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Liberismo da Reagan a Began

Ultimo Aggiornamento: 24/09/2014 20:32
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Bilancio degli ultimi 15 anni

Silvio Berlusconi, da Reagan a Began (Sabrina)

Silvio Berlusconi, da Reagan a Began (Sabrina)

di BENEDETTO DELLA VEDOVA e LUCIO SCUDIERO -.

Libertiamo.it ha aderito all’iniziativa lanciata dall’aggregatore di blog Tocqueville.it: un appello – supportato da una raccolta di firme online – per invitare i comuni italiani ad intitolare una via o una piazza al presidente statunitense Ronald Reagan, a cento anni dalla sua nascita e a trenta dall’inizio della sua presidenza. L’iniziativa è stata presentata quest’oggi alla Camera con una conferenza stampa a cui hanno partecipato i deputati Benedetto Della Vedova e Antonio Martino,  Andrea Mancia e Umberto Mucci di Tocqueville.it e i direttori de Loccidentale.it e Libertiamo.it, Giancarlo Loquenzi e Carmelo Palma.

Per celebrare la nascita di Reagan  oggi pubblichiamo l’articolo scritto da Benedetto Della Vedova e Lucio Scudiero per il bimestrale Charta Minuta della Fondazione Farefuturo, pubblicato a dicembre 2010. Il titolo originale era “Alla ricerca della rivoluzione liberale interrotta

Nel 1980 Ronald Wilson Reagan, candidato del Partito Repubblicano americano alla carica di presidente degli Stati Uniti, durante uno dei dibattiti televisivi a cui stava prendendo parte, rivolse la seguente domanda ai telespettatori: “ State meglio oggi, o quattro anni fa?” .

Gli elettori risposero eleggendolo alla Casa Bianca, dando il benservito a Jimmy Carter, che sarebbe diventato l’ultimo dinasta del “mondo antico” pre-reaganiano, quello in cui Government  si scriveva con la “G” maiuscola e liberty era una conseguenza della sua espansione.

4 anni dopo, nel 1984, Reagan rivolse ancora, di nuovo in tivù, la stessa domanda agli americani, i quali risposero riconfermandolo alla guida del Paese. La missione era compiuta. Gli Stati Uniti avevano sterzato.

Quell’esperienza, che si concluderà al termine del suo secondo mandato scaduto nel 1988 impose alla politica occidentale una nuova carta dei valori e un nuovo linguaggio di riferimento. Esattamente in quella scia prometteva di inserirsi Silvio Berlusconi, con la sua discesa in campo, di cui tutti apprezzammo il coraggio visionario individuandolo come colui che poteva raccogliere il testimone di quel revirement culturale avvenuto nella destra anglofona (accanto a Reagan, forse sopra di lui, c’era  infatti Margareth Tatcher).

Per misurare il livello di aderenza della nostra esperienza politica a quella appena menzionata, dovremmo porre agli italiani la domanda che Reagan rivolse due volte ai suoi concittadini: “State meglio oggi, o 15 anni fa?”. Ma questo ci porterebbe fuori tema… Resta il dato che il valore di quelle idee è stato incontrovertibilmente dimostrato per decenni dai risultati prodotti negli States (e in Gran Bretagna).

“Lo Stato non è la soluzione del nostro problema, lo Stato è il problema”

L’ascesa di Ronald Reagan alla Casa Bianca si innestò nella discussione sul ruolo dello Stato che aveva investito la società americana negli anni immediatamente precedenti.

Già durante tutti gli anni '70, infatti, gli USA avevano sperimentato una congiuntura politico economica che aveva sedimentato nell’opinione pubblica le premesse per la diffusione del libertarismo. Ronald Reagan, che prima di diventare presidente aveva governato la California per due mandati (dal ’66 al ’74), aveva contribuito, con i suoi accenti marcatamente libertari, a tenere alta la temperatura della riflessione pubblica su tasse, welfare e ruolo dell’America nel mondo.

A preparare il terreno contribuirono un’inflazione che nel dispiegarsi del decennio 1970 – 1980 aveva galoppato in doppia cifra, i fallimenti militari e di politica estera delle amministrazioni che dal ’60 si erano avvicendate alla guida della Federazione, e l’ingresso degli Stati Uniti, nel ’79, nel tunnel della recessione economica.

L’incapacità del Governo di guidare e pianificare l’economia era già apparsa in tutta la sua evidenza al volgere del primo lustro degli anni ’70. Da un lato, infatti, era miseramente fallito il piano di Nixon per controllare salari e prezzi. Dall’altro, invece, l’imprevedibilità dell’economia aveva assestato una sberla micidiale al canone della teoria keynesiana: iniezioni di spesa pubblica anticiclica durante le fasi recessive, politiche fiscali restrittive durante i boom inflazionari. Siccome recessione e inflazione, in quegli anni, camminavano a braccetto, Keynes e i suoi epigoni brancolavano nel buio.

La gente no, e infatti si era diffuso un sentimento antitasse di vasta portata che aveva condotto nel settantotto a quello che fu il momento più esaltante e genuino del libertarismo americano: l’approvazione referendaria della famigerata Preposition 13, che introdusse nella costituzione della California (reduce dai due mandati a guida Reagan) un cap all’imposizione tributaria sulle proprietà immobiliari e all’aumento della pressione fiscale e delle spesa pubblica in quello Stato.

Un’esperienza di cui Reagan fece tesoro durante tutta la sua vita politica di lì in poi, che impegnò perché il “peso dello Stato scendesse dalle spalle degli americani ”, in parte riuscendoci, sicuramente provocando uno scarto della politica successiva.

Questa temperie di eventi, nella quale si era inserita l’elaborazione culturale dei Chicago Boys, su tutti Milton Friedman, aveva dunque determinato l’eruzione spontanea, nella base della popolazione, di un sentimento libertario.

Da questo trasse spunto Murray Rothbard, fondatore della corrente anarco-capitalista della Scuola Austriaca d’economia,  per scrivere pagine memorabili ed infuocate contro la politica condotta dalla presidenza Reagan. Lo accusava di aver distrutto il riflesso popolare antistatalista emerso negli Stati Uniti durante gli anni ’70, di avere mancato ciascuna e tutte le promesse di riduzione del peso dello Stato, né tagliando le imposte né frenando la spesa, che nei suoi anni al potere era passata da 591 a 990 miliardi di dollari, e di avere, per giunta, collezionato una serie di scelte sbagliate in politica estera:  “la cosa migliore fatta da Reagan – scriveva sarcasticamente il filosofo – è stata quella di non aver dato inizio alla Terza Guerra Mondiale”.

Valeva la pena menzionare questa critica per due ragioni. In primis, perché è divertente e curioso che mentre mezzo mondo ha accusato quella presidenza di eccessivo liberismo e di avere creato le premesse di tutte le crisi economiche successive, compresa l’attuale, Rothbard contestava Reagan per i motivi opposti, bollandolo come un il più grande “bluff” nella storia del liberalismo.

Ma – e qui sta la seconda ragione – è utile sottolineare i limiti più o meni manifesti di quell’esperienza liberale, per sottolineare che essa è definitivamente consegnata ad una dimensione di critica e analisi svincolata dalla contingenza.

Infatti, nonostante tutto, nonostante gli insuccessi in questa o in quell’azione di governo, nonostante le accuse di impurità liberale da una parte e di criminalità “sociale” dall’altra, Reagan dimostrò al mondo che la libertà e lo Stato minimo esercitavano ancora un appeal irresistibile nei confronti del suo paese, che alla fine della sua permanenza alla Casa Bianca era rinvigorito e fiducioso nel proprio futuro.

Il suo ciclo si concludeva con un salto di paradigma, e quelli venuti dopo di lui trovarono un paese migliore e un migliore livello di discussione pubblica con cui confrontarsi.

Italia, 6 anni dopo

La forza dirompente di questo nuovo paradigma si è conservata nel tempo e nello spazio. In Italia è un merito indiscusso del Berlusconi della prima ora l’aver introdotto nel dibattito pubblico la questione fiscale. Prima di lui, le tasse erano una variabile indipendente dell’economia, la firma autografa della politica in calce al patto consociativo di quella Prima Repubblica che aveva prodotto uno dei debiti pubblici più spaventosi al mondo.  Dopo di lui, la pressione fiscale avrebbe assunto i connotati che più le si addicono, quelli di rilevatore dell’invadenza dei pubblici poteri nella vita privata dei cittadini.

Ma al di là della nuova epistemologia economica e fiscale, il portato più consistente, maturo e compiuto di quella fase della politica americana è stato, per la destra italiana, di natura metodologica, ed è consistito nella sostituzione dell’ideologia con la prasseologia. Questo mutamento ha inciso il dna del nostro centro destra anche grazie all’apertura lungimirante di quella sua parte che dall’abbandono del retroterra ideologico aveva più da rischiare, cioè l’ex Msi. Perciò, se a Berlusconi va riconosciuto un pezzo del merito per aver tradotto il vocabolario della Reagonomics nel nostro Paese, a Fini, per usare un termine noto alla pubblicistica italiana, va il merito di aver “sdoganato” fin da Fiuggi l’idea di una destra possibile oltre l’ideologia del passato e oltre l’agnosticismo funzionale di quella fase di transizione.

Ciò, per la prima volta nella storia della Repubblica, ha reso possibile al centro destra italiano il raggiungimento di due obiettivi: legittimarsi come area politica autonoma iscritta in una traduzione – inedita per l’Italia – del liberalconservatorismo ; quindi, di conseguenza, arrivare al Governo in un contesto sostanzialmente bipolare.

Il primo, in effetti, rappresenta ancora oggi un obiettivo mobile, nel senso che è un approdo ancora malfermo di un processo di avvicinamento durato gli ultimi quindici anni e non ancora concluso. Se da un lato, infatti, è stato possibile ribaltare sul centro sinistra quel sentimento di minorità culturale che aveva attanagliato la metà non comunista dell’arco politico nazionale durante la Prima Repubblica, dall’altro però il fallimento del Popolo delle Libertà impedisce ancora di ritenere maturo e compiuto il disegno del nuovo centro destra italiano.

Ma è sul piano del Governo che si consuma tuttora lo scarto maggiore tra le premesse e i risultati di quella che doveva essere, anche per l’Italia, una stagione di riformismo autenticamente liberale.

La Rivoluzione Liberale, l’incompiuta di cui l’Italia ha ancora bisogno

In questa fase di crisi economica internazionale, accompagnata come tutte da una richiesta di maggiore intervento pubblico in risposta al “presunto” fallimento del mercato, è difficile, ma proprio per questo più giusto e più utile, continuare a sostenere le ragioni della superiorità del mercato come mezzo di creazione e distribuzione di ricchezza e della riduzione del peso dello Stato nella vita civile ed economica del Paese.  La comprensione del liberalismo (e del liberismo, che da esso non può esser scisso) è contro intuitiva, e necessita di attenzione intellettuale e attitudine all’analisi. Su larga scala, dunque, è molto facile che la propaganda prevalga nel descrivere come inique e socialmente indesiderabili le conseguenze di un approccio che vi si ispiri. Ciò è accaduto anche con la crisi economica in corso, presentata come l’effetto collaterale di anni di liberismo “selvaggio”, deregolamentazione, e arretramento dello Stato. In breve, oggi saremmo in crisi per colpa di Reagan. Ovviamente non è così, casomai è vero l’inverso.

Per stare all’Italia, c’è un filo di continuità che lega gli ultimi tre lustri della sua vita politica: la rivoluzione liberale mancata. Quando “Reagan” arrivò nel nostro paese attraverso la “rottura”di Silvio Berlusconi, eravamo nel pieno di una crisi sistemica, che coinvolgeva l’economia tanto quanto la politica. Sul primo versante, il 1992 era stato l’anno di un potente attacco speculativo alla lira, che fu allo stesso tempo una conseguenza e una cartina al tornasole dell’insostenibilità del nostro debito pubblico, prodotto da politiche miopi che per decenni avevano scaricato sulle generazioni future il prezzo di spese presenti. Sul secondo versante, quello politico, la crisi deflagrò l’anno successivo con Tangentopoli, che fu la risposta virulenta e demolitrice di un potere dello Stato, la magistratura, alla corruzione sistemica in cui viveva un altro potere dello Stato. Si trattava, allora come oggi, di una corruzione ingenerata dall’opacità che accompagna la gestione di una spesa pubblica carsica e pervasiva.

Perciò, se fu possibile uscire dal primo tunnel, quello monetario e macroeconomico, agganciando con grandi sacrifici il Paese al primo treno per l’Europa, non siamo ancora usciti dal secondo, quello politico. E soprattutto, con la crisi economica degli ultimi due anni, è risultato evidente che le tare strutturali del tessuto produttivo ed economico italiano sono ancora quelle del biennio ‘92-‘94: crescita economica asfittica causata da una produttività bassa, pressione fiscale alta e incidenza sproporzionata della spesa pubblica sul Pil.

Nel corso degli ultimi 15 anni è stata prodotta un’unica riforma di struttura, peraltro anch’essa incompiuta: quella del mercato del lavoro, con la legge Biagi, che ha agito sul lato degli effetti, cioè sulla struttura di un mercato del lavoro rigido e inefficiente, senza incidere sulle cause, che restano la rigidità insostenibile dei contratti standard (articolo 18 e non solo).

Nel contempo, la pressione fiscale non si è ridotta, ma è anzi aumentata, fino al 43,2% del Pil nel 2009; la spesa pubblica comprensiva degli interessi passivi sul debito, nello stesso anno, ha superato la metà del Prodotto Interno Lordo; siamo il Paese europeo con la più alta tassazione sul lavoro, con le tasse e i contributi sociali che pesano il 44% della busta paga.

Questi dati dimostrano che se da un lato la retorica reaganiana ha sicuramente segnato la cultura politica e la politica italiana, dall’altro ad essa non ha fatto seguito un’azione di governo che incidesse sul piano della reale trasformazione del Paese.

Nella sua infinita transizione il nostro centro destra deve dunque compiere due salti in uno: assimilare definitivamente una lezione politica, quella di Reagan, di cui ha recepito solo la parte propagandistica, e poi superarla, allineandosi alle esperienze contemporanee della destra europea e statunitense, che di Reagan sono figli ormai maggiorenni.

http://www.libertiamo.it/2011/02/07/silvio-berlusconi-da-reagan-a-began-sabrina/

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Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.
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08/02/2011 17:08

dunque, stiamo meglio adesso o nel '93 ?? difficile rispondere, ci provo ... [SM=x44473]

nel '93 il lavoro precario era l' eccezione e non la regola, gli elettori potevano scegliere chi mandare in parlamento, a livello storico la resistenza era vista come un qualcosa di cui vantarsi, per quanto corrotta l' italia era vista molto meglio all' estero rispetto ad oggi .. quindi .. direi per carita' di patria di fermarmi qui' e di preferire l' italia del '93 rispetto al puttanaio di oggi [SM=x44458]
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24/09/2014 20:30

sperminator, 08/02/2011 17:08:

dunque, stiamo meglio adesso o nel '93 ?? difficile rispondere, ci provo ... [SM=x44473]

nel '93 il lavoro precario era l' eccezione e non la regola, gli elettori potevano scegliere chi mandare in parlamento, a livello storico la resistenza era vista come un qualcosa di cui vantarsi, per quanto corrotta l' italia era vista molto meglio all' estero rispetto ad oggi .. quindi .. direi per carita' di patria di fermarmi qui' e di preferire l' italia del '93 rispetto al puttanaio di oggi [SM=x44458]



Ti faccio notare che le preferenze sono state abolite nel 1993 dalla Legge Mattarellum (che creò anche lo sbarramento al 4% e le liste bloccate nella quota proporzionale: in un certo senso, il Porcellum è figlio di questa quota proporzionale), cioè PRIMA della discesa in campo di Berlusconi: inoltre, in una intervista rilasciata a Bruno Vespa, dopo le elezioni del 2001 Franco Marini (esponente di spicco del mondo cattolico di sinistra, in seguito Presidente del Senato nel 2006-08 sotto le bandiere di Prodi) disse che "con il maggioritario i cittadini pensano di poter scegliere liberamente i parlamentari. In realtà sono io, come dirigente di partito, a scegliere: i collegi si dividono in tre categorie. Quelli sicuri per il Polo, quelli sicuri per l'Ulivo e quelli incerti: secondo voi perchè i miei fedelissimi sono stati tutti eletti? Forse perchè li ho piazzati nei collegi sicuri per l'Ulivo invece che metterli nei collegi incerti? Eh, già..." e quindi il vero problema risale al 1991 (con il referendum che ha abolito la preferenza multipla, ma a quel tempo bisognava fermare "il mercato delle vacche" riducendo il meccanismo delle preferenze). In ogni caso, preferenze o collegi, il problema vero non è il sistema elettorale, ma la classe politica: possiamo avere il miglior sistema elettorale dell'universo, ma se poi vengono eletti dei cialtroni... le preferenze hanno premiato gente come Franco Fiorito (ma prima del 2012 nessuno sapeva che era un delinquente) alle Regionali del Lazio nel 2005 e nel 2010, quindi siamo ancora da punto a capo!
[Modificato da Robert - W la... foiga! 24/09/2014 20:32]

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