Br, la Blefari si è impiccata in carcere

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Arjuna
00lunedì 2 novembre 2009 14:05
Coro di denunce: "Morte annunciata"

La cassazione le aveva confermato l'ergastolo per l'omicidio di Biagi.
Soffriva di depressione e intendeva collaborare.
Alfano: avviata inchiesta
ROMA

Sembra che fosse pronta a collaborare con la giustizia e ieri, poche ore dopo aver aver avuto nel carcere romano di Rebibbia un colloquio con gli investigatori, che non sarebbe stato il primo, e una successiva notifica della sentenza di Cassazione che la condannava definitivamente all’ergastolo per l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, alle 22.30 la neobrigatista Diana Blefari Melazzi, di 41 anni, di Roma, si è uccisa impiccandosi con lenzuola tagliate e annodate attorno al collo nella sua cella singola. A scoprire il cadavere un’agente della polizia penitenziaria in servizio nel reparto, che aveva sentito un rumore sordo provenire dalla cella della Blefari. Inutile il tentativo di rianimarla.

«Una morte annunciata», ha detto subito il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, che si batte per i diritti nelle carceri. «Aveva senso tenere in carcere una persona che stava così male?». Perchè da tempo Blefari «schizofrenica e inabile psichicamente», passava le sue giornate, come ricorda il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, «in completo isolamento, in una cella singola, per la maggior parte del tempo a letto e al buio rifiutando spesso cibo e medicine», senza rapporti con altre detenute e operatrici volontarie. Blefari dal 21 ottobre era arrivata dal carcere fiorentino di Sollicciano dopo essere passata anche nell’ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino e nel penitenziario dell’Aquila.

«Siamo sotto choc, abbiamo fatto tante battaglie, abbiamo cercato in tutti i modi di far riconoscere il profondo disagio di Blefari. Ora è troppo tardi», ha detto il suo avvocato Caterina Calia, difensore, insieme con l’avvocato Valerio Spigarelli. Il legale ricorda le numerose perizie psichiatriche a cui era stata sottosposta la terrorista per verificare la sua capacità di stare in giudizio. Secondo la difesa, Blefari soffriva di una grave patologia psichica e più volte le stesse difese avevano sollecitato il riconoscimento di tale situazione. Ultimamente sia la Corte di Cassazione sia nei mesi scorsi il gup del tribunale di Roma, avevano respinto tali istanze. Nel 2008 la brigatista in un momento di particolare tensione emotiva aggredì un agente di polizia penitenziaria e il 23 novembre prossimo sarebbe dovuto cominciare il processo.

La morte della Blefari arriva quando forse la terrorista aveva deciso di svelare elementi ritenuti utili agli investigatori per far luce sugli omicidi D’Antona e Biagi e giungere alla individuazione di altri personaggi coinvolti nelle Nuove Brigate Rosse. Avrebbe potuto svelare molti punti oscuri dell’organizzazione a cominciare dalle armi e dal nascondiglio dove sarebbero state celate, compresa la pistola usata per uccidere Biagi e D’Antona. Il pm Maria Cristina Palaia ha aperto un fascicolo senza indagati e ha disposto l’autopsia. La procura di Roma potrebbe riesaminare l’intero iter giudiziario della Blefari in considerazione della sua presunta patologia psichica, come emerso in questi anni dalle numerose richieste di consulenze.

La brigatista doveva rispondere nei prossimi giorni, in particolare, alle domande del pm Erminio Amelio, su Massimo Papini arrestato il 2 ottobre scorso dalla Digos. Papini, 34 anni, romano, era stato arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata delle Br-partito comunista combattente. Per gli investigatori sarebbe stato legato a Blefari e l’avrebbe accompagnata all’internet point dove la donna fece partire la rivendicazione dell’omicidio Biagi. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha avviato un’inchiesta amministrativa, sottolineando che Blefari era «in una situazione carceraria compatibile con le sue condizioni psicofisiche». Anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, che si è recato a Rebibbia, ha detto che la «sistemazione» della terrorista «era corretta».

Fonte
Arjuna
00lunedì 2 novembre 2009 14:06
L'irriducibile stroncata dall'ultima condanna

Non voleva più parlare con nessuno, nemmeno con i legali
PIERANGELO SAPEGNO
ROMA

Aveva anche modi raffinati, come diceva uno dei suoi datori di lavoro, Stefania Longhi, e aveva maglie di cachemire e dita affusolate, come quelle di una pianista. Però, poi era capace di scrivere che «Marco Biagi per me avrebbe dovuto essere torturato prima di venire ucciso». Quando la arrestarono, era in pigiama, nascosta in un armadio a muro. Non disse una parola, rifiutò persino il caffè. In carcere negli ultimi tempi non parlava con nessuno.

Se ne stava a letto, in silenzio, sotto le coperte e non aveva rivolto la parola neanche a Giulio Petrilli, che era andato a trovarla. Litigava con le altre detenute, aveva aggredito una agente di custodia e girava la schiena ai suoi avvocati. Alla fine, Diana Blefari Melazzi, 41 anni, brigatista di famiglia nobile e di madre suicida pure lei, condannata all’ergastolo per l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, assassinato a Bologna il 19 marzo 2002, si è tolta la vita impiccandosi a una trave, nella sua cella singola, posta proprio vicino al gabbiotto delle agenti di custodia.

La sua morte è arrivata pochi giorni dopo la sentenza definitiva che la consegnava al carcere perpetuo, e pochi giorni prima di essere ascoltata dai giudici sull’arresto di Massimo Papini, 34 anni, fermato qualche giorno fa dalla Digos con l’accusa di partecipazione a banda armata. Il caso vuole che Papini fosse il suo amico più caro, forse il suo ex fidanzato, e che proprio da qualche giorno dicono che lei avesse deciso di collaborare con i giudici. Se le due cose fossero davvero legate fra di loro, probabilmente non lo sapremo mai.

I suoi avvocati sostengono che era molto malata, che soffriva di depressione e che aveva appena ricevuto la conferma della Cassazione sulla sua pena da scontare, e che «questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso». In realtà, dubbi sulla sua condanna non ce ne sono molti. Cinzia Banelli, l’ultima pentita delle Br, l’aveva accusata descrivendola come la donna del commando che aveva il compito di pedinare Marco Biagi per conoscere tutti i suoi spostamenti da Bologna all’Università di Modena, dove il giuslavorista teneva le sue lezioni agli studenti.

E alcuni testimoni confermarono di averla vista accanto al professore «alle ore 18 e 16 del 17 dicembre del 2001», durante un’attività di pedinamento. La sera dell’attentato il suo compito fu quello della staffetta: seguì in bicicletta la vittima verso i suoi carnefici, per avvertirli se avesse cambiato percorso. Nel suo computer, poi, fu ritrovato il documento di rivendicazione scritto dalle Brigate Rosse scritto due giorni prima dell’omicidio, e durante l’arresto rifiutò di rispondere a qualsiasi domanda dei magistrati, e si dichiarò «prigioniera politica» nel corso delle prime udienze del processo.

Se ci fossero ancora dei dubbi, c’è quella lettera in cui diceva che secondo lei «Marco Biagi avrebbe dovuto essere torturato prima di venire ucciso». Per questo, Diana Blefari Melazzi era una delle detenute soggette al 41 bis, il cosiddetto carcere duro, una misura che i suoi avvocati avevano contestato duramente, consegnando una perizia dello psichiatra Antonio Coppotelli nella quale si diceva che la militante br era in pericolo di vita e che aveva bisogno urgente di cure adeguate.

Da un anno e mezzo era così tornata in regime di detenzione comune e, dopo una serie di trasferimenti dal penitenziario dell’Aquila a quello romano di Rebibbia passando attraverso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino e il carcere di Sollicciano, era rientrata da qualche giorno nella Capitale, in cella da sola. Detenute e guardie la descrivono taciturna, molto schiva, e anche umorale. Certo, un banale ritratto da depresso. La compagna Maria, come veniva chiamata all’interno delle Br, era stata catturata il 22 dicembre 2003 in una villetta sul litorale nord di Roma, tra Santa Severa e Santa Marinella.

Pochi giorni prima era scappata dalla sua vita regolare e dai suoi impegni: gestiva due edicole a Roma. Aveva fatto una telefonata di scuse al datore di lavoro e aveva scritto alla sorella: «Io sono costretta ad andarmene. Evita assolutamente di avvicinarti a casa mia». Diana Blefari Melazzi discendeva da una famiglia di nobili originari della costa ionica. In carcere, all’inizio sembrava una dura. Ma cambiò atteggiamento dopo la prima condanna all’ergastolo: fece a pezzi tutto quello che le capitava davanti in cella. Subì un crollo dal quale non si riprese più. Si arrabbiava anche con i suoi avvocati: «Siete complici di D’Alema», diceva. «Fate parte di un complotto per uccidermi».

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Arjuna
00lunedì 2 novembre 2009 14:07
Blefari, la staffetta che seguì Biagi
Trentasei anni all’epoca dell’omicidio, commessa in 2 edicole e incensurata
ROMA

Diana Blefari Melazzi era stata catturata il 22 dicembre 2003 in una villetta sul litorale nord di Roma tra Santa Severa e Santa Marinella e condannata in via definitiva all’ergastolo appena 6 giorni fa: il 27 ottobre 2009 infatti, la prima sezione della Cassazione aveva confermato la sentenza della corte d’Appello di Bologna. Trentasei anni all’epoca dell’omicidio Biagi, romana, commessa in due edicole, incensurata. Proviene da una famiglia nobile dell’alto Ionio Cosentino.

Il suo nome risulta legato agli ambienti antagonisti della capitale, gli stessi frequentati da Mario Galesi e da altri componenti del commando che il 19 marzo 2002 uccise a Bologna Marco Biagi. Fu lei l’intestataria della cantina al numero 3 di via Montecuccoli, nel quartiere Prenestino, a Roma, il «covo» delle Brigate rosse, scoperto il 20 dicembre 2003, in cui vennero rinvenuti cento chili di esplosivo e materiale di archivio delle Br, tra cui il documento di rivendicazione dell’omicidio Biagi.

Nel suo appartamento è invece stato rinvenuto un documento - lo stesso ritrovato in casa di Marco Mezzasalma - riguardante la «ritirata strategica» delle Br, ossia la strategia da adottare in seguito all’arresto di Nadia Lioce e alla morte di Mario Galesi («Impostazione del riadeguamento politico-organizzativo alle nuove condizioni dell’O.»), in cui è presente anche un esplicito «bilancio dell’azione Biagi». Dalla testimonianza di Cinzia Banelli (la ’pentità principale accusatrice delle nuove Br) Diana Blefari Melazzi aveva avuto, nel gruppo di fuoco che il 19 marzo 2002 uccise a Bologna Marco Biagi, il ruolo di ’staffettà: lei seguì più volte il professore all’università di Modena e nel tragitto fra la stazione di Bologna e la sua casa e lei, soprattutto, lo seguì in bicicletta la sera in cui fu ucciso.

Poi, dopo l’arresto di Nadia Lioce e del resto del commando, risulta che era stata Diana Blefari ad affittare la ’base operativà romana, ’centrale operativà del gruppo. Infine, in tribunale, Blefari lesse una dichiarazione di conferma della propria militanza nelle Br, con la quale pose fine a ogni possibilità di tirarla fuori dalla vicenda.

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Arjuna
00lunedì 2 novembre 2009 14:17
Sinceramente?

"Una in meno da mantenere"

Sarà poco politicamente corretto ma io la penso così. [SM=x44464]

Sinceramente non provo nessuna pietà per una persona che ha volontariamente preso parte ad un omicidio premeditato per futili motivi, che ha anche dichiarato che avrebbe anche voluto torturare Marco Biagi prima di ucciderlo.

Era labile di mente? Probabile, dubito che una persona sana di mente possa sparare a qualcuno.
Ma non vedo come questo possa cambiare qualcosa. [SM=x44464]
Meritava l'ergastolo.
Meritava il 41 bis.

Meritava di morire?
Per la Legge no, non c'è la pena di morte.
Ha scelto lei di porre fine alla sua vita, non le riserverò il lusso della pietà. [SM=x44494]
bianco77
00lunedì 2 novembre 2009 18:16
Re: Sinceramente?
Arjuna, 02/11/2009 14.17:


"Una in meno da mantenere"

Sarà poco politicamente corretto ma io la penso così. [SM=x44464]

Sinceramente non provo nessuna pietà per una persona che ha volontariamente preso parte ad un omicidio premeditato per futili motivi, che ha anche dichiarato che avrebbe anche voluto torturare Marco Biagi prima di ucciderlo.

Era labile di mente? Probabile, dubito che una persona sana di mente possa sparare a qualcuno.
Ma non vedo come questo possa cambiare qualcosa. [SM=x44464]
Meritava l'ergastolo.
Meritava il 41 bis.

Meritava di morire?
Per la Legge no, non c'è la pena di morte.
Ha scelto lei di porre fine alla sua vita, non le riserverò il lusso della pietà. [SM=x44494]




quoto..una carcerata in meno da mantenere
piperitapatty
00lunedì 2 novembre 2009 23:44
Re: Sinceramente?
Arjuna, 02/11/2009 14.17:


"Una in meno da mantenere"

Sarà poco politicamente corretto ma io la penso così. [SM=x44464]

Sinceramente non provo nessuna pietà per una persona che ha volontariamente preso parte ad un omicidio premeditato per futili motivi, che ha anche dichiarato che avrebbe anche voluto torturare Marco Biagi prima di ucciderlo.

Era labile di mente? Probabile, dubito che una persona sana di mente possa sparare a qualcuno.
Ma non vedo come questo possa cambiare qualcosa. [SM=x44464]
Meritava l'ergastolo.
Meritava il 41 bis.

Meritava di morire?
Per la Legge no, non c'è la pena di morte.
Ha scelto lei di porre fine alla sua vita, non le riserverò il lusso della pietà. [SM=x44494]



ma sai che ti dico? che ti quoto in pieno. sinceramente si sentono solo i suoi avvocati, su quanto fosse provata dalla vicenda.
e la moglie di marco biagi che ne pensa?

anche io sinceramente non mi straccio per niente il cuore.

Renato Vallanzasca
00mercoledì 4 novembre 2009 13:44
Devono averle detto in un orecchio per chi ha lavorato veramente.
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