiere e qui mi trovo meglio», spiega Lilia, 14 anni, nata in Bulgaria. «Il mio quartiere è bello ora che è primavera e ci sono i giardinetti fioriti, però non si incontra tanta bella gente» dice Stefania, 13 anni e i capelli lunghi, torinese, figlia di torinesi. «Io ho fatto un video sul soft-air che è una guerra finta che si gioca nei boschi e ti spari con pallini di plastica», interviene Vincenzo, albanese di 14 anni.

Nicolaj, Imane, Lilia e Vincenzo sono solo alcuni dei «nuovi torinesi» d’una scuola media, la Norberto Bobbio nel cuore di un quartiere di vecchie fabbriche, palazzoni Anni Settanta incollati a casette operaie di inizio Novecento, estremo limite della città verso la campagna e l’autostrada che porta a Milano. E proprio Barriera di Milano è il nome della zona dove il degrado di Tossic Park (le rive della Stura frequentate da spacciatori e tossici) si mescola a un’identità cangiante: accanto ai vecchi torinesi, gli immigrati meridionali hanno lasciato il posto a quelli che vengono dal Marocco, come dalla Cina, dal Perù come dalla Moldavia. Ai ragazzi delle quattro scuole medie del quartiere l’Associazione Barriera ha pensato di mettere in mano un telefonino o una penna, perché raccontassero con le immagini e con le parole come vedono il mondo in cui vivono. Ne è nata, complici la Compagnia di San Paolo e l’Accademia di Belle Arti una mostra, «Barriera Mobile», che è un puzzle di sensazioni, colori e immagini: il quartiere centrifugato attraverso l’occhio dei ragazzi.

Colpisce la voglia e l’entusiasmo con cui i «nuovi torinesi» hanno colto l’occasione di raccontare la loro esperienza di vita. Un’urgenza che i ragazzi italiani non sembrano sentire nella stessa misura: se gli stranieri hanno sentito la necessità di esprimersi, aggredendo e rielaborando, con i mezzi messi a loro disposizione, la realtà che li circonda e le loro «radici», gli italiani non hanno mostrato le stesso entusiasmo e la stessa voglia di esprimersi. «I ragazzi immigrati - conferma Emanuele Catellani, che ha curato la mostra - sono stati più reattivi, ma è comprensibile: vivono a metà tra due culture, quella del Paese d’origine e quella della città che li ha accolti. Sentono più forti le radici e hanno quindi più voglia di raccontare quella che sentono come un’esperienza unica».

Per non disperdere queste testimonianze in mille rivoli, quelli di Barriera hanno pensato di farle ruotare intorno ad alcuni cardini. «Filo conduttore del lavoro - spiega Edoardo Cinalli, anima del rapporto con gli studenti e compositore delle musiche che danno il ritmo alle immagini - sono stati alcuni temi, molto ampi: l’amicizia, l’origine, il paradiso». I ragazzi hanno scelto angoli lungo il fiume, dove tra la spazzatura e i rifiuti ci si esercita con lo skate, ma anche l’oratorio salesiano Michele Rua, dove magari si sta sulle scale a scambiarsi una birra. C’è chi si è fermato davanti a un semaforo e ha ripreso i vecchi della zona, chi invece si è messo a ballare la tectonic, che è la danza del momento tra gli adolescenti. Ci sono macchine parcheggiate e giardinetti dedicati a Peppino Impastato (la politicizzazione è un retaggio di quando il quartiere era una delle roccaforti «rosse» della città: qui il Pci negli anni d’oro aveva percentuali bulgare), dove magari, come diceva Nicolaj, «è bello stare con gli amici». Qualcuno ha ripreso i muri delle fabbriche, qualcun altro le insegne dei negozi, c’è chi ha inseguito i piccioni sulla strada e chi semplicemente l’asfalto lucido dopo la pioggia. Ne esce un ritratto dove anche il degrado è in qualche modo metabolizzato: c’è più affetto che paura nei loro sguardi. «Ma la paura è un sentimento che provano più i genitori che non i ragazzi - spiega Carola Garosci, preside della Scuola Bobbio. Davanti a figli in un età difficile, molti cercano di dissuaderli a stare in strada ed enfatizzano il problema della sicurezza».

«Il paradiso per me sono le montagne e vorrei vivere in un mondo bianco come la neve» ha scritto una ragazzina bulgara. «Se ci mettiamo d’impegno, possiamo fare il paradiso ogni momento» scrive un altro. «Io mi immagino un paradiso free-style», scrive un altro ancora. E le definizioni del Paese d’origine, per molti una sorta di paradiso perduto, campeggiano su un muro della mostra: «felice», «diverso», «mio», «verde». Una lunga catena di lampadine luminose su una grande pianta del quartiere segna i percorsi che si fanno per andare da una all’altra delle quattro scuole coinvolte nel progetto: scopri che occorre un serpente sinuoso per dribblare ora le torri della Falchera (il quartiere modello Ina-Casa degli Anni 50) ora lo stabilimento dove la Fiat costruiva camion e trattori, ora il Tossik Park.

Con le foto di decine di facce (c’è ovviamente chi ha gli occhi a mandorla e chi la pelle nera) hanno montato quattro volti alla Frankestein, in cui la bocca è di uno e lo zigomo di un altro. E il risultato finale è un mix di dolcezza e inquietudine, forse metafora del vivere nel loro quartiere ma anche della loro adolescenza. Sembra quasi arte africana invece la microgalleria dei volti dipinti in un altro video assemblato dall’artista torinese Chiara Pirito. L’originale è nell’atrio della scuola Bobbio. «Il venti per cento dei nostri allievi - dice ancora la preside - è di origine straniera. Sono molto intelligenti e non c’è bisogno di insegnanti di sostegno: hanno imparato velocemente l’italiano anche se in casa quasi tutti parlano ancora la lingua d’origine». Il grande filosofo può essere contento di aver lasciato il nome a questa scuola.

Fonte la stampa

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Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo.

(Voltaire)

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<-- IO -->

I videogiochi non influenzano i bambini. Voglio dire, se Pac Man avesse influenzato la nostra generazione ora staremmo tutti saltando in sale scure, masticando pillole magiche e ascoltando musica elettronica ripetitiva."
(Kristian Wilson, Nintendo Inc., 1989)

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04/06/2009 19:56

Re: Parliamo in immigrazione, di quartieri difficili in modo meno allarmistico del solito.
Arjuna, 04/06/2009 18.10:


... Ma questa è una bella zona, non ci sono tanti delinquenti, e a me piace stare qua»: a parlare è il moldavo Nicolaj, tredici anni, maglietta bianca e sguardo furbo, da otto anni in Italia.

Io invece sono andata a casa e ho ripreso mia madre che faceva il cous-cous. ... Lei ha 14 anni e da due è nel nostro Paese. «Vivevo in corso Emilia ed era una brutta zona, così abbiamo cambiato quartiere e qui mi trovo meglio», spiega Lilia, 14 anni, nata in Bulgaria. ...

Colpisce la voglia e l’entusiasmo con cui i «nuovi torinesi» hanno colto l’occasione di raccontare la loro esperienza di vita. Un’urgenza che i ragazzi italiani non sembrano sentire nella stessa misura: se gli stranieri hanno sentito la necessità di esprimersi, aggredendo e rielaborando, con i mezzi messi a loro disposizione, la realtà che li circonda e le loro «radici», gli italiani non hanno mostrato le stesso entusiasmo e la stessa voglia di esprimersi. «I ragazzi immigrati - conferma Emanuele Catellani, che ha curato la mostra - sono stati più reattivi, ma è comprensibile: vivono a metà tra due culture, quella del Paese d’origine e quella della città che li ha accolti. Sentono più forti le radici e hanno quindi più voglia di raccontare quella che sentono come un’esperienza unica».

Per non disperdere queste testimonianze in mille rivoli, quelli di Barriera hanno pensato di farle ruotare intorno ad alcuni cardini. «Filo conduttore del lavoro - spiega Edoardo Cinalli, anima del rapporto con gli studenti e compositore delle musiche che danno il ritmo alle immagini - sono stati alcuni temi, molto ampi: l’amicizia, l’origine, il paradiso». I ragazzi hanno scelto angoli lungo il fiume, dove tra la spazzatura e i rifiuti ci si esercita con lo skate, ma anche l’oratorio salesiano Michele Rua, dove magari si sta sulle scale a scambiarsi una birra. C’è chi si è fermato davanti a un semaforo e ha ripreso i vecchi della zona, chi invece si è messo a ballare la tectonic, che è la danza del momento tra gli adolescenti. Ci sono macchine parcheggiate e giardinetti dedicati a Peppino Impastato (la politicizzazione è un retaggio di quando il quartiere era una delle roccaforti «rosse» della città: qui il Pci negli anni d’oro aveva percentuali bulgare), dove magari, come diceva Nicolaj, «è bello stare con gli amici». Qualcuno ha ripreso i muri delle fabbriche, qualcun altro le insegne dei negozi, c’è chi ha inseguito i piccioni sulla strada e chi semplicemente l’asfalto lucido dopo la pioggia. Ne esce un ritratto dove anche il degrado è in qualche modo metabolizzato: c’è più affetto che paura nei loro sguardi. «Ma la paura è un sentimento che provano più i genitori che non i ragazzi - spiega Carola Garosci, preside della Scuola Bobbio. Davanti a figli in un età difficile, molti cercano di dissuaderli a stare in strada ed enfatizzano il problema della sicurezza».

«Il paradiso per me sono le montagne e vorrei vivere in un mondo bianco come la neve» ha scritto una ragazzina bulgara. «Se ci mettiamo d’impegno, possiamo fare il paradiso ogni momento» scrive un altro. «Io mi immagino un paradiso free-style», scrive un altro ancora. E le definizioni del Paese d’origine, per molti una sorta di paradiso perduto, campeggiano su un muro della mostra: «felice», «diverso», «mio», «verde». Una lunga catena di lampadine luminose su una grande pianta del quartiere segna i percorsi che si fanno per andare da una all’altra delle quattro scuole coinvolte nel progetto: scopri che occorre un serpente sinuoso per dribblare ora le torri della Falchera (il quartiere modello Ina-Casa degli Anni 50) ora lo stabilimento dove la Fiat costruiva camion e trattori, ora il Tossik Park.

Con le foto di decine di facce (c’è ovviamente chi ha gli occhi a mandorla e chi la pelle nera) hanno montato quattro volti alla Frankestein, in cui la bocca è di uno e lo zigomo di un altro. E il risultato finale è un mix di dolcezza e inquietudine, forse metafora del vivere nel loro quartiere ma anche della loro adolescenza. Sembra quasi arte africana invece la microgalleria dei volti dipinti in un altro video assemblato dall’artista torinese Chiara Pirito. L’originale è nell’atrio della scuola Bobbio. «Il venti per cento dei nostri allievi - dice ancora la preside - è di origine straniera. Sono molto intelligenti e non c’è bisogno di insegnanti di sostegno: hanno imparato velocemente l’italiano anche se in casa quasi tutti parlano ancora la lingua d’origine». Il grande filosofo può essere contento di aver lasciato il nome a questa scuola.

Fonte la stampa




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13/05/2010 15:43

Riace, dove l'integrazione è ora un sogno possibile

Nella stessa Calabria di Rosarno la solidarietà riporta un paese alla vita
GUIDO RUOTOLO
RIACE

Riace è quell’imprevisto che ti costringe a rimettere in discussione delle certezze. Del resto è successo a un famoso e illustre maestro della macchina da presa, Wim Wenders, che era venuto da queste parti per raccontare un’esperienza di solidarietà con gli immigrati, a Badolato. Un film con Ben Gazzara nella parte di un sindaco. Poi è accaduto che una comparsa, un attore, un ragazzino afghano, sulla spiaggia di Scilla, partecipando alla scena di uno dei tanti sbarchi di clandestini, si è rivolto al regista: «E’ molto bello quello che stai facendo. Ma io sono venuto qui per te. Se sei una persona seria, devi venire a Riace, al mio paese».

Racconta il regista: «Il Volo non poteva essere solo un film di fiction, con attori - grandi e piccoli - a prendersi tutta la scena. Era necessario che la fiction indietreggiasse per far posto alla realtà. Come posso fare un film sui rifugiati senza coinvolgerli in prima persona?». Ecco, come possiamo continuare a parlare di clandestini, rifugiati, politiche di accoglienza o inviti all’esclusione senza sentirli respirare, senza ascoltare le loro emozioni, i sogni, i problemi della loro vita quotidiana di emigranti? Questi sono giorni di blitz contro i caporali sfruttatori di immigrati e gli squadroni della ’ndrangheta di Rosarno. E Riace, a un centinaio di chilometri a Nord di Reggio, sulla costa ionica, è un bel respiro profondo e una presa di distanza da tutto questo senso di morte. Qui si sperimenta una solidarietà concreta con il contributo del ministero dell’Interno.

Riace sta in quella rete di enti locali (duecento) che fanno parte del «Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati» (Sprar), di quel programma di reinsediamento dei rifugiati. In tempi di leggi «ad escludendum», di rancori e dispetti contro gli stranieri extracomunitari, questa è una esperienza da preservare gelosamente. Riace è una comunità - «di 200 nuovi cittadini» dice il sindaco Mimmo Lucano - di 110 palestinesi del campo profughi di Al Tanaf, tra l’Iraq e la Siria, terra di nessuno. E poi di curdi, afghani, eritrei, serbi rom che sta ripopolando un paese arroccato nell’entroterra e destinato a un lento e inesorabile abbandono. Mimmo il sindaco è un entusiasta. Sembra un ragazzino felice di poter raccontare la sua avventura. Parla di loro, della comunità di stranieri accolta qui, del fatto che grazie a loro Riace è tornata a crescere e adesso sfiora le duemila anime («ma a Santena, Torino, ci sono più riacesi che a Riace»).

Parla di loro come di una grazia ricevuta. Attenzione, Mimmo avverte molto una «crisi identitaria» delle comunità «agropastorali» della fascia ionica. Denuncia le speculazioni degli Anni 80 e 90 lungo il litorale, quando appunto le comunità locali pensavano di traslocare sul mare, di sviluppare una vocazione turistica e residenziale, avendo a modello le varie Rimini e Riccione. E dunque per lui l’ospitalità agli stranieri non è solo un fatto di civiltà, ma è una necessità per poter far vivere la sua Riace. Comunque, per farla breve, il nuovo inizio di Riace, Badolato, Caulonia ha una data precisa. No, non il 18 agosto del 1972 quando furono ritrovati in mare i famosi Bronzi di Riace. No, ma il primo luglio del ’98, quando si spiaggiò una nave con 300 curdi iracheni e turchi. Si comincia a praticare una solidarietà militante.

«Erano gli anni di Ocalan - ricorda il sindaco - e molti curdi sbarcati sulle nostre coste erano militanti del Pkk. Divento sindaco di Riace nel 2004. Con loro, con i rifugiati, inizia una nuova primavera del paese: riaprono vecchie botteghe, si mette in moto un turismo solidale, le scuole si ripopolano». Squilla il telefono del Comune di Riace. E’ una studentessa che chiama dalla Germania, per la sua tesi di laurea, vuole venire a Riace e chiede un appuntamento al sindaco. Dunque, il Programma nazionale di aiuto ai richiedenti asilo prevede una quota di 16 euro (adesso 20) pro capite al giorno (commenta il sindaco: «A noi 20 euro, per i Cie 80, 100 euro»). Lucano non si scoraggia: vitto, alloggio, scolarizzazione, spese mediche. Il Comune non dichiara bancarotta. «Vuole conoscere i risultati: questa economia dell’accoglienza produce lavoro, attività, progetti. Oggi 43 rifugiati lavorano nei laboratori, nelle scuole, alla mensa».

Il centro antico di Riace. La scuola, l’asilo: 30 bambini, 12 stranieri. Akim e Sonia, afghani, senza genitori. C’è la bimba serba ed eritrea. Il ristorante «Taverna Donna Rosa». Venti giorni prima delle elezioni del 2009 (la giunta del sindaco riconfermata). La vetrata della porta d’ingresso: due fori di proiettili. Due cani randagi adottati dal figlio del sindaco vengono ritrovati avvelenati. Morti. E Riace come reagisce? Murales sul muro del ristorante: «Cuntru a ’ndrangheta ndì tingimu i mani». Contro la ’ndrangheta ci sporchiamo le mani. Quel vetro è un’opera d’arte: impronte colorate di mani. Dal portone dell’Associazione Città Futura (dove si svolgono corsi per imparare l’italiano) esce un omone. E’ senza una gamba. E’ un uomo afghano, con un paio di buste per la spesa piene, che porta senza rinunciare a imbracciare le stampelle. «Ero al Centro di Gradisca - dice - sono qui da due mesi con i miei sei figli».

Nisia la serba arriva da Bolzano. C’è una ragazza con il velo. Al telaio del laboratorio di tessitura c’è Mona, palestinese. Una donna etiope a quello di ceramica. C’è Shuri che ha 23 anni. In un basso di una stradina, una madonna nera, con un vestito colorato. E’ seduta sul gradino di una casa, ha un cellulare in mano. Nella penombra una vecchia di Riace ha in braccio il bambino della ragazza. Una scena bellissima.

Fonte

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