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Palermo ricorda la strage di Capaci

Ultimo Aggiornamento: 24/05/2010 14:47
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24/05/2010 14:46

Napolitano: "Sostegno alle indagini"

Sbarcano le navi della legalità
Grasso: «Non solo la mafia voleva uccidere Falcone»
PALERMO

Per comprendere come il 23 maggio a Palermo, così come nel resto del Paese, non sia un giorno qualsiasi, basta osservare l’ingresso dell’aula bunker del carcere Ucciardone. Oltre tremila studenti arrivati da tutta Italia a bordo delle due navi della Legalità, ribattezzate «Giovanni» e «Paolo», accompagnati dai propri insegnanti, si sono incontrati poco dopo le nove del mattino, per stringersi nel ricordo commosso del 18 anniversario della strage di Capaci. La data di quell’attentato mafioso, che costò la vita al giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e ai tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, rapresenta dunque un momento di riflessione cui i giovani hanno dimostrato ancora una volta di non voler rinunciare.

Ma soprattutto testimonia come quel sacrificio non sia stato vano. Aperto con la lettura di un messaggio inviato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ha ribadito il «sostegno alle indagini che cercano di chiarire gli aspetti ancora oscuri delle stragi», l’incontro ha visto la partecipazione di alcuni dei più alti rappresentanti dello Stato e della magistratura. Dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, che ha anche deposto una corona di fiori sul logo dell’eccidio, al Guardasigilli Angelino Alfano, al ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini e il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Da tutti, l’appello rivolto ai giovani è stato quello alla coesione contro un nemico comune: la mafia.

«Non esiste impegno difficile che non necessiti di partecipazione o coesione - ha detto Roberto Maroni. C`è più sicurezza insieme. Quelli di Falcone e Borsellino sono due esempi di coraggio e determinazione, grazie ai quali oggi, noi possiamo cogliere frutti preziosi nella lotta alla mafia». Un messaggio, quello di Maroni cui hanno fatto eco le parole del ministro Alfano, che ha sottolineato come i mafiosi siano «uomini senza onore e senza dignità». «Riappropriamoci - ha detto il Guardasigilli - delle parole a cui la mafia ha dato un valore distorto come onore, famiglia e rispetto. Loro chiamano infami quelli che collaborano con la giustizia, ma i veri infami sono loro».

Il procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso, invece, ha colto l’occasione per chiedere che «l’indipendenza della magistratura sia sempre preservata da eventuali condizionamenti da parte dell’esecutivo». Un appello cui il Guardasilli Alfano ha replicato sottolineando che l’indipendenza dei giudici non è mai stata messa in discussione e che il rapporto col Governo «deve essere sempre inteso come un gioco di squadra». Ad arricchire il convegno, infine, anche i messaggi giunti da oltreoceano come quello di Kerry Kennedy, figlia del senatore Bob, che ha voluto ricordare il grande coraggio di Falcone e Borsellino nella lotta alla mafia, e come «il loro sacrificio, ancora oggi rappresenti uno straordinario esempio per ciascuno di noi».

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I videogiochi non influenzano i bambini. Voglio dire, se Pac Man avesse influenzato la nostra generazione ora staremmo tutti saltando in sale scure, masticando pillole magiche e ascoltando musica elettronica ripetitiva."
(Kristian Wilson, Nintendo Inc., 1989)

Pochi anni dopo nacquero le feste rave, la musica techno e l'ecstasy...

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24/05/2010 14:47

Capaci, verità mai trovate tra buchi neri e strane presenze

I misteri del nostro 11 settembre:
«Non solo la mafia dietro il tritolo»
FRANSCESCO LA LICATA
PALERMO

Il sole splendido di Palermo ieri ha dato il meglio di sé per illuminare i volti puliti dei tremila studenti giunti da tutt’Italia per ricordare Giovanni Falcone. Una giornata memorabile, anche per il riproporsi di un gesto collettivo che sembrava desueto, un gesto che è simbolo di non rassegnazione: l’esposizione dei lenzuoli bianchi ai balconi al passare della catena umana diretta all’albero di via Notarbartolo.

Eppure non basta l’euforia pulita dei ragazzi per scacciare le ombre evocate da più parti, anche dai massimi vertici istituzionali. Sono i buchi neri delle indagini su quel tragico periodo della nostra storia recente. Le stragi della mafia: una mattanza cominciata nel giugno del 1989, col fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone, culminata con un’altra mancata strage (gennaio 1994, allo Stadio Olimpico di Roma), passando per le esplosioni di Roma, Firenze e Milano. E’ inquietante il quadro che sta vendendo fuori dalle indagini riaperte da insperate e imprevedibili testimonianze. Tanto inquietante da indurre il Capo dello Stato a parlare di «aspetti ancora oscuri delle stragi». Una puntualizzazione che dà ancora più forza alla denuncia di Pietro Grasso: «Non solo la mafia aveva interesse a eliminare Giovanni Falcone», e alla successiva esortazione a «cercare ad ogni costo la verità» su quella tragedia collettiva.

Va riletta e modificata, la storia della fine di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e dell’aggressione furiosa portata avanti dalla mafia di Totò Riina per indurre lo Stato ad allentare la repressione avviata dai provvedimenti approntati da Falcone prima che fosse abbattuto. Il ricatto delle stragi per fermare la controffensiva istituzionale che aveva già prodotto risultati eccezionali, grazie al famigerato 41 bis, alle leggi che normalizzavano il pentitismo mafioso e alle indagini sull’economia illegale che sfociavano nelle norme sul sequestro dei beni mafiosi.

Ma, come ricorda Grasso, non era soltanto Cosa nostra interessata a bloccare l’azione di contrasto. C’era qualcos’altro, una presenza immanente e sfuggente nello stesso tempo, come una regìa occulta che guidava la mano assassina di Totò Riina. Perché - altrimenti - già nel 1989, quando insieme coi magistrati svizzeri (Carla Del Ponte in primis) Falcone si accingeva ad entrare nei conti protetti dal segreto bancario, la mafia doveva cercare di ucciderlo con 76 candelotti depositati sulla scogliera sotto la casa dell’Addaura? E perché - come si è saputo di recente - questo «lavoro» avrebbe dovuto svolgersi in sinergia perfetta tra mafiosi rozzi e quelle «menti raffinatissime» percepite dallo stesso giudice scampato all’agguato?

Oggi la Procura di Caltanissetta indaga su strani personaggi «borderline» che facevano squadra coi picciotti operativi all’Addaura. Oggi si ipotizza addirittura che l’agente Agostino (poi ucciso con la moglie) e l’agente Piazza (scomparso nel nulla e mai più ritrovato perché ucciso e sciolto nell’acido) siano stati utilizzati da un «centro istituzionale» per sventare l’attentato dell’Addaura. Ma non erano, i «cattivi» agenti segreti che la bomba la volevano far esplodere, anch’essi dipendenti da una qualche istituzione? Ecco, forse le ombre stanno proprio in questa contraddizione: se i «buoni» erano dalla parte dello Stato, per chi lavoravano gli altri che hanno continuato a godere di protezioni e silenzi fino ad oggi?

Si è detto e scritto che Giovanni Falcone ha cominciato a morire nello stesso momento in cui raggiungeva il massimo del successo, con la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso. Una grandinata di ergastoli (diciannove) che azzerava la direzione strategica di Cosa nostra e legittimava gli strumenti del pentitismo e della carcerazione differenziata per i mafiosi, per la prima volta costretti alla detenzione a vita in regime duro. Ma la morte del giudice non fu soltanto un regolamento di conti «personale». Se così fosse stato, Falcone sarebbe stato ucciso a Roma con un tradizionale agguato mafioso eseguito con le armi congeniali a Cosa nostra. E invece le indagini oggi raccontano che all’ultimo momento si cambiò strategia e fu deciso di usare l’esplosivo: cinquecento chili di tritolo e un’autostrada sventrata perché la morte di Falcone prendesse la connotazione di attentato politico e quindi con un movente molto più ampio della vendetta. Una pista investigativa che trova conforto in tutto ciò che accadde prima e dopo Capaci. L’attentato a Falcone si saldava con l’assassinio di Salvo Lima, l’ex sindaco dc di Palermo che col suo assassinio metteva una pietra sulla prima Repubblica. Meno di due mesi dopo toccava a Paolo Borsellino, ma già lo scenario era cambiato e risultava evidente come il «secondo colpo» fosse propedeutico alla buona riuscita della trattativa, che intanto si avviava, tra Stato e mafia.

Le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza e di Massimo Ciancimino hanno rimescolato molte carte. Il primo ha disintegrato la versione del pentito Vincenzo Scarantino, sulla quale poggia la sentenza della Cassazione, adesso rimessa in discussione. Ma non solo: nella sua ricostruzione tornano di nuovo le «strane presenze» estranee a Cosa nostra. Addirittura personaggi delle istituzioni presenti nel momento, anche organizzativo, della strage. Non sfugge la complicazione insorta: Scarantino che mente con la distratta partecipazione di chi indagava, perché ha detto quelle menzogne? Perché è arrivato ad autoaccusarsi di una strage che non aveva compiuto?

E poi, Massimo Ciancimino col racconto della «trattativa» e del «papello» con le richieste di Riina allo Stato: dalla revisione dei processi, all’abolizione del 41 bis, alla cancellazione della legge sul sequestro dei beni. Il racconto del figlio di don Vito ha aperto anche altri scenari, come il coinvolgimento del sig. Franco, o Carlo che sia: un alto funzionario in stretto rapporto coi servizi di sicurezza degli Stati Uniti e dello Stato del Vaticano. Una presenza costante, durante la lunga gestazione della strategia stragista. L’identità di Franco sarà svelata a breve, resta il dubbio che possa divenire oggetto di iniziative giudiziarie, vista la particolare veste del personaggio, forse coperto da immunità diplomatica. Le ombre non svaniranno presto.

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