L'irriducibile stroncata dall'ultima condanna
Non voleva più parlare con nessuno, nemmeno con i legali
PIERANGELO SAPEGNO
ROMA
Aveva anche modi raffinati, come diceva uno dei suoi datori di lavoro, Stefania Longhi, e aveva maglie di cachemire e dita affusolate, come quelle di una pianista. Però, poi era capace di scrivere che «Marco Biagi per me avrebbe dovuto essere torturato prima di venire ucciso». Quando la arrestarono, era in pigiama, nascosta in un armadio a muro. Non disse una parola, rifiutò persino il caffè. In carcere negli ultimi tempi non parlava con nessuno.
Se ne stava a letto, in silenzio, sotto le coperte e non aveva rivolto la parola neanche a Giulio Petrilli, che era andato a trovarla. Litigava con le altre detenute, aveva aggredito una agente di custodia e girava la schiena ai suoi avvocati. Alla fine, Diana Blefari Melazzi, 41 anni, brigatista di famiglia nobile e di madre suicida pure lei, condannata all’ergastolo per l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, assassinato a Bologna il 19 marzo 2002, si è tolta la vita impiccandosi a una trave, nella sua cella singola, posta proprio vicino al gabbiotto delle agenti di custodia.
La sua morte è arrivata pochi giorni dopo la sentenza definitiva che la consegnava al carcere perpetuo, e pochi giorni prima di essere ascoltata dai giudici sull’arresto di Massimo Papini, 34 anni, fermato qualche giorno fa dalla Digos con l’accusa di partecipazione a banda armata. Il caso vuole che Papini fosse il suo amico più caro, forse il suo ex fidanzato, e che proprio da qualche giorno dicono che lei avesse deciso di collaborare con i giudici. Se le due cose fossero davvero legate fra di loro, probabilmente non lo sapremo mai.
I suoi avvocati sostengono che era molto malata, che soffriva di depressione e che aveva appena ricevuto la conferma della Cassazione sulla sua pena da scontare, e che «questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso». In realtà, dubbi sulla sua condanna non ce ne sono molti. Cinzia Banelli, l’ultima pentita delle Br, l’aveva accusata descrivendola come la donna del commando che aveva il compito di pedinare Marco Biagi per conoscere tutti i suoi spostamenti da Bologna all’Università di Modena, dove il giuslavorista teneva le sue lezioni agli studenti.
E alcuni testimoni confermarono di averla vista accanto al professore «alle ore 18 e 16 del 17 dicembre del 2001», durante un’attività di pedinamento. La sera dell’attentato il suo compito fu quello della staffetta: seguì in bicicletta la vittima verso i suoi carnefici, per avvertirli se avesse cambiato percorso. Nel suo computer, poi, fu ritrovato il documento di rivendicazione scritto dalle Brigate Rosse scritto due giorni prima dell’omicidio, e durante l’arresto rifiutò di rispondere a qualsiasi domanda dei magistrati, e si dichiarò «prigioniera politica» nel corso delle prime udienze del processo.
Se ci fossero ancora dei dubbi, c’è quella lettera in cui diceva che secondo lei «Marco Biagi avrebbe dovuto essere torturato prima di venire ucciso». Per questo, Diana Blefari Melazzi era una delle detenute soggette al 41 bis, il cosiddetto carcere duro, una misura che i suoi avvocati avevano contestato duramente, consegnando una perizia dello psichiatra Antonio Coppotelli nella quale si diceva che la militante br era in pericolo di vita e che aveva bisogno urgente di cure adeguate.
Da un anno e mezzo era così tornata in regime di detenzione comune e, dopo una serie di trasferimenti dal penitenziario dell’Aquila a quello romano di Rebibbia passando attraverso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino e il carcere di Sollicciano, era rientrata da qualche giorno nella Capitale, in cella da sola. Detenute e guardie la descrivono taciturna, molto schiva, e anche umorale. Certo, un banale ritratto da depresso. La compagna Maria, come veniva chiamata all’interno delle Br, era stata catturata il 22 dicembre 2003 in una villetta sul litorale nord di Roma, tra Santa Severa e Santa Marinella.
Pochi giorni prima era scappata dalla sua vita regolare e dai suoi impegni: gestiva due edicole a Roma. Aveva fatto una telefonata di scuse al datore di lavoro e aveva scritto alla sorella: «Io sono costretta ad andarmene. Evita assolutamente di avvicinarti a casa mia». Diana Blefari Melazzi discendeva da una famiglia di nobili originari della costa ionica. In carcere, all’inizio sembrava una dura. Ma cambiò atteggiamento dopo la prima condanna all’ergastolo: fece a pezzi tutto quello che le capitava davanti in cella. Subì un crollo dal quale non si riprese più. Si arrabbiava anche con i suoi avvocati: «Siete complici di D’Alema», diceva. «Fate parte di un complotto per uccidermi».
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