CRISTIANESIMO E CHIESA CATTOLICA

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Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 19:32

Da Chi l'ha visto? del 18/07/05



Per comprendere su quali basi si fonda l'ipotesi che l'attentato a Papa Giovanni Paolo II e il successivo caso Orlandi siano maturati in un ambito affaristico-malavitoso con forti legami all'interno dello stesso Vaticano, bisogna risalire a qualche anno prima, almeno alla salita al soglio pontificio di Giovanni Battista Montini, Paolo VI. Il cardinal Montini, figlio di un banchiere milanese, quando diventa capo dello stato Vaticano, si preoccupa subito della situazione finanziaria, non particolarmente seguita dal suo predecessore Giovanni XXIII. Il piccolo stato può contare soprattutto su due capisaldi finanziari: l'Obolo di San Pietro, che raccoglie le elemosine, le donazioni e l'Istituto per le Opere Religiose, lo IOR, una vera e propria banca che gode di condizioni di particolare favore, ad esempio fiscali, nei riguardi dello stato italiano; ciò deriva dai Patti Lateranensi, dal Concordato: è a tutti gli effetti la banca di uno stato estero. Paolo VI, da cardinale aveva retto la diocesi di Milano e qui aveva conosciuto un rampante finanziere siciliano, Michele Sindona. Questi era stato molto generoso con la diocesi milanese, in cambio ne ebbe nell'immediato interessanti contatti con lo IOR già nel 1960. Tre anni dopo, eletto papa, Montini chiama Sindona a Roma, lo riceve, pare che gli si rivolga così: "Mi dicono che lei è un uomo inviato da Dio" e gli affida la consulenza sullo IOR, gli chiede di modernizzare la banca. Sindona è in grande ascesa, ha rapporti con l'amministrazione americana, fa affari con Nixon, ha rapporti con il capo della CIA, rapporti importanti con esponenti di alto livello della Democrazia Cristiana; solo in seguito si saprà che ha rapporti soprattutto con la mafia, quella americana e quella siciliana. Nel 1968 Paolo VI chiama allo IOR Monsignor Marcinkus, americano originario di Chicago già da molti anni a Roma e che al momento lavora presso la Segreteria di Stato. E' un uomo imponente, determinato, gli si riconoscono capacità organizzative: nel 1970 organizza infatti un viaggio del papa in India, dove lo salva da un attentato. Un uomo si era avventato sul papa brandendo un pugnale, Marcinkus lo aveva bloccato e immobilizzato; è il primo di almeno tre attentati ad un papa nel quale è coinvolto, come vedremo in seguito. Marcinkus diventa l'interfaccia ufficiale del consulente Sindona all'interno dello IOR, i due si lanciano in una lunga serie di intrighi societari, speculazioni finanziarie ai limiti della legalità, per alcuni oltre i limiti della legalità. Un terzo personaggio entra in gioco, Roberto Calvi. All'inizio il contatto è con Sindona: entrambi massoni, fanno parte della P2, la Loggia Propaganda 2 di Licio Gelli. Del sodalizio fa parte anche Umberto Ortolani, che si poteva fregiare del titolo di Cavaliere dell'Ordine di Malta e gentiluomo di camera di papa Paolo VI. Roberto Calvi nel 1970 diventa direttore generale del Banco Ambrosiano, anche questa una banca dichiaratamente cattolica che gestisce i conti di varie diocesi. Non possiamo qui ricordare tutte le imprese del trio Sindona-Marcinkus-Calvi. Fiumi di inchiostro hanno riempito volumi di istruttorie, processi, indagini, inchieste, per descrivere la costellazione di banche estere in paradisi fiscali, le acquisizioni e le dismissioni di società, labirintici percorsi per fiumi di soldi finiti chissà dove. Aveva provato a capire e forse aveva capito troppo l'avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona quando ne fu decretato il fallimento e fu emesso un mandato di cattura a carico di Sindona per bancarotta fraudolenta. Ambrosoli venne ucciso a colpi di pistola da un killer della mafia e Sindona anni dopo fu condannato all'ergastolo come mandante. Ma torniamo in Vaticano: nel 1978 muore Paolo VI e viene eletto papa Albino Luciani, che prenderà il nome di Giovanni Paolo I. Patriarca di Venezia, aveva avuto in passato da ridire sulla spregiudicatezza di Marcinkus in una operazione che avrebbe riguardato la Banca Cattolica del Veneto, banca di riferimento della diocesi veneziana. Inoltre durante il Conclave un quotidiano romano aveva pubblicato una lista di cardinali, alti prelati, monsignori, iscritti alla massoneria, con tanto di numero di matricola. Fra questi figuravano Marcinkus, il Segretario di Stato Jean Villot, il vicario del papa cardinale Ugo Poletti. Il 28 agosto papa Luciani informa il cardinale Villot che intende sostituire il gruppo dirigente dello IOR: Marcinkus deve andare via. L'indomani viene annunciata la morte del papa, avvenuta in circostanze a tutt'oggi misteriose. A quel punto in molti si domandano come si sarebbe comportato il nuovo papa nei riguardi degli scandali nei quali erano coinvolte le finanze vaticane, delle indiscrezioni sempre più insistenti sulle infiltrazioni massoniche nelle alte gerarchie vaticane. Ed ecco il colpo di scena: viene fatto papa un cardinale non italiano, uno lontano dagli intrighi di curia, una vera sorpresa anche per molti vaticanisti. Wojtyla viene da lontano, da un paese dove già la Chiesa è impegnata nel sostegno alle forze d'opposizione al regime comunista, e da subito Giovanni Paolo II mostra quale sarà lo sforzo principale del suo pontificato: in favore della sua amata Polonia e di tutti i governi che combattono qualunque forma di comunismo, anche quelli dittatoriali del Centro e Sud America. Ma per fare questo servono soldi e serve lo IOR e il Banco Ambrosiano ad esso collegato. Ma qualcuno aveva sbagliato i suoi calcoli: Karol Wojtyla è un uomo testardo, determinato a compiere la sua missione, capace di resistere a qualunque condizionamento, come sarà chiaro in seguito, anche alle malattie più invalidanti. Intanto Sindona era rovinato: il suo impero finanziario si era sfaldato come un castello di carte e stava trascinando giù anche il suo antico sodale Calvi. Una quantità inimmaginabile di soldi era andata perduta, non poteva più ritornare a chi gliel'aveva affidata. Il sistema di banche e finanziarie con il quale manovrava il trio Sindona-Calvi-Marcinkus era stato soprattutto una grande lavanderia per il riciclaggio di denaro sporco proveniente da traffico di droga, d'armi, da tutte le attività gestite dalle organizzazioni che per semplicità vengono chiamate "mafia". E la mafia non risulta che rinunci facilmente ai propri soldi. Vengono messe in atto pressioni e manovre in ogni direzione per tentare un salvataggio in extremis. Non siamo a conoscenza di quanto avvenisse in Vaticano ma non riusciamo ad immaginare Giovanni Paolo II che si sottomette a rivendicazioni mafiose, né è facile eliminarlo e poi con chissà quali ricadute. Per altri, durante il dispiegarsi dell'enorme crack finanziario, sarà più semplice ad esempio l'agguato al vicepresidente del Banco Ambrosiano Rosone, gambizzato a Milano da Danilo Abbruciati, uno dei capi della banda della Magliana, a sua volta ucciso da una guardia giurata intervenuta negli istanti successivi. Al processo Gabriella Botte, moglie di un pregiudicato, testimoniò che il mandante era stato Pippo Calò, il cosiddetto "cassiere della mafia" da molti anni a Roma. Sempre Pippo Calò compare oggi nella richiesta di rinvio a giudizio firmata dai pubblici ministeri Tescaroli e Monteleone come mandante dell'omicidio di Roberto Calvi. Anche Sindona anni dopo morirà avvelenato da una tazzina di caffè al cianuro, in carcere. Secondo la pista che seguiamo stasera, menti raffinatissime organizzano un piano che sembrerebbe perfetto: in carcere in Turchia c'è un fanatico killer esponente di un'organizzazione di estrema destra: Alì Agca, è giovane, lo aspetta una condanna a morte. Il capo della mafia turca, Abuzer Ugurlu, lo fa evadere dal carcere di massima sicurezza con estrema facilità e lo fa arrivare a Sofia all'hotel Vitosha. Qui ha la sua base, dormiva in una suite, Bekir Celenk, un boss mafioso di grande caratura: gestisce la fornitura e il trasporto di morfina base dai luoghi di produzione alle raffinerie che la trasformeranno in eroina, si occupa anche di traffico d'armi, ha navi e TIR che superano i controlli doganali attraverso una fitta rete di uomini delle varie istituzioni, sul libro paga, soprattutto in Bulgaria dove i suoi contatti migliori sono tra gli uomini dei servizi segreti. Peraltro ci sono addirittura società di import-export dei servizi segreti bulgari come la Kintex, che operano nel mercato internazionale della droga: in una raffineria siciliana i sacchi di iuta che contenevano droga erano di provenienza bulgara. E' Bekir Celenk che gestisce Alì Agca dall'evasione all'attentato, è Bekir Celenk che ha un socio, Hassan, che ha aperto una filiale della ditta a Milano nello stesso stabile dove abita il dottor Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano, proprietario dello stabile, e gli uomini dei servizi bulgari sul libro paga di Bekir Celenk verranno usati anche nella gestione di Agca; una volta catturato, il giovane turco in un primo momento ne farà i nomi prima di capire, prima di cambiare atteggiamento. Celenk morirà in circostanze dubbie poco prima di essere ascoltato da magistrati italiani. Agca ha parlato anche recentemente di alti prelati in Vaticano complici nell'attentato. Chi erano? E sono gli stessi che poi hanno gestito il caso Orlandi, l'estremo tentativo di piegare la ferrea volontà di Karol Wojtyla? Chi chiedeva con insistenza una linea diretta col cardinal Casaroli, Segretario di Stato e uomo del papa? Chi ha continuato a tenere sotto pressione il papa con l'apparente scopo di ottenere la libertà di Agca solo fino al momento che il Vaticano decide di aderire volontariamente ad una transazione per 240 miliardi di lire di allora in favore dei creditori dello IOR? E' stato così descritto da un analista dei nostri servizi segreti: straniero, verosimilmente di cultura anglosassone, livello intellettuale e culturale elevatissimo, conoscitore della lingua latina e successivamente di quella italiana, appartenente o inserito nel mondo ecclesiale, formalista, ironico, preciso e ordinato nelle sue modalità comportamentali, freddo, calcolatore, pieno di sé, sicuro del proprio ruolo e della propria forza, sessualmente amorfo, ha domiciliato a lungo a Roma, conosce bene soprattutto le zone della città che rappresentano qualche cosa per la sua attività, bene informato sulle regole giuridiche italiane e sulla struttura logistica del Vaticano. Ed era qualcuno dentro al Vaticano in grado di sapere subito cosa accadeva vicino al papa: è un ritratto che fa pensare a qualcuno che somiglia molto a Monsignor Marcinkus che il giorno dell'attentato al papa non c'era. Avrebbe forse potuto intervenire come aveva fatto nel 1970 per Paolo VI o come avrebbe fatto nel 1982 a Fatima? Era a giocare a tennis al Gianicolo e, come risulta da un'intercettazione telefonica alla sua segretaria, conferma che appena saputo dell'attentato aveva esclamato: "Non sarà stato quel turco?". Si riferiva ad Agca, aveva ricordato in un attimo le minacce pubblicate su un giornale turco quasi due anni prima. Del trio Sindona-Marcinkus-Calvi, Marcinkus è l'unico sopravvissuto ed ha evitato tutte le vicende giudiziarie perché lo stato italiano non ha giurisdizione sulle cose interne vaticane. Anche se è singolare che ad un certo punto della vicenda il cardinale Casaroli avrebbe chiesto al generale Santovito, capo del Sismi, il servizio segreto militare italiano, di indagare su di lui. Nel 1989 Giovanni Paolo II lo destituisce e lo manda negli Stati Uniti dove vive da allora. E' una pista questa che attinge ad anni di inchieste giudiziarie e meriterebbe più spazio di quanto possiamo dedicarle oggi; soprattutto per parlare di tanti altri personaggi che vi compaiono e di oscure connivenze tra gruppi apparentemente diversi: la P2, la banda della Magliana, la nuova camorra organizzata, esponenti dell'estrema destra e soprattutto la mafia, quella siciliana e quella americana, e poi i servizi segreti. Di sicuro a tutto questo si riferiva un nostro ascoltatore quando ci ha lasciato questo messaggio in segretaria: "Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant'Apollinare e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all'epoca. E chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei, con l'altra Emanuela. I genitori di Emanuela sanno tutto". Si riferisce ad un episodio quantomeno curioso e che è stato già riportato nelle cronache: con il placet del cardinale Poletti, allora vicario del papa, nella cripta della chiesa di Sant'Apollinare fu sepolto Enrico De Pedis detto Renatino. La cosa suscitò scalpore quando si seppe, perché in quel luogo è permesso seppellire solo papi, cardinali, alti prelati o personaggi illustri che in vita siano stati luminosi esempi per la collettività cattolica. Enrico De Pedis in vita era stato un killer macchiatosi di numerosi omicidi, rapine, violenze, vittima egli stesso di un agguato nel quale fu ucciso a colpi di pistola. Singolare è anche il luogo della sepoltura perché è nello stesso complesso edilizio della scuola di musica dalla quale uscì Emanuela Orlandi prima di scomparire. Quanto al favore fatto da De Pedis ad un principe della Chiesa, seppure indicato come massone, forse il nostro gentile spettatore potrebbe dirci qualcosa di più di quanto già immaginiamo.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 19:34

In estrema sintesi:


Muore Papa Giovanni XXIII
gli succede Montini = Paolo VI che fa subito il 1° errore:
chiama a riorganizzare lo IOR (la banca del Vaticano) il finanziere siciliano Michele Sindona.
Seguono inciuci con gli USA, Nixon, Mafia Usa&sicula...
Come se non bastasse nel 1968 Paolo IV aggiunge un altro cavaliere dell'apocalisse a gestire lo IOR: Monsignor Marcinkus [SM=x44497]
Marcinkus diventa l'interfaccia ufficiale del consulente Sindona all'interno dello IOR:
i due si lanciano in una lunga serie di intrighi societari, speculazioni finanziarie ai limiti della legalità, per alcuni oltre i limiti della legalità.
Un terzo personaggio entra in gioco, Roberto Calvi. All'inizio il contatto è con Sindona: entrambi massoni, fanno parte della P2, la Loggia Propaganda 2 di Licio Gelli.
Roberto Calvi nel 1970 diventa direttore generale del Banco Ambrosiano, anche questa una banca dichiaratamente cattolica che gestisce i conti di varie diocesi.
Segue la bancarotta fraudolenta della Banca privata di Sindona, assassinio dell'Avv.Giorgio Ambrosoli che aveva scoperto i segreti di Sindona...
1978:
Muorto Papa Paolo VI si elegge Papa Albino Luciani = Giovanni Paolo I che campa solo 33 gg.:
Il 28 agosto papa Luciani informa il cardinale Villot (un massone) che intende sostituire il gruppo dirigente dello IOR: Marcinkus deve andare via.
L'indomani viene annunciata la morte del papa (avvelenato, anche se Bestionn sostiene il contrario).
Viene eletto Papa Vojtyla = GP2
Intanto Sindona era rovinato: il suo impero finanziario si era sfaldato e trascinava giù anche Calvi.
Una quantità inimmaginabile di soldi era andata perduta, non poteva più ritornare a chi gliel'aveva affidati. Il sistema di banche e finanziarie con il quale manovrava il trio Sindona-Calvi-Marcinkus era stato soprattutto una grande lavanderia per le "mafie".
Compare la Banda della Magliana ed il cassiere della Mafia Pippo Calò (commissiona l'omicidio del v.pres. del Banco Ambrosiano, Rosone e di Roberto Calvi: BlackFriars Bridge a Londra).
Anche Sindona muore avvelenato dalla famosa tazzina di caffè, in carcere.
Segue l'attentato di Alì Agca contro GP2.....
sequestro di Emanuela Orlandi (cittadina del Vaticano)
Alti prelati, Banco Ambrosiano, etc. sembrano coinvolti sia nell'attentato al papa, sia nel sequesto E.Orlandi....
L'intento era di tenere sotto pressione il papa con l'apparente scopo di ottenere la libertà di Agca solo fino al momento che il Vaticano decide di aderire volontariamente ad una transazione per 240 miliardi di lire di allora in favore dei creditori dello IOR (mafia e...)
Intanto nella cripta della chiesa di Sant'Apollinare (vicino a P.zza Navona, dove era stata rapita E.Orlandi) fu sepolto Enrico De Pedis detto Renatino: un killer ferocissimo, capo dei "testaccini" un ramo della Banda della Magliana (su cui la prox settimana uscirà un film di Michele Placido: da vedere!)


Al momento solo Marcinkus (mandato a fare il semplice parroco in USA) e Licio Gelli potrebbero svelarci qualche segreto... oppure...tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia....

(POSTATO DA ETRUSCO)
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 19:36

Discepoli di Verità "Bugie di sangue in Vaticano. Il triplice delitto della Guardia svizzera" - Kaos Edizioni 1999



Poco dopo le ore 21 di lunedì 4 maggio 1998, nell'alloggio di servizio abitato dal nuovo comandante dell'esercito pontificio Alois Estermann, vengono trovati tre cadaveri in un lago di sangue: accanto al corpo di Estermann ci sono quelli di sua moglie Gladys Meza Romero e del vicecaporale Cédric Tornay. Tutti e tre uccisi da colpi di arma da fuoco. Alle 21,30 già molte persone erano arrivate sul luogo del delitto, tra le quali Joaquìn Navarro-Valls, portavoce del papa, e molti alti prelati tra cui i monsignori Re e Lòpez Quintana; qualcuno si preoccupa subito di eliminare quattro bicchieri appoggiati su un tavolino ed altri iniziano ad armeggiare intorno ai cadaveri. La polizia italiana non viene informata della strage, nessun aiuto viene richiesto e, anzi, i corpi delle vittime vengono in tutta fretta portati nell'obitorio vicino alla chiesa di Sant'Anna, senza peraltro nessuna cautela, né guanti per la rimozione né sacche per il trasporto; la guida delle indagini viene subito affidata al Giudice Unico del Vaticano, l'avvocato Gianluigi Marrone. Poche ore dopo il ritrovamento dei cadaveri, e prima che venissero effettuate le autopsie, viene diffusa, tramite il portavoce del pontefice, la verità "ufficiale": si è trattato di un raptus di follia del giovane Cédric, adirato con Estermann per una mancata promozione e per ripetuti rimproveri subiti da parte del suo superiore. Il giovane, dopo aver ucciso Estermann e la moglie, si sarebbe suicidato. Ma Navarro-Valls dice anche che circa un'ora e mezza prima del delitto, Tornay avrebbe lasciato un biglietto d'addio ad un suo commilitone, incaricandolo di consegnarlo alla sua famiglia, "se dovesse succedermi qualcosa", il che sembra contraddire la tesi del raptus improvviso. Sull'autenticità di questa lettera sorgono da subito molti dubbi ed anche la madre di Tornay nega che possa essere stata scritta da suo figlio in quanto presenta numerose imprecisioni perfino sui nomi dei familiari del giovane; la signora arriva a scrivere una lettera a Giovanni Paolo II ma senza avere risposta: da tempo il papa, infatti, non governa più la Chiesa e in tutto questo non ha avuto alcuna voce in capitolo. Per neutralizzare le accuse e i dubbi della madre di Tornay, la Santa Sede diffonde una sorta di dossier nel quale Cédric viene descritto come un ragazzo con un forte squilibrio mentale dovuto ad un tumore al cervello che gli aveva eroso parte della scatola cranica, che faceva uso di sostanze stupefacenti in grande quantità, che era affetto da broncopolmonite in atto, che era dedito all'alcol ed era entrato in un giro di prostituzione, introdotto da Estermann. Secondo alcune voci i due frequentavano la casa di un ottantenne ex presidente del Consiglio, gay, di cui non si fa il nome, e di Enrico Sini Luzi, il nobile romano gay addetto al cerimoniale del papa, ucciso a 66 anni il 5 gennaio 1998 da un suo giovane amante, a colpi di candelabro, durante un gioco sadomaso. Con queste rivelazioni, che danneggiano anche la reputazione di Estermann, l'inchiesta viene ufficialmente archiviata e Cédric dichiarato colpevole del delitto. Ma naturalmente ben pochi credono a questa versione dei fatti: per scoprire mandanti, esecutori e movente della strage sarebbe stato necessario indagare nel passato: l'Opus Dei (letteralmente "Opera di Dio") è stata creata da Josemarìa Escrivà de Balaguer in Spagna negli anni '20; è una sorta di organizzazione integralista con una struttura di tipo paramilitare che conta adepti sia religiosi che laici. L'Opus Dei (detta anche "Santa mafia") ha come scopo quello di impadronirsi del controllo di tutti i meccanismi di comando della Chiesa di Roma. Questa scalata di potere è iniziata con Giovanni Paolo II, eletto grazie all'appoggio dei cardinali filo-opusiani, che ha poi elevato l'Opera a Prelatura personale e ha nominato un suo membro, Navarro-Valls, come proprio portavoce. All'integralismo oscurantista e alle mire egemoniche dell'Opus Dei si oppone la "Loggia vaticana", della quale farebbero parte, tra gli altri, i cardinali Castillo Lara, Silvestrini, Laghi e Ruini. All'epoca dello scandalo Ior-Ambrosiano, l'Opera si mosse in soccorso della Santa Sede: gli opusiani si offrirono di salvare il Banco Ambrosiano in cambio del controllo dello IOR, che era nelle mani della cordata massonica. L'Opus Dei non riuscì a vincere la contesa e lasciò al suo destino il Banco Ambrosiano. Così lo IOR restò sotto il controllo della "Loggia vaticana" e monsignor Marcinkus, nonostante l'enorme scandalo, restò al suo posto perché, su mandato di Wojtyla, aveva iniziato a finanziare clandestinamente, tramite lo IOR, la lotta anticomunista di Solidarnosc al regime di Jaruzelski in Polonia. Inoltre, con un accordo diretto col papa, ingenti capitali dell'Opus Dei servirono al Vaticano per uscire dal crac IOR-Ambrosiano. In questa lotta di potere fra la cordata massonica e quella opusiana e negli intrighi finanziari erano coinvolti i coniugi Estermann. Estermann, nato nel 1954 in Svizzera, nel 1977 prestò servizio nell'esercito pontificio come guardia ausiliaria per tre mesi, per poi tornare a studiare lingue e a viaggiare in vari paesi europei. Nel 1980 tornò in Vaticano con il grado di capitano della Guardia svizzera, scavalcando i graduati in servizio da lungo tempo, grazie a pressanti raccomandazioni: si dice che fosse protetto, tra gli altri, da monsignor Dziwisz, segretario personale del papa. Dopo l'attentato del 13 maggio 1981, Estermann diventa un eroe in quanto avrebbe difeso il papa proteggendolo col proprio corpo e viene fatta circolare una foto che lo ritrae vicino a Wojtyla ferito. In realtà al momento degli spari Estermann si trovava a circa trenta metri dalla papamobile e solo quando il pontefice era già accasciato gli s'è avvicinato. Grazie a questa messinscena Estermann viene promosso maggiore, grado a cui però potevano accedere solo uomini sposati: essendo ancora scapolo, in fretta e furia venne organizzato un matrimonio con la venezuelana Gladys Meza Romero, di quasi sei anni più anziana di lui. Ex poliziotta, affascinante e determinata, negli anni '70 era entrata nelle grazie del capo della polizia venezuelana e del ministro della Giustizia, entrambi vicini ad ambienti massonici. Divenne la pupilla di monsignor Castillo Lara (cardinale, uno dei capi della cordata massonica) che la introdusse in Vaticano ufficialmente come impiegata all'Ambasciata venezuelana presso la Santa Sede e la unì in matrimonio con Estermann; sembra però che Gladys fosse in rapporti anche con monsignor De Bonis (il braccio destro di monsignor Marcinkus allo IOR all'epoca dello scandalo) e con monsignor Colagiovanni, coinvolto anch'egli in un grave scandalo finanziario. Il cardinale Castillo Lara era talmente legato a Gladys da riuscire a farne trasportare e seppellire la salma in Venezuela, mentre il marito è stato sepolto in Svizzera. Sembra che la signora Estermann gestisse personalmente i fondi di varie istituzioni filo-opusiane con filiali in varie parti del mondo per un giro enorme di denaro, tra l'altro aveva erogato fondi per circa 4 miliardi di lire, pagati dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, in favore dell'Accademia Internazionale di Filosofia del principato del Liechstenstein (gli Estermann erano in rapporti con la famiglia reale), ente controllato dall'Opus Dei, il cui presidente è Francesco Cossiga e vicerettore è Rocco Buttiglione, entrambi vicini all'Opus Dei. In seguito al matrimonio con Gladys, la carriera di Estermann accelerò ulteriormente: i due, insieme o individualmente, costruirono una fittissima rete di contatti sia con personalità ecclesiastiche che con ambienti politico-finanziari, diplomatici e militari, non solo legati all'Opus Dei ma anche alla massoneria vaticana e internazionale; Estermann aveva anche allacciato stretti rapporti con i vertici del FPO, il partito austriaco di estrema destra di Jorg Haider e godeva inoltre di grandi privilegi grazie alla protezione dell'Opera fino a diventare il candidato opusiano al comando dell'esercito pontificio. Gli opusiani volevano che la Guardia svizzera venisse potenziata e trasformata in un Corpo "speciale", togliendo potere al Corpo della Vigilanza che era sotto il controllo del clan massonico. Dopo mesi di lotte tra le due fazioni, l'Opus Dei riesce a spuntarla e il 4 maggio 1998, alle ore 12, viene annunciata ufficialmente la nomina di Estermann a comandante della Guardia svizzera. Alle ore 21 di quello stesso giorno, Estermann viene trovato ucciso nel suo appartamento insieme alla moglie. Il povero vicecaporale Cédric Tornay sembra sia stato usato come "copertura", in quanto era necessario trovare un "assassino ufficiale" a cui addossare le colpe e per sviare i sospetti. Forse Tornay è stato ucciso in un locale sotterraneo alla fine del servizio, la sua pistola d'ordinanza sarebbe stata usata per uccidere gli Estermann e successivamente all'omicidio della coppia, il corpo del giovane è stato trasportato nell'abitazione degli Estermann per inscenare il presunto "omicidio-suicidio".
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 19:37

Discepoli di Verità "All'ombra del Papa infermo. Giovanni Paolo II nelle spire della nomenklatura vaticana" - Kaos Edizioni 2001



Il cardinale polacco Karol Jozef Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, venne eletto papa il 16 ottobre 1978. Nei giorni precedenti il Conclave, si mormorava che fosse il candidato voluto dall'Opus Dei e sostenuto dai settori più integralisti della potente "ala tedesca" capeggiata dall'arcivescovo di Monaco cardinale Joseph Ratzinger. Wojtyla era entrato in contatto con l'Opera all'inizio degli anni Settanta, fino a diventare un pupillo dei vertici dell'organizzazione, al punto da essere invitato in molte occasioni nei vari Centri in qualsiasi parte del mondo. Si dice che l'elezione di Wojtyla facesse parte di un piano dell'Opus Dei per destabilizzare il regime di Varsavia attraverso la figura e la predicazione di un carismatico papa polacco al fine di incrinare e rompere il blocco sovietico: la caduta del regime comunista in Polonia avrebbe provocato a catena il crollo dei regimi marxisti nell'Est europeo e avrebbe aperto alla Chiesa la possibilità di instaurare una qualche forma di teocrazia. L'Opus Dei, alla fine degli anni Sessanta, era divenuta la più potente organizzazione integralista della Chiesa, un'organizzazione di tipo paramilitare strutturata in modo rigidamente gerarchico, ramificata nelle banche, nelle università, nei governi, caratterizzata dalla volontà di azzerare le riforme del Concilio Vaticano II, dall'anti-marxismo più radicale, dall'integralismo teologico e dalla devozione mariana. La fazione opusiana era però avversata dalla fazione opposta, quella massonica, legata alla Loggia massonica P2 del Venerabile maestro Licio Gelli, che si era a sua volta ramificata e consolidata in Italia nella seconda metà degli anni Settanta come un vero e proprio "Stato nello Stato", proprio mentre l'Opus Dei andava strutturandosi come una "Chiesa nella Chiesa". Da molti anni i banchieri catto-massoni Michele Sindona e Roberto Calvi, entrambi affiliati alla P2, erano in affari con le finanze vaticane gestite dalla "massoneria curiale"; con la regia occulta della P2, nel 1977 lo IOR vaticano, il cui capo era il potentissimo vescovo americano Paul Marcinkus, tramite il Banco Ambrosiano di Calvi, era perfino arrivato ad acquisire il controllo azionario del gruppo editoriale Rizzoli-Corriere della Sera. Giovanni Paolo II, dopo la sua elezione, confermò tutto l'assetto della nomenklatura curiale lasciata da Paolo VI e allo stesso tempo iniziò un progressivo rafforzamento dell'Opera: si delineava a poco a poco l'ambigua duplicità che sarà la caratteristica del suo pontificato: da un lato la ribalta mediatica, gli spettacoli, le grandi adunate, la figura del "papa showman", dall'altro lato la volontà di restaurazione e di rinnegamento del Concilio Vaticano II. La deriva autoritaria iniziò nel 1979, ad opera della Congregazione per la Dottrina della Fede, allora con a capo Franjo Seper, che colpì i teologi "dissidenti" Jacques Pohier, Edward Schillebeeckx, per arrivare al grande teologo svizzero Hans Kung il quale, accusato di "deviazionismo", aveva avuto in passato pesanti contrasti con l'arcivescovo di Monaco Ratzinger: quest'ultimo è stato il regista occulto del processo a Kung, operazione che poco tempo dopo lo porterà a ricoprire la nevralgica carica di Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, con la benedizione dell'Opera. Nel corso del suo primo pellegrinaggio in Polonia, Wojtyla manifestò chiaramente le intenzioni della Chiesa nei confronti della situazione polacca e in pratica preparò il terreno per la nascita di Solidarnosc, il sindacato dei lavoratori cattolici polacchi: per questo motivo il pontefice aumentò i poteri al vescovo Marcinkus, nominandolo governatore dello Stato del Vaticano e promuovendolo al rango di arcivescovo in attesa di ricevere la porpora: in pratica, Marcinkus era divenuto il capo assoluto di tutte le finanze vaticane. Questi nuovi poteri del presidente dello IOR erano strettamente collegati alla situazione polacca: su ordine di Giovanni Paolo II e della fazione opusiana, Marcinkus erogava, tramite il Banco Ambrosiano, cospicui finanziamenti a Lech Walesa. La Polonia era in stato d'assedio, scossa da rivolte e scioperi che culminarono nella messa fuori legge del sindacato di Solidarnosc, situazione che il papa e la fazione opusiana giudicavano intollerabile. Il Segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli, uomo di grande intelligenza e fine diplomatico, era però un sostenitore della Ostpolitik, cioè del dialogo e dell'apertura verso gli Stati comunisti, in aperto dissenso con la linea dura del papa e della fazione opusiana, che prevedeva uno scontro frontale Chiesa-regimi dell'Est. La fazione massonica e quella opusiana iniziarono ben presto una vera e propria guerra per il potere temporale al vertice della Chiesa: quella massonica lo deteneva già, quella opusiana intendeva conquistarlo con l'aiuto di Wojtyla. Sembra che l'attentato del 13 maggio 1981 sia strettamente connesso al fatto che il pontefice avesse intenzione di accordare all'Opus Dei lo Status di Prelatura personale. Il terrorista turco Alì Agca alloggiava a Roma già da diversi giorni prima dell'attentato e aveva persino avuto dei biglietti per assistere alla visita pastorale del papa del 10 maggio alla parrocchia romana di S. Tommaso d'Aquino, recapitatigli da Ercole Orlandi, usciere della Casa Pontificia. Agca era un personaggio noto al SISMI, il servizio segreto militare italiano infiltrato dalla P2, e sembra inoltre che fosse collegato con delle sette integraliste ispirate al culto di Fatima. Negli interrogatori un imputato al processo, complice di Agca, dirà che il compito del terrorista turco non era di uccidere Giovanni Paolo II, ma di ferirlo, una sorta di "avvertimento", e lo stesso Agca affermò che era stato raggiunto un accordo segreto tra la Casa Bianca e il Vaticano per il lancio politico-propagandistico della "verità ufficiale" sull'attentato, la cosiddetta "pista bulgara", accordo a cui hanno partecipato anche il vescovo Marcinkus ed Henry Kissinger. Ma Agca, sempre durante gli interrogatori, dimostrerà di essere a conoscenza del testo del terzo segreto di Fatima, non ancora rivelato, e di quella che sarebbe poi stata l'interpretazione del papa sul "vescovo vestito di bianco che cade a terra come morto", una conferma che il terrorista turco aveva avuto contatti con le più segrete stanze del Vaticano. Il pontefice era consapevole che i registi dell'attentato potevano essere in Vaticano e per questo rafforzò il potere dell'Opera: accordò, non senza resistenze della parte avversa, lo status di Prelatura personale all'Opus Dei e chiamò al vertice della Curia romana, con la nomina di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger, pupillo dell'Opus Dei, che si rivelerà subito un falco restauratore; con questa nomina la potente "ala tedesca" incassava il sostegno fornito all'elezione di Wojtyla. Dopo l'attentato, però, Giovanni Paolo II non era più lo stesso: anche se agli occhi del mondo continuava ad essere il papa viaggiatore, indomito e dalla forte personalità, in realtà la situazione era ben diversa: era preda di forti crisi depressive, demoralizzato, di umore cupo, al punto che aveva delegato alla Curia tutte le incombenze del pontificato, a parte i viaggi pastorali e le apparizioni pubbliche. Solo una questione sembrava scuoterlo ancora dalla sua apatia: la situazione polacca. Nel giugno del 1982 vi fu un incontro segreto in Vaticano fra il pontefice e il presidente USA Ronald Reagan. I due concordarono di intensificare gli aiuti a Solidarnosc: non solo finanziamenti, ma anche materiale, come ricetrasmittenti e computer, e servizi di intelligence; la base di coordinamento del piano venne stabilita a Bruxelles, dove periodicamente si sarebbero incontrati sacerdoti polacchi di Solidarnosc, emissari vaticani e agenti della CIA; Marcinkus si occupò di convogliare al sindacato di Walesa anche i finanziamenti americani. Ma il progetto dell'Opus Dei, di creare una teocrazia in Polonia, da estendere poi negli altri paesi dell'Est, scopo per il quale Wojtyla era stato eletto, era destinato a naufragare. Il pontefice continuava ad usare tutto il suo potere e la sua influenza, con numerosi viaggi in patria costellati di discorsi appassionati a sostegno di Lech Walesa, il quale a sua volta spesso si recava in Vaticano per discutere con il papa della situazione polacca. Ma Walesa si rivelò ben presto un politico inaffidabile, rozzo e maldestro, decisamente inadeguato al suo difficile compito: riuscì a farsi eleggere presidente della Polonia ma non fu in grado di governare a causa della risicata maggioranza, per cui fu costretto ad indire nuove elezioni dalle quali uscì sonoramente sconfitto, mettendo così fine al sogno dell'Opera e dello stesso pontefice. Ma il Vaticano, nel 1992, intervenne anche nell'esplosiva situazione della Jugoslavia, riconoscendo ufficialmente l'indipendenza della cattolica e "anticomunista" Croazia, un passo che contribuì al divampare della guerra in un crescendo di massacri etnici. Il presidente francese Francois Mitterand addossò esplicitamente al Vaticano la responsabilità della guerra e tempo dopo il quotidiano inglese The Guardian scriverà di finanziamenti vaticani al governo croato per l'acquisto di armi durante la guerra di Bosnia, notizia fermamente smentita dalla Santa Sede. Il pontificato wojtyliano è stato caratterizzato dalla costante preoccupazione per i diritti umani calpestati dai regimi comunisti ma da un atteggiamento pressoché indifferente quando gli stessi diritti umani venivano calpestati dai regimi di destra, perché un regime di destra, per quanto feroce, era "giustificato" dal suo essere "anticomunista". Questo spiega anche la complice indulgenza verso il sanguinario generale cileno Pinochet, vicenda che ha avuto come zelante cerimoniere il nunzio apostolico a Santiago monsignor Angelo Sodano, poi promosso cardinale e perfino Segretario di Stato al posto del cardinale Casaroli. A causa della sua salute sempre più precaria, però, Giovanni Paolo II di fatto non ha più governato la Chiesa negli ultimi anni, diventando solo un pontefice "simbolico", in balìa delle due fazioni avverse e senza più alcun potere decisionale.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 19:39

Discepoli di Verità "Senza misericordia. Come il cardinale Joseph Ratzinger è diventato papa Benedetto XVI" - Kaos Edizioni 2005



Joseph Alois Ratzinger è nato il 16 aprile 1927 a Marktl am Inn in Baviera (Germania). Nel 1943 fu arruolato nei servizi di contraerea a Monaco e nel settembre 1944 indossò la divisa della Wehrmacht. Di tutti questi anni però si sa poco perché Ratzinger è sempre stato molto evasivo nel raccontare le sue esperienze durante il periodo nazista. Sappiamo però che è stato allievo del professor Michael Schmaus, sostenitore dell'intesa Chiesa-nazismo durante il Terzo Reich e che è stato un acceso ammiratore dell'arcivescovo di Monaco cardinale Michael von Faulhaber (da cui ricevette l'ordinazione sacerdotale nel 1951), il quale era un grande estimatore di Hitler, al punto da essere ricevuto nella sua casa di montagna sull'Obersalzberg. Nel 1953 conseguì una brillante laurea in teologia, nel 1957 ottenne l'abilitazione all'insegnamento universitario in Dogmatica e Storia dei Dogmi e nel 1958 la cattedra a Frisinga; dopo circa un anno Ratzinger inizia ad insegnare a Bonn, dove conosce l'arcivescovo di Colonia cardinale Joseph Frings, con cui comincia una collaborazione in occasione dei lavori preparatori dell'imminente Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII. Nel 1962 il giovane teologo bavarese si reca a Roma al seguito del cardinale Frings, in qualità di consulente teologico; Ratzinger era un acceso esponente del partito progressista e auspicava un "salutare" rinnovamento della Chiesa, troppo arroccata, secondo lui, su una "sterile ortodossia". Dopo qualche anno, a causa del clima teso che si era venuto a creare all'Università di Bonn, si trasferisce a Munster; dopo pochi anni ancora un altro trasferimento, questa volta a Tubinga per ricoprire la cattedra di Dogmatica, dove però ben presto inizia ad avere forti dissapori con il suo collega Hans Kung, al punto da spingere Ratzinger a lasciare la cattedra e trasferirsi a Ratisbona. In seguito alla rivoluzione studentesca, alle contestazioni, di fronte al rischio di una "politicizzazione" della teologia e al pericolo che la figura di Cristo venisse ridotta a simbolo di lotta di classe, il professor Ratzinger mutò repentinamente le sue posizioni, fino a diventare il punto di riferimento della destra clericale tedesca e l'astro nascente del potente "partito tedesco" della Chiesa: tutto questo avveniva proprio mentre nella Curia vaticana la lotta tra le due fazioni (progressista e integralista) volgeva a favore della destra capeggiata dall'Opus Dei, e il tempestivo avvicinamento del teologo bavarese a quest'ultima gli aprì ben presto le porte del Vaticano. Il 28 maggio 1977 fu nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e il 27 giugno dello stesso anno Paolo VI gli attribuì la porpora cardinalizia. Ma il cardinale Ratzinger era un ambizioso intellettuale più che un umile pastore e guardava più alla nomenklatura vaticana che al gregge della sua arcidiocesi. Prima del secondo conclave del 1978 si saldò un'intesa fra l'Opus Dei e il "partito tedesco" per l'elezione papale dell'arcivescovo di Cracovia cardinale Karol Wojtyla. Una volta eletto, Giovanni Paolo II si premurò di onorare i debiti, attivandosi per attribuire all'Opera lo status di Prelatura personale e per iniziare la causa di beatificazione di Escrivà de Balaguer, suo fondatore. Inoltre, sembra per volere dell'arcivescovo di Monaco, Wojtyla ordinò alla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora con a capo il cardinale croato Franjio Seper) di colpire i teologi progressisti Jacques Pohier, Edward Schillebeeckx e soprattutto Hans Kung (Ratzinger non aveva dimenticato i passati contrasti avuti con lui), al quale fu revocato il mandato di professore di teologia cattolica con l'accusa di "deviazionismo dalla verità integrale della Chiesa". Nel 1981 il pontefice conferì al cardinale Ratzinger la carica di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, la poltrona più prestigiosa della Curia vaticana, seconda solo al trono papale. I primi provvedimenti del nuovo prefetto furono presi nei confronti degli esponenti della teologia della liberazione, accusati di essere filo-marxisti e troppo progressisti in materia di etica sessuale: furono colpiti il sacerdote Gustavo Gutiérrez, primo ideologo della teologia della liberazione; il frate francescano Leonardo Boff, ex allievo di Ratzinger, che fu costretto a tornare alla vita laicale, avendo rifiutato le imposizioni dell'ex Sant'Uffizio; il teologo Edward Schillebeeckx, che aveva preso le difese di Kung e Boff; il teologo Charles E. Curran, dichiarato "non idoneo all'insegnamento della teologia cattolica"; monsignor Pedro Casaldàliga, noto per la sua attività a sostegno degli indios e colpevole di aver definito "martire" monsignor Oscar Romero, vescovo di San Salvador ucciso nel 1980 mentre celebrava messa, personaggio inviso alla fazione opusiana; monsignor Raymond Hunthausen, pacifista e vicino alla comunità gay di Seattle. Il prefetto fu però molto indulgente di fronte alla "ribellione" di monsignor Marcel Lefebvre, vescovo tradizionalista e integralista, fondatore della Fraternità San Pio X a Econe (Svizzera), che continuava ad esercitare il suo ministero violando la sospensione a divinis inflittagli da Paolo VI, e nonostante le sue dichiarazioni apertamente anticonciliari. Anche dopo lo scandaloso scisma del 1988, quando Lefebvre consacrò quattro vescovi, Ratzinger fu pronto a riaccogliere quanti abbandonarono la Fraternità lefebvriana, ritirando tutte le censure e permettendo perfino che essi non sconfessassero l'operato del vescovo scismatico. La Congregazione per la Dottrina della Fede colpì anche il vescovo Jacques Gaillot, sostenitore dell'uso dei preservativi in funzione anti-Aids; la teologa Ivone Gebara, esponente della teologia femminista dell'America Latina; il direttore di Famiglia Cristiana don Leonardo Zega, estromesso dal giornale per essersi dimostrato troppo "comprensivo" in tema di omosessualità e divorzio; il teologo Tissa Balasuriya, colpevole di non riconoscere l'infallibilità del Pontefice; il pastore gesuita Anthony De Mello, che considerava Gesù un maestro accanto agli altri; il teologo gesuita Jacques Dupuis, troppo "simpatizzante" per le religioni orientali; padre Robert Nugent e suor Jeannine Gramick, colpevoli di prestare assistenza spirituale a gay e lesbiche; il teologo Eugen Drewermann, critico verso le gerarchie ecclesiastiche; i monsignori Karl Lehmann, Walter Kasper e Oskar Saier, che auspicavano un'apertura verso i divorziati risposati. Il prefetto detestava particolarmente monsignor Emmanuel Milingo, arcivescovo di Lusaka (Zambia), considerandolo una sorta di "stregone" per via delle sue pittoresche messe "miracolistiche"; inoltre, il grandissimo numero di fedeli che seguiva Milingo e il suo grande successo mediatico (con enormi flussi di denaro, un vero e proprio impero economico) era causa di forti invidie nella Curia vaticana. Monsignor Milingo fu convocato nel 1983 in Vaticano e sottoposto a una perizia psichiatrica dall'esito negativo e successivamente gli fu impedito di continuare ad esercitare il suo ministero. Per protesta Milingo, con una spettacolare provocazione, aderì alla setta del reverendo Moon e si unì in matrimonio all'adepta Maria Sung, con una grande cerimonia trasmessa in mondovisione. Nonostante l'enorme scandalo, il cardinale Ratzinger fu indulgente: l'arcivescovo africano fu ricevuto a Castelgandolfo da Giovanni Paolo II e tutto si risolse con un dare e un avere: monsignor Milingo cedette alla Curia vaticana tutto il suo impero e in cambio ottenne il perdono. Altre illustri "vittime" della Congregazione per la Dottrina della Fede furono il teologo liturgista Reinhard Messner, per un libro su Martin Lutero; padre Josef Imbach, il quale definì "da servizi segreti" i metodi ratzingeriani; il teologo moralista Marciano Vidal, troppo aperto sui temi dell'omosessualità e della contraccezione; il teologo laico Juan José Tamayo, per un libro "non conforme" alla dottrina; don Franco Barbero, favorevole alle unioni gay, che rispose ironico: "Siamo tutti etero e omo in mille modi diversi, Dio non fa un pezzo sbagliato, Lui non è la Fiat". A fronte di tutte queste "condanne", una gravissima denuncia per abusi sessuali su minori contro il fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel Degollado, era invece stata insabbiata dall'ex Sant'Uffizio: forse perché i Legionari erano una vera e propria potenza di denaro e vocazioni, avevano fatto molto per la Chiesa e padre Maciel era amico personale del papa e del segretario di Stato cardinale Angelo Sodano. Inoltre nel 2001 il prefetto Ratzinger mandò a tutti i vescovi e ai capi di congregazioni religiose una lettera con la disposizione che in caso di abusi sessuali di sacerdoti a danno di minori, si doveva inoltrare un rapporto alla Congregazione per la dottrina della Fede e lui stesso avrebbe stabilito se informarne il tribunale locale o lasciare il caso al Vaticano: un espediente per "filtrare" e "frenare" le denunce. Al pari di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger era una star dei media: apparizioni televisive, interviste, libri, convegni, articoli, conferenze stampa: ogni occasione era buona per ostentare il proprio potere, al punto da arrivare a polemizzare con Giovanni Paolo I, il quale aveva sostenuto che Dio fosse tanto Padre quanto Madre: "...Non siamo autorizzati a trasformare il Padre nostro in una Madre nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci"; e con Paolo VI, sostenendo di essere rimasto "sbigottito" quando papa Montini aveva deciso di abolire l'uso del messale in latino di Pio V, decisione che "ha comportato una rottura nella storia della liturgia le cui conseguenze potevano essere solo tragiche"; o da insolentire la religione buddista definendola "un autoerotismo spirituale"; o ancora, da pubblicare un articolo in memoria del cardinale Alojzije Stepinac, santificando la torbida figura dell'ex arcivescovo di Zagabria e definendolo "un uomo con la coscienza illuminata dalla parola di Cristo". Ideologo dottrinario del pontificato wojtyliano, il cardinale Ratzinger deteneva un enorme potere, tanto che era considerato ormai da anni un pontefice ufficioso, in attesa di diventarlo ufficialmente il 19 aprile 2005, con il nome di Benedetto XVI.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 19:56

Renato Pierri "La sposa di Gesù crocifisso. Il calvario di Gemma Galgani, condannata alla santità in nome di un falso Dio" - Kaos Edizioni 2001



Gemma Galgani nacque il 12 marzo 1878 a Borgonuovo di Camigliano (Lucca) dalla religiosissima signora Aurelia a da Enrico Galgani, farmacista, il quale ben presto decise di trasferirsi con la numerosa famiglia (Gemma era la quinta di otto figli) a Lucca, città che gli avrebbe garantito guadagni maggiori e un migliore tenore di vita. Dai due ai sette anni Gemma frequentò il semiconvitto delle sorelle Vallini che inculcarono alla piccola una religiosità quasi parossistica: erano i peccati come i suoi a provocare le gocce di sangue sul volto di Gesù, erano le persone cattive come lei a lacerare a Cristo le mani, i piedi e il costato e, di conseguenza, ogni volta che Gemma toccava il proprio corpo Gesù soffriva di nuovo le atroci pene che aveva patito sulla croce. Questi "insegnamenti" portarono la piccola a rifiutare persino i baci del padre e qualsiasi manifestazione fisica di affetto. Dopo la morte della madre in seguito ad una lunga malattia, la bambina entrò nel convitto delle Oblate dello Spirito Santo, un ambiente opprimente e ossessionato dal peccato che aggravò la situazione psicologica già precaria di Gemma. Dopo la prima comunione all'età di nove anni, un evento importantissimo per lei in quanto rappresentava la liberazione da tutti i peccati con i quali fino ad allora aveva offeso Gesù, la garanzia di non cedere più alle "un po' sudice tentazioni" e la certezza di evitare l'inferno, Gemma, che considerava un dogma la peccaminosità del proprio corpo, maturò una isterica repulsione per le "tentazioni della carne" e una vera ossessione per il Cristo sanguinante e agonizzante sulla croce, fino a convincersi di essere la sua "sposa" e a decidere di rifiutare qualsiasi contatto con il genere maschile facendo voto di castità. Dopo qualche anno morì il fratello che lei amava più di tutti, Gino, e le condizioni psicologiche di Gemma peggiorarono: aveva delle visioni e supplicava il suo sposo Gesù di procurarle qualche malanno fisico. Quando un giorno le si rovesciò addosso una pesante panca colpendole un piede, Gemma si convinse che il Signore avesse esaudito le sue preghiere: l'arto colpito si infettò e fu necessario un dolorosissimo intervento chirurgico che la ragazza affrontò senza anestesia perché voleva soffrire il più possibile per soddisfare il suo bisogno di punirsi e perché non voleva che il suo corpo immacolato, che apparteneva solo a Gesù, venisse denudato e sottratto alla propria sorveglianza. In seguito alla morte del padre e alla chiusura della farmacia, Gemma si trasferì a Camaiore dagli zii, aiutandoli nel loro negozietto. Essendo una ragazza molto bella, ben presto arrivarono delle proposte di matrimonio che la gettarono nello sconforto più nero: non poteva accettare di avere accanto a sé un uomo, il suo corpo apparteneva solo a Gesù. I suoi tormenti la portarono ad ammalarsi e dovette tornare a Lucca. Soffriva di tremendi dolori ai reni e alla spina dorsale, di emicranie, di un'otite purulenta, di una copiosa caduta di capelli e di sintomi di paralisi, sintomi che lei cercava di tenere nascosti per non dover mostrare il proprio corpo al medico... lei stessa evitava di toccare o anche solo di guardare le parti che le dolevano perché era convinta della "impurità peccaminosa" del corpo in quanto tale e voleva che il suo corpo continuasse ad essere l'incontaminato "tempio dello Spirito Santo". I medici ad un certo punto decisero di intervenire chirurgicamente: "... l'operazione dell'ascesso ai reni, e l'applicazione di dodici bottoni di fuoco alla colonna spinale. Anche questa volta, però, Gemma non volle farsi addormentare, perché contenta di soffrire, e per poter vegliare da sé alla custodia del suo corpo". Gemma guarì e la notizia del "miracolo" si sparse per tutta la città. La ragazza continuava ad avere visioni, a fare continue penitenze fino al giorno della vigilia della festa del Sacro Cuore del 1899, quando ricevette dal Signore il marchio della santità: le stimmate, fenomeno che continuò a ripetersi ogni settimana fra giovedì e venerdì; due anni dopo provò anche il tormento della flagellazione e della corona di spine: "Sono momenti dolorosi ma momenti felici... Ieri Gesù mi fece soffrire tanto, sudai tutto il giorno sangue... Gesù mi raccomanda continuamente che non mi faccia accorgere di niente da quelli di casa mia, se no mi castiga". La voce che la giovane avesse le stimmate si sparse per la bigotta Lucca in breve tempo e le mani di Gemma divennero oggetto di morbose curiosità collettive. Ma sulla autenticità di questi fenomeni vi è più di qualche dubbio: è certo che Gemma torturava il proprio corpo con diversi strumenti... Padre Germano, il suo padre spirituale, riferì che la giovane "andava scalza, cioè senza calze, durante l'inverno. Portava il cilizio, finché non le fu proibito. Il padre Gaetano le tolse una corda tutta irta di bullette, che essa stessa si era composta. Io le tolsi un'altra corda con nodi e una disciplina di ferro"; la sua padrona di casa, signora Giannini, testimonierà: "Una volta l'ho trovata a terra svenuta con del sangue, ed accanto a lei vi era una disciplina di ferro... Due volte l'ho trovata cinta con una fune mentre ella era fuori dei sensi. Ho saputo da persone che l'hanno veduta, prima che stesse con me, legata con una fune con molti piccoli chiodi, che le erano entrati nella carne". Affetta da schizofrenìa, ossessionata dall'immagine di Cristo nudo e sanguinante, Gemma sublimava verso quell'immagine tutte le sue naturali pulsioni erotiche: "Mi posò le spine sul mio capo, cagione di tante pene al mio caro Gesù, e me la lasciò per più ore. Mi fece un po' soffrire, ma che dico soffrire, godere. E' un godere quel soffrire" e ancora: "Io brucio delle stesse fiamme, son legata dalle stesse catene. Stai pur lontano, Gesù: basta che non mi manchi mai il tuo amore... Il mondo sia pur fosco, non me ne importa nulla. Accendimi: il tuo amore mi basta. Vorrei che tutti mi dicessero che il tuo amore mi ha consumato. Amore, amore!"... Gemma era stata destinata fin dalla nascita a diventare santa e spese tutta la sua vita nel tentativo di veder riconosciuta la sua santità: se qualcuno metteva in dubbio l'autenticità delle sue visioni e delle sue esperienze mistiche, per lei era un dramma che la portava ad una sempre maggiore prostrazione fisica e psicologica e la spingeva sempre più a torturarsi nella convinzione che fosse necessario, appunto, per "diventare santa". Nel 1902 la ragazza si ammalò di tubercolosi, malattia che la portò alla morte, fra atroci sofferenze, l'11 aprile del 1903. Ma a coloro che volevano Gemma santa a tutti i costi non erano bastati i tormenti che la poveretta aveva subìto da viva: occorreva cercare qualche prova in più per dimostrare la santità della vergine lucchese: "Essa era già stata sepolta nella sua bara e calata nel sepolcro, quando un telegramma del padre Germano ricordò alla famiglia Giannini il disegno concepito di fare l'autopsia del cadavere per vedere se nel cuore di lei, come in quello di altre sante, si trovassero segni speciali e straordinari". Così si procedette alla riesumazione del cadavere di Gemma da cui venne estratto il cuore che fu tagliato in due parti, ma in esso non vi era niente di "speciale e straordinario". In seguito però alla pubblicazione dell'agiografia della santa ad opera di padre Germano intitolata Biografia della Serva di Dio Gemma Galgani, vergine lucchese e alla certificazione di alcuni miracoli operati post mortem, Gemma Galgani fu annoverata da Pio X, il 14 maggio del 1933, fra i beati della Chiesa e innalzata da Pio XII alla gloria degli altari il 2 maggio 1940.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 19:57

Marcel Simon, André Benoit "Giudaismo e cristianesimo. Una storia antica" - Economica Laterza 2005



ELEMENTI GIUDAICI ED ELEMENTI GRECI NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO


1. Il problema

Nato dal giudaismo, il cristianesimo si è impiantato e sviluppato in ambiente greco-romano. Fenomeno originale, esso ha ugualmente sentito l'influenza dell'ambiente nel quale si è sviluppato. Uno dei problemi maggiori della storia delle origini cristiane è appunto quello di precisare il peso degli elementi giudaici e degli elementi ellenistici nella sua genesi ed evoluzione. La ricerca ha conosciuto e conosce ancora, in questo settore, esitazioni e incertezze. Gli studi sono stati a lungo dominati dagli a priori confessionali e da una certa concezione dell'ortodossia che faceva dell'originalità assoluta il criterio di verità. Non c'era posto, nella storia cristiana, per influenze e apporti esterni. Nella lotta tra verità ed errore il cristianesimo si presentava come completamente diverso da tutto ciò che lo circondava e non paragonabile nemmeno con ciò che poteva somigliargli. Stabilire un paragone che potesse chiarire certe affinità dovute all'influenza dell'ambiente, significava misconoscere l'essenza della rivelazione; lo storico cristiano si sentiva quindi spesso tenuto a "sottrarre il Vangelo ad accostamenti compromettenti" (M.J. Lagrange). Senza contestare l'esistenza e la legittimità dello sforzo di sintesi tentato da alcuni Padri della Chiesa, tra la rivelazione biblica e il pensiero greco, diversi studiosi cattolici hanno cercato almeno di negare qualsiasi influenza della religiosità pagana sugli scritti neo-testamentari. Alcuni protestanti liberali invece, credendo di trovare in un cristianesimo senza dogmi la purezza e la semplicità del messaggio evangelico primitivo, consideravano come una deviazione tutto il sistema dottrinale della Chiesa antica e tutto ciò che, anche nel Nuovo Testamento, sembrava portare il segno della speculazione filosofica greca. Si contrapponeva allora al "Discorso della montagna", con il suo contenuto etico, il credo di Nicea, così carico di metafisica: "Il primo appartiene al mondo dei contadini siriaci, il secondo al mondo dei filosofi greci". I primi tentativi di illuminare il cristianesimo nascente attraverso il suo contesto pagano sono nati sia da questa tendenza, sia dall'iniziativa di studiosi non confessionali, inclini talvolta a vedere nel cristianesimo un semplice sottoprodotto della religiosità ellenistica. Essi, a torto o a ragione, sono sembrati nel primo caso dei nemici del cattolicesimo, nel secondo, dei nemici del cristianesimo in generale. Per arrivare a una visione più serena e nello stesso tempo più realistica, è necessario che la storia si liberi sia dalla tutela della teologia e dell'apologetica sia da quella delle diverse ideologie antireligiose. Si pensi, a questo proposito, al tentativo degli storici marxisti per spiegare il cristianesimo. Per questi studiosi ogni religione è rigorosamente determinata dalle condizioni sociali ed economiche del gruppo nel quale essa si sviluppa. In particolare il cristianesimo sarebbe, all'inizio, l'espressione del proletariato. Il fermento rivoluzionario implicito nel cristianesimo sarebbe stato soffocato dal fatto che esso predicava la rassegnazione e non la lotta violenta, e prometteva ai diseredati la ricompensa della loro miseria presente in un Regno futuro. Il cristianesimo avrebbe dunque avuto anche un aspetto reazionario. Quest'ultima caratteristica si sarebbe andata sempre più accentuando con l'assimilazione di elementi intellettuali modellati sulla cultura delle classi dirigenti e soprattutto con l'alleanza con l'autorità imperiale al tempo di Costantino.


2. Cristianesimo ed ellenismo

Gli storici del cristianesimo sono oggi generalmente d'accordo, siano essi credenti o no, nell'affermare da una parte la specificità del fatto religioso che, malgrado interferenze spesso importanti, non si lascia ridurre all'infrastruttura economica, sociale o politica di un ambiente determinato, dall'altra la necessaria autonomia della loro disciplina da ogni costruzione teologica o filosofica. Anche quegli studiosi che sono più legati a posizioni confessionali riconoscono che il cristianesimo, in quanto fenomeno storico, non si è sviluppato in una campana di vetro. La possibilità di influenze provenienti dall'ambiente non possono essere dunque scartate a priori. È necessario anzi cercare di valutarle nella loro giusta misura e di precisare i punti di contatto. Posto di fronte alla cultura greco-romana, il cristianesimo si è sforzato di assimilarne certi valori, adattandoli e ripensandoli. Già gli Apologisti del II secolo e, con maggiore ampiezza e in modo più sistematico, i grandi alessandrini, Clemente e Origene, e poi i Padri della fine del IV secolo, Agostino in Occidente e i Cappadoci in Oriente, Basilio, Gregorio di Nissa, Gregorio il Nazianzo, hanno tentato di realizzare una sintesi tra il cristianesimo e la cultura classica. Le controversie dottrinali del III e del IV secolo e le conseguenti formulazioni dell'ortodossia ecclesiastica fanno largo uso del vocabolario e dei concetti della filosofia greca. È questo un fatto universalmente riconosciuto. Il problema è quello di determinare quando ebbe inizio questo processo.


3. Il paolinismo

Le ricerche al riguardo sono concentrate soprattutto sul pensiero di san Paolo. La scuola comparatista, detta religionsgeschichtliche Schule, che si è sviluppata in Germania all'inizio del secolo (Reitzenstein, Bousset, ecc.), le cui posizioni erano rappresentate in Francia da Loisy e Guignebert, si è applicata a mettere in luce le analogie esistenti tra il paolinismo e alcuni aspetti della religiosità pagana dell'epoca. Secondo questi studiosi tali analogie erano troppo precise per essere fortuite: dovevano quindi essere spiegate con l'influenza dell'ambiente ellenistico sul cristianesimo nascente. I punti di paragone e le possibili fonti di influenza non dovevano essere ricercate nella filosofia greca classica, in quell'epoca ormai in declino, e con la quale i cristiani della prima generazione non avevano avuto, a quanto pare, alcun contatto, se non sotto una forma volgarizzata in cui la morale occupava un posto maggiore della metafisica (diatriba cinico-stoica), quanto nel pensiero specificamente religioso: culti misterici, ermetismo, gnosi pagane.


a) La cronologia

Alla scuola comparatista si rivolge innanzi tutto una obiezione preliminare. La grande diffusione dei culti misterici nell'Impero (II-III secolo) e la redazione degli scritti ermetici così come ci sono giunti, sono posteriori all'entrata in scena del cristianesimo, e la stessa esistenza di sistemi gnostici anteriori alla gnosi cristiana o cristianizzante del II secolo, resta ipotetica. Influenze sul cristianesimo nascente sarebbero dunque così escluse dalla cronologia. Alcuni hanno quindi pensato di individuarle in senso inverso. In realtà l'impronta del cristianesimo sugli scritti ermetici appare certa, ma ciò non esclude che le dottrine ermetiche abbiano delle radici precristiane. I culti misterici inoltre hanno origini ben più antiche del cristianesimo. Essi avevano già cominciato a diffondersi nel bacino del Mediterraneo, in particolare nella parte orientale, quando la missione cristiana era ancora agli inizi. Anche per ciò che riguarda l'Occidente, la prima diffusione del culto di Mitra, per esempio, è immediatamente successiva alle campagne romane contro Mitridate e contro i pirati di Cilicia (verso il 67 a.C.). Si discute ancora se la setta dei Mandei, ancor oggi rappresentata in Mesopotamia, della quale possediamo gli scritti, e alla quale alcuni studiosi hanno attribuito un ruolo importante nelle origini cristiane, sia anteriore al cristianesimo o no. Ma l'esistenza di varie forme di pre- o proto-gnosticismo, contemporanee almeno agli inizi del cristianesimo, è sempre più generalmente ammessa. Quando inoltre si ritrova in san Paolo una concezione di cui né la predicazione di Gesù né gli insegnamenti della Sinagoga presentano l'equivalente o forniscono la possibile fonte, è metodologicamente legittimo cercarne le radici nell'ambiente ellenistico pagano.


b) L'ambiente di Tarso

La città natale dell'Apostolo, Tarso in Cilicia, in cui egli trascorse almeno una parte della sua giovinezza, era un importante centro religioso e intellettuale. Vi si celebrava in particolare il culto dell'imperatore, venerato come Signore (Kyrios) e Salvatore (Soter), e quello di una divinità agreste, Sandan, assimilata dai greci a Eracle, che aveva alcune caratteristiche tipiche delle divinità misteriche. Certamente Paolo non praticò né l'uno né l'altro di questi culti. Non è però assurdo supporre che egli assistette alle cerimonie pubbliche di questi culti apprendendone la terminologia e i concetti fondamentali. Si deve anche immaginare che per attrarre i pagani al Vangelo - e ciò vale anche per gli altri missionari - egli utilizzasse termini che fossero loro familiari. Si spiegano così certe analogie precise di vocabolario tra il paganesimo dell'epoca e le epistole di Paolo, in cui termini come gnosis, mysterion, sophia, Kyrios, Soter, svolgono un ruolo importante. Ma questa comunanza terminologica tradisce dei punti di contatto più profondi.


c) Paolo e la gnosi

Paolo polemizza talvolta con le eresie di tipo gnostico che hanno contaminato alcuni membri delle sue comunità (I Corinzi 15, sulla negazione della resurrezione e l'affermazione di una sopravvivenza puramente spirituale; Colossesi 2, sul culto giudaizzante degli angeli e degli "elementi" del Cosmo, cioè degli astri). Ma il suo stesso pensiero presenta tratti chiaramente derivati dallo gnosticismo. L'universo, asservito alle potenze demoniache (I Corinzi 2,8), che sono precisamente gli "elementi" (Galati 4,3 e 9), appare come un recinto in cui si affrontano i padroni del momento e Dio, che deve ricondurlo all'ordine iniziale, interrotto da una caduta che coinvolge l'intero creato. Questa prospettiva è dualistica, e si esprime nell'opposizione, estranea al giudaismo tradizionale, di spirito e carne (I Corinzi 2,14 sgg.; 15,44). Il fine del cristiano è quello di sottrarsi al dominio del male, di spogliarsi dell'uomo carnale per essere puramente spirituale (pneumatikos). È necessario a questo scopo che egli acquisisca la conoscenza o gnosi di salvezza, rivelata dal Cristo (II Corinzi 4,6). Ma mentre gli gnostici distinguono in generale il Dio supremo e redentore dal Creatore o Demiurgo, ridotto al rango di Dio subalterno, di potenza malefica, Paolo non pensa nemmeno lontanamente a mettere in dubbio l'identità del Dio supremo, unico, e del Creatore. Il suo Dio è quello della Bibbia. L'influenza del male sul mondo è la conseguenza della caduta dell'uomo, non è implicita nell'atto della creazione né è nata dalla caduta nella materia dell'elemento divino. Il dualismo di Paolo è così soltanto contingente: le sue conseguenze, già virtualmente cancellate dalla morte e resurrezione del Cristo, saranno totalmente eliminate alla fine dei tempi. Non si tratta dunque, in questa prospettiva, di strappare l'uomo a un mondo che per sua stessa natura è cattivo, ma di condurre il mondo stesso, opera di un Creatore buono, alla totale sottomissione a Dio e contemporaneamente alla sua originaria perfezione, per mezzo di una sorta di seconda creazione, che è anche redenzione (I Corinzi 5,17). Il rigore del monoteismo giudaico e l'ottimismo fondamentale della Bibbia assegnano limiti precisi al dualismo di Paolo.


d) La gnosi e il quarto Vangelo

Ciò che abbiamo detto di Paolo è valido anche per il quarto Vangelo, in cui il Cristo è presentato con dei tratti che per molti aspetti richiamano lo gnosticismo: basti pensare a quella così caratteristica opposizione tra vita e morte, tra luce e tenebre. Sebbene "il mondo" non abbia riconosciuto "la luce", che è il Cristo Logos, è dalla luce che il mondo è stato creato (Giovanni 1,10). Non si tratta dunque di eliminare un mondo che è per il momento avvolto nelle tenebre e assoggettato alla morte, ma di ricuperarlo totalmente: è per questo che "il Verbo si è fatto carne" (Giovanni 1,14). Mentre nei sistemi gnostici l'incarnazione di un essere celeste e spirituale, attratto dal mondo materiale, segna in generale l'origine della degradazione universale e costituisce propriamente la caduta, nel quarto Vangelo essa è l'origine del riscatto. Così l'opposizione gnostica tra spirito e carne viene superata, perché la carne stessa, ricettacolo e simbolo del male, è come spiritualizzata dall'incarnazione del Verbo.


e) Misteri pagani e mistero cristiano

Strumento della liberazione sarà per i cristiani, secondo Paolo, l'unione mistica con il Cristo più che una conoscenza salvifica. Per questo aspetto il pensiero di Paolo è più vicino alle religioni misteriche che a una qualsiasi forma di gnosi. Il fedele, morto e risuscitato con il Cristo nel battesimo, partecipa per mezzo di questa unione sacramentale al destino del Salvatore. Gli effetti del battesimo sono rafforzati dalla partecipazione all'eucaristia. Il fedele, integrato al corpo del Cristo, che è la Chiesa, è virtualmente sottratto alle potenze del male e conquista, se saprà evitare una ricaduta, la certezza della resurrezione e di un'immortalità felice. Così pure divenendo misticamente partecipe, per mezzo di alcuni riti di cui purtroppo ignoriamo i particolari, del destino del suo dio, il fedele di Osiris o di Attis si assicura la salvezza per l'eternità. È difficile, nel trattare la concezione paolina della salvezza mediante l'assimilazione del fedele al Cristo, non tener conto delle influenze dei culti misterici, più o meno consapevolmente subite da Paolo. Ma anche in questo caso le differenze sono molto chiare. I misteri pagani, con la sola eccezione del mithraismo - che non possiede l'idea di un dio che muore e risuscita, come Attis o Osiris, anche se possiede quella di un dio salvatore - non attribuiscono all'opera di salvezza del loro dio una dimensione cosmica, né un valore propriamente di redenzione: non è per riscattare l'umanità e il mondo che le divinità di queste religioni subiscono la morte. Esse muoiono vittime della fatalità o delle potenze malefiche, e non nel quadro di un piano divino che fa della loro morte la condizione e lo strumento del riscatto universale. La loro morte e la loro resurrezione non fanno altro che ripetere il ciclo immutabile della vegetazione, che muore in autunno per rinascere in primavera. È a titolo individuale che il fedele è associato al loro destino: l'idea paolina della Chiesa corpo del Cristo non sembra avere equivalenti nel mondo pagano. Infine la figura centrale del mistero cristiano non è, come nei misteri pagani, una figura mitica, la cui esistenza terrena, come l'immaginano i fedeli, si collochi alle lontane origini dell'umanità. È un personaggio storico, di una storia recentissima, che "ha sofferto sotto Ponzio Pilato".


f) Importanza e limiti delle influenze ellenistiche in Paolo

Se l'originalità del cristianesimo di Paolo in rapporto a quello di Gerusalemme e allo stesso messaggio di Gesù, si spiega in larga misura con l'influenza dell'ambiente ellenistico, questa influenza è tuttavia limitata dall'esistenza storica di Gesù, dalla tradizione biblica a cui Paolo è strettamente legato, e anche dal fatto che l'Apostolo, sia prima che dopo la conversione, vedeva nel paganesimo un'opera del demonio e rifiutava ogni compromesso con esso. Si ha talvolta la sensazione che Paolo, segnato dal suo atavismo giudaico, si sforzi più o meno consapevolmente di conciliare ciò che è difficilmente conciliabile. Le esitazioni del suo pensiero riguardo, per esempio, alla vita futura potrebbero spiegarsi bene così. Come ex-fariseo egli professava la resurrezione dei corpi, che un greco difficilmente avrebbe ammesso, alla fine dei tempi. La resurrezione del Cristo, elemento essenziale della sua predicazione, rinforzò in lui questa concezione tradizionale: la resurrezione di Cristo garantisce quella dei fedeli (I Corinzi 15,12 sgg.). Ma egli tende anche talvolta verso l'idea di una immortalità, immediatamente successiva alla morte del corpo, come la concepiva la filosofia spiritualistica greca (II Corinzi 5,8; Filippesi 1,23). È tuttavia difficile per lui immaginare una sopravvivenza del tutto spirituale: da ciò deriva la sua concezione del "corpo spirituale" (I Corinzi 15,44 sgg.) e la sua tacita assimilazione di resurrezione corporea e immortalità, perché negare l'una avrebbe significato per lui negare anche l'altra.


4. Cristianesimo e giudaismo

Nel campo delle origini cristiane non bisogna mai porre in maniera troppo netta il dilemma: giudaico o greco? Non è infatti possibile contrapporre i due termini. Lo stesso giudaismo, malgrado il suo rifiuto di ogni sincretismo, non poté restare completamente chiuso alle influenze esterne. È proprio in gran parte attraverso il giudaismo ellenizzato della Diaspora che queste influenze raggiunsero san Paolo e, più in generale, il cristianesimo nascente.


a) Il giudaismo ellenistico

Paolo conosceva probabilmente l'ebraico e l'aramaico. Ma fu il greco, anche se ci appare così pieno di semitismi, la sua lingua materna; ed è nella traduzione dei Settanta che egli legge e cita - talvolta a memoria - la Bibbia. Certamente egli non conobbe Filone. Esistono tuttavia tra i due affinità di pensiero dovute al fatto che essi vivevano in ambienti intellettuali simili e attingevano alle stesse fonti. È difficile credere che Filone presentasse sistematicamente il giudaismo in termini di mistero ellenistico. Si trovano per altro nelle sue opere elementi attinti, secondo ogni apparenza, alle religioni misteriche. Per Paolo come per Filone, la letteratura giudaica sapienziale, canonica o non (Sapienza di Salomone, Proverbi, Ecclesiaste, Siracide), rappresenta uno dei più importanti anelli di congiunzione con il pensiero greco. Il cristianesimo per altro, nel momento in cui cominciò a rivolgersi ai Gentili, si collocò in qualche modo nel solco del giudaismo alessandrino. Attinse a questo il metodo dell'esegesi allegorica, anch'esso di origine pagana, che viene applicato all'Antico Testamento, e che la Lettera di Aristea e, con maggiore ampiezza, Filone avevano già praticato.


b) L'esegesi allegorica

L'allegoria serviva ai giudei alessandrini per rinforzare l'autorità della Legge. Al contrario, per i cristiani essa serviva a dimostrare che la Legge, dopo la venuta del Cristo, non poteva avere altro che un valore simbolico. Se essi, come l'Epistola di Barnaba e i giudei ellenizzati, vedono volentieri nei riti o negli episodi biblici l'espressione di verità metafisiche o morali, vi cercano anche e soprattutto l'annuncio delle realtà cristiane: il sacrificio di Isacco, per esempio, prefigura quello di Cristo. Alla dimensione verticale dell'allegoria giudaica si aggiunge e spesso si sostituisce una dimensione orizzontale e storica; all'allegoria si unisce una tipologia: la Legge rituale è sia "l'immagine e l'ombra delle cose celesti" sia "l'ombra dei beni futuri" (Ebrei 8,5 e 10,1).


c) Filone e il Nuovo Testamento

Il pensiero di Filone presenta affinità troppo precise, con certi scritti del Nuovo Testamento, per essere fortuite: basti pensare al prologo del quarto Vangelo e alla sua dottrina del Logos, o in maniera ancora più evidente, all'Epistola agli Ebrei, che potrebbe essere certo opera di un "filoniano convertito al cristianesimo". Anche il Logos di Giovanni presenta tratti e caratteristiche simili a quello di Filone, con la differenza fondamentale che per Giovanni il Logos si è fatto carne; l'incarnazione del Verbo è infatti impensabile nella teologia di Filone. L'originalità essenziale del cristianesimo di fronte a tutte le sfumature del giudaismo consiste proprio nell'identificazione, nella persona di Gesù, del Logos e del Messia. Resta sempre comunque il fatto che il cristianesimo non avrebbe mai potuto spiegare Gesù come Logos se questa parola e questo concetto non fossero stati divulgati da Filone nel giudaismo alessandrino. Il pensiero di Filone poté influenzare però soltanto un cristianesimo che stava già ellenizzandosi. Le influenze giudeo-alessandrine rappresentano quindi un fenomeno non immediato. Pur avendo contribuito in modo notevole a modellare la teologia della Chiesa nascente, esse non si ritrovano nella genesi del cristianesimo né nelle forme più arcaiche della cristologia. Prima di riconoscere in lui il Logos fatto uomo, i primi cristiani hanno interpretato la figura di Gesù in termini prettamente biblici: Profeta, Messia, Servo Sofferente, Figlio dell'Uomo. È dalla Palestina che sono venuti i primi apporti e le prime influenze.


d) Il giudaismo palestinese

L'opposizione tra il giudaismo della Diaspora e quello palestinese è stata spesso esagerata. Non esiste un solco profondo tra queste due metà del mondo giudaico. Il problema deve essere molto più sfumato di quanto talvolta si è creduto. La tradizione di pensiero alessandrina non è rappresentativa della Diaspora nel suo complesso, nella quale la Terra Santa mantiene un grande prestigio ed esercita una notevole influenza. Studi recenti hanno messo in luce precise affinità tra san Paolo e il giudaismo rabbinico, quello delle scuole palestinesi. Così pure, se quest'ultimo è certamente molto meno ellenizzato di quello d'Alessandria, non è tuttavia completamente chiuso alle suggestioni della cultura greco-romana. Il greco era utilizzato in Palestina anche dai rabbini: l'uso di questa lingua portava spesso, come conseguenza, influenze più profonde. Esse non furono però così importanti come ad Alessandria: è il giudaismo palestinese in definitiva, considerato nei suoi tratti specifici, che ci fornisce il maggior numero di elementi utili a illuminare le origini del cristianesimo. È necessario dunque inquadrarlo in tutta la sua complessità.


e) Sadducei e Farisei

Sebbene gli Atti (6,7) ricordino la conversione di numerosi sacerdoti, non sembra che la Chiesa nascente debba molto ai Sadducei, avversari principali di Gesù, e il cui spirito e le cui tendenze appaiono diametralmente opposte a quelle dei primi discepoli. Il problema dei Farisei è più delicato. Sempre secondo gli Atti (15,5), la Chiesa primitiva trovò tra i Farisei dei seguaci intransigenti, che pretendevano dai pagani convertiti un'osservanza integrale della Legge, al contrario di quanto predicava san Paolo. Il loro ruolo fu forse considerevole nello sviluppo del giudeo-cristianesimo classico, rappresentato alla prima generazione da Giacomo, fratello del Signore. Fu tuttavia con un giudaismo identificato, dopo il 70, con il fariseismo, che la Chiesa nascente ruppe i ponti, e fu intorno al fariseismo che si organizzò la resistenza giudaica al cristianesimo. L'intervento di san Paolo e l'interpretazione particolare che egli propose del messaggio cristiano, ebbero un'importanza decisiva nell'irrigidimento giudaico. Ma il conflitto era già in germe all'inizio stesso dello sviluppo della Chiesa, e nella predicazione di Gesù. Se tra quest'ultima e l'insegnamento rabbinico si possono notare affinità precise su diversi punti, è anche vero che i Vangeli rivelano dei contrasti di fondo: troviamo in essi molto più che una semplice trasposizione, anticipata nella vita del Maestro, delle polemiche della seconda generazione cristiana con la Sinagoga. Gesù rivendicava un'autorità eccezionale che lo portò a negare l'insegnamento tradizionale degli "antichi" e addirittura a correggere la stessa Legge di Mosè. In effetti, se si considerano le credenze fondamentali e le aspirazioni della Chiesa nascente, è dalla parte degli ambienti apocalittici, che ispirano tra l'altro alcuni Apocrifi e Pseudoepigrafi dell'Antico Testamento, che notiamo le affinità più nette.


f) Gesù e gli Zeloti

Alcuni studiosi hanno creduto di poter individuare un legame tra il cristianesimo nascente e il nazionalismo zelota. Gesù e i suoi discepoli avrebbero predicato un messianismo politico ostile a Roma e tendente a instaurare, in una Palestina liberata dagli idolatri, la regalità del Cristo. Proprio per aver partecipato attivamente alla rivolta giudaica la Chiesa di Gerusalemme avrebbe perduto, dopo il 70, ogni influenza sulla giovane cristianità. Questi studiosi sono costretti a respingere la testimonianza di Egesippo, secondo il quale i primi discepoli avrebbero lasciato Gerusalemme per trasferirsi nella città transgiordana di Pella, già all'inizio delle ostilità, separando così la propria responsabilità da quella degli insorti. Essi danno invece stranamente credito ad alcuni passi, estremamente sospetti, di una versione slava di Flavio Giuseppe, che fanno di Gesù un agitatore politico. L'eclissi della Chiesa madre dopo il 70 trova una spiegazione sufficiente nel suo isolamento geografico e nel fatto che essa restò legata al ritualismo giudaico, ripudiato in seguito da Paolo a causa dei fedeli di origine pagana. Se Gesù fu effettivamente giustiziato, come uno zelota, per messianismo politico, ciò avvenne a causa di un'interpretazione errata, voluta o non, del significato del suo messaggio, le cui implicazioni rivoluzionarie nei confronti dell'ordine romano erano di tutt'altra natura dell'appello degli Zeloti alla violenza. Gesù visse per altro in un ambiente profondamente permeato dalle idee degli Zeloti e dovette prendere posizione di fronte a esse, sconfessandole.


5. Qumran e il cristianesimo

In definitiva è soprattutto in rapporto a tendenze e raggruppamenti marginali che si pone il problema delle influenze subite dal cristianesimo nascente. Questo problema è stato completamente rinnovato dalla scoperta dei manoscritti del Mar Morto. Le appassionate polemiche suscitate da questi testi si sono gradualmente placate e, in un'atmosfera divenuta sempre più serena, le iniziali divergenze si sono progressivamente ridotte. Un accordo quasi unanime esiste oggi sui punti essenziali.


a) Stato della questione

I documenti del Mar Morto - sia che si tratti della redazione stessa degli scritti o dei manoscritti che ce li hanno tramandati - non possono essere posteriori alla guerra giudaica, nel corso della quale il monastero di Qumran fu distrutto e definitivamente abbandonato: è questo un tipico esempio di quanto l'archeologia possa aiutare lo storico. La comunità da cui essi provengono è quella degli Esseni. Nessuna delle altre identificazioni proposte è pienamente soddisfacente. Tutte sollevano infatti obiezioni non facilmente eliminabili. In particolare non resiste all'esame la tesi zelota che ha conosciuto una certa eco grazie a studiosi di notevole valore. Essa però, insistendo sul bellicoso spirito di rivincita antiromana che anima alcuni scritti, ha contribuito a sottolineare le contraddizioni esistenti con quel quadro idillico di un essenismo pacifista disegnato da Filone e Giuseppe. Si possono prospettare varie ipotesi: che questi autori abbiano sbagliato oppure che ci abbiano ingannato, o che l'essenismo fosse diviso su questo punto fondamentale, o ancora - il che è certamente più probabile - che esso si sia evoluto, allineandosi, nella sua totalità o in parte, all'inizio della insurrezione del 66, a quel messianismo aggressivo di cui gli Zeloti, animatori della rivolta, erano i rappresentanti tipici. La difficoltà non è dunque irriducibile. Su tutti gli altri punti infatti le convergenze tra i manoscritti del Mar Morto e le altre notizie di autori antichi sugli Esseni, sono talmente precise che non lasciano adito a dubbi. Tutt'al più si potrà vedere nella comunità di Qumran, come fanno alcuni studiosi, una delle varie ramificazioni dell'essenismo o - cosa di gran lunga meno probabile - un ambiente molto vicino all'essenismo. Essendo la cronologia dei documenti e della storia della setta fissata con sufficiente precisione, almeno per quanto riguarda il terminus ante quem (66-70), si pone necessariamente il problema dei rapporti con la Chiesa primitiva. Qumran esiste ancora al momento in cui il cristianesimo entra in scena. L'essenismo è forse in questo momento al suo apogeo. È dunque legittimo porsi il problema di possibili interferenze. Già Renan, sospettando alcune precise affinità sulla base dei documenti di cui allora si disponeva, poteva affermare: "Il cristianesimo è un essenismo che ha avuto grande successo". Dopo la scoperta dei manoscritti c'è stato almeno uno studioso che nella comunità di Qumran ha visto una comunità cristiana. Una tesi del genere non è sostenibile. Ma essa rappresenta l'interpretazione errata di somiglianze notevoli, su diversi punti, tra quel tipo di giudaismo che ci hanno rivelato i manoscritti del Mar Morto e il cristianesimo primitivo.


b) Il Maestro di Giustizia e il Cristo

Somiglianze esistono, prima di tutto, tra il misterioso Maestro di Giustizia e il Cristo, tanto che i sostenitori della tesi cristiana pensano che si trattasse di un'unica persona. Esse sono evidenti nella coscienza che i due personaggi hanno della loro vocazione, fondata sugli stessi testi della Scrittura, e in particolare sui passi di Isaia relativi al Servo Sofferente; nel parallelismo dei loro drammatici destini, segnati dall'ostilità del sacerdozio ufficiale e suggellati dal martirio (come sembra probabile anche per il Maestro di Giustizia); nella venerazione da cui sono circondati, anche dopo la morte, da parte dei rispettivi discepoli. In alcuni inni (hodayoth) che furono probabilmente scritti da lui stesso, il Maestro ci appare come un capo di Chiesa, esattamente come Gesù. Ma a queste somiglianze si accompagnano differenze altrettanto nette, più volte sottolineate: il Maestro di Qumran proviene dal sacerdozio di Gerusalemme, è un asceta esigente, che impartisce al piccolo gruppo dei suoi eletti, gelosamente ripiegato su se stesso, un insegnamento esoterico; Gesù è il profeta popolare di Galilea, che predica alle folle, ricerca la compagnia dei peccatori e dei reietti per poterli attrarre a sé, interpreta e ammorbidisce i precetti mosaici. Non è possibile identificare le due figure, né presentare Gesù come un semplice calco, senza realtà storica, del Maestro di Giustizia. Su vari punti inoltre la predicazione di Gesù si distacca volutamente e con chiarezza dalla dottrina essenica. Si deve tuttavia notare che molte delle critiche rivolte da Gesù alla setta di Qumran colpiscono nello stesso tempo il giudaismo ufficiale. In senso inverso alcuni dei tratti comuni all'essenismo e alla Chiesa primitiva si ritrovano in altri settori del giudaismo dell'epoca: basti pensare alle credenze escatologiche e all'attesa della fine dei tempi. È necessario a questo proposito formulare un principio metodologico: non si potrà individuare una diretta influenza dell'essenismo sul cristianesimo nascente se essa non riguarderà elementi originali e specifici, caratteristici unicamente dei due gruppi. Elementi di questo tipo sono per altro così numerosi e precisi da non lasciare adito a dubbi. Sembra che la Chiesa abbia attinto all'essenismo un certo numero di termini e di concetti, di strutture comunitarie e di schemi teologici. Le affinità sono più o meno nette in rapporto ai vari ambienti che compongono la Chiesa e ai vari scritti del cristianesimo primitivo.


c) La setta di Qumran e il cristianesimo nascente

Ci si deve domandare in quali condizioni, per quali canali queste influenze hanno potuto esercitarsi. Nulla autorizza a pensare che tutte le personalità di rilievo del cristianesimo primitivo abbiano soggiornato a Qumran o siano state in contatto diretto con il monastero degli Esseni. Ciò è possibile soltanto per alcuni dei protagonisti della più antica storia cristiana. Ma questa stessa ipotesi non spiega nulla perché proprio tutti i settori della Chiesa nascente presentano, in grado diverso, affinità con l'essenismo. Si può pensare al ruolo decisivo di Giovanni Battista, la cui importanza alla base della predicazione di Gesù è così solidamente attestata. Il messaggio di Giovanni, predicato sul Giordano a pochi chilometri a nord di Qumran, non è privo di analogie con quello degli Esseni: la vicinanza geografica potrebbe in questo caso aver favorito precisi contatti. Non è nemmeno escluso che Giovanni Battista, proveniente da ambienti sacerdotali, proprio come la dissidenza essenica, abbia frequentato la comunità di Qumran prima di fondare una setta autonoma. Egli sarebbe in questo modo uno degli anelli che legano essenismo e cristianesimo. Se ammettiamo che durante la vita di Gesù e nell'epoca apostolica si verificarono contatti individuali tra i rappresentanti dei due gruppi, si può ugualmente pensare che transfughi dall'essenismo, soprattutto dopo il 70, siano venuti a rafforzare i ranghi della Chiesa nascente portandovi l'apporto ideologico e spirituale del loro ambiente d'origine. Ma si deve anche tenere largamente conto di quella letteratura paracanonica, intertestamentaria che, accanto a scritti specificamente qumraniti come il Manuale di Disciplina o le hodayoth, era in onore nella setta essenica, e la cui influenza è altrettanto profonda nel cristianesimo primitivo. Le somiglianze tra i due movimenti deriverebbero allora da una fonte comune. Ma dal momento che è estremamente probabile che una parte almeno di questa letteratura degli apocrifi e pseudoepigrafi sia stata elaborata nell'essenismo stesso, è senz'altro giusto vedere in essa un altro dei canali, e uno dei più importanti, attraverso i quali la setta influenzò il cristianesimo nascente. Né va dimenticato, infine, che l'essenismo non si riduce alla sola comunità di Qumran. C'erano filiali in Palestina, e forse anche nelle regioni della periferia; anche queste hanno potuto giocare un ruolo nello stabilire contatti col cristianesimo nascente.


d) Le affinità: riti e istituzioni

Nei testi di Qumran si parla spesso di una particolare Alleanza tra Dio e il gruppo; questa Alleanza, anche se non sostituisce quella del Sinai, è pur sempre una novità, legata alla persona e all'opera del Maestro di Giustizia. A buon diritto quest'ultimo può parlare di "mia alleanza" (Inni 5,23); e nel Documento di Damasco la setta viene definita "Nuova Alleanza al paese di Damasco". Nello stesso modo Paolo proclama l'avvento di una nuova alleanza, suggellata dal sangue di Cristo (I Corinzi 11, 25); il termine Nuova Alleanza rende più fedelmente il greco kainè diathéke che il nostro "Nuovo Testamento". Il regime di comunità dei beni in vigore nella più antica cristianità di Gerusalemme (Atti 4,32-37) assomiglia molto a quello di Qumran. E forse non è nemmeno una coincidenza il fatto che gli Esseni e, sulla scorta di Gesù stesso, i primi cristiani, praticassero la guarigione dei malati e l'esorcismo per mezzo dell'imposizione delle mani: un'usanza per la quale non abbiamo paralleli in altri ambienti giudaici dell'epoca. Alcuni studiosi pensano che Gesù abbia celebrato l'ultima Cena in conformità col calendario essenico, differente dal calendario ufficiale di Gerusalemme. Questa ipotesi affascinante - che non è riuscita a imporsi - spiegherebbe la contraddizione tra i sinottici, che vedono in essa un pasto pasquale, e il quarto Vangelo che nega ad essa questo carattere. Così pure è difficile trovare nell'ambito dell'essenismo un antecedente del battesimo cristiano. Quest'ultimo è conferito una sola volta. Le abluzioni rituali degli Esseni si ripetono invece quotidianamente. Esse facevano senza dubbio parte di un rituale di ammissione alla setta, ma non avevano necessariamente per questo un carattere specifico: la prima abluzione si inserirebbe nel rituale essenico come la prima comunione in quello cristiano. Tuttavia, unico da una parte, reiterato dall'altra, il rito battesimale è in tutti e due i casi un rito di pentimento, legato a una "conversione". Tra la Cena cristiana e i pasti sacri degli Esseni le affinità sono a prima vista più nette. Gli elementi, pane e vino, sono identici. Essi sono per altro gli stessi sui quali è pronunciata la benedizione nel culto domestico giudaico. Non è dunque il rito stesso che sottolinea la parentela tra essenismo e cristianesimo, quanto piuttosto il significato particolare che esso assume nell'una e nell'altra parte. A Qumran non si tratta di un semplice pasto comunitario, di una trasposizione del pasto familiare giudaico. Il carattere strettamente cultuale, sacramentale, del rito, è sottolineato dal fatto che il refettorio appare come un recinto sacro, dalla presenza indispensabile di un sacerdote, il celebrante, e dal fatto che vi sono ammessi soltanto gli iniziati, membri della setta. Se si paragona il Manuale di Disciplina (6, 3-5) che codifica il pasto essenico, con un passo della Regola annessa (2,11-22), che descrive il banchetto messianico, che unisce gli eletti intorno al grande sacerdote escatologico - designato in alcuni testi come il Messia di Aaron - e al Messia d'Israele, capo politico, risulta evidente che il primo dei due riti è quasi un'anticipazione del secondo, così come l'organizzazione essenica prefigura quella del Regno avvenire. Si pensa allora al significato che, già nei testi del Nuovo Testamento, riveste l'eucaristia: i Vangeli mettono in rapporto l'ultima Cena con quella che Gesù celebrerà con i suoi discepoli dopo l'instaurazione del Regno (Matteo 26,29; Marco 14,25; Luca 22,16-18); Paolo inoltre vede nell'eucaristia sia il ricordo della morte di Gesù che l'annuncio del suo ritorno (I Corinzi 11,26).


e) Le affinità: credenze

E' ora il momento di parlare delle credenze dell'essenismo e della Chiesa nascente. I due gruppi vivono nell'attesa dei tempi ultimi. È possibile che gli Esseni abbiano atteso, come i cristiani, il ritorno glorioso del loro Maestro, identificato con il grande sacerdote messianico; è possibile ugualmente che il Maestro di Giustizia sia morto di morte violenta, ma le condizioni dei manoscritti e il loro modo di esprimersi, spesso velato, non permettono di raggiungere, su questi punti, una certezza assoluta. Per altro, se non è escluso che gli Esseni abbiano in qualche modo conferito valore sacrificale alla loro cena, nulla però autorizza a credere che essi mettessero il pane e il vino in rapporto con la carne e il sangue del loro maestro. Accanto a somiglianze notevoli, vediamo così l'elemento specifico introdotto dal cristianesimo. Su molti punti l'insegnamento della Chiesa nascente si incontra con quello degli Esseni. Queste convergenze sono più o meno evidenti in rapporto ai testi che si prendono in esame o ai settori cui si guarda. Le epistole di Paolo presentano diversi paralleli, verbali o di pensiero, con i documenti di Qumran. I "vasi di argilla" della II Corinzi 4,7 corrispondono esattamente alle "creature d'argilla" spesso menzionate nelle hodayoth (1,21; 3,24; ecc.). L'Epistola agli Efesini presenta affinità particolarmente precise, nella fraseologia e nell'ideologia, con la letteratura essenica. E non senza sorpresa si è visto, su un frammento di Qumran, Melchisedec, investito degli attributi del Figlio dell'Uomo escatologico, essere l'oggetto di speculazioni che evocano e chiariscono quelle dell'Epistola agli Ebrei, la cui cristologia sacerdotale si inserisce nel solco del messianismo essenico. Ma sono soprattutto gli scritti giovannei, e in particolare il quarto Vangelo, che offrono le più sorprendenti somiglianze con i testi essenici. Essi presentano lo stesso dualismo cosmico, che oppone le potenze del bene e quelle del male, la verità e l'errore, la luce e le tenebre; in Giovanni come nei testi essenici il dono dello Spirito Santo, o Spirito di Verità, è un fatto escatologico.


6. Giudaico e greco

Di queste somiglianze potrebbero addursi molti esempi. Sembra che nessun settore della Chiesa nascente sia stato completamente immune dalle influenze dell'essenismo; non è tuttavia giusto considerare il cristianesimo come il sottoprodotto dell'essenismo: ciò significherebbe misconoscere l'apporto positivo, originale, determinante, sia da parte di Paolo che, all'inizio, di Gesù stesso. Ma se l'essenismo non risolve tutti i problemi posti dalla storia delle origini cristiane, li illumina però di una luce nuova ed estremamente preziosa. Esso dispensa inoltre dal ricercare nell'ellenismo, per molti punti, elementi di spiegazione che si ritrovano in definitiva nel giudaismo stesso. Si deve tuttavia notare, a questo proposito, che quelle influenze esseniche che hanno così profondamente segnato il cristianesimo nascente, presuppongono esse stesse, in partenza, degli apporti esterni accolti nel giudaismo: basti pensare al dualismo, comune agli scritti di Qumran e al quarto Vangelo, che, estraneo nel suo principio alla tradizione di pensiero giudaica, testimonia chiaramente una influenza del mazdeismo. D'altra parte, anche prendendo in esame soltanto il cristianesimo, sarebbe senz'altro arbitrario porre troppo rigorosamente il problema: giudaico o greco? In effetti gli apporti di queste due culture si fondono. Le scoperte recenti hanno rivelato tutta l'importanza della prima, ridimensionando nello stesso tempo gli apporti della seconda a proporzioni più modeste di quanto aveva creduto la scuola comparatista; questi apporti non vanno però giudicati nulli. Né Giovanni né Paolo, debitori di due culture per altro strettamente legate, si lasciano ridurre completamente all'una o all'altra. La mistica cristocentrica di Paolo, per esempio, non ha alcun parallelo nel giudaismo. Se non si vuol vedere in essa una creazione del tutto originale dell'Apostolo, bisognerà cercare precedenti o analogie nella religione ellenistica. E se l'apporto giudaico, e più precisamente essenico, si manifesta vigorosamente nelle origini palestinesi della Chiesa e nello stadio iniziale - decisivo - dello sviluppo del cristianesimo, esso è però ovviamente molto meno percettibile fuori della Palestina e nella successiva evoluzione della Chiesa antica, per lo meno nel mondo greco-romano (nell'Oriente semitico le condizioni sono infatti notevolmente diverse). Il problema è dunque quello di valutare nella loro giusta misura e reciprocamente, le varie influenze convergenti, sia nel giudaismo prima di Cristo - in Filone, per esempio, o a Qumran -, sia nella Chiesa nascente, che hanno contribuito a dare un volto al cristianesimo antico. Soltanto in questo modo si può sperare, in particolare, di gettare un po' di luce sulla questione, così controversa, del ruolo esatto svolto da Paolo nella genesi e nello sviluppo del cristianesimo, e dei rapporti tra il suo pensiero e il messaggio di Gesù.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 19:59

John Riches "La Bibbia. Una breve introduzione" - Universale Laterza 2002



La Bibbia nel mondo dei credenti

Una volta inseriti nel canone, i testi cambiano. Diventano testi sacri. I credenti delle comunità che ne riconoscono il nuovo status li considerano come messi a parte, testi speciali che non possono essere trattati alla stregua di qualsiasi altro testo. Le aspettative nei loro confronti sono pertanto piuttosto diverse da quelle che i lettori hanno rispetto ad altri testi. Proprio perché sacri, è impensabile che i testi canonici possano essere in conflitto con il più profondo senso del sacro posseduto dai credenti. Ogni seria dissonanza fra l'esperienza della comunità e il mondo riflesso nel testo sacro esige di essere risolta. O il mondo del testo dev'essere elaborato in maniera tale da risultare conforme all'esperienza della comunità, o è la comunità che deve cambiare per conformarsi a quanto dichiarato nel testo. Si accende, dunque, una potente dialettica. I credenti leggono i testi alla luce della loro esperienza; e, allo stesso tempo, guardano ai testi per dare senso alla loro esperienza e costruirla. E' facile quindi aspettarsi che le diverse comunità di credenti leggano lo stesso testo in maniere molto diverse. Nella loro lettura troveremo un riflesso sia delle loro diverse credenze sia delle loro storie diverse. In questo non c'è grande differenza da quello che accade con i testi classici, non sacri; è l'intensità delle reazioni che è diversa. Se - poniamo - Shakespeare e Goethe arrivano a essere qualificati come classici da una rispettabile società borghese, ci saranno di quelli che vorranno eliminare dai loro scritti certi aspetti considerati scioccanti, o anche solo disdicevoli, da quella società. Le antologie di Goethe ometteranno parti della sua più sboccata poesia d'amore; e ci sarà un qualche Bowdler che appronterà le sue versioni purgate di Shakespeare. Il confronto è istruttivo: i conflitti fra alcune opere letterarie ed estetiche e il gusto e le sensibilità correnti provocano per lo più uno scandalo soltanto temporaneo; raramente creano fratture durature dentro una comunità, anzi a volte portano a mutamenti nella sensibilità della gente. E' largamente ammesso che gli scrittori e gli artisti possono aiutare la gente comune a familiarizzarsi con le altezze e le profondità dell'esperienza che la società benpensante semplicemente ignora o rimuove. Analoghi mutamenti di sensibilità si verificano anche, come vedremo, nelle comunità religiose. A volte tali mutamenti incontrano una resistenza molto maggiore per affermarsi, in quanto le comunità combattono per difendere modi di vedere il mondo che sono consacrati dalle letture tradizionali della scrittura. Prendiamo in esame un testo particolare, che ha avuto profonde risonanze sia nella tradizione giudaica sia in quella cristiana, e vediamo qualcuno dei modi in cui esso ha formato le diversissime esperienze di queste due famiglie di comunità e ne è stato a sua volta formato.


L'Akedah

L'Akedah - cioè l'episodio di Isacco che viene legato ('aqad = legare) da Abramo in vista del sacrificio, raccontato da Genesi 22 - tocca un nervo delicato delle sensibilità giudaica e cristiana. È una storia di strana violenza e tenerezza, di un padre che riceve dal suo Dio l'ordine di sacrificare "il suo unico figlio". Solo all'ultimo momento Abramo e Isacco vengono salvati dall'imminente orrore con l'intervento di un angelo. La vicenda è raccontata con tutto il vigore, la sobrietà e il realismo della narrativa biblica nei suoi momenti migliori. Lasciati i servi ai piedi del monte, Abramo e Isacco iniziano il cammino: "Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme" (Genesi 22,6). L'ultima proposizione ("proseguirono tutt'e due insieme"), ripetuta due versetti dopo, e il breve dialogo successivo sottolineano il forte legame fra i due; ma l'obbedienza di Abramo a Dio li spinge a salire sul monte del sacrificio. Qui Abramo allunga la mano armata di coltello per uccidere il figlio. Solo in quel momento interviene l'angelo. Ma dalla tragedia sfiorata viene fuori la benedizione divina e la promessa di una nuova nazione che sorgerà dal padre e dal figlio. Il fascio di emozioni ed esperienze racchiuso in questo breve racconto, così incisivo nella sua formulazione, è molto denso, come dimostra la ricchezza delle sue successive letture. Una delle prime interpretazioni dell'episodio è quella che si trova nel libro dei Giubilei, che è costituito in gran parte da una riproposizione della storia d'Israele che viene narrata a Mosè dall'"angelo della presenza". Grazie a questo artificio, l'autore ha la possibilità di integrare la storia con dettagli relativi ai retroscena celesti, che mancano nel racconto biblico. Così, ci viene detto ora perché mai Dio mise alla prova Abramo (Genesi 22,1). Circolavano in cielo dicerie che mettevano in dubbio la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo. Questo aveva spinto Satana, qui chiamato col nome di Principe Mastema, a lanciare una sfida a proposito della genuinità dell'amore per Dio da parte di Abramo, sostenendo che questi amava di più il suo figlio Isacco. L'angelo afferma che Dio sapeva bene che l'amore di Abramo era genuino, avendolo messo alla prova già molte volte, ma ciononostante accetta di apprestare una prova finale. Questo tema dell'ultima prova attraverserà tutte le discussioni giudaiche sulla vicenda. Il motivo della prova di Abramo è presente già in Genesi, ma in Giubilei riscontriamo un sottile ma significativo slittamento di accento. In Giubilei la prova non è per Dio un mezzo per scoprire se Abramo lo ama e gli obbedisce; questo, Dio (e il lettore) lo sa fin dall'inizio, e nel momento cruciale Dio interviene proprio sulla base di questa conoscenza. In Genesi, invece, è solo dopo che Abramo ha impugnato il coltello che Dio, per il tramite dell'angelo, dice: "Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio" (Genesi 22,12). In Giubilei lo scopo dell'azione di Dio è di dimostrare a Mastema la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo, come si capisce bene dalle parole finali che Dio rivolge ad Abramo: "E io ho reso noto a tutti che tu sei fedele a me in ogni cosa che io ti dico". Questo diventa un messaggio per i giudei, i quali pure hanno dovuto subire di recente un'analoga prova satanica. Lo scopo della prova di Abramo e, per estensione, delle prove che gli stessi giudei si trovavano ad affrontare era di rendere nota la fedeltà di Israele a Dio, così che "tutte le nazioni possano essere benedette per mezzo di lui" (Giubilei 18,16). L'introduzione di Satana sulla scena aggiunge un'ulteriore dimensione alla vicenda, oltre al fatto di essere una prova dell'obbedienza di Abramo messa in atto da Dio. Con la presenza di Satana si vedono all'opera nel mondo potenze oscure che cercano di fuorviare la gente e pretendono che anche i più giusti fra gli uomini siano loro vittime. In una qualche maniera oscura, parte almeno della responsabilità della sofferenza umana ricade su Satana, mentre Dio e i suoi angeli sono lì pronti a sostenere e a proteggere il fedele. Nella vicenda specifica, essi sono presenti a far sì che Isacco non riceva alcun danno (almeno alcun danno fisico). Ma come si accorda questo con le esperienze dei giudei nel corso delle epoche di persecuzione e martirio, che avevano portato molti di loro alla morte? La consapevolezza di questi problemi è evidente nello scrittore giudaico del primo secolo d.C., Filone Alessandrino. La comunità giudaica di Alessandria all'epoca di Filone si stava dando da fare per ottenere che si ponesse fine alla discriminazione e alla persecuzione nei suoi confronti. Nel suo trattato De Abrahamo, Filone risponde prima di tutto a quelli che dicevano che la prova sostenuta da Abramo non era poi di gran peso se messa a paragone con quella di tanti pagani che avevano di propria volontà immolato i propri figli per la conservazione della loro città o dei loro popoli. Ma - afferma Filone - per Abramo, per il quale il sacrificio umano era un abominio, l'immolazione del suo figlio fu una prova ben più terribile, dal momento che per i principi pagani questa era invece quasi secondo natura (De Abrahamo, 177-199). Filone, però, non si ferma qui, ma approfitta della vicenda di Isacco per fare pure una riflessione sulla sofferenza e l'afflizione umana, e lo fa mettendo in evidenza il significato allegorico della storia. Il nome di Isacco significa risata. Abramo sacrifica la risata, o piuttosto "la buona emozione del comprendere, ossia la gioia", in nome del suo senso del dovere nei confronti di Dio. Il che è giusto, perché una vita di pura gioia e felicità è esclusiva di Dio. Ciononostante, Dio vuole permettere ai suoi fedeli di partecipare in qualche misura di una simile gioia, anche se essa sarà mescolata con il dispiacere (De Abrahamo, 200-207). Viene alla mente quella battuta giudaica che dice: Perché i giudei non possono ubriacarsi? Perché quando uno beve dimentica le preoccupazioni. Ma che dire delle grandi sofferenze sopportate in tante occasioni dagli stessi giudei? La terribile persecuzione inflitta loro al tempo di Antioco Epifane (175 a.C.) produsse propri episodi e relativi racconti sulla fedeltà dei giudei a Dio in condizioni di crudelissima tortura. Uno di questi (in 2 Maccabei 7) parla di una madre che assiste di persona al raccapricciante martirio dei suoi sette figli - e li incoraggia - prima di essere lei pure uccisa. In una successiva versione rabbinica dell'episodio, la vicenda viene trasposta dal suo contesto originale al tempo di Antioco Epifane nella situazione del II secolo d.C., quando i giudei furono perseguitati sotto l'imperatore romano Adriano. Il racconto è pieno della pena per tanta sofferenza ma anche di orgoglio per i martiri della fede. "La madre piangeva e diceva [ai suoi figli]: Figli miei, non siate angustiati, poiché per questo foste creati - per santificare nel mondo il Nome del Santissimo, che benedetto egli sia. Andate a dite al Padre Abramo: Non si gonfi il tuo cuore di orgoglio! Tu costruisti un altare, ma io ho costruito sette altari e su quelli ho immolato i miei sette figli. Cosa conta di più? La tua fu una prova; la mia è stata un fatto compiuto" (Yalkut, Deuteronomio 26,938). Una risposta ancora più angosciata alla vicenda di Isacco si trova nei riferimenti medievali, che rispecchiano la situazione delle persecuzioni dei giudei al tempo delle crociate. Le cronache giudaiche del tempo registrano il fatto che in molti casi, quando i crociati attaccavano, i giudei, piuttosto che rischiare di doversi piegare a una conversione forzata sotto tortura, si immolavano l'un l'altro in sacrificio, facendo attenzione a che il coltello non avesse difetti - come richiesto dal rituale del sacrificio, pena l'invalidità del sacrificio stesso - e recitando le appropriate formule sacrificali. La poesia sinagogale del tempo paragona simili sacrifici all'Akedah di Isacco:

O Signore, Onnipotente, che abiti nei cieli!
Un tempo, per una Akedah gli Ariel gridarono davanti a Te,
Ma ora quanti sono massacrati e bruciati!
Perché non hanno elevato un grido per il sangue di bambini?

Prima che il patriarca nella sua fretta potesse sacrificare il suo unico figlio,
Si udì dal cielo: Non stendere la tua mano per distruggere!
Ma quanti figli e figlie di Giuda sono assassinati -
E ancora Egli non si affretta a salvare coloro che sono massacrati o dati alle fiamme.
(R. Eliezer bar Joel ha-Levi, Fragment from a Threnody, in Spiegel, pp. 20-21)

O ancora:

Un tempo potevamo contare sul merito dell'Akedah,
Protetti per la salvezza di età in età -
Ora un'Akedah segue l'altra, non si contano più.
(R. David Meshullam, Selihot, 49, 66b, in Spiegel, p. 21)

Ma la più interessante interpretazione della vicenda dell'Akedah in questo periodo viene dalla penna di Rabbi Ephraim ben Jacob di Bonn, nel cui poema leggiamo che Abramo non soltanto portò in effetti a compimento l'uccisione rituale del figlio, ma anche che, quando Dio immediatamente dopo riportò in vita Isacco, egli tentò di ripetere il sacrificio.

Egli [Abramo] si affrettò, lo [Isacco] puntò sulle ginocchia,
Fece forza sulle due braccia,
Con mano ferma lo immolò secondo il rito,
Compì il sacrificio nella maniera giusta.

Cadde sopra di lui la rugiada di resurrezione, ed egli tornò in vita
[Il padre] lo prese [allora] per ucciderlo di nuovo.
Ne è testimone la scrittura! Il fatto è ben fondato:
E il Signore chiamò Abramo, anche una seconda volta dal cielo.
(Spiegel, pp. 148-149)

E' da notare come il poeta affermi che il suo riferimento al tentativo di Abramo di sacrificare il figlio una seconda volta trova sostegno nella scrittura. Nel racconto del libro della Genesi, è vero, l'angelo chiama Abramo due volte, la prima per fermare il sacrificio, la seconda per comunicare ad Abramo la promessa che egli sarà padre di una grande nazione. Rabbi Ephraim fornisce invece una versione molto diversa delle due chiamate. Abramo evidentemente non ascolta, o ignora, la prima. Nel suo commento profondamente simpatetico a questo poema, Spiegel spiega efficacemente la frase "il fatto è ben fondato": "Se non lo è nella Scrittura, lo è nell'esperienza dei giudei del Medioevo" (p. 138). Le terribili esperienze di persecuzione dei giudei nel Medioevo devono trovare una eco nei loro testi sacri. L'interpretazione cristiana dell'Akedah è filtrata, al contrario, attraverso il fatto centrale della crocifissione di Gesù. Ma è interessante osservare come, nonostante le evidenti somiglianze fra le due vicende, nei racconti evangelici ci sono pochi veri e propri riferimenti letterari alla Akedah. In Gesù che prega Dio nel giardino del Getsemani prima della crocifissione, possiamo avvertire lontani echi delle domande di Isacco al padre e delle successive tradizioni circa la sua volontaria accettazione dei disegni del padre. Naturalmente il contesto è diverso: nel caso di Gesù non c'è un padre umano come mediatore dei disegni di Dio; non c'è intenerimento da parte del Padre celeste; non si tratta di una semplice prova per il padre della vittima. Anzi, è la vittima stessa che deve lottare per accettare liberamente la ferma volontà del Padre celeste (un motivo che in effetti è presente in alcune versioni dell'Akedah). È troppo vedere qualcuno di questi punti riflesso nel modo in cui i vangeli raccontano la preghiera di Gesù nel Getsemani? Matteo e Luca in qualche modo inciampano nel secco "tutto è possibile a te" di Marco, che era un tradizionale riconoscimento di onnipotenza. Matteo, messo di fronte all'enormità del fatto che Dio uccida il proprio figlio, sembra chiedersi se non ci sia una qualche superiore necessità che controlla l'azione. Luca sembra più interessato alla questione dell'unità o costanza della volontà divina: come può il Figlio di Dio pregare Dio perché cambi i suoi disegni? Giovanni omette completamente l'episodio della preghiera di Gesù nel Getsemani e lo sostituisce con un'analoga scena di angoscia immediatamente prima dell'Ultima Cena (12,27). Ne fa una scena più pubblica, alla quale assistono non soltanto giudei ma anche greci. L'accettazione della sua missione da parte di Gesù glorificherà il nome di Dio, esattamente come aveva fatto in precedenza l'obbedienza di Abramo. Questa accettazione è riecheggiata in quello che Gesù dice a Pietro al momento del suo arresto (18,11); qui non rimane altro che la netta affermazione di Gesù della sua completa accettazione della volontà del Padre: non aveva detto in precedenza "mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Giovanni 4,34)? In tutto ciò, non c'è alcun ondeggiamento nella volontà del Padre. Solo in un punto l'enfasi sulla inflessibilità della volontà del Padre viene precisata, ed è nel vivace ritratto che gli evangelisti fanno degli attori umani che cospirano per portare ad effetto la morte di Gesù. Il racconto di Marco dell'arresto di Gesù è introdotto dalle parole dello stesso Gesù: "Basta, è venuta l'ora: ecco, il Figlio dell'uomo viene consegnato (paradìdotai) nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce (paradisùs) è vicino" (Marco 14,41-42). In effetti c'è qui una certa ambiguità nell'uso del verbo greco paradìdomi, che vuol dire sia semplicemente "consegnare"sia anche "tradire". Si riferisce solo al tradimento di Giuda alla banda spedita dai capi dei sacerdoti, o non suggerisce forse anche il disegno divino dietro gli eventi che ora travolgono Gesù, con la consegna di lui nelle mani dei suoi distruttori? (La stessa parola greca si ritrova in Isaia 53,6: "Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti"; letteralmente: il Signore lo consegnò ai peccati di noi tutti). Probabilmente l'ambiguità è intenzionale; ma nel quadro successivo è l'azione violenta della plebaglia che compie l'arresto ad essere sottolineata con quattro occorrenze del verbo "prendere" e due riferimenti a "spade e bastoni" della gente accorsa a prenderlo. Gesù viene catturato per essere ucciso secondo i piani dei capi dei sacerdoti e degli scribi, i quali, dopo un affrettato processo, "lo legano" e lo "consegnano" a Pilato. È allettante vedere qui un'inversione dei temi del racconto di Genesi. In Genesi, Abramo prende Isacco, lo lega e lo immola in obbedienza al comando di Dio. Qui invece sono i peccatori che prendono Gesù, lo legano e lo consegnano al tiranno straniero per l'esecuzione. In entrambi i casi, tuttavia, come la scena del Getsemani rende chiaro, è Dio che vuole questi eventi. Nel caso dell'Akedah, la prova del sacrificio di Isacco rappresenta l'atto finale di un dramma fra Dio e il patriarca in cui la volontà di Abramo viene saggiata ed egli viene preparato a essere il padre di una moltitudine di nazioni, secondo la promessa di Dio (Genesi 17,4); Abramo dev'essere il tipo del monoteismo etico, della radicale obbedienza alla volontà di Dio. Abramo diventa il tipo del giudeo fedele, e anzi, al di là di qualsiasi confine etnico, il tipo di ogni persona giusta. Nell'altro caso, Gesù, che è stato proclamato "figlio prediletto" (Marco 1,11) di Dio, è prescelto come strumento della volontà di Dio nel conflitto con la malvagità umana. Il sacrificio di Gesù non è tanto una dimostrazione di obbedienza (benché sia anche questo) quanto il punto di scontro fra l'agente divino e le forze della distruzione e della morte nel mondo. È il punto di svolta dal mondo di morte alla nuova età della vita, che è anticipata nella resurrezione di Gesù. Le successive ripetute narrazioni cristiane della Passione di Gesù ricalcano questo modello di allusione indiretta e di variazioni. Nel racconto giovanneo della Passione, Gesù "portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio" (19,17). Questo contrasta con il racconto dei vangeli sinottici, secondo il quale i soldati costringono Simone di Cirene a portare la croce fino al Golgota. Nel vangelo di Giovanni, dunque, Gesù, al pari di Isacco, porta con sé sul cammino lo strumento della sua morte. È intrigante notare come questo elemento venga rispecchiato a sua volta nelle riscritture rabbiniche della vicenda di Isacco, in cui si dice che Isacco porta la legna come uno che porta la sua croce. La successiva esegesi cristiana mise in risalto questo motivo e lo collegò all'esperienza cristiana della sofferenza. La disponibilità cristiana a sopportare la sofferenza è vista come in continuità con la fede di Abramo: "Giustamente anche noi, che possediamo la stessa fede di Abramo e prendiamo su di noi la croce così come Isacco portò la legna, Lo seguiamo" (Ireneo, Contro le eresie, IV 5,4). La devozione successiva ha elaborato questo motivo nelle "stazioni" della Via Crucis che si allineano lungo i muri delle chiese cattoliche e raffigurano Gesù che cade tre volte sotto il peso della croce. Nell'interpretazione cristiana, tuttavia, la storia di Isacco non sempre viene messa direttamente in relazione con la morte di Cristo. Nella sua acquaforte intitolata "Il sacrificio di Isacco", Rembrandt raffigura l'angelo che non solo chiama Abramo ma interviene attivamente a trattenerlo, mettendogli intorno il suo braccio. La storia si trasforma così, nel dipinto, in una rappresentazione della protezione divina, simboleggiata dalla tenera cura dell'angelo custode; siamo ben lontani dai rabbi medievali che leggono la stessa vicenda attraverso le loro esperienze di persecuzione e genocidio. Il filosofo danese Kierkegaard, al contrario, torna a celebrare in Abramo l'uomo di fede. Egli definisce la disponibilità di Abramo a sacrificare il suo figlio come "la sospensione teologica dell'etico". Nella fede religiosa le leggi e le norme etiche normali sono sospese, in quanto uomini e donne abbracciano scopi e obiettivi di livello superiore. Il vero "cavaliere della fede" è uno che si muove al di là del mondo dell'etica ed entra in un mondo che è governato da comandi e promesse di provenienza divina. La grandezza di Abramo sta nel perseverare della sua fiducia e fede in Dio contro tutte le apparenze: non era solo una fede nella vita ultraterrena, in una risoluzione finale delle cose, ma una fede nel qui e ora, la sicurezza che le promesse di Dio si sarebbero realizzate anche di fronte alla manifesta impossibilità che Sara potesse concepire un figlio alla sua età, e poi, dopo la nascita di Isacco, di fronte al comando di Dio di sacrificarlo. Gli scritti di Kierkegaard esprimono una protesta profonda, e personalmente costosa, contro la banalizzazione borghese del cristianesimo. La sospensione da lui affermata degli standard etici "normali" rimane pericolosa e inquietante e mette in evidenza qualcosa della stranezza e della natura provocatoria del racconto originale, con la sua testimonianza a una fede prodigiosa. Se Abramo non avesse avuto fede, dice Kierkegaard, avrebbe potuto sacrificare eroicamente se stesso invece di Isacco. "Sarebbe stato ammirato nel mondo e il suo nome non sarebbe stato dimenticato; ma una cosa è essere ammirati e un'altra essere una stella che guida, che salva chi è angosciato" (Kierkegaard, pp. 42-43).


La perenne vitalità dei testi biblici

La storia della ricezione dei testi biblici fornisce un fondo quasi inesauribile di dimostrazioni della vitalità di questi antichi scritti. Essi sono stati letti dalle più diverse comunità di fede in circostanze largamente differenti e hanno generato letture di notevole divergenza come pure di notevole convergenza. Non è facile fornire spiegazioni di questo tipo di fecondità. La ragione va ricercata in parte nella diversità dei contesti in cui simili testi vengono letti; non sorprende che la vicenda di Isacco che viene preparato per essere sacrificato susciti echi diversi in gente che si trova esposta agli attacchi di soldati dediti a scorrerie e in gente che, poniamo, deve affrontare i rigori della vita in un villaggio di montagna della cattolica Austria. C'è anche un'importante differenza nel contesto letterario della storia di Isacco, quale è letta dai giudei e dai cristiani. Per i cristiani, con la forte concentrazione sulla croce di Gesù negli scritti del Nuovo Testamento, è inevitabile che i temi dell'Akedah vengano ricondotti nel quadro della loro lettura della Passione. Isacco diviene il "tipo di colui che doveva venire" (Epistola di Barnaba 7,3) e i vari motivi della storia vengono assunti e usati, a volte per contrasto, nella narrazione e nelle riflessioni sulla Passione. I giudei, invece, hanno più ragione di riflettere sul significato della vicenda raccontata dal libro della Genesi alla luce della storia dei discendenti di Abramo. Ma la diversità del contesto non spiega tutto: c'è nei testi stessi una ricchezza e un'ambiguità che invita a una varietà di interpretazioni. Immagini come quella di Abramo che allunga sul figlio la mano armata, o che depone il figlio sopra la legna, toccano corde profonde dei successivi scrittori o interpreti. La ricchezza di figure, immagini e metafore degli scritti della Bibbia - nella sua narrativa, nella sua poesia e nei suoi testi più discorsivi - è tale da consentire senz'altro letture che corrispondono liberamente all'esperienza dei lettori. In essa sono contenuti storie e testi che comunità largamente diverse fra loro hanno potuto fare propri, proprio grazie alla loro natura evocativa. Né si tratta di testi chiusi, strettamente bloccati. Essi lasciano spazi aperti che chiedono di essere riempiti e contengono ambiguità che chiedono di essere risolte. Alcuni dei testi più fecondi, come vedremo, sono quelli più ambigui. Il carattere canonico dei testi deve dar conto non soltanto della diversità e ricchezza delle letture, ma anche del modo in cui le narrazioni e i discorsi stessi sono stati rielaborati e rimodellati. Nell'esempio così impressionante che abbiamo esposto, abbiamo visto come alcune versioni medievali della Akedah affermino di fatto che il racconto della scrittura parla della morte di Isacco. Più spesso, è una questione di enfasi, di lettura selettiva: gli elementi degli scritti biblici che suscitano echi più forti in una particolare comunità e in un particolare periodo di tempo saranno sottolineati, mentre altri elementi saranno esclusi o trascurati. I risultati di tale lettura selettiva possono essere altrettanto fortemente differenziati quanto la diretta alterazione della storia di Isacco. Ma, nell'un caso e nell'altro, ciò che spinge il processo di interpretazione è la medesima convinzione: che questi testi sono normativi per l'esperienza della comunità e che perciò l'esperienza della comunità deve in qualche modo essere riflessa e rappresentata in essi.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:02

David Donnini "Cristo. Una vicenda storica da riscoprire" - Erre emme edizioni 1994



IL "GIALLO" DI BETANIA


1. Ancora sulla cena del mistero


a) Maria Maddalena = Maria di Betania?

Di un fatto, fra tanti dubbi, siamo ormai sicuri: le identità dei personaggi principali, così come sono presentate dal racconto evangelico così come tutti lo conosciamo, sono quasi sempre pesantemente contraffatte. Probabilmente l'asse su cui si impernia il lavoro di sofisticazione delle identità è proprio la famiglia di Cristo, anche se a questo proposito dobbiamo fare un'opportuna precisazione. Infatti quando parliamo di famiglia del Cristo possiamo intendere due cose: la famiglia di origine, costituita dai genitori, dai fratelli e dalle sorelle, e la famiglia acquistata per matrimonio, costituita dalla moglie, dai cognati, dai suoceri e magari anche dai figli. Noi chiameremo appunto "famiglia di origine"e "famiglia acquisita" questi due nuclei. I luoghi caratteristici sono probabilmente il villaggio di Gamala, sulla riva orientale del lago Kinneret (il lago di Tiberiade), nel Golan, per la famiglia di origine, e il villaggio di Betania, a brevissima distanza da Gerusalemme, in direzione sudest, per la famiglia acquisita. Poiché il primo non è comunemente noto al pubblico (anche perché la Chiesa si è sempre sforzata, fin dai suoi primissimi giorni, di cancellare dal mondo la memoria del villaggio di Gamala, ho ritenuto opportuno indicare questa parte del lavoro col titolo "giallo di Betania". Questo piccolo centro abitato, veramente un gruppo di poche case, si trovava a circa tre chilometri dalla Porta Dorata del Tempio di Gerusalemme, una distanza che poteva essere tranquillamente coperta in poco più di mezz'ora di cammino a piedi, lungo la strada che fiancheggiava il Monte degli ulivi e passava accanto al giardino del Gethsemani (il frantoio). Il racconto evangelico lascia trasparire chiaramente il fatto che il Cristo avesse una ben precisa relazione con Betania, tant'è che nei momenti che precedettero la passione Gesù si trovava spesso nel villaggio: vi passava le notti, per esempio, e noi potremmo dedurre da questo fatto che lì si trovava la sua residenza abituale, quando sostava presso Gerusalemme. C'era forse qualcuno di cui egli aveva particolare fiducia e che lo ospitava in casa sua? Ed è forse possibile che il villaggio di Betania compaia come luogo importante degli spostamenti di Cristo solo nell'imminenza della passione? La risposta a quest'ultima domanda è negativa: varie testimonianze lasciano intendere che Betania non fu né un luogo occasionale, né una tappa unica nei movimenti di Cristo. Anzi, cercheremo di mostrare che si trattava di un luogo molto importante per lui: la probabile residenza della sua famiglia acquisita. Chi ha un minimo di dimestichezza con i testi evangelici ricorda certamente che Betania era il villaggio di Lazzaro, e delle sue sorelle, Maria e Marta. Prestiamo un attimo di attenzione a questi nomi: Lazzaro è l'italiano per Eleazar, Maria per Myriam e Marta per Thamar (Tamara, dal momento che Mar-ta è derivato da uno scambio sillabico di Ta-mar). Si tratta di tre persone alle quali Gesù voleva molto bene:

"Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro" (Gv 11,5).

In alcuni testi greci più antichi si legge che "Gesù amava Maria, e la sorella di lei, Marta, e Lazzaro". Per loro nutriva un affetto particolare, sufficiente, comunque, a sollevare le polemiche degli altri apostoli: di Pietro per esempio, com'è testimoniato da alcuni scritti apocrifi. Molti testi dello gnosticismo cristiano più antico sembrano dare una grande importanza al personaggio femminile di Maria Maddalena, considerandolo praticamente depositario di particolari insegnamenti iniziatici quali neanche Pietro e gli altri apostoli avrebbero ricevuto. Si scopre addirittura che molte chiese dedicate al culto di Maria, come la cattedrale francese di Notre Dame, non porterebbero affatto questo nome per la madre di Gesù, ma per Maria Maddalena - interpretazione che successivamente sarebbe stata modificata per assecondare determinate esigenze dottrinarie. Ci si chiederà, a questo punto, per quale motivo io stia citando Maria di Magdala quando la sorella di Lazzaro è Maria di Betania. In realtà non ho assolutamente cambiato né argomento né personaggio, giacché le due Marie sono una Maria solamente, come ben sapeva la tradizione più antica. Si tratta forse del caso più evidente di sdoppiamento di persona, tra i tanti che abbiamo segnalato nel corpo della redazione evangelica neocristiana. Ma come evidenziare questa ennesima operazione di sdoppiamento? A tale scopo occorre portare la nostra attenzione ancora una volta sull'episodio della cosiddetta "unzione di Betania", che i singoli Vangeli collocano in momenti e luoghi diversi, cambiando, oltre al quadro scenografico, anche l'identità dei personaggi. Innanzitutto va detto che tale episodio è collocato temporalmente dai quattro Vangeli in momenti diversi: Luca e Giovanni lo collocano prima dell'ingresso messianico in Gerusalemme, in particolare Luca lo colloca molto prima; Marco e Matteo lo collocano dopo l'ingresso messianico in Gerusalemme, praticamente a ridosso dell'ultima cena. La più diversa fra le quattro versioni è certamente quella di Giovanni, perché fa nomi di persone e di circostanze non presenti nei Vangeli sinottici. I tre sinottici affermano che il padrone di casa si chiamava Simone, mentre Giovanni non lo nomina; i sinottici sono d'accordo nel lasciare anonimi i personaggi di Lazzaro e delle sue sorelle, nonostante che il ruolo di Marta fosse quello di servire a tavola, ma soprattutto di lasciare anonima colei che fu protagonista dell'unzione: si sarebbe trattato semplicemente di "una donna". Tutti e tre i sinottici parlano del vaso di alabastro col profumo, mentre Giovanni ne definisce solo la quantità: una libbra. In realtà l'interpretazione tradizionale vuole che il brano di Luca non sia l'unzione di Betania, ma un'altra unzione completamente indipendente, avvenuta mentre Gesù si trova a casa di un certo Simone, nella circostanza di un banchetto, durante il quale giunge una donna, con un vaso di alabastro, che comincia a ungere Gesù, che viene rimproverata aspramente dai presenti e che viene difesa dal Maestro: le stesse identiche azioni, coincidenti perfino in alcuni dettagli particolari, come il fatto che Luca e Giovanni, a differenza di Marco e Matteo, parlano di unzione dei piedi, non solo della testa, e di asciugamento dei medesimi coi capelli della donna. Perché dunque dovremmo pensare che il brano di Luca si riferisca a un episodio completamente diverso? Le differenze consistono nel fatto che il brano di Luca è collocato in una posizione centrale del racconto evangelico, lontano dagli eventi della passione; ma questo può spiegarsi benissimo immaginando che l'autore, o i revisori, abbiano semplicemente anteposto il brano. Il luogo, inoltre, resta imprecisato, esattamente come nell'episodio lucano dell'incontro fra Gesù e le sorelle Marta e Maria in cui Betania non è nominata; ma questo è dovuto semplicemente al fatto che Luca non vuole identificare le persone di cui sta parlando; coerentemente con gli altri due Vangeli sinottici ha un atteggiamento censorio nei confronti della famiglia di Betania. Infine, le parole che Gesù pronuncia in difesa della donna, contro le accuse mossele dai presenti, sono diverse, anche se in definitiva configurano una circostanza identica. C'è poi un'altra differenza, della quale si può dimostrare facilmente come sia stata creata ad arte. Si tratta del vaso di alabastro che le traduzioni moderne del Vangelo lucano rendono semplicemente col termine "un vasetto", mentre il testo latino è inequivocabile: "attulit alabastrum unguenti (Lc 7,37). Perché questa omissione? Le troppe somiglianze del brano di Luca con quelli degli altri evangelisti danno fastidio? Il fastidio nasce sicuramente dal fatto che la tradizione è abituata a identificare la donna protagonista dell'episodio lucano nella persona di Maria di Magdala, anche se oggi qualcuno vuole precisare che la donna non è né Maria di Magdala, né Maria di Betania, contraddicendo così le affermazioni degli stessi Padri della chiesa. Infatti, come avrebbe potuto uno stesso episodio avere per protagonista due Marie diverse? La chiave di tutta la questione risiede nel fatto che, da un certo punto in poi nello sviluppo della tradizione cristiana, si è presentata l'esigenza di censurare completamente alcuni importanti personaggi che erano soliti accompagnare il Cristo in molti dei suoi movimenti. Erano personaggi famosi o per lo meno ampiamente conosciuti, legati ai più intransigenti gruppi del messianismo ebraico: esponenti e simpatizzanti delle sette essendo-zelotiche che tanto si erano distinte nella lotta per il rovesciamento del potere della famiglia erodiana e per la liberazione dal dominio dei conquistatori romani. Di costoro, nella narrazione evangelica che faceva da supporto alla predicazione di quel cristianesimo che ormai si era definitivamente staccato dalla sua matrice ebraica, non si doveva più sapere assolutamente nulla; se possibile dovevano essere cancellati dalla memoria dell'uomo. (E in pratica così è stato per quasi duemila anni: gli anni decisivi per la formazione del corpo dottrinale e teologico neocristiano. Solo in anni relativamente recenti il "caso" si è cominciato a riaprire). Coerentemente con questo proposito il Vangelo di Marco, il più antico dei sinottici, e quello di Matteo, hanno letteralmente fatto piazza pulita della famiglia di Betania, ovverosia di Lazzaro e delle sue sorelle Marta e Maria. È un fatto su cui non possiamo fare a meno di riflettere. Il miracolo della resurrezione di Lazzaro non esiste nei Vangeli sinottici: si tratta di una dimenticanza o di un'omissione intenzionale? E poi, a rafforzare il dubbio e le perplessità si aggiunge l'anonimato della donna che compie l'unzione a Betania, nonché l'assenza, nel quadro dei personaggi di questo banchetto, di Lazzaro (che "era uno dei commensali") e di Marta (che "serviva" a tavola): cosa aveva di tanto scomodo questa gente da essere dimenticata o lasciata anonima? Il Vangelo di Luca non tradisce l'atteggiamento censorio degli altri due sinottici, se non per il fatto che le due sorelle, Marta e Maria, vengono nominate una volta, ma in modo tale da non lasciare neanche lontanamente capire chi esse siano nella realtà:

"Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: "Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma Gesù le rispose: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta" (Lc 10,38-42).

Come si può notare il brano è ambientato, temporalmente e spazialmente, in modo tale da far sembrare che Gesù sia capitato per caso in quel villaggio e in quella famiglia, né le suddette persone sono più nominate nel corso della narrazione, svolgendo così il ruolo di occasionali comparse. Non è altamente significativo il fatto che la tradizione sinottica abbia ridotto gli importanti personaggi della famiglia di Betania, quell'unica volta che essi compaiono, alla figura di semplici e anonime comparse? Ma l'operazione censoria più importante e palese, a proposito di questi personaggi, sta nel fatto che il Vangelo di Luca riporta il brano della unzione di Betania con una collocazione temporale diversa rispetto agli altri evangelisti - lasciando ancora una volta anonima la donna, il luogo, i personaggi - ma sta soprattutto nel fatto che la tradizione interpretativa si sia attestata sull'idea che la protagonista di tale unzione lucana, definita nel testo come "una peccatrice di quella città", fosse

"Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni" (Lc 8,2).

Da questo momento in poi l'unzione lucana è condannata a rimanere ben distinta da quella degli altri evangelisti; altrimenti come avrebbe potuto spiegarsi la duplice identità della protagonista? Oggi, per saltare a piè pari il problema, qualcuno, come abbiamo già accennato, distingue la peccatrice sia dalla Maria di Magdala che da quella di Betania. E il vaso di alabastro della unzione lucana, che assomiglia troppo a quello delle unzioni di Betania, si trasforma in un semplice "vasetto di olio profumato". La verità che emerge in modo abbastanza chiaro da tutto ciò è una sola: la tradizione sinottica, pur avendo cercato di cancellare, tutte le volte che era possibile, i personaggi della famiglia di Betania, si è trovata qualche volta nell'impossibilità di tagliare dalla narrazione evangelica alcuni episodi di importanza fondamentale, i cui protagonisti erano proprio quegli scomodi personaggi, e allora li ha presentati o in veste anonima o sotto identità contraffatte. Maria di Magdala è il prodotto della contraffazione sinottica del personaggio di Maria di Betania, sorella di una certa Tamara (Marta) e di Lazzaro, individuo conosciuto a Gerusalemme e introdotto negli ambienti del Tempio. Tutte le volte che i Vangeli sinottici hanno dovuto dare un nome a questa donna, non volendone lasciar intendere l'identità, l'hanno chiamata Maria di Magdala, utilizzando probabilmente il tipico meccanismo di contraffazione che abbiamo individuato in altre occasioni: sfruttare la somiglianza di alcuni termini ebraici con denominazioni geografiche (vedi Nazoreo che diventa di Nazaret, o Qanana che diventa Cananeo, o Galileo che non significa più zelota, ma cittadino della Galilea). Questa volta potrebbe essere il termine megaddela [pettinatrice] che si sarebbe trasformato in "di Magdala", dando così una provenienza e un'identità del tutto innocua alla peccatrice redenta. A sostegno di tale ipotesi va il confronto fra i seguenti due brani, uno dal Vangelo di Giovanni e l'altro, rispettivamente, da uno scritto apocrifo:

"Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi coi suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato..." (Gv 11,2).

"Questa è l'ampolla comprata da Maria peccatrice [quella che Luca definisce "una peccatrice di quella città"] e versata sul capo e sui piedi del Signore nostro Gesù Cristo asciugati poi coi capelli del suo capo..." (Vangelo arabo-siriaco dell'infanzia del Salvatore, 5,1).

Del resto l'antica liturgia latina considerava la Maddalena come la sorella di Lazzaro, ma questa identificazione, successivamente, è stata abbandonata.


b) Chi era Maria di Magdala/Betania?

A questo punto, le domande che sorgono spontanee sono: perché la tradizione sinottica aveva tanto bisogno di cancellare dalla narrazione evangelica ogni traccia della famiglia di Betania, dimenticandola, quando possibile, e ricorrendo all'alterazione delle identità, quando necessario? Chi era questa enigmatica Maria di Magdala/Betania? Secondo certi scritti apocrifi e certe tradizioni, non molto amate dalla dottrina cattolica, la risposta alla seconda domanda è breve e concisa: era la moglie di Cristo. Sul fatto in questione è stato scritto e detto molto; noi riassumeremo qui alcune argomentazioni fondamentali a favore. Innanzitutto il fatto che i Rabbì erano sempre sposati, e noi vediamo che il Cristo è chiamato "Rabbì" numerose volte sia nel Vangelo di Matteo che in quello di Giovanni, nei quali si conserva il termine ebraico anche nelle traduzioni moderne, mentre nei Vangeli di Marco e di Luca il termine compare solo nella versione tradotta: Maestro. Come poteva il Rabbì assumere questo titolo senza essere sposato? Quando mai, inoltre, gli scritti evangelici affermano in modo esplicito che il Cristo era una persona priva di moglie e figli? Ha forse egli predicato in favore del celibato? Se lo avesse fatto, la cosa sarebbe stata così singolare, nel contesto delle concezioni ebraiche, da sollevare lo stesso tipo di scalpore che sollevavano i discorsi sul riposo del Sabato, e i Vangeli vi avrebbero dedicato la stessa attenzione. Al contrario troviamo Gesù che pronuncia frasi di questo tipo:

"Ed egli rispose: "Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina, e disse: "Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola?"" (Mt 19,4).

Ci sono poi testi gnostici, che la Chiesa ha rigettato, nei quali si fanno affermazioni di questo genere:

"Erano tre, che andavano sempre con il Signore: sua madre Maria, sua sorella, e la Maddalena, che è detta sua consorte. Infatti era Maria sua sorella, sua madre, e la sua consorte".

"...la consorte di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla bocca..." (Vangelo di Filippo, versi 32 e 55).

Un altro argomento a sostegno della ipotesi che Maria di Magdala/Betania fosse la moglie del Messia lo troviamo nell'esistenza di tradizioni, energicamente represse dalla Chiesa, in base alle quali questa consorte di Cristo, dopo la crocifissione del marito, sarebbe fuggita dalla Palestina e si sarebbe rifugiata in una consistente comunità ebraica, nel sud della Francia, portando con sé un figlio. La discendenza di Cristo, il "figlio di Davide", come assai spesso è definito nelle narrazioni evangeliche, sarebbe dunque stata la stirpe del sangue reale della casa di Davide: la dinastia legittima alla quale, e soltanto alla quale, spettava per diritto di regnare su Israele. Il sangue reale della casa di Davide, attraverso Maria Maddalena, sarebbe così giunto nella Francia meridionale dove, alcuni secoli dopo, sarebbe stato definito Sang Raal, con un termine proprio delle lingue provenzali: un termine che a noi è più noto nella forma Santo Graal. In realtà, la ricerca affannosa del Santo Graal, che la versione popolare della tradizione rappresenta come la coppa in cui Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo colante dalla croce, sarebbe la ricerca dell'autentica dinastia Davidica: di quel discendente di Cristo che avrebbe dovuto regnare sul Sacro romano impero, spodestando i falsi imperatori eletti dalla falsa Chiesa di Cristo. Se la storia che noi studiamo sui banchi di scuola non fosse stata riscritta e opportunamente ritoccata dagli scribi della Chiesa, molto di più sapremmo sul fatto che i re franchi affermavano - più o meno fondatamente - d'essere imparentati col sangue di Davide, e che i Merovingi rivendicavano, per l'appunto, il diritto dinastico sulla casa di Israele. Senonché la dinastia merovingia, con un'operazione politica voluta dalla Chiesa di Roma, fu spodestata e sostituita dalla dinastia dei rozzi e analfabeti Carolingi. Da allora tutta la questione del diritto dinastico fu messa a tacere, con violenza quando occorreva; il culto di Maria Maddalena fu visto con ostilità, se non ferocemente represso, come nella tragica occasione della sanguinosa crociata contro gli Albigesi (una setta neognostica della Francia meridionale); le chiese dedicate alla Maria che tanto fastidio poteva creare - Notre Dame - furono dedicate invece alla più rassicurante Maria vergine. Il celebre brano delle nozze di Cana, riportato dal Vangelo di Giovanni, ha aspetti a dir poco inconsueti, che lasciano pensare al fatto che le nozze siano, in realtà, le stesse nozze di Cristo:

"Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino". E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora". La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà". Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le giare"; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: "Ora attingete e portatene al maestro di tavola". Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino a ora il vino buono"" (Gv 2,1-10).

Perché lo sposo resta anonimo? In altre occasioni (banchetti, miracoli ecc.) si fa il nome del padrone di casa o del miracolato. Per quale ragione Maria può dare ordini ai servi, comportandosi come una padrona di casa? E ancora, per quale motivo i Vangeli sinottici hanno trovato opportuno far piazza pulita di questo episodio, così come di tutto ciò che, nel quarto Vangelo, ha riferimenti espliciti con la famiglia di Betania? Ecco dunque farsi avanti un'ipotesi assai plausibile, da prendere con tutti i benefici del dubbio, ma per certi versi anche affascinante: la famiglia di Betania era la famiglia acquisita di Cristo, in seguito al suo matrimonio con Maria; Lazzaro e Marta erano i suoi cognati. Nel villaggio di Betania il Cristo avrebbe trovato non solo degli amici che lo ospitavano, ma coloro che lo accoglievano in casa come un parente stretto: un importante parente. Con tutta probabilità, infatti, non stiamo parlando di Jeshu bar Abbà, quello chiamato "Figlio di Dio", l'uomo che aspirava, forse, al titolo di sommo sacerdote (Messia di Aronne) nel ricostruito regno di Davide, e che in occasione del processo dinanzi a Pilato fu rilasciato; stiamo parlando di quell'altro, quello chiamato Mashiah, il Cristo, l'uomo che aspirava al titolo di re (Messia di Israele) e che Pilato fece condannare e crocifiggere proprio per la sua ambizione regale. Maria era la moglie dell'aspirante re di Israele, e sarebbe stato proprio per questo motivo che ella s'era permessa, in occasione del banchetto offerto nella casa del fariseo Simone, di tirar fuori quel ricchissimo vaso d'alabastro, pieno di prezioso unguento di nardo purissimo, e di eseguire una cerimonia pubblica di unzione messianica, alla vigilia del tentativo di restaurazione del regno di Davide.


2. Colui che ami è ammalato


a) Il miracolo di Betania o che cos'altro?

L'undicesimo capitolo del Vangelo di Giovanni è senza ombra di dubbio una delle pagine più importanti e problematiche del Nuovo Testamento. Amato dai cattolici per l'episodio della resurrezione di Lazzaro; guardato con attenzione dagli esegeti moderni e da alcuni Padri della chiesa, per i legami pericolosi con lo gnosticismo; fatto oggetto di grande interesse dagli appassionati delle discipline esoteriche; generalmente incompreso dai più che non sanno, o non vogliono, cogliervi quei significati che il capitolo nasconde. Nel lungo racconto di Gv 11,1-57, Gesù sarebbe stato richiamato a Betania perché Lazzaro era malato. È da notare il fatto che l'ambasciata delle sorelle di Lazzaro non porta neanche il nome dell'infermo: colui che ami è ammalato, tutto qui. Evidentemente queste parole erano sufficienti per identificare inequivocabilmente la persona di cui si parlava. A questo proposito sarà bene notare che la maggioranza delle traduzioni moderne del Vangelo di Giovanni, come la versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana (Cei), non portano l'espressione

"Signore, ecco, colui che ami è malato",

ma le parole

"Signore, ecco, il tuo amico è malato" (Gv 11,3).

Questa traduzione non è corretta. Sia nel testo greco che in quello latino ("Domine, ecce quem amas infirmatur") è presente il verbo "amare", non il sostantivo "amico". Per quale motivo la traduzione dovrebbe subire questo leggero ritocco? Ancora una volta, come nel caso del "vasetto" di Luca, che era invece un prezioso vaso di alabastro, siamo di fronte a un tentativo di sviare certe interpretazioni che la dottrina cattolica trova molto indesiderate. Si ricorderà infatti che tutto il quarto Vangelo è pervaso dalla presenza di un personaggio lasciato sistematicamente anonimo. Il fatto appare molto strano e apparentemente privo di una spiegazione logica; ne abbiamo già parlato nella parte dedicata al processo:

"Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche Pietro" (Gv 18,15-16).

Costui non è mai chiamato per nome e la tradizione vuole che si tratti dello stesso autore del Vangelo, che avrebbe scritto a novanta anni compiuti, identificato nella persona dell'apostolo Giovanni:

"Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera" (Gv 21,24).

Ma la cosa è assolutamente impossibile, non foss'altro perché l'apostolo Giovanni, un ame-ha-aretz, figlio di un povero pescatore della Galilea, non poteva essere un frequentatore abituale del Tempio di Gerusalemme, noto al sommo sacerdote al punto da potersi permettere di convincere la portinaia a lasciar entrare uno sconosciuto come Simone nel cortile della casa di Caifa; non conosceva la lingua greca, nella quale sarebbe stato redatto il quarto Vangelo; non era iniziato alla filosofia gnostico-ellenistica del logos e, come sostengono alcuni studiosi e alcune antiche testimonianze, sarebbe morto di morte violenta assai prima di raggiungere la vecchiaia. Si rifletta sul fatto che l'ultima citazione che abbiamo letto si trova nel ventunesimo capitolo del quarto Vangelo, un capitolo aggiunto posteriormente, come gli stessi esegeti cattolici ammettono, e che si trova dopo quella che era la conclusione naturale del Vangelo stesso nella sua stesura originaria. Molte volte il personaggio in questione è definito "il discepolo che Gesù amava" (Gv 13,21-23; Gv 19,25-27; Gv 20,1-8; Gv 21,6-7; Gv 21,20-23).

La definizione "che Gesù amava" ricorre, come abbiamo visto, ben cinque volte e sembra sufficiente, nelle intenzioni del redattore, a caratterizzare il personaggio. Ora, chi è che Gesù amava, secondo quanto possiamo dedurre dalla lettura del Vangelo, se non colui per riconoscere il quale basta dire "ecco, colui che ami è ammalato", senza neanche ricorrere al nome proprio, cioè Lazzaro di Betania? Ci sono altre occasioni in cui vengono date precise indicazioni sulla predilezione di Gesù per Lazzaro:

"Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro" (Gv 11,5); "Così parlò e poi soggiunse loro: "Lazzaro, il mio diletto, s'è addormentato..." (11,11); "Dissero allora i Giudei: "Vedi come lo amava!"" (11,36).

Perché, dunque, le traduzioni moderne preferiscono l'espressione "il tuo amico", al più corretto "colui che ami"? Per un motivo che ormai ci è chiaro: per impedire la corretta identificazione del personaggio anonimo, quel Lazzaro che, insieme ai suoi familiari, nasconde indesiderabili aspetti dell'identità e dell'attività di suo cognato, il Cristo. Lazzaro, pertanto, era il discepolo prediletto, il discepolo che il Maestro amava in modo particolare insieme alle sue sorelle Maria e Tamara/Marta. Cos'è successo allora, in realtà, nella misteriosa occasione nota come il miracolo della resurrezione di Lazzaro? Per la dottrina cattolica la domanda non si pone nemmeno: Gesù ha semplicemente fatto ricorso alla sua facoltà di compiere miracoli. Mosso a compassione dal dolore dei familiari di Lazzaro, che era appena deceduto in circostanze non chiarite, ha esibito in pubblico il suo infinito potere richiamando in vita il morto. Così infatti appaiono gli eventi da una lettura superficiale del brano. Non tutti, però, sono disposti a interpretare in tal senso quelle righe cariche di mistero, specialmente quei pochi che non ignorano l'esistenza di certe pratiche, comuni presso le confraternite religiose e i circoli iniziatici dell'antico Egitto, della Grecia, della Palestina dei tempi di Gesù, della Siria, della Mesopotamia, della Persia e, addirittura, dell'India moderna, dove l'antica sapienza mistica trova ancora qualche seppur raro rappresentante. Costoro, infatti, conoscono i riti iniziatici che la Chiesa romana, nemica a oltranza di ogni forma di gnosticismo e di misticismo non-ortodosso, ha sempre combattuto. Ai tempi in cui è ambientato il racconto evangelico, e anche molto prima, erano diffusi in tutta l'area mediterranea, e nel vicino Oriente, movimenti e circoli religiosi in cui veniva praticata la forma più alta di iniziazione mistica: la discesa temporanea nella morte. Parlare di ciò, oggi, in piena era tecnologica e scientifica, può facilmente far credere che si stia sconfinando nella magia, col rischio d'esser presi per visionari o d'essere inclusi nella folta schiera degli amanti dell'occultismo. In realtà stiamo solo affrontando un argomento che potremmo considerare oggetto d'interesse per l'antropologia religiosa o la storia dei riti e delle credenze mistiche: questioni che studiosi come Mircea Eliade o James G. Frazer hanno affrontato spesso nei loro lavori, contribuendo a fornirci gli strumenti per una migliore conoscenza di queste forme di spiritualità, comuni nel mondo antico, che la Chiesa cattolica ha invece rimosso nella sua sistematica repressione di ogni cultura religiosa eterodossa. Un tipico rito egiziano consisteva nel porre l'adepto in una sorta di sarcofago sotterraneo, quel genere di luogo in cui venivano solitamente tumulati i defunti, per poi farlo cadere, tramite un procedimento simile all'ipnosi, in uno stato di trance profonda. L'adepto restava così sepolto per la durata di tre giorni, periodo nel quale si credeva che la sua anima compisse un viaggio agli inferi, il regno dei morti, da cui avrebbe fatto ritorno totalmente rinnovata. Infatti allo scadere del tempo stabilito, il corpo dell'aspirante veniva estratto, riscaldato ai raggi del sole e rianimato: non era più un comune mortale come gli altri, adesso era un iniziato. Nell'area greca qualcosa di molto simile era comune ai praticanti dei riti eleusini, nonché delle iniziazioni orfiche e dionisiache. In tutt'altra area, invece, cioè nell'India brahmanica, gli adepti dello Yoga indù e di quello buddista hanno sempre praticato un rito davvero sorprendente che non finisce di stupire, ancora oggi, medici e scienziati: il Kechari Mudra. Il mistico è in grado di ridurre le funzioni metaboliche al minimo indispensabile per garantire la pura sopravvivenza cellulare; così, sprofondato in un vero e proprio stato di catalessi volontaria, si lascia seppellire per periodi che possono variare dai pochi giorni alle numerose settimane, per poi ritornare alla coscienza e alla vita normale, quasi come un autentico "risuscitato". Una eco di concezioni religiose di tal genere la troviamo nella letteratura omerica, laddove Ulisse, che ha superato le prove iniziatiche e non si è rivelato un "suino", come i suoi compagni, viene istruito dalla maga Circe sul modo di scendere agli inferi e di poter, in seguito, fare ritorno nel mondo dei vivi. Ma la troviamo anche in quel tipo di letteratura cristiana che, come la Divina Commedia di Dante, è pregna di un complesso simbolismo mistico per la cui comprensione non abbiamo in genere la preparazione necessaria: il poeta dei poeti, infatti, come gli iniziati del mondo antico, varca da vivo la soglia dell'inferno, nonostante le vibrate proteste del guardiano, per poi tornare, alla fine del suo viaggio, fra i viventi. È quindi solo l'ignoranza di questa tradizione di spiritualità e misticismo, presente invece in tutta la storia passata della nostra cultura, che ci impedisce di aprire gli occhi sul brano evangelico della resurrezione di Lazzaro, per leggervi ciò che in esso è descritto: un rito iniziatico comune presso alcune confraternite dell'area mediorientale - in questo caso di ebrei dissidenti rispetto alla casta dei sacerdoti del Tempio di Gerusalemme - che, come gli esseni del deserto di Giuda o i terapeuti d'Egitto, ricorrevano a pratiche mistiche e conoscevano il potere spirituale della "discesa nella morte". Lazzaro, il discepolo prediletto, potrebbe essere stato il beneficiario di questa alta forma di iniziazione. Le modalità del "miracolo" e altri indizi ci spingono a ricercare in tale direzione. Di più non ci è possibile aggiungere.


b) I miracoli di resurrezione nei Vangeli

Leggendo i racconti dei miracoli di resurrezione, operati da Gesù, presenti nei tre Vangeli sinottici (Mc 5,21-4, 35-43; Mt 9,18-19,23-6; Lc 8,41-2, 49-56; Lc 7,11-17), la cosa più importante da notare è, come già sappiamo, l'assenza della resurrezione di Lazzaro. Il fatto può essere spiegato in vari modi: si potrebbe supporre, per esempio, che gli evangelisti hanno testimoniato solo alcuni fra i miracoli operati da Gesù e che, per questo motivo, gli stessi episodi non compaiono in tutti i Vangeli. Risulta però strana l'unanimità con cui tutti e tre i sinottici avrebbero deciso di dimenticare la resurrezione di Lazzaro, per prediligere, sempre tutti e tre, la resurrezione della figlia di Giairo, che invece Giovanni ha dimenticato. Sarebbe una spiegazione troppo semplice. Sappiamo, infatti, che i tre sinottici non hanno semplicemente dimenticato la resurrezione di Lazzaro, ma hanno letteralmente tagliato dal racconto evangelico tutta la famiglia di Betania, gli eventi che la riguardano e, probabilmente, ne hanno contraffatto i componenti quando non era possibile eliminarli. In questo modo arriviamo all'inevitabile conclusione che la resurrezione della figlia di Giairo occupa, nella tradizione sinottica, un ruolo corrispondente a quello che la resurrezione di Lazzaro svolge nello scritto giovanneo. I Vangeli di Marco e Matteo non conoscono altra resurrezione operata da Gesù; solo quello di Luca, sempre abbondante, parla di un'altra resurrezione, quella del figlio della vedova di Nain. Perché l'autore del Vangelo di Marco, il primo fra i sinottici, scelse la figlia di Giairo e dimenticò Lazzaro? La spiegazione, forse, riposa in un'interpretazione diversa: probabilmente l'autore non ha affatto dimenticato l'episodio di Betania, così come non ha dimenticato la celebre unzione; in entrambi i casi, resurrezione e unzione, ha riportato gli episodi ma ha alterato le identità dei personaggi. Non avevamo forse già detto che Marco aveva qualche ben precisa ragione per presentare Maria, la sorella di Lazzaro, semplicemente come una donna senza nome? Adesso, nell'episodio della resurrezione, è interessante notare che anche questa fanciulla non ha nome, è semplicemente "la figlia di Giairo", nient'altro. Naturalmente Lazzaro non era una fanciulla, ma se non fosse per questo dovremmo riconoscere che i due episodi presentano notevoli somiglianze strutturali. Quello di Marco potrebbe essere stato ottenuto alterando quello di Giovanni, un'operazione che non si sarebbe potuto realizzare a partire dalla resurrezione del figlio della vedova di Nain. In questo caso, infatti, abbiamo una struttura completamente diversa che non consente, operando dei semplici ritocchi, di ottenere l'uno dall'altro. L'ipotesi cui voglio dare corpo è dunque la seguente: coerentemente con l'intento di censurare sempre la famiglia di Betania, l'autore del più primitivo fra i Vangeli sinottici - quello secondo Marco - così come aveva riportato l'episodio della unzione di Betania con personaggi dalle identità censurate, avrebbe riportato anche l'altro clamoroso episodio di Betania, e cioè la resurrezione di Lazzaro, con personaggi e circostanze contraffatte: il ruolo di Lazzaro sarebbe stato coperto dalla giovinetta chiamata "figlia di Giairo". Sia ben chiaro un fatto, la contraffazione, prima ancora che i personaggi, riguarda il senso generale dell'episodio stesso, in quanto i Vangeli tutti, per come li possiamo leggere oggi, si guardano bene dal parlare di un rito di iniziazione, ma presentano il fatto come un prodigio operato da Gesù, in virtù dei suoi poteri sovrannaturali.


c) Eleazar ben Jair

Esistono altrove collegamenti che possono confortare la nostra ipotesi? La letteratura del primo secolo testimonia l'esistenza di un certo Eleazar, il quale si rese famoso per essere stato alla guida di quegli intrepidi esseno-zeloti che, asserragliatisi nella fortezza di Masada, tennero testa alle legioni imperiali per quasi due anni dopo la distruzione di Gerusalemme e la fine della guerra con i romani. Ce ne parla Giuseppe Flavio, nella sua Guerra giudaica, soffermandosi in ampi dettagli sia sugli avvenimenti, sia sul personaggio di Eleazar. Così il personaggio è presentato dallo storico ebreo:

"...Masada è il nome di questa fortezza. A capo dei sicari che l'avevano occupata c'era Eleazar, un uomo potente, discendente di quel Giuda che, come sopra abbiamo detto, aveva persuaso non pochi giudei a sottrarsi al censimento fatto a suo tempo da Quirinio nella Giudea" (VII, 8,235).

Per comprendere meglio i fatti in questione, sarà bene ricordare che nell'agosto dell'anno 70 d.C. Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano, mosse guerra a Gerusalemme e, dopo lungo ed estenuante assedio, mise la città a ferro e fuoco, profanando le aree sacre del Tempio e dandolo alle fiamme: portava così a termine la guerra sanguinosa che i più accaniti sostenitori dell'indipendenza di Israele avevano voluto intraprendere contro i romani. Ancora oggi può essere osservato a Roma, in tutta la sua imponenza, l'arco di Tito, i cui bassorilievi ricordano il saccheggio del Tempio e la sfilata trionfale delle truppe reduci dalla Palestina. Qualche tempo prima era accaduto che Menahem, l'ultimo figlio di Giuda il Galileo - che, secondo le nostre ipotesi, sarebbe stato il fratello più giovane dell'aspirante liberatore di Israele che Pilato aveva fatto crocifiggere - era entrato nella fortezza di Masada, aveva saccheggiato l'arsenale di Erode, aveva armato numerosi uomini ed era riuscito a entrare in Gerusalemme, dove aveva preso il potere, dichiarandosi Messia dei Giudei. Fu l'unico che riuscì a coronare, seppure per breve tempo, il sogno comune a tutti i componenti della famiglia di Giuda: sostituirsi all'odiata famiglia erodiana sul trono di Israele, in virtù del proprio vantato diritto, in quanto presunti discendenti di Davide. Si trattò, come prevedibile, di una breve gloria; altre fazioni che non condividevano le idee dei seguaci di Menahem si sollevarono contro di lui,

"ritenendo che, levatolo di mezzo, sarebbe interamente cessata la rivolta; gli uomini di Menahem fecero per un po' resistenza, ma quando videro che tutta la folla era contro di loro, fuggirono dove ognuno poté, e allora seguì una strage di quelli che venivano presi e una caccia a quelli che si nascondevano. Pochi trovarono scampo rifugiandosi nascostamente a Masada, e fra questi Eleazar figlio di Giairo, legato a Menahem da vincoli di parentela, che in seguito fu capo della resistenza a Masada. Quanto a Menahem, che era scappato nel quartiere detto Ofel e vi si era vigliaccamente nascosto, fu preso, tirato fuori e dopo molti supplizi ucciso" (II, 17,445-8).

Stando alle ampie descrizioni di Giuseppe Flavio, Eleazar sarebbe stato anche depositario di insegnamenti iniziatici di tipo esoterico-orientale, non comuni all'ortodossia ebraica, ma tipici piuttosto delle comunità mistiche del tipo degli esseni. Tutto ciò può essere confermato da alcuni brani della Guerra giudaica (VII, 8,320-88) che non riportiamo, per ragioni di spazio, ma che sarà utile riassumere. Quando Eleazar si rese conto, dopo lunghi mesi di assedio della fortezza di Masada da parte dei romani, che un'ulteriore resistenza sarebbe stata inutile, pronunciò davanti ai suoi seguaci, rinchiusi come lui nella roccaforte, un drammatico discorso. Li volle convincere che non c'era altra soluzione che il suicidio di massa. I romani, sosteneva Eleazar, avrebbero compiuto orribili massacri, sottoponendo alla tortura gli uomini e alle più penose umiliazioni le donne; avrebbero deportato i pochi sopravissuti, i quali avrebbero proseguito la loro esistenza in schiavitù, senza mai più rivedere né la patria né i propri cari. Una rapida morte, senza ombra di dubbio, sarebbe stato il meno peggiore dei destini. Per aiutare i presenti ad accettare la tragica realtà parlò della morte, della trasmigrazione dell'anima, portò come esempio la fede serena con cui gli indiani accettano la liberazione dello spirito dal suo vincolo materiale; insomma, impartì una vera e propria lezione di esoterismo, rivelando, non solo il possesso di concezioni che non erano certo usuali nella religione di Israele, ma anche una dettagliata conoscenza degli usi e dei costumi religiosi degli indiani, mostrando così l'esistenza di legami alquanto concreti fra i circoli mistici degli ebrei e gli ambienti indo-buddisti. Ecco dunque la serie delle coincidenze interessanti che ci sembra di aver individuato. Il Lazzaro (o Eleazar) in questione sarebbe stato:

1. un componente di rilievo della setta esseno-zelota fondata a suo tempo da Giuda il Galileo,
2. legato a Menahem da vincoli di parentela,
3. figlio di un certo Giairo,
4. depositario di singolari insegnamenti iniziatici.

Il Lazzaro dei Vangeli, come tutta la sua famiglia, è una figura pesantemente censurata proprio perché personaggio importante,

1. sicuramente coinvolto nella lotta zelota,
2. cognato dell'aspirante Messia di Israele e quindi cognato anche di Menahem,
3. presentato dalla tradizione sinottica sotto spoglie contraffatte, come "figlia di Giairo",
4. destinatario di un'alta forma di iniziazione impartitagli dal Cristo.

Vi sono elementi a sufficienza, quindi, se non per dimostrare, almeno per suggerire l'ipotesi che Lazzaro di Betania fosse lo stesso Eleazar ben Jair di cui parla Giuseppe Flavio.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:05

"La Bibbia. Genesi e gli altri libri del Pentateuco" vol. I - Oscar Mondadori 2000



Il testo base dell'ebraismo


"L'illuminazione che i miei amici giapponesi trovano nella luce di Buddha, l'unione della quale i miei amici cristiani sono alla ricerca sulla croce di Cristo, noi la incontriamo sin dalla nascita nella Torah di Mosheh, quasi senza aver bisogno di cercarla, per connaturalità in qualche modo genetica. La tradizione insegna che ogni figlio d'Israele, prima di nascere, conosce tutta la Torah, da Ber'eshit, "In testa", all'ultima parola della Rivelazione profetica. Sa anche, e a memoria, i misteri connessi alle parole e alle lettere della Bibbia. Alla sua nascita un angelo, con una pressione sulla fossetta del mento, fa dimenticare tutto al neonato, per dargli la gioia e il merito, durante la sua vita, di riscoprirne la sinfonia. Come ogni figlio d'Israele, avevo scoperto nella Bibbia la storia del mio popolo e quella dell'umanità, nel cammino verso la liberazione, l'unità, la salvezza". Queste parole, che André Chouraqui, uomo in dialogo sulle frontiere delle grandi religioni storiche, colloca in principio al suo Mosè (Marietti, 1996), fanno intravedere la relazione vitale che la tradizione ebraica ha voluto da sempre instaurare con i primi cinque libri delle Scritture, denominati con una parola collocata tra le prime del libro: In principio, Nomi, E chiamò, Nel deserto, Parole (rispettivamente per Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio). Con il termine Torah, la lettura ebraica non vuole anzitutto indicare la "Legge" o i "libri della Legge", quanto piuttosto l'insegnamento di Jhwh e del suo profeta Mosè al popolo: più che l'ambito giuridico vi è quello pedagogico, più che un giudice ritroviamo un maestro legislatore con il suo "insegnamento". La Torah è la Parola di Jhwh che illumina la via e indica il cammino. La traduzione con il termine "legge", che deriva dal greco e dal latino, si espone, nella nostra mentalità giuridica, al rischio di non rendere sufficiente ragione della natura intrinseca di questi scritti, natura che esclude ogni legalismo fine a se stesso: la parola infatti diventa indicazione e comando solo in quanto prima è uscita dalla bocca del maestro. Sebbene la Torah sia composta da cinque libri, va letta, ascoltata e interpretata come unità di messaggio. Non è un caso che i cinque libri della Torah siano sempre tutti contenuti in un unico rotolo di pergamena nella lettura sinagogale.


Dalla Torah al Pentateuco, un passaggio di tradizioni

Con i primi secoli della nostra era viene coniata una nuova terminologia, Pentateuco, vale a dire "il libro in cinque volumi". Si tratta di una modalità espressiva che si impone progressivamente grazie alla tradizione cristiana. Per i primi cinque libri sacri si hanno quindi due nomi differenti, Torah e Pentateuco, che, se apparentemente identici in quanto riferentisi alla stessa realtà, restano il prodotto di due comprensioni distinte: i due differenti modi di denominare la medesima realtà lasciano intendere due differenti prospettive. L'approccio ebraico sottolinea l'unitarietà del testo, come emerge dalla stessa lettura sinagogale quando ogni sabato, nel servizio liturgico, si svolge l'intero rotolo, da In principio a Parole. La prospettiva cristiana, invece, privilegia la pluralità e la molteplicità di utilizzo dei testi, selezionando sezioni particolari e tralasciandone altre. Questa pratica, documentata anzitutto nella liturgia e nei commentari biblici antichi, si fonda essenzialmente sull'intenzionalità di porre le Scritture dell'Antica Alleanza al servizio della comprensione di Gesù di Nazaret, come emerge ampiamente dal Nuovo Testamento che rispecchia la posizione critica assunta da Gesù, e in seguito dalla comunità apostolica, nei confronti della tradizionale lettura ebraica della Torah ("Vi fu detto.. ma io vi dico..."). Nascono così una lettura ebraica e una lettura cristiana della Bibbia, distinte dall'uso, dall'importanza e dall'interpretazione attribuita agli stessi testi. Tra le esemplificazioni che si possono ricordare, pensiamo al decisivo ruolo ricoperto in seno alla tradizione cristiana dalle "dieci parole", cioè i "dieci comandamenti", accanto allabbandono delle numerosissime indicazioni delle ampie sezioni legali della Torah.


La problematica dell'autore e delle fonti letterarie

La storia delle origini che è narrata nei primi undici capitoli e complessivamente l'intero libro della Genesi hanno contribuito in modo significativo a determinare lo scenario fondamentale delle discussioni e delle ipotesi sulla formazione della Torah/Pentateuco. Introdurre un libro è un'operazione sempre molto complessa: la Bibbia sembra aprirsi con due racconti tra loro distinti che, pur essendo entrambi interessati al tema della creazione, appaiono per molti aspetti inconciliabili (Genesi 1-3); il racconto del diluvio, inoltre, documenta un'intersezione tra due narrazioni precedenti della stessa vicenda (Genesi 6-9); infine, la storia di Giuseppe (Genesi 37-50) potrebbe essere estrapolata dal contesto narrativo del libro della Genesi come unità letteraria a sé stante, per le evidenti differenze stilistiche. La critica letteraria applicata alla Bibbia, prendendo le mosse da queste e altre osservazioni, ha posto le basi per la contestazione dell'immagine tradizionale dell'autore e del testo sacro. Infatti, dalla fede della tradizione ebraica nella paternità divina di questi testi (Dio sarebbe l'autore della Torah) e dalla credenza della tradizione cristiana nella paternità mosaica (sarebbe quindi Mosè l'autore del Pentateuco) si passa, con l'epoca moderna, alla demolizione di tali postulati, per secoli ritenuti fondativi della tradizione credente. In sintesi, dalla spinosa questione dell'autore emerge contemporaneamente la problematica dell'unitarietà dell'opera stessa: se non vi è più un solo autore, allora neppure l'opera è da considerarsi unitaria, bensì un prodotto di "cucitura" di materiale letterario precedentemente elaborato in diversi contesti liturgici e culturali lungo la storia di Israele. Con l'ingresso della critica letteraria e storica, i testi della Torah/Pentateuco vengono emancipati dal loro contesto esclusivamente confessionale, ebraico o cristiano che fosse. Nel XVII secolo Baruq Spinoza (1632-1677) e Richard Simon (1638-1712) contribuiscono in modo decisivo all'elaborazione di un approccio storico-critico alla Bibbia. Su questa linea gli studi delle forme letterarie, delle stratificazioni testuali e del contesto storico producono una radicale contestazione dei postulati elaborati dalla teologia e posti a fondamento della propria tradizione religiosa, vale a dire l'unitarietà del testo della Torah e la figura storica del suo autore, che vengono giudicati pregiudizi ingiustificati e frutto di irrazionalità. A partire da allora la questione della Torah/Pentateuco si sviluppa in una sempre più radicale incomunicabilità tra la lettura biblica della tradizione credente (che vive delle due dimensioni essenziali della canonicità e dell'ispirazione del testo biblico) e la lettura razionalistica. Anche la Bibbia dà il suo non piccolo contributo al divario tra fede e ragione già inaugurato in altri campi del sapere. Da queste premesse muove la cosiddetta "ipotesi documentaria", secondo la quale le differenze di posizioni teologiche e delle denominazioni del divino, le incoerenze testuali, i doppioni e le ripetizioni testimoniano una stratificazione letteraria molto complessa. L'ipotesi nasce precisamente dall'osservazione delle diverse denominazioni di Dio nei racconti della creazione, al principio della Bibbia. Con il contributo di Henning Bernhard Witter (1711) e successivamente di Jean Astruc (1753), l'idea secondo la quale all'origine della formazione della Torah/Pentateuco vi fosse una pluralità di fonti e documenti si afferma sempre più, fino a giungere alla sua definizione classica attra verso l'opera di Julius Wellhausen (1883; 1889; 1894). Quasi come in uno scavo archeologico, i testi della Torah/Pentateuco vengono progressivamente catalogati e distinti in documenti originari: innanzitutto lo Jahvista, con la sigla "J" a motivo dell'uso del nome Jhwh, rappresentante di una tradizione teologica dei secoli X e IX a.C., del sud, nel regno di Giuda; poi lo Elohista, con la sigla "E" a motivo dell'uso del nome 'Elohim, del nord, nel regno di Samaria del IX o VIII secolo a.C. Accanto a queste due elaborazioni vengono individuate altre due scuole, quella del Deuteronomista, con la sigla "D", e la Sacerdotale, con la sigla "P" (da Priesterschrift, termine tedesco per "documento sacerdotale"). Alla scuola deuteronomistica risale l'ideologia storiografica delle grandi narrazioni della conquista della terra e delle vicende monarchiche del sud e del nord, introdotta dalla prospettiva teologica del Deuteronomio e collocabile storicamente nei secoli VII e VI a.C., mentre alla scuola Sacerdotale vengono attribuite le sezioni teologiche e giuridiche che richiamano l'ambiente del Tempio e della liturgia nel contesto dei secoli VI e V a.C., al ritorno dall'esilio. Luoghi di formazione e ideologie distinte avrebbero così contribuito alla genesi di materiali testuali in parte comuni e in parte propri. Da queste premesse deriva la collocazione cronologica del materiale letterario della Torah/Pentateuco: l'ultimo stadio, di tradizione Sacerdotale, andrebbe collocato nell'epoca postesilica, attorno al V sec. a.C. Questa visione, pur con non piccole varianti quanto a problemi di datazione, di forma e di teologia, continua ancor oggi a essere maggioritaria presso gli studiosi.


L'approccio unitario alla Torah/Pentateuco

Al posto di un'archeologia del testo e dell'analisi delle sue stratificazioni, le tradizioni ebraica e cristiana hanno da sempre alimentato una lettura finalizzata a difendere l'unità tra le pagine dell'intero libro biblico così come si presenta nella sua forma finale e canonica. Solo la qualità e la pretesa divina di questa Parola hanno potuto legittimare una visione che fonde in unità una molteplicità di linguaggi, concezioni culturali, tempi e luoghi di formazione. La qualità canonica, in questo senso, si erge in difesa di una lettura sostanzialmente unitaria di tutto il testo biblico: la Bibbia si legge e si capisce anzitutto con la Bibbia stessa. Tale principio, ritenuto da alcuni fondamentalista e incapace di accogliere i risultati della critica e della ragione, ha in realtà aperto spazi nuovi di comprensione che hanno permesso di apprezzare dimensioni estetiche, teologiche e retoriche che con un accostamento ai testi puramente storico e contestuale sarebbero rimaste in ombra. Ciò che vantava qualità di prova decisiva per l'esistenza di tradizioni distinte - cioè i doppioni, le contraddizioni, le differenze di prospettiva - diventa ora occasione per approfondire dimensioni nuove di senso nell'accostare testi apparentemente inconciliabili. Così, i due racconti della creazione presenti nel libro della Genesi (il primo: 1,1-2,4a della scuola Sacerdotale; il secondo: 2,4b-3,24 della scuola Jahvista) oppure i due racconti intrecciati del diluvio in Genesi 6-9, rispettivamente di "J" e di "P", invece di essere studiati indipendentemente quali doppioni e fonti di due teologie e di due tradizione distinte, divengono insieme testimoni di una nuova forma teologica che il testo stesso inaugura assumendo parti e sezioni da documenti precedenti. Ben si comprende quanto il messaggio finale di questi testi non sia rappresentato dalla somma dei significati tratti dalle fonti originarie, bensì dalla sintesi prodotta dalla redazione ultima: quel che apparentemente si mostra nella sua incoerenza diviene luogo fondamentale per pensare di più e pensare meglio.


Mosè e la Torah

La Torah/Pentateuco, che si chiude con la conclusione del Deuteronomio, è distinta dalle altre sezioni della Bibbia fondamentalmente a motivo della centralità della figura di Mosè: il popolo d'Israele ha riconosciuto in lui un profeta unico, l'uomo di Dio, colui che ne ha raccolto la testimonianza e l'ha trasmessa. Sebbene Mosè emerga solo a partire dal secondo libro della Torah, l'Esodo, la tradizione ha voluto affidare a lui la completa paternità testuale, da Genesi a Deuteronomio, quasi a sottolineare quanto la comprensione profonda degli eventi originari e delle vicende dei patriarchi sia comunicabile solo e unicamente attraverso le chiavi di lettura fornite dalle parole che Jhwh dona, nell'esperienza del monte santo, al suo servo Mosè. Anche se la storia continua oltre Mosè con Giosuè, i Giudici e i Re, il senso delle vicende storiche va sempre rintracciato, nei suoi significati fondativi, nelle parole della Torah. Il tempo della liberazione, del cammino e delle prove nel deserto nell'attesa del compimento delle promesse resta per tutte le pagine della Bibbia, dalla storia alla profezia, dalla preghiera alla sapienza, un paradigma fondamentale di riferimento teologico. Per questo motivo la Torah ha svolto nella tradizione ebraica un ruolo analogo a quello rappresentato dai vangeli nella tradizione cristiana.


I nomi divini nel testo ebraico e la loro traduzione nella lingua italiana

Il passaggio da un codice linguistico a un altro richiede operazioni lessicali e semantiche molto complesse, entro le quali non tutto trova risposta adeguata; ecco la necessità di presentare alcuni criteri guida per intendere il senso delle scelte redazionali in relazione a una problematica specifica e di radicale importanza: i nomi divini. Per il Nuovo Testamento e per le sezioni greche dell'Antico Testamento il problema non si pone grazie alla facile corrispondenza tra i termini greci e il loro significato nella nostra lingua; i testi biblici in originale ebraico, invece, presentano difficoltà di traduzione a causa del nome proprio del Dio di Israele presentato attraverso il cosiddetto tetragramma consonantico, Jhwh, le cui vocali per la pronuncia originaria non sono documentabili con certezza. Infatti, l'operazione ebraico-masoretica nell'indicare i segni vocalici al testo consonantico ha voluto tutelare la natura ineffabile del nome divino Jhwh, sostituendolo nella lettura con varie dizioni tra le quali 'Adonay (il Signore), Memra (la Parola) oppure Ha-shem (il Nome). Le stesse versioni antiche, greca, siriaca e latina, traducono prevalentemente il tetragramma con "il Signore" e solo raramente troviamo riprodotto o traslitterato il tetragramma sacro. Le scelte qui presentate si fondano sulla distinzione tra denominazioni "proprie" e "comuni" documentate dal lessico ebraico per esprimere la realtà del divino. A partire da questo criterio, le terminologie specifiche del testo biblico per i nomi propri di Dio appariranno nella versione italiana in traslitterazione semplificata, mentre le denominazioni comuni saranno tradotte nel corrispettivo semantico della nostra lingua. 'El, 'Eloah ed 'Elohim, ogniqualvolta si riferiscono al Dio d'Israele, verranno resi in traduzione unicamente con "Dio". Eccezionalmente, in casi isolati, 'El verrà considerato nome proprio (Genesi 33,20; 46,3; Numeri 16,22). Inoltre, la scelta dell'iniziale maiuscola rappresenta il passaggio da una semplice indicazione generica di dio (nome comune) a una precisa identificazione con il Dio d'Israele. Baal, usato raramente per il Dio d'Israele, è invece molto popolare tra le divinità cananaiche. Quando verrà riferito in qualità di titolo al Dio d'Israele verrà reso nella nostra traduzione con "Padrone" o "Marito". Melek, usato sovente per esprimere la regalità del Dio d'Israele, verrà tradotto con l'espressione "Re". 'Adonay è un titolo rivolto al Dio d'Israele e sostitutivo nella pronuncia dello stesso tetragramma. La traduzione viene resa con "Signore" o "il Signore". Nella storia dei patriarchi si incontrano sovente designazioni divine composte con il nome 'El: 'El-'Olam (Genesi 21,33; "Dio dell'eternità"); 'El-Ro'i (Genesi 16,13; "Dio che mi vede"); 'El-Betel (Genesi 31,13; 35,7; "Dio di Betel"); 'El-Berit (Giudici 9,46; "Dio del Patto"); 'El-'Elion (Genesi 14,18.19.20.22; Salmo 78,35; "Dio l'Altissimo"); particolare rilevanza è ricoperta da 'El-Shaddai o semplicemente Shaddai presente con 48 ricorrenze nel testo ebraico; secondo alcune tradizioni bibliche questo è il nome con cui i patriarchi invocavano Dio prima della rivelazione del nome a Mosè (Esodo 3,7-15 e 6,2ss.). Queste denominazioni divine verranno indicate nel testo in traslitterazione, offrendo in apertura di sezione una breve informazione per il lettore. Jhwh è per eccellenza il nome proprio del Dio d'Israele. La scelta di presentare il tetragramma nel testo della traduzione ha l'esplicita finalità di aiutare il lettore nel distinguere immediatamente la presenza o l'assenza del nome divino. Infatti, mentre i derivati di 'El riportati per esteso nella traduzione sono complessivamente poco attestati, il tetragramma sacro ricorre 6828 volte nel testo ebraico, cifra superiore alla somma di tutti gli altri.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:08

"La Bibbia. La Storia del Regno. Dalla conquista della terra promessa alle guerre dei Maccabei" vol. II - Oscar Mondadori 2000



Da Giosuè all'esilio babilonese


Una storia di profeti e di re: così si potrebbe sintetizzare il vasto arco narrativo che dal libro di Giosuè conduce sino al Secondo libro dei Re. Ci troviamo di fronte a sei libri, Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele, 1-2 Re, che racchiudono un arco di tempo molto vasto: dall'ingresso nella terra promessa (da collocarsi forse intorno al XII secolo a.C.) fino all'esilio babilonese, avvenuto nel 586 a.C. Queste opere rappresentano senz'altro il primo tentativo compiuto da Israele di dare un senso alla propria storia. Da un punto di vista letterario, questi sei libri hanno un'origine comune che, a grandi linee, può essere così sintetizzata: intorno all'VIII secolo a.C. si sviluppa, nel Regno del Nord, una corrente di rinnovamento religioso legata a importanti figure profetiche (Elia, Eliseo, Amos e Osea), corrente che produce un codice di leggi la cui autorità viene direttamente legata alla figura di Mosè; è la radice di quello che sarà il cuore del libro del Deuteronomio (capitoli 12-26). Intorno a questa legislazione si sviluppa una tradizione che, durante il regno di Ezechia (VII secolo), trova i suoi punti di riferimento intorno al tema dell'unicità di Jhwh, il Dio d'Israele, all'idea del patto (alleanza) che egli ha stipulato con il suo popolo, all'amore che Israele deve a questo suo Dio. Tale tradizione sarà la base della grande riforma religiosa iniziata sotto il regno di Giosia, intorno al 622 a.C., che insiste proprio sull'unicità del Dio dIsraele e sulla centralizzazione del culto nell'unico tempio di Gerusalemme. Uno dei frutti più evidenti della riforma attuata da Giosia è proprio la nascita di una serie di testi che, col libro del Deuteronomio, comprende i sei libri sopra elencati. Gli studiosi hanno coniato, al riguardo, il termine di "storia deuteronomistica". Alla base di questi sei libri (più il Deuteronomio) vi è un autentico lavoro di ricerca storiografica; gli autori di questi testi si sono serviti di materiali già esistenti, come per esempio le narrazioni popolari su personaggi famosi (Sansone, Gedeone, Samuele) o, più spesso, gli annali ufficiali della corte israelita, ai quali non di rado il lettore viene rinviato. Le discussioni relative all'origine di questi sei libri sono lontane dall'essere terminate; si può ancora aggiungere, tuttavia, che questi testi hanno certamente subito un'ampia revisione all'epoca dell'esilio, alla luce di quella catastrofe nazionale che ha segnato la vita d'Israele. Il libro di Giosuè, per esempio, descrive la conquista della terra di Canaan con un tono entusiastico e ottimista; il libro dei Giudici, al contrario, mette in risalto il peccato d'Israele che diviene un grave ostacolo nel cammino per il possesso della terra. Se il libro di Giosuè appartiene perlopiù alla prima fase della storia deuteronomistica, quella del re Giosia, il libro dei Giudici va visto più probabilmente come il prodotto della triste esperienza dell'esilio. Allo stesso modo, nel Primo libro di Samuele la monarchia è giudicata favorevolmente nei passi di epoca giosiana mentre, nei testi di epoca esilica, il giudizio sull'istituzione regale appare senz'altro molto critico. Dietro questi sei libri vi è così un vasto processo letterario, diluito in un arco di tempo abbastanza vasto. Il lettore cristiano conosce senz'altro molte storie narrate in questi testi: la storia della presa di Gerico, nel libro di Giosuè, e, in quello dei Giudici, la storia di Sansone. Molti ricorderanno la chiamata del giovane Samuele, la lotta tra Davide e Golia al tempo del re Saul, la storia del peccato di Davide con Betsabea, la saggezza di Salomone, le narrazioni relative ai profeti Elia ed Eliseo. Occorre subito osservare come le molte storie narrate in questi libri non debbano essere considerate alla stregua di ingenue novelle scritte per lontani lettori un po' creduloni. I narratori antichi erano molto abili e per nulla superficiali; lo scopo dei loro racconti è, prima di tutto, quello di coinvolgere i lettori, o, per essere più esatti, gli ascoltatori, dato che i testi venivano sempre letti ad alta voce. La lunga storia della rivolta di Assalonne, che si apre con la narrazione del peccato di Davide (2 Samuele 11-20), vuole stimolare l'ascoltatore a calarsi nei personaggi e a far suoi i fatti narrati; la storia di Davide diviene così la nostra storia: questo è vero, del resto, per ogni autentica opera letteraria. Da tale punto di vista, anche il non credente potrà continuare a leggere con frutto questi racconti, scoprendovi la presenza di un'umanità non di rado corrotta e violenta, ma sempre molto vera. Il lettore attento non mancherà di dedicare del tempo allo studio delle tecniche, spesso non difficili da individuare, di cui si servono i narratori biblici, e imparerà a gustarne i prodotti. La tradizione ebraica, tuttavia, ci invita a compiere un passo ulteriore: quelli che per i cristiani sono libri "storici", per Israele sono piuttosto testi "profetici", i "profeti anteriori" per usare la terminologia ebraica. In questi sei libri, infatti, la storia che ci viene narrata è filtrata attraverso una chiara prospettiva religiosa, o, per usare un termine più tecnico anche se meno ebraico, una prospettiva "teologica". Prendiamo due esempi, il primo dei quali è senz'altro celebre: la presa di Gerico. La distruzione della città, cosi com'è descritta nel capitolo 6 del libro di Giosuè, è difficilmente difendibile sul piano storico; i recenti studi archeologici tendono a negare quasi del tutto la veridicità storica di un tale episodio. Una lettura attenta del testo ci rivela piuttosto come la conquista della città sia descritta in Giosuè su modello di una vera celebrazione liturgica; il narratore non vuole lasciarci tanto una descrizione di carattere cronachistico, per informarci meglio su ciò che allora sarebbe realmente accaduto; vuole piuttosto farci rivivere eventi ormai remoti e lontani nel tempo come se fossero realmente presenti oggi, nel momento in cui li leggiamo. Il testo di Giosuè 6 è piuttosto una "celebrazione" della conquista di Gerico, nella quale ogni lettore si sente nuovamente coinvolto. Un altro esempio può aiutarci a comprendere ancor meglio il taglio con cui questi sei libri sono stati scritti: nei due libri dei Re il narratore ci racconta, mettendola in parallelo, la storia dei re del Regno del Nord (o Regno d'Israele) e quella dei re del Sud (o Regno di Giuda). Alcuni di questi sovrani furono molto importanti sul piano storico, come il potente Omri o il ricco Geroboamo II, entrambi re del Nord. La narrazione biblica li liquida però in pochi versetti (si vedano 1 Re 16,23-28 e 2 Re 14,23-29) aggiungendo, per coloro che fossero curiosi, l'invito a leggere gli atti ufficiali del regno dove si raccontano tutte le altre gesta di questi re, testi che per noi, purtroppo, sono definitivamente perduti. Entrambi i re sono giudicati con molta severità, perché hanno disobbidito alla legge divina; al contrario, un re politicamente fallimentare quale fu Giosia ha l'onore di avere due interi capitoli a lui dedicati (2 Re 22-23), perché è considerato l'autore di una importante riforma religiosa. Il metro di giudizio utilizzato dal narratore non è perciò quello di uno storico imparziale, ma quello di un uomo di fede. La pietra di paragone con cui il comportamento dei re d'Israele e di Giuda è valutato in questi libri è la fede nel Dio d'Israele e la fedeltà alla sua legge e al suo tempio. Che cosa concludere, allora? La tradizione ebraica, nel descrivere questi libri come profetici, ha intuito che in essi non va cercata la storia che un lettore moderno vorrebbe trovarvi, quanto piuttosto la storia illuminata dalla fede nel Dio d'Israele. Ci troviamo davanti a una vera reinterpretazione teologica della storia, al tentativo di scoprire, nell'intreccio di fatti spesso crudeli e sanguinosi, il segno di una volontà divina che opera costantemente a favore dell'uomo e del suo popolo, Israele. Non è un caso che accanto alla storia di capi politici (Giosuè, i giudici, Davide e Salomone, i molti re d'Israele) la narrazione affianchi sistematicamente la storia di qualche profeta (Debora, Samuele, Natan, Elia, Eliseo). Il profeta, uomo di Dio, non è un veggente che prevede il futuro: è prima di tutto la coscienza critica del re; è l'uomo che il Signore ha mandato perché il popolo comprenda in che direzione Dio vuole che la storia cammini. I fatti narrati dal libro di Giosuè sino ai libri dei Re divengono la storia dell'incontro fra due libertà: la libertà di Dio, che guida la storia umana nella direzione da lui prescelta, e la libertà dell'uomo, spesso in conflitto con questo Dio così misterioso e così presente e che sceglie di percorrere strade molto spesso diverse. L'incontro e lo scontro fra queste due libertà trasforma così i racconti in una profonda riflessione su una storia sempre attuale, là dove s'incrociano l'infedeltà dell'uomo e la fedeltà del Dio d'Israele.


L'opera del cronista

Con i due libri delle Cronache e con i libri di Esdra e Neemia entriamo in un contesto del tutto diverso da quello della storia deuteronomistica. Per molto tempo si è parlato, a proposito di questi quattro libri, di "opera cronistica" ovvero di un gruppo di testi che avrebbero avuto la stessa origine e lo stesso autore. Oggi si pensa che l'autore (o gli autori) di 1-2 Cronache sia in realtà diverso da quello dei libri di Esdra e Neemia; ciò che questi quattro libri hanno in comune è, tuttavia, il medesimo ambiente storico e religioso nel quale hanno avuto la loro origine. Ci troviamo nel periodo persiano, probabilmente verso la fine del IV secolo a.C., poco prima dell'arrivo di Alessandro Magno (333 a.C.), che segnerà per il Vicino Oriente l'inizio di una nuova era. Israele è da tempo ridotto al solo territorio della Giudea, una regione minuscola stretta intorno a Gerusalemme, insignificante parte di una provincia del vastissimo impero persiano. Gli israeliti, tornati dall'esilio babilonese, non hanno più riacquistato la propria indipendenza e restano sudditi dei persiani; rimangono loro soltanto il tempio di Gerusalemme, cuore del culto ebraico, e la legge di Mosè, la Torah, forse già il testo del Pentateuco vicino alla sua forma attuale. Intorno a questi due pilastri, il culto e l'osservanza della legge, si organizza la vita di un popolo che cerca con fatica di ritrovare la propria identità. Una grande influenza ebbe in tale situazione il gruppo dei leviti del tempio, non di rado in polemica contro la classe sacerdotale, come appare evidente dai due libri delle Cronache, e in aperto contrasto con le popolazioni della campagna, non toccate dall'esperienza dell'esilio che aveva, invece, profondamente trasformato buona parte degli israeliti. In questo contesto nascono i due libri delle Cronache, il cui arco narrativo va dalla creazione del mondo sino all'editto di Ciro, imperatore di Persia, che permise agli ebrei di ritornare in patria dopo l'esilio a Babilonia (538-531 a.C.). Si tratta di un'opera di grande importanza per il modo in cui la storia d'Israele è reinterpretata; alla base del racconto di 1-2 Cronache, infatti, vi è la narrazione, già allora esistente, dei due libri di Samuele e dei due libri dei Re. La storia deuteronomistica è riletta in questi due libri in una chiave del tutto nuova. L'autore delle Cronache vede un Israele radunato intorno al suo tempio e al suo re ideale, Davide, che assume ormai veri e propri tratti messianici. Tutto ciò che riguarda il peccato d'Israele e dei suoi re, così ampiamente narrato nell'opera deuteronomistica, viene quasi dimenticato o comunque minimizzato; quel che conta, per il cronista, è la speranza che rinasce all'ombra del tempio e della legge. Nel culto all'unico Dio, immutabile e regolato in ogni suo aspetto, Israele può ritrovare la sicurezza per proseguire il proprio cammino e la certezza di un futuro più luminoso. I libri di Esdra e di Neemia hanno probabilmente un'origine distinta dalle Cronache; al centro delle due opere c'è la figura dei personaggi che gli hanno dato il nome, Neemia e Esdra, i due riformatori che, in accordo con il volere del re persiano, contribuirono alla restaurazione d'Israele in un periodo che va dalla metà del V secolo (Neemia) sino agli inizi del IV (Esdra). Entrambi i libri tradiscono l'interesse per un Israele separato dal resto dei popoli vicini e ben consapevole della propria singolarità, fino a rasentare la tentazione di un vero e proprio particolarismo. La ricerca appassionata e per molti aspetti ostinata della propria identità ha prodotto, nei libri di Esdra e Neemia come già in quelli delle Cronache, pagine e pagine di liste genealogiche attraverso le quali ogni israelita poteva rintracciare la purezza della propria origine. I libri di Esdra e Neemia, come pure i due libri delle Cronache, sono il tipico prodotto del periodo postesilico, di un popolo che cerca di ricostruire se stesso e di rifondare la propria identità,
culturale e religiosa.


I libri dei Maccabei

I due libri dei Maccabei, assenti dal canone della Bibbia ebraica e da quello delle chiese riformate e accolti invece come ispirati dalla chiesa cattolica, ci portano all'interno di un'epoca ancora più recente. La narrazione in essi contenuta abbraccia un arco di tempo che va dall'ascesa al trono di Antioco IV (175 a.C.) sino alla morte dell'ultimo dei fratelli Maccabei, Simone, avvenuta nel 134 a.C. Sono gli anni in cui in Israele è arrivato ormai da tempo l'influsso massiccio della cultura greca in seguito alla conquista di Alessandro Magno; la Giudea si trova sotto il dominio dei successori di Alessandro, la dinastia siriana dei Seleucidi. L'ascesa al trono del re Antioco IV Epifane inaugura un periodo di lotte; la famiglia sacerdotale di Mattatia si ribella contro la rapacità di Antioco e il suo tentativo di ellenizzare la Giudea, visto come un attentato alla fede d'Israele, tentativo peraltro condiviso dai giudei più abbienti, specialmente dai nobili e dagli alti sacerdoti di Gerusalemme. I figli di Mattatia, noti come i Maccabei ("i martelli"), daranno a Israele un nuovo periodo di indipendenza, instaurando a loro volta una dinastia, quella degli Asmonei, che durerà più di un secolo. I due libri dei Maccabei hanno origine diversa; sono giunti a noi in lingua greca e sono stati composti probabilmente verso la fine del II secolo a.C. Il Primo libro dei Maccabei contiene la storia dettagliata della rivolta, da cui emergono lo zelo del popolo che vuole difendere la legge divina e la propria libertà, e la presenza attiva di un Dio che continuamente combatte per Israele. Il Secondo libro dei Maccabei sottolinea con più forza l'intervento miracoloso di Dio e mette in luce il valore del martirio oltre alla forza di pratiche religiose come la preghiera e l'intercessione per i morti, nella fede nella resurrezione finale, annunziata nel libro con molta chiarezza.


Quattro piccoli racconti

Con i quattro piccoli ma preziosi libri di Rut, Tobia, Giuditta ed Ester, entriamo in un campo del tutto diverso da quello di cui sinora si è parlato. Questi quattro testi hanno avuto origini indipendenti e autori diversi; Tobia ed Ester, in particolare, presentano notevoli problemi di carattere testuale. I libri di Tobia e di Giuditta, poi, come pure alcune sezioni del libro di Ester trasmesse soltanto in greco, fanno parte dei cosiddetti libri "deuterocanonici" accolti come ispirati dalla chiesa cattolica; soltanto il libro di Rut e la versione ebraica di Ester (la più antica) sono riconosciuti come facenti parte della Bibbia d'Israele, accolta anche dalle chiese riformate. Ciò che accomuna questi libri così diversi tra loro è il carattere midrashico, sul quale dobbiamo soffermarci. Con il termine midrash (dall'ebraico darash, "ricercare"), si intende un modo tutto ebraico di porsi davanti alla Scrittura. Il midrash è un atteggiamento, prima ancora che un modo di scrivere, che consiste nel porsi di fronte a un testo biblico cercando di renderlo comprensibile e attuale per il tempo presente. In questo modo si riprendono testi già esistenti e storie antiche e si rileggono alla luce di fatti nuovi, producendo così un racconto in cui la narrazione della storia passata si mescola con una profonda riflessione sulla storia presente. In tutti e quanto i libri l'argomento è infatti tratto dal passato: Rut è la nonna del re Davide, Tobia è ambientato nell'VIII secolo a.C., durante il dominio assiro, Giuditta ha come sfondo l'invasione babilonese di Nabucodonosor mentre Ester, infine, rinvia probabilmente al periodo persiano. L'epoca di composizione di questi libri è tuttavia molto tarda; si può pensare a un arco di tempo che va dalla fine del IV sino alla metà del Il secolo a.C., comunque piuttosto lontano dai fatti narrati. I racconti di Rut, Tobia, Giuditta ed Ester presentano una ben scarsa attenzione alla verità storica; per quanto riguarda il libro di Tobia, per esempio, lo sfondo storico è addirittura inverosimile. Ciò che conta è piuttosto il modo in cui queste storie così antiche vengono riproposte a lettori che vivono in contesti del tutto nuovi, in particolare, come appare ancor più dai libri di Tobia ed Ester, a giudei che vivono nella diaspora, lontani da Israele e in paesi stranieri non di rado ostili. Il vecchio Tobi, padre di Tobia, è così l'immagine del pio giudeo della diaspora che s'interroga sul senso delle proprie sofferenze e della sua fedeltà alla legge di Mosè; il libro di Ester è un invito alla resistenza e alla lotta contro i nemici della fede d'Israele, nella fiducia che Dio interverrà a favore del suo popolo. Un tema analogo emerge dal libro di Giuditta, che, come nel caso di Ester, mette in risalto un protagonista al femminile. Femminile è anche la protagonista del libro di Rut, la straniera moabita che diverrà addirittura nonna di Davide. Il libro di Rut nasce (come anche quello di Giona, di cui condivide il tema di fondo) come reazione all'eccessivo particolarismo del tempo di Neemia ed Esdra; anche i pagani possono essere accolti nel popolo di Dio e divenire così un esempio per Israele.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:10

"La Bibbia. La Sapienza di Israele. Salmi, Giobbe, Proverbi, Cantico dei cantici" vol. III - Oscar Mondadori 2000



All'interno di quello che i cristiani chiamano Antico Testamento esiste un gruppo dì libri senz'altro singolare, noto come letteratura sapienziale: si tratta, per la precisione, dei libri dei Proverbi, di Giobbe, del Qohelet, del Siracide e della Sapienza (disposti secondo l'ordine cronologico tradizionale). Questi due ultimi libri, occorre notare, non fanno parte della Bibbia ebraica né sono accettati come canonici dalle chiese cristiane riformate; fanno però parte della tradizione sapienziale d'Israele e sono stati accolti come canonici dalla chiesa cattolica. Una prima caratteristica che accomuna questi libri è l'essere poco conosciuti: Proverbi, Siracide e Sapienza sono spesso ignorati; Giobbe e Qohelet si crede talora di conoscerli, ma ci sfuggono sempre di mano. Ci addentriamo all'interno di un territorio nuovo, che deve essere esplorato con attenzione; l'esplorazione ci riserverà interessanti sorprese. Ci troviamo di fronte a cinque libri di epoche diverse, composti in un arco di tempo che va dal periodo monarchico (buona parte del libro dei Proverbi) sino alla fine del I secolo a.C. (il libro della Sapienza). Eppure, questi libri hanno molti elementi in comune: il primo e il più evidente è l'argomento, la sapienza. A questo punto, è necessario cercare di comprendere che cosa sia questa "sapienza" di cui stiamo parlando. La letteratura sapienziale non nasce, in realtà, in Israele: le sue radici remote si rinvengono in Egitto a partire dal I millennio a.C. e, poco più tardi, in Mesopotamia. Nell'antico Vicino Oriente, la sapienza è, prima di tutto, l'arte del vivere, che costituisce la virtù imprescindibile per coloro che dovranno ricoprire incarichi di responsabilità all'interno del loro stato; la sapienza è pertanto un cammino di educazione integrale dell'uomo; questa prospettiva pedagogica della sapienza non verrà mai persa, neppure in Israele. La sapienza è, lo ripetiamo, la capacità di mettere a frutto la propria esperienza e imparare così a vivere; è dunque una virtù profondamente umana, anche se non esclude la sfera religiosa. La sapienza mediorientale non è, perciò, quella "conoscenza delle cose divine e umane" che, nella definizione data dai greci, è dote intellettuale che si conquista con lo studio. In Israele la sapienza non è niente di diverso: già nel libro dei Proverbi emerge come il saggio sia colui che sa vivere, l'uomo che ha saputo mettere a frutto la propria esperienza e che ha criticamente riflettuto sulla realtà della sua esistenza quotidiana. Una sapienza laica, dunque? Il termine "laico" è solo parzialmente corretto. Alla base della riflessione del saggio israelita c'è, infatti, una convinzione profonda: la sapienza è possibile solo se l'esperienza del vivere, che ne è alla base, ha un senso; ora, questo senso esiste perché esiste un Dio che ha creato e ordinato il mondo. I saggi sono fondamentalmente ottimisti; a loro riguardo è stato detto che, per Israele, ogni esperienza del mondo è un'esperienza di Dio e ogni esperienza di Dio passa attraverso l'esperienza del mondo. La forma letteraria usata dai saggi è quella del mashal, del "proverbio", che, più precisamente, è un tentativo di scoprire il senso dell'esperienza attraverso la ricerca di costanti e di confronti tra realtà apparentemente lontane; ma tale ricerca, molto umana, è possibile perché esiste un Dio che nel mondo ha posto quel senso che l'uomo va cercando; e questo Dio è colui che il saggio incontra continuamente nella sua ricerca. Qui sta la peculiarità della sapienza d'Israele: il punto di partenza del saggio non è mai il trascendente, ma l'umano e il quotidiano. Lo sguardo del saggio è sempre limitato a ciò che l'uomo può vedere e sperimentare; eppure il saggio resta un uomo di fede, perché l'ordine delle cose che egli cerca di comprendere è garantito da Dio e a lui conduce. Nasce così, curiosamente, una personificazione della sapienza che, dal capitolo 8 del libro dei Proverbi, proseguirà attraverso altri testi sapienziali sino al libro della Sapienza. La sapienza non è più un concetto: è una persona, una donna della quale innamorarsi, che viene però da Dio ed è in relazione con lui. La Signora Sapienza - l'esperienza del mondo! - diviene così il punto di contatto tra Dio e gli uomini o, detto con un linguaggio più filosofico, la mediatrice tra ragione e fede, la via per esprimere allo stesso tempo la lontananza e la presenza di Dio, in termini teologici la sua trascendenza e la sua immanenza.

Leggendo molte parti del libro dei Proverbi o del Siracide si ha quasi l'impressione di una certa neutralità del saggio di fronte ai problemi del mondo, se non, addirittura, di una vena di cinismo. Il mondo è quello che è, e il saggio deve saper cogliere il momento opportuno per agire, consapevole che il ricco e il potente resteranno tali e che l'ingiustizia e il dolore non possono essere completamente eliminati, così come dalla mente degli uomini non può scomparire la stoltezza. In realtà, questa apparente ricerca di una felicità terrena da parte dei saggi d'Israele, accusata da alcuni di pragmatismo e di utilitarismo, va piuttosto chiamata realismo: al saggio, infatti, non interessa cambiare il mondo al modo dei profeti. Al saggio sta a cuore, invece, capire il mondo in cui vive: solo dopo averlo capito potrà pensare a cambiarlo; ma la cosa più importante, per l'uomo che insegue la sapienza, è imparare a viverci. Non dimentichiamo che lo scopo originario della sapienza è "politico": si tratta di formare persone responsabili in grado di comprendere il mondo e di imparare a governarlo; anche in questo sta l'attualità della sapienza biblica. Ma cosa accade quando il mondo diventa incomprensibile? Quando le spiegazioni legate alla fede non bastano più? Già la sapienza antica è consapevole dei propri limiti; l'ottimismo dei saggi è affiancato dalla certezza che il vero limite della sapienza sta proprio nel non credere di essere saggi. Tuttavia la letteratura sapienziale d'Israele conosce una svolta decisiva nel momento in cui il saggio viene a confrontarsi con il grande problema del dolore e della morte, con il quale si erano già misurati i saggi dei popoli vicini. In Egitto o a Babilonia la soluzione oscillava tra la rassegnazione disperata, il fideismo oppure la ribellione alla volontà incomprensibile e capricciosa degli dei. In Israele tutto ciò non era possibile: il saggio sa bene che esiste un unico Dio, il Signore creatore del mondo, buono e provvidente. Che fare, allora, quando l'esperienza del vivere quotidiano contraddice questa fede? Il libro di Giobbe dà il via a questo scontro: il protagonista, Giobbe, non accetta di soffrire senza motivo e contesta con forza i canoni della teologia tradizionale della retribuzione, secondo la quale il giusto sarà sempre felice, mentre il malvagio sarà inesorabilmente punito. L'esperienza della vita dimostra esattamente il contrario. E proprio in nome di quest'esperienza Giobbe chiama in causa Dio stesso; egli, alla fine, interverrà di persona dando sorprendentemente ragione a Giobbe. L'esperienza del dolore porta il saggio a interrogarsi su Dio e a scoprirlo, allo stesso tempo, più misterioso e più presente. La conclusione del libro di Giobbe è in realtà sulla linea della sapienza antica: Dio vuole che l'uomo continui a cercarlo attraverso le esperienze della vita, anche a costo di metterlo in discussione. La vicenda del Qohelet è ancora più radicale: di fronte alla morte tutto appare come un soffio; la vita è una sequenza di assurdità senza fine di cui la morte, appunto, è la tragica conclusione. Eppure, qualcosa rimane e anche in questo caso la tradizione sapienziale d'Israele non viene abbandonata; Dio, infatti, si rende presente all'uomo nelle piccole gioie del vivere quotidiano e, in queste gioie, l'uomo può apprendere l'unico atteggiamento possibile nei confronti di un tale Dio così difficile da capire: il timore, ovvero il rispetto del suo mistero. Di questo mistero di Dio, lontano ma presente, il saggio, dopo Qohelet, sarà sempre più consapevole. Giobbe e Qohelet rivelano il segreto della grandezza e della forza dei saggi d'Israele: la loro appassionata difesa dell'uomo, la loro voglia di cercare e di capire criticamente il valore dell'esperienza li ha condotti, attraverso lo scontro con il muro della sofferenza e della morte, a confrontarsi con quel Dio che, del resto, non aveva mai abbandonato il loro orizzonte. La saggezza come arte del vivere è dunque, per Israele, uno degli aspetti della fede. Questa dimensione religiosa sarà approfondita dai due ultimi testi sapienziali: il Siracide e il libro della Sapienza, che dovranno confrontarsi ormai da vicino con la cultura greca. Il libro del Siracide accosta la sapienza alla Legge mosaica; così facendo, mostra chiaramente come la saggezza, intesa quale arte del vivere nata dall'esperienza, non debba essere posta in contrasto con l'osservanza della Legge, data all'uomo da Dio. Per il Siracide la ricerca sapienziale dell'uomo non contraddice la rivelazione che Dio fa della sua volontà, espressa nella Legge. Nel libro della Sapienza, infine, alle soglie del Nuovo Testamento, la sapienza non è più soltanto l'esperienza della creazione che ogni uomo può fare; la "Signora Sapienza" diviene il segno di una presenza di Dio all'interno del cuore stesso dell'uomo; seguire la sapienza è, ormai, accogliere un dono di Dio e trovare così la vita eterna. L'attenzione dei saggi dunque inizia a spostarsi anche al di là di questa vita: Giobbe e Qohelet hanno così trovato una risposta. In conclusione, la sapienza d'Israele è davvero la risposta che i saggi cercano di dare al confronto tra il dato della loro fede nel Signore Dio d'Israele e l'esperienza concreta della vita quotidiana, spesso contraddittoria e deludente. La sapienza è dunque il tentativo di esprimere criticamente la propria umanità collegandola con la fede in Dio. La sapienza israelita valorizza, in particolare, la riflessione critica dell'uomo sul suo agire di ogni giorno e sul mondo intero quale realmente si presenta ai nostri occhi: il saggio è una sorta di sentinella che riesce a comprendere a fondo la realtà nella quale vive. In tal modo, per il saggio, tutto ciò che è autenticamente umano può servire a far crescere la sapienza, anche ciò che in apparenza potrebbe sembrare estraneo; ecco perché Israele ha scoperto la sapienza in seguito ai contatti con le tradizioni sapienziali dei popoli vicini. Tutto ciò che è autenticamente umano è assunto dal saggio: ecco perché la letteratura sapienziale d'Israele può diventare, ancora oggi, l'ultimo aggancio con la Bibbia da parte di chi non ha fede in Dio, pur credendo profondamente nell'uomo. La sapienza d'Israele, però, vuole rendere i saggi coscienti dei propri limiti e invitarli a considerare come ogni sapienza umana, per restare fedele a se stessa, non può che condurre a Dio.

Una storia a parte è quella rappresentata da due altri libri biblici, che solo in parte possono essere posti in relazione con la letteratura sapienziale. Il primo è il libro dei Salmi, il secondo, il Cantico dei cantici. Il libro dei Salmi è il monumento più celebre della preghiera d'Israele, fatto proprio, da duemila anni, anche da tutte le chiese cristiane e amato, come libro di preghiera, da intere generazioni di credenti. L'introduzione specifica ai Salmi metterà in luce tutta la ricchezza e, allo stesso tempo, la complessità del Salterio; a tale introduzione rimandiamo, limitandoci qui ad alcune note molto generali. Prima di tutto, che cosa sono i Salmi? I 150 Salmi che compongono il libro possono essere definiti, con due sole, semplici parole, come poesia e preghiera. Scritti in forma poetica, i Salmi si presentano come dialogo tra Israele e il suo Dio, Jhwh. Da un lato debbono essere letti come poesie, con tutto ciò che questo comporta, dall'altro non possono essere pienamente compresi se non sintonizzandosi sull'atmosfera di preghiera che essi presuppongono. Il libro dei Salmi ha conosciuto una storia redazionale molto lunga; singoli Salmi potrebbero risalire anche agli inizi dell'epoca monarchica, quella davidico-salomonica per intendersi, ma si tratta di casi rari. La maggior parte dei Salmi ruota invece intorno al periodo immediatamente posteriore all'esilio (V-IV secolo a.C.), cioè intorno all'epoca persiana. Ma soltanto verso la fine del III secolo, o forse anche dopo, già durante l'epoca dei Maccabei (prima metà del II secolo), il Salterio ha assunto la sua forma attuale, acquistando anche una logica interna che ne fa un vero e proprio libro, e non solo una serie di 150 testi sparsi (anche su questo punto si rimanda all'introduzione al libro dei Salmi). Nella Bibbia ebraica il Salterio è collocato all'inizio della sezione detta degli Scritti (Ketubim) e posto così in relazione con i primi due libri sapienziali, i Proverbi e Giobbe. Il libro dei Salmi, tuttavia, non presenta le caratteristiche proprie di questo tipo di letteratura, se non in piccola parte e solo in relazione ad alcuni singoli testi. Per quale motivo, dunque, il libro ha questa collocazione singolare, rimasta anche nel canone greco usualmente seguito dalle Bibbie cattoliche (Giobbe - Salmi - Proverbi)? Il libro dei Salmi è prima di tutto, come si è detto, un libro di preghiere, libro cioè del dialogo tra Dio e l'uomo, o meglio tra Dio e il suo popolo: in questo dialogo, Jhwh, il Dio d'Israele, è prima di tutto oggetto della preghiera che il suo popolo gli rivolge, mentre l'uomo è soggetto di quelle parole che lui stesso intende rivolgere a Dio. Vale la pena di aggiungere, a questo punto, che nella prospettiva di un credente, ebreo o cristiano, se la Bibbia - e quindi anche il libro dei Salmi - è da credersi ispirata da Dio, ciò significa che i Salmi sono anche le preghiere che Dio vuole sentirsi rivolgere dall'uomo; Jhwh, dunque, non è soltanto oggetto, ma anche soggetto della preghiera del Salterio. Ma torniamo al motivo per il quale è possibile accostare i Salmi alla letteratura sapienziale. In questi testi abbiamo visto come la sapienza, pur nascendo e sviluppandosi in un contesto profondamente umano e pur identificandosi in gran parte con l'esperienza critica della realtà, è anche, allo stesso tempo, un dono di Dio: "principio della sapienza è il timore del Signore" è un ritornello che segna l'intera teologia sapienziale (cf. Proverbi 1,7; 9,10; Siracide 1,14). Si tenga presente, comunque, che il "timore del Signore" non va inteso come "paura": è qualcosa che include rispetto, venerazione, più vicino alla nostra idea di "fede". In questa prospettiva, il libro dei Salmi serve come inizio ideale di tutta la riflessione dei saggi, in modo da far comprendere che ogni sapienza umana acquista il suo pieno valore soltanto se riferita alla fonte dalla quale proviene e alla meta verso la quale si dirige: il Signore. Un caso diverso è rappresentato da un piccolo ma celebre libro, gli otto capitoletti che compongono il Cantico dei cantici. Si tratta di un poema con il quale due giovani d'Israele cantano l'un l'altro il loro reciproco amore e celebrano la loro unione. Per molto tempo ha pesato sulla lettura del Cantico la cappa dell'interpretazione allegorica, posta concordemente dalla tradizione rabbinica e da quella patristica. In tal modo il Cantico è divenuto allegoria ora dell'esilio o dell'esodo, ora dell'amore tra Cristo (o Dio) e la chiesa (o la vergine o l'anima o Maria...). Il testo del Cantico è invece molto chiaro e, sorprendentemente, molto profano, tanto da aver scandalizzato con il suo linguaggio esplicito (ma poetico!) non pochi lettori. Solo in 8,6, quasi di passaggio, è nominato Jhwh, il Signore, come sorgente dell'amore dei due ragazzi. Ma proprio questa apparente profanità del Cantico ci permette di accostarlo alla letteratura sapienziale: al centro del poema, infatti, non c'è un interesse diretto verso Dio, ma verso l'uomo; in questo caso, verso l'amore di coppia di due ragazzi. Se è vero, inoltre, che il Cantico, come molti ritengono, è stato composto verso il III secolo a.C., quando cioè Israele aveva iniziato a venire a contatto con la cultura ellenistica, tutto questo acquista un senso anche maggiore. Il Cantico può essere considerato come la risposta di un saggio israelita alla visione greca di un amore ridotto a eros e, in qualche modo, considerato una realtà divina che l'uomo non riesce a governare. L'amore, per il Cantico, è invece una stupenda realtà umana, cantata in tutta la sua profanità e persino fisicità; realtà che, tuttavia, ha un senso perché proviene dal Signore e della sua opera nel mondo diviene simbolo vivente. Il centro d'interesse non è una pretesa allegoria di un amore sovrannaturale, che escluderebbe il senso più ovvio del Cantico: l'amore di Salomone e della "Sulammita" cantato dal poeta è l'amore di ogni coppia umana che dell'amore di Dio diviene un segno, quello che per Paolo (Efesini 5,32) è un "sacramento" (mysterion) dell'amore di Cristo per la sua chiesa.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:13

"La Bibbia. I Profeti" vol. IV - Oscar Mondadori 2000



La terminologia in uso


Nell’ebraico biblico vi sono diversi modi di indicare un profeta. Vi è il veggente (ro'eh), conoscitore delle cose occulte, che di solito viene consultato e dà i suoi responsi dietro compenso. Vi è il visionario (hozeh), il cui mezzo di conoscenza è appunto la visione. E vi è il profeta (nabi'), termine che poggia sull’idea di "essere chiamato" e che, nell’uso biblico, in parte coincide con i due termini precedenti; esso viene inoltre utilizzato sia in positivo, per indicare i profeti autentici, sia in negativo, per i falsi profeti. La traduzione greca utilizza il termine profetes quasi sempre per tradurre l’ebraico nabi', interpretando quindi la figura del profeta come un uomo che parla "per conto di" un altro (pro-phemì). Il cuore della profezia biblica, comunque, non consiste tanto nel predire gli eventi futuri, quanto nel leggere la storia dal punto di vista di Dio, individuando la logica che presiede al suo svolgimento: "La caratteristica dei profeti non è la precognizione del futuro (al modo di veggenti o indovini), ma la cognizione profonda del presente pathos di Dio" (A.J. Heschel). A ogni modo, nella complessa figura del profeta biblico, tutti questi aspetti si compongono in misure diverse: la chiamata, la visione, la conoscenza di cose nascoste all’ordinario sapere, la consapevolezza di trasmettere il messaggio di un Altro.


La prima fase del profetismo biblico

Si può dire che il profetismo ha accompagnato tutto il cammino storico di Israele fin dalla sua origine nella persona di Abramo, definito "profeta" in Genesi 20,7. Il suo essere profeta va naturalmente circoscritto all’opera di mediazione che egli svolge nei confronti dei suoi discendenti, ai quali trasmette una certa conoscenza della volontà di Dio, insieme alle esigenze di una primitiva alleanza. Il vertice di mediazione tra Dio e il suo popolo viene raggiunto con la comparsa di Mosè, che il Deuteronomio non esita a considerare come il massimo dei profeti, paragonabile solo al Messia venturo (cf. Deuteronomio 18,18). Intorno a Mosè prende anche vita una diffusa esperienza carismatica nel collegio dei settanta anziani (cf. Numeri 11,24-25) dei quali si dice che "profetizzarono" dopo avere ricevuto lo spirito. Il soffio dello spirito suscita profeti anche dopo l’arrivo del popolo nella terra di Canaan e la sua sedentarizzazione. Nella fase anteriore alla nascita della monarchia, l’esperienza profetica è vissuta prevalentemente in ambito comunitario - si tratta infatti di gruppi di profeti e non di personaggi solitari - e ha un carattere estatico (cf. I Samuele 10,5). La musica e la danza sono elementi integranti della profezia estatica, mentre non abbiamo testimonianza di parole o di messaggi intelligibili risalenti a questo periodo. Non siamo in grado di ricostruire lo stile di vita di questi gruppi né le consuetudini della loro convivenza. A questa epoca appartiene la figura di Samuele, che però si distingue sotto diversi aspetti dagli altri profeti a lui coevi, in quanto assume diversi ruoli contemporaneamente: egli è a un tempo nazireo, sacerdote, giudice e veggente. Con lui si ha il trapasso storico dall’età dei giudici a quella dei re. Dopo di lui, i ruoli del sacerdote, del profeta e del condottiero si troveranno solitamente in individui distinti, in seguito alla specializzazione delle funzioni che caratterizzerà il periodo monarchico. La profezia dell’epoca dei re conosce un’esperienza di vita comune e di discepolato, come potrebbe essere quella di Elia ed Eliseo, ma conosce anche uomini che agiscono da soli, come Natan o Gad, che di fatto non sembrano collegati a determinati circoli profetici. Essi pronunciano degli oracoli che hanno dei destinatari, ma è un materiale che non giunge mai a formare un testo scritto, e quindi non supera i confini della tradizione orale.


La profezia diventa letteratura: i profeti scrittori

La profezia scritta compare nell’VIII secolo a.C., in prossimità della perdita dell’indipendenza del Regno del Nord. Il primo dei profeti scrittori è Amos. Egli predica al nord verso la metà dell’VIII secolo a.C. e si muove sulle tematiche della giustizia sociale e della purificazione del culto. Suo contemporaneo è Osea, un profeta che prende le mosse dal fallimento del suo matrimonio per annunciare l’incondizionata fedeltà di Dio come partner dell’alleanza. Pochi decenni dopo fanno la loro comparsa i profeti Michea, che segue perlopiù le stesse linee tematiche di Amos, e Isaia, che vive alla corte del re di Gerusalemme ed è araldo del messianismo davidico. Nel VII secolo a.C. troviamo il profeta Abacuc, anche se è incerta la data esatta del suo ministero. La sua profezia è singolare in quanto si esprime in forma di dialogo; essa si incentra sul mistero del male che funesta la società umana, mentre Dio non interviene, comportandosi come un semplice spettatore. Nel medesimo tempo abbiamo i profeti Sofonia, Geremia e Naum. Questi tre profeti vivono in un momento cruciale della storia di Israele: il re Giosia (640-609) promuove una riforma religiosa nei territori del suo regno, soprattutto a partire dal 622, anno in cui viene rinvenuto nel tempio di Gerusalemme un rotolo della Legge. L’esperienza religiosa di Israele conosce così una fase di grande fioritura, precocemente interrotta nel 597 dall’assedio di Gerusalemme compiuto da Nabucodonosor. La predicazione di questi tre profeti si inserisce nel fermento spirituale delle riforme di Giosia, insistendo sui temi della purificazione del culto, della fedeltà all’alleanza e della lotta contro l’idolatria. In questo contesto Geremia si pone anche come annunciatore dell’invasione babilonese, ormai imminente, attirandosi così l’accusa di nemico della patria. Dal suo punto di vista, quella sciagura nazionale va interpretata come una conseguenza delle ripetute infedeltà dei capi e del popolo. L’esilio segna così la conclusione di un’epoca. Tra i deportati, nei pressi del canale Chebàr, nel 592 la parola di Dio viene rivolta a un giovane sacerdote: Ezechiele. Sarà lui a consolare gli esiliati con oracoli che promettono la rinascita nazionale e l’edificazione di un nuovo tempio. A questo periodo appartiene anche il Deuteroisaia, il cui annuncio ruota intorno alla tematica del ritorno, concepito come un nuovo esodo. Nel 538 viene emanato l’editto di Ciro e gli esiliati sono finalmente liberi di rimpatriare. La ricostruzione del tempio ha luogo sotto Cambise (530-522) e Dario I (522-486). Tra le non piccole difficoltà che i rimpatriati devono affrontare, si levano le voci di due profeti che incoraggiano le fatiche della ricostruzione: Aggeo e Zaccaria. All’incirca nello stesso periodo vive Abdia, il cui annuncio si basa sulla condanna di Edom, simbolo dell’orgoglio umano. A questa epoca risale anche il Tritoisaia, che descrive la nuova gloria di Gerusalemme in termini piuttosto idealizzati. Gli altri profeti del periodo postesilico sono: Malachia, che è attivo nella metà del V secolo a.C., e insiste sulla purificazione del culto e del sacerdozio, come pure sulla condanna dei matrimoni misti; Gioele, probabilmente da collocarsi tra il V e il IV secolo, che prende le mosse da un’invasione di cavallette interpretata come l’annuncio di un’invasione straniera, e infine il secondo Zaccaria, attivo a ridosso dell’epoca ellenistica, che presenta una nuova immagine della figura messianica, caratterizzata dalla mansuetudine, e annuncia al tempo stesso la definitiva vittoria di Dio sui nemici di Israele con la conseguente inaugurazione di un’era di pace. Il periodo ellenistico vede la scomparsa da Israele del fenomeno carismatico, della profezia, la quale, tuttavia, ricomparirà sotto forme mutate nel Nuovo Testamento, a partire dall’annuncio di Giovanni il Battista, che, a rigore di logica, è il vero ultimo profeta dell’Antico Testamento, ponendosi come figura di confine tra le due alleanze.


Cenni sui generi letterari profetici

La tradizione orale, quando diventa testo letterario, tende naturalmente a fissarsi in forme stabili che vanno sotto il nome comune di "generi letterari". Ciò vale per ogni tradizione, e perciò anche per quella profetica. Sarà opportuno quindi gettare uno sguardo, anche se solo panoramico, sui nodi attraverso cui il profetismo ci ha trasmesso i suoi contenuti. La principale e più diffusa forma letteraria utilizzata dai resti profetici è certamente quella dell’oracolo. Di solito un oracolo profetico è facilmente riconoscibile, perché introdotto da formule ricorrenti come "Oracolo di Jhwh", oppure "Così dice Jhwh". Si tratta di formule che intendono sottolineare l’origine extraumana della parola che viene trasmessa in tale maniera. L’oracolo è utilizzato dal profeta in una molteplicità di circostanze. Esso può annunciare un atto salvifico decretato da Dio, come pure l’imminenza di un evento disastroso; può esprimere una condanna tanto verso una nazione quanto verso un individuo. Gli oracoli di salvezza sono spesso accompagnati da formule come "non temere", "io sono con te", "ti aiuto", "sono il tuo Dio", e altre simili (cf. Isaia 41,8-13). Gli oracoli di condanna, invece, sono caratterizzati di solito dalla sequenza "accusa/annuncio del castigo" (cf. Amos 2,6-15), che si presenta talvolta in forme brevi e sintetiche, talaltra in forme lunghe e ampie. Un tipo particolare di oracoli di condanna sono quelli che vanno sotto il nome tecnico di rib, che potremmo tradurre con "controversia". Questa forma letteraria si presenta con cinque elementi strutturali ricorrenti, che la rendono subito identificabile: la convocazione del cielo e della terra in qualità di testimoni del processo tra Dio e il suo popolo; l’interrogatorio degli accusati; la requisitoria che richiama i benefici di Dio lungo la storia di Israele; la dichiarazione di colpevolezza; la condanna (cf. Isaia 1,2-9; Michea 6,1-8). Un altro genere di oracoli di condanna è caratterizzato invece dalla formula introduttiva "Guai!", desunta dalle lamentazioni che si soleva intonare in occasione dei funerali (cf. Isaia 5,8-24; Amos 5,18-20). Vi sono infine, nei libri profetici, dei generi letterari minori, scelti secondo le finalità retoriche perseguite dal profeta stesso o dettate dalla circostanza specifica. In questo ambito possiamo ricordare, per esempio, l’allegoria (Ezechiele 17,1-10), la poesia d’amore (Isaia 5, 1-7), l’elegia (Amos 5,1-3), la preghiera (Isaia 25,1-5), l’esortazione (Geremia 3,12-13).
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:16

"La Bibbia. I Vangeli. Con i più significativi Vangeli Apocrifi in appendice" vol. V - Oscar Mondadori 2000



La figura di Gesù di Nazaret ha segnato quasi venti secoli di storia del mondo, specialmente per l’Occidente. Questo dato storico-culturale trova la sua origine letteraria nei quattro Vangeli o Vangelo quadriforme, secondo l’espressione d’Ireneo. Si tratta dei primi quattro libri del Nuovo Testamento che raccontano gli ultimi anni della vita di Gesù, dal 27 o 28 al 30 d.C., a opera di scrittori inseriti all’interno di comunità cristiane della seconda metà del I secolo. Alcuni studiosi sostengono che dietro il nome degli evangelisti vi siano gli stessi personaggi indicati, altri vi vedono invece redattori pseudoepigrafi che si servono dei nomi degli apostoli per conferire la più alta autorità ai loro scritti (soprattutto per Matteo e Giovanni). L’unicità dell’evento narrato (l’unico vangelo) nella quadruplice narrazione ha generato, per segnalare ognuno dei quattro libri, l’espressione "Vangelo secondo...", introdotta a partire dalla seconda metà del II secolo. I Vangeli costituiscono il genere letterario principale del Nuovo Testamento: si trovano al suo inizio e sono seguiti immediatamente dagli Atti degli apostoli, perché questi ultimi non sono che la continuazione del terzo vangelo e insieme formano l’opera lucana. I Vangeli si articolano in una narrazione continuata che si estende dall’incontro di Gesù con Giovanni il Battezzatore fino alla tomba aperta: all’interno sono riferiti detti e azioni di Gesù, seguiti dal racconto della sua passione e morte; il tutto è preceduto in Matteo e Luca dai racconti dell’infanzia e in Giovanni dal prologo innico a Gesù-Logos, ed è seguito dai racconti di apparizione del Risorto. Il termine "evangelo/vangelo" deriva dal greco eu-anghélion e significa "bella/buona notizia". Già presente nel mondo civile e nell’Antico Testamento per annunciare un evento fausto della vita sociale (la visita dell’imperatore, il ritorno dall’esilio, la salvezza del popolo), il termine viene qui adoperato per indicare la testimonianza di fede dei primi cristiani in Gesù di Nazaret, ritenuto il Messia/Cristo/Unto (termini provenienti rispettivamente dall’ebraico/aramaico, dal greco e dal latino) atteso nella storia e il Figlio primogenito del Padre (Marco 1,1). Egli è il segno per eccellenza della benevolenza misericordiosa del Padre verso tutti gli uomini (Luca 2,14), il "Sì", l’Amen senza ritorno della bontà salvifica del Dio biblico (Apocalisse 3,14), il Regno di Dio in atto. Un’offerta cui gli uomini potranno liberamente rispondere, per la gioia piena di una vita da figli nel Figlio e a beneficio di una fratellanza universale; una proposta capace di interpellare ciascun uomo e donna di ogni tempo, perché proveniente da quel Figlio dell’Uomo che incarna un ideale permanente d’umanità e di divinità. I quattro Vangeli presentano quest’unico vangelo in quattro racconti diversi, in quattro modi d’approccio differenti del mistero salvifico. A partire dall’esperienza-incontro col Risorto i primi cristiani compresero meglio il mistero di quella persona con la quale erano vissuti, il suo insegnamento e i suoi gesti, primo fra tutti quello della sua morte, e lo proclamarono in pubblico, da Gerusalemme fino ai confini della terra. Il termine greco per questo primo gioioso annuncio della salvezza è kérigma, e deriva dal verbo che indicava il suono della tromba dell’araldo imperiale. Col tempo le comunità cristiane si moltiplicarono e si diversificarono per ambiente d’origine e di vita, necessitando ciascuna di una predicazione e riflessione appropriate. Tenendo conto poi dell’importanza del riferimento al Gesù storico per le generazioni cristiane della seconda metà del I secolo — che più non avevano conosciuto il Gesù terreno o i suoi testimoni oculari — alfine di conservare l’identità del Risorto col Crocifisso, sorse l’esigenza di mettere per iscritto le parole e i gesti di Gesù inserendoli nella trama narrativa della sua vita pubblica, come appare evidente leggendo il prologo di Luca al suo libro (Luca 1,1-4). Da tutto questo deriva l’articolazione, comune e propria a ciascuno, dei quattro racconti che sono i Vangeli, messi per iscritto perché tutti potessero credere in Gesù come esplicitamente afferma Giovanni verso la fine del suo vangelo (Giovanni 20,31). Il Vangelo secondo Matteo (18.278 parole greche e nell’iconografia simboleggiato da un angelo), rivolto a cristiani d’origine ebraica e redatto in un greco corretto e solenne, si articola su un’alternanza di racconti e discorsi di Gesù ripresa ben cinque volte, con un rimando evidente al Pentateuco. Vi è un interesse particolare per il suo insegnamento in rapporto alla Legge, per la realizzazione del Regno di Dio e l’esperienza di chiesa fondata sulla roccia Pietro. Il primo vangelo è stato preferito dalla chiesa fino all’inizio del nostro secolo, e privilegiato nell’uso liturgico. Il Vangelo secondo Marco (11.229 parole greche, simboleggiato da un leone), indirizzato a cristiani d’origine non ebraica, con uno stile narrativo vivace e coinvolgente, privilegia le azioni di Gesù rispetto alle sue parole, e la sua struttura si presenta come uno sviluppo della fede dei discepoli nel mistero del Maestro: dall’entusiasmo iniziale all’incertezza e alla difficoltà di fronte al Messia sofferente, nella prospettiva del rilancio postpasquale in Galilea. In questo secolo il secondo vangelo ha guadagnato maggiore stima presso gli studiosi, anche dal punto di vista teologico. Il Vangelo secondo Luca (19.404 parole greche, simboleggiato da un bue), rivolto a cristiani d’origine non ebraica, in uno stile curato e personale, evidenzia una teoria di grandi personaggi, che nel loro incontro con Gesù testimoniano il volto misericordioso del Padre e il suo disegno di salvezza universale. Il racconto del terzo vangelo prosegue nel libro degli Atti, interpretando l’epoca della chiesa come un’estensione del tempo di Gesù in vista della predicazione universale del vangelo. Il Vangelo secondo Giovanni (15.416 parole greche, simboleggiato da un’aquila), indirizzato a comunità già tipicamente cristiane dell’Asia Minore, legate in particolare all’apostolo Giovanni, con uno stile elaborato e contemplativo e in un procedimento a spirale incalzante, ricco di metafore e allusioni, mira ad approfondire il dono presente della fede in Gesù Figlio, in una concezione gloriosa e attualizzata della salvezza cristiana. Dal secolo scorso in poi è stato rivalutato anche dal punto di visto storico rispetto agli altri tre. I Vangeli sono stati scritti in lingua greca, non quella classica di Atene ma quella della koiné ellenistica, semitizzante. Il testo dei quattro Vangeli che noi oggi leggiamo è una ricostruzione da vari manoscritti antichi: in primo luogo i grandi codici biblici in greco del IV e V secolo (Sinaitico, Vaticano, Alessandrino) e poi i frammenti di papiri dei secoli precedenti, che possono risalire fino alla metà del II secolo (per Giovanni) e addirittura fino alla seconda metà del I secolo (per Marco o Matteo). Per cui la data di composizione dei Vangeli può essere collocata oggi tra il 60 e il 100 d.C.: un tempo ottimale per quanto concerne la distanza dai fatti narrati, tale da rendere molto elevata la loro attendibilità storica. Del resto appartiene ormai alla consapevolezza diffusa il fatto che ogni testo — anche di genere storico — è sempre un racconto interpretante dei fatti che riferisce; in questo senso i Vangeli sono testi "confessanti", cioè di testimonianza della fede cristiana di determinati uomini e delle loro comunità. Di fronte alla Bibbia in genere, di fronte ai Vangeli, ma anche a ogni testo letterario, la domanda principale da porsi non è tanto "Che cosa è capitato?", bensì "Che senso ha per noi ciò che è narrato?". Perché fatto e senso sono inscindibili, sia per l’autore sia per il lettore, anche se epoche diverse possono accentuare l’uno o l’altro degli aspetti. I "detti di Gesù" sono anche "detti su Gesù", e continuano a essere ripetuti dai lettori di sempre. Però, se a tutto il medioevo il problema della storicità dei Vangeli come tale non esisteva e si viveva il rapporto coi testi evangelici in un’ingenua coincidenza tra testo e fatto e tra testo e lettore, a partire dal Rinascimento avvenne un confronto critico tra Bibbia e istanze storiche e letterarie. Nacque così la "questione sinottica", che cercò di spiegare le forti somiglianze dei primi tre Vangeli (Matteo, Marco, Luca), che appunto per questo sono detti "sinottici", in quanto possono essere letti parallelamente, quasi racchiusi da uno stesso colpo d’occhio. Si fece dapprima l’ipotesi delle due fonti: una fonte narrativa identificata con Marco, alla base di tutti e tre i Vangeli sinottici, e una fonte di discorsi e detti, la fonte "Q" (che sta per Quelle, che in tedesco significa "fonte"), alla base dei discorsi presenti nelle opere di Matteo e Luca. In seguito si cercò di andare oltre i testi per raggiungere la persona di Gesù colta nella sua autenticità storica, senza - si pensava - le successive costruzioni della fede dei discepoli; e si cadde nella fantasia delle varie "vite di Gesù" della teologia liberale dell’inizio di questo secolo. Successivamente si approfondì il punto di vista dei generi letterari e dei loro ambienti d’origine, per ritornare infine all’attenzione al testo nella sua globalità redazionale e nella sua teologia originale. Il vivo interesse attuale verso il Gesù storico porta a considerare i testi evangelici come una testimonianza storica della fede originale dei primi cristiani in Gesù Cristo, la quale però può essere meglio evidenziata anche attraverso il confronto coi dati storici e sociologici all’interno del Nuovo Testamento e del giudaismo del tempo.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:19

"La Bibbia. Gli Scritti apostolici. Atti, Lettere, Apocalisse" vol. VI - Oscar Mondadori 2000



Un giorno dell’anno 51, nella città greca di Tessalonica, un gruppo di persone, riunite in assemblea, ascoltò per la prima volta la lettura di un testo di San Paolo. Era la Prima lettera ai Tessalonicesi, il primo scritto del Nuovo Testamento. Quelle persone avevano conosciuto l’apostolo Paolo pochi mesi prima: da lui avevano accolto l’annuncio della "buona notizia" e avevano creduto in Gesù, riconoscendolo come il Cristo e il Figlio di Dio. Erano, cioè, diventati cristiani e ora formavano una comunità detta "chiesa". Tutto era cominciato qualche anno prima, nella terra di Israele, con l’opera sconvolgente di Gesù di Nazaret. Quest’uomo si era presentato al suo popolo, attirando l’attenzione con discorsi entusiasmanti e segni prodigiosi: molti pensarono che lui fosse finalmente il Messia atteso, ma egli andò oltre, avanzando una pretesa inaudita, quella di "essere Dio". Alcuni amici lo seguirono con coraggio fino a Gerusalemme, anche senza comprendere bene quale fosse il suo piano; quando poi le vicende presero una brutta piega, quasi tutti lo abbandonarono, cercando di non compromettersi troppo e di salvare la pelle. Gesù, invece, fu condannato a morte e appeso al patibolo infame della croce. La sua storia sembrava finita lì e invece quello fu l’autentico inizio di una storia nuova. Il crocifisso, infatti, si mostrò vivo ai suoi amici pochi giorni dopo la sua morte e loro, perplessi e increduli, dovettero convincersi che era proprio vero quello che non si sarebbero mai aspettati. L’incontro con il Cristo risorto fu un’esperienza straordinariamente forte da cui gli apostoli furono cambiati: da quel momento cominciarono a credere sul serio che Gesù aveva ragione nella sua enorme pretesa. Capirono che era davvero Dio e che il suo amore generoso e fedele fino alla morte aveva la forza di cambiare il mondo: niente era più come prima. Capirono che in Gesù si erano compiute le antiche profezie dei saggi d’Israele e che in lui Dio era intervenuto nella storia in modo definitivo per capovolgere la situazione e salvare l’umanità. Ma non capirono tutto insieme; a pasqua cominciarono a comprendere qualcosa, ma ci impiegarono anni per giungere a una visione organica, per poter spiegare in modo completo il senso e il valore dell’esperienza di Gesù di Nazaret. Questo cammino di comprensione, fatto di condivisione e di annuncio, coincide con la composizione dei libri che formano il Nuovo Testamento: infatti, dall’anno 30 fino alla fine del secolo, i discepoli di Gesù Cristo si mossero in tutta l’area del Mediterraneo, trasmettendo ad altri, a moltissimi altri, la loro singolare esperienza e la loro profonda convinzione di fede. Dal ricordo vivo nacquero, innanzi tutto, la predicazione e la celebrazione liturgica; poi, le concrete esigenze della comunicazione li portarono a mettere per iscritto i ricordi e le prediche, e si giunse, infine, a una raccolta di 27 testi che, a partire dalla generazione cristiana del II secolo, venne considerata come ufficiale e canonica, cioè "misura" insuperabile della fede cristiana, in quanto registro della Parola di Dio e autorevole documento della rivelazione. A continuazione e complemento dei libri dell’antica alleanza di Israele, questa raccolta di libri cristiani apostolici venne chiamata "Nuovo Testamento", perché riconosciuta come l’espressione della nuova alleanza stipulata fra Dio e l’umanità in Gesù Cristo morto e risorto: tale antologia comprende i quattro Vangeli e gli Atti degli apostoli, tredici lettere di Paolo, la Lettera agli Ebrei e altri sette scritti epistolari attribuiti a vari apostoli, per finire con l’Apocalisse di Giovanni. Nella nostra breve presentazione introduttiva, anziché seguire l’ordine in cui questi scritti compaiono nel canone, risulta più utile e interessante collocarli nel loro ambito storico e culturale, evidenziando le qualità letterarie e teologiche che li caratterizzano. Ecco perché siamo partiti dalla Prima lettera ai Tessalonicesi di San Paolo. Il giudeo Paolo di Tarso è infatti l’autore più rilevante di tutta la raccolta di libri neotestamentari: i più antichi scritti cristiani che ci siano giunti sono i suoi. Egli non conobbe Gesù durante la sua vita terrena, ma lo incontrò come risorto, in modo così straordinario che la sua vita cambiò, come quella degli altri apostoli e forse ancora di più. Teologo fariseo ed esperto conoscitore delle Scritture ebraiche, Paolo divenne un cristiano convinto e, dopo i primi incerti passi, a metà degli anni 40 iniziò un intenso lavoro da profeta pellegrino, divenendo predicatore itinerante per portare ovunque l’annuncio del vangelo di Cristo. Con molti collaboratori egli fondò numerose comunità cristiane in Siria, a Cipro, nell’attuale Turchia e in Grecia. Alla base del suo metodo di evangelizzazione c’erano la predicazione orale e la testimonianza di vita, prendendo le mosse, in ogni città dove arrivava, dalla sinagoga dei giudei: se questi non accettavano il suo annuncio e non condividevano il suo messaggio cristiano, Paolo si trovava qualche altro punto d’appoggio per incontrare persone e proporre a ciascuno la figura di Gesù Cristo come unico salvatore dell’uomo. Solo in un secondo tempo l’apostolo cominciò a scrivere lettere, e lo fece sempre per continuare a distanza i rapporti con le comunità che erano sorte per la sua predicazione. Il primo scritto che di lui ci è giunto è indirizzato ai cristiani di Tessalonica: Paolo lo dettò mentre si trovava a Corinto, probabilmente nella primavera dell’anno 51, dopo aver ricevuto buone notizie da quella comunità. E pochi mesi dopo ne aggiunse un secondo, per esprimere da amico e da padre il proprio stato d’animo, per completare la formazione dottrinale di quei giovani cristiani e per correggere alcune idee erronee che si stavano diffondendo sulla venuta gloriosa del Cristo, ritenuta imminente. Qualche anno dopo, durante un lungo soggiorno a Efeso, Paolo ebbe modo di scrivere numerosi altri testi, sempre per mantenere i contatti con la "sua" gente. Scrisse ai cristiani di Corinto quella che noi chiamiamo la Prima lettera ai Corinzi, reagendo alle brutte notizie che aveva ricevuto sul comportamento di qualche cristiano di quella comunità; vi aggiunse, inoltre, una dettagliata risposta a molte questioni teologiche che una delegazione di corinzi gli aveva sottoposto, relative al matrimonio e a casi di coscienza, ai carismi e alla risurrezione. Le sue posizioni, però, non trovarono buona accoglienza nella chiesa di Corinto e si creò una spiacevole situazione di tensione con l’apostolo: Paolo reagì con forza e decisione, ma anche con affetto e tenerezza, inviando la Seconda lettera ai Corinzi. Contemporaneamente scriveva anche alle comunità della Galazia e ai cristiani di Filippi. Ai galati muoveva forti rimproveri, per il fatto che avevano ceduto a predicatori giudaizzanti che imponevano come obbligatoria l’osservanza della Legge di Mosè: per reagire a quella situazione, Paolo affrontò la questione della salvezza e abbozzò la dottrina della giustificazione per fede. Ai filippesi, invece, riservò elogi e ringraziamenti, aprendo il proprio cuore in un’affettuosa effusione di amicizia. Superato quel difficile momento di Efeso, Paolo trascorse un quieto inverno a Corinto fra il 57 e il 58, dettando all’amanuense Terzo il suo capolavoro teologico: la Lettera ai Romani, in cui riprendeva e approfondiva l’insegnamento sulla giustizia di Dio che ci è data in Gesù Cristo sulla base della fede. Egli insegna che tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma tutti hanno la possibilità di essere giustificati gratuitamente sulla base del sacrificio di Cristo, purché accolgano con fede tale dono: solo così si può realizzare per ogni uomo e ogni donna un’autentica libertà e una vita nuova. Gli ultimi anni della vita dell’apostolo furono segnati da lunghe prigionie e dall’impegno di organizzare al meglio le comunità da lui fondate. Durante il soggiorno obbligato a Roma, scrisse ai colossesi e agli efesini per sottolineare il ruolo unico del Cristo, superiore a ogni altra forza religiosa o spirituale; allegò anche un biglietto personale per il suo amico Filemone, chiedendogli la liberazione dello schiavo Onèsimo. All’ultimo periodo del suo apostolato risalgono, secondo la tradizione, le tre lettere chiamate "pastorali", indirizzate a Timoteo e a Tito per istruirli sulle modalità da seguire nell’organizzazione delle chiese. Molti studiosi moderni, però, ritengono che si tratti piuttosto di testi rielaborati dai discepoli di Paolo dopo la sua morte, avvenuta nell’anno 67. Un suo fedele discepolo, Luca, dopo aver raccolto nel proprio Vangelo secondo Luca molte antiche tradizioni su Gesù, si accinse anche a narrare i fatti più salienti della primitiva comunità cristiana: nacquero così, fra il 70 e l’80, gli Atti degli apostoli, che raccontano il cammino della predicazione apostolica da Gerusalemme fino a Roma, mettendo in evidenza il grande ruolo di Paolo e sottolineando in modo espressivo la sua piena sintonia con l’insegnamento di Pietro e della chiesa madre. All’ambiente paolino appartiene anche la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una splendida omelia teologica sul sacerdozio di Cristo: l’anonimo autore, abilissimo retore e fine pensatore, riflettendo sulle qualità umane e divine di Gesù mette in evidenza con maestria la sua funzione di perfetto mediatore, l’unico a essere in grado di creare unione fra l’umanità e Dio. Con linguaggio originale viene ribadito il messaggio di fondo di tutto il Nuovo Testamento: Gesù Cristo costituisce per ogni essere umano l’unica via di accesso a una vita di comunione con Dio. Per gli altri scritti del Nuovo Testamento, conosciuti come "lettere cattoliche", è più difficile stabilire la data e l’ambiente di composizione: si tratta, più che di lettere secondo il modello paolino, di omelie messe per iscritto, rielaborate e trasmesse ad altre comunità per diffondere l’insegnamento apostolico sulla persona di Gesù e sui modi di accogliere e vivere la fede in lui. A questo genere letterario appartengono le due lettere di Pietro e quelle attribuite a Giacomo e a Giuda. Un’altra realtà, originale e interessante, è costituita dalla cosiddetta comunità giovannea: infatti, il gruppo cristiano che si costituisce a Efeso intorno a Giovanni, verso la fine del I secolo, produce una ricca e profonda letteratura teologica. Oltre al Quarto vangelo, a Giovanni sono attribuite tre lettere, che affrontano i problemi dottrinali della comunità, e l’Apocalisse, una meravigliosa sinfonia simbolica che proclama con serena fiducia il rinnovamento del mondo operato dalla pasqua di Cristo: anche se i redattori di questi testi possono essere differenti, resta unitario l’ambiente culturale di riferimento, e lo stile giovanneo li caratterizza tutti, con un’insistenza particolare sulla necessità di conservare la Parola di Dio e di rimanere in Gesù Cristo. Nell’arco di questi straordinari settant’anni, dunque, la comunità cristiana, partita da un piccolo nucleo nella periferica provincia della Giudea, ha raggiunto il cuore dell’Impero romano, moltiplicandosi in un’infinità di gruppi cittadini grazie all’impegno e all’abilità di molti "ministri della Parola", che hanno lasciato per iscritto i documenti fondamentali del cristianesimo. Per chi si accinge a leggere, o a rileggere, i libri del Nuovo Testamento, questa meravigliosa esperienza delle origini ritorna d’attualità; questo cammino di comprensione, fatto di condivisione e di annuncio, si presenta per essere rivissuto.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:24

Vittorio Messori "Ipotesi su Gesù" - SEI 2001



E se fosse vero?


O Dio esiste o Dio non esiste. Per quale di queste due ipotesi volete scommettere? Per nessuna delle due. La risposta giusta è non scommettere affatto. Vi sbagliate. Puntare è necessario, non è affatto facoltativo. Anche voi siete incastrato (Blaise Pascal).

Di Gesù non si parla tra persone educate. Con il sesso, il denaro, la morte, Gesù è tra gli argomenti che mettono a disagio in una conversazione civile. Troppi i secoli di devozionalismo. Troppe le immagini di sentimentali nazareni con i capelli biondi e gli occhi azzurri: il Signore delle signore. Troppe quelle prime comunioni presentate come "Gesù che viene nel tuo cuoricino". Non a torto tra persone di gusto quel nome suona dolciastro. E irrimediabilmente tabù.

Ci si laurea in storia senza aver neppure sfiorato il problema dell'esistenza dell'oscuro carpentiere ebreo che ha spezzato la storia in due: prima di Cristo, dopo di Cristo. Ci si laurea in lettere antiche sapendo tutto del mito greco- romano, studiato sui testi originali. Senza aver però mai accostato le parole greche del Nuovo Testamento. È singolare: la misura del tempo finisce con Gesù e da lui riparte. Eppure egli sembra nascosto. O lo si trascura o io si dà per già noto.

Neppure preti, pope, pastori ne parlano molto. È vero: ogni domenica accennano a lui in qualche milione di prediche, omelie, sermoni. Ma sembra troppo spesso che per loro la fede in lui non costituisca un problema. Piuttosto, un dato di fatto. Si costruiscono complesse architetture sui vangeli; ma pochi scendono con chi li ascolta in cantina per vedere se le fondamenta ci sono davvero. Pochi cercano di saggiare se ancor oggi è solida la pietra angolare su cui appoggiano la loro fede e le loro chiese. Nella intera storia degli uomini, questo è il solo uomo cui sia mai stato associato senza mediazioni il nome di Dio. Ma a questo scandalo inaudito molti devono essersi abituati. Lo danno per scontato. È come se l'incenso (ha osservato un impertinente) li avesse ormai intossicati. Dice un detto "segreto" attribuito a Gesù da un vangelo apocrifo: "Chi si stupisce, regnerà". Molti sembrano aver perduto il dono dello stupore.

Eppure, un sondaggio di opinione ha mostrato che, ogni cento italiani, 64 considerano Gesù "il personaggio più interessante della storia". Garibaldi e Luther King, secondo e terzo in quella sorprendente classifica, seguono con grande distacco. Vengono poi Gandhi e infine Marx. Gli intervistati hanno detto che di Gesù vorrebbero sapere qualcosa di più e soprattutto di più attendibile. Ma non sanno dove informarsi. I giornali, la cultura laica, si occupano delle istituzioni (il Vaticano, le chiese...) che poggiano sulla fede, ma ignorano questa. La cultura dei credenti, da parte sua, sembra preferire le variazioni ascetiche, le meditazioni spirituali su Gesù; ma così spesso, come osservammo, non ne affronta il formidabile problema storico. "Che sia proprio il Cristo, all'interno e all'esterno della cristianità, lo sconosciuto che fa del cristianesimo stesso un noto sconosciuto?" si chiede Hans Kung.

Sembra dunque che nessuno si occupi del problema di Gesù. Ma non è vero. La bibliografia su di lui è in realtà un oceano, per giunta in continua tempesta. Nel solo secolo scorso, a lui sono stati dedicati circa 62 mila volumi, Alla Biblioteca Nazionale di Parigi, specchio della cultura occidentale, la sua "voce" è seconda per numero di schede. La prima, significativamente, è Dieu. In realtà, da molti secoli il dibattito storico su Gesù è la riserva di caccia, gelosamente sorvegliata, di chierici e di laici accademici, spesso a loro volta ex-chierici. Sono gli specialisti che hanno prodotto e producono quelle migliaia di volumi, confutandosi a vicenda in una interminabile disputa di dotti. Alla gente si lasciano i libri di devozione o qualche divulgazione non di rado addomesticata o propagandistica. Così, molti ignorano che a proposito di Gesù tutte le ipotesi sono state fatte, tutte le obiezioni confutate, ribadite, riconfutate all'infinito. Ogni parola del Nuovo Testamento è stata passata al vaglio mille volte; tra i testi di ogni tempo e paese questo di gran lunga il più studiato, con incredibile accanimento.

Al non specialista giunge appena qualche eco attenuata del dibattito. Dura da ormai duemila anni, ma negli ultimi tre secoli ha cambiato bersaglio. Mentre, sino al Settecento, la disputa era soprattutto interna al cristianesimo (questione di "ortodossia" e di "eresia") a partire da quel secolo nasce la critica extra-cristiana. Le Scritture su cui si basa la fede sono contestate nella loro storicità. Si attacca ciò che sino ad allora era dato per scontato, pur nella polemica più aspra e talvolta sanguinosa: la credenza, cioè, in un particolare rapporto dell'uomo Gesù con Dio; la fede in lui come il Cristo, il Messia, l'atteso di Israele.

Disputa, comunque, sempre tra pochi dotti. Scrive Jean Guitton, lo studioso francese cui questo libro deve molto:

Il grande pubblico ne ha tratto la convinzione che il problema di Gesù sia questione di sapienti e di teologi, al di sopra della sua competenza. La difficoltà di crearsi un'opinione personale ha fatto sì che ciascuno distogliesse il pensiero dal problema. L'incredulo per conservare il suo dubbio sulla storicità del Gesù dei vangeli. Il credente per vivere di fede. Il silenzio è tornato quindi a regnare su questo problema fondamentale.

Le pagine che seguono sono proposte da chi non ha accettato quel silenzio e si è inoltrato da bracconiere nella riserva di caccia degli specialisti. Non sono che un "profano" che, a suo rischio e pericolo, si è azzardato nel sancta sanctorum dove si scrive in tedesco o in latino, si disputa su parole ebraiche, su lapidi aramaiche, su codici greci. Non sono un cattedratico né un ecclesiastico. Non sono che un laico. Dietro questo libro c'è il bisogno di quel cronista che sono di raccogliere notizie innanzitutto per me, per poi offrirle ai lettori. Conosco gli stanzoni di cronaca dei quotidiani e le redazioni dei settimanali più che le aule delle università pontificie. Né vengo dal sérail, il serraglio, come lo chiamano i francesi: quello che troppo spesso è il "ghetto" anche culturale della cristianità.

Parlare di sé è irritante e rischioso. Se mi ci azzardo è perché vorrei rassicurare il lettore: sono partito dal dubbio; o meglio dall'indifferenza. Come lui, come tanti oggi. Non certo dalla fede. Sono arrivato a questi studi dopo 18 anni di agnostica scuola di Stato. Ho dovuto imparare tutto, partendo dal niente. A scuola, gli unici preti sono stati per me quelli delle "ore di religione" imposte dal sistema concordatario. Poi, improvvisa, è cominciata una caccia al tesoro, sempre più appassionante, nella Palestina del primo secolo. Il primo biglietto della catena fu una copia dei Pensieri di Pascal, acquistata per certe ricerche marginali del corso di laurea. A Blaise Pascal questo libro è dedicato: senza di lui non sarebbe mai stato scritto. O sarebbe stato del tutto diverso. È dedicato anche alla schiera immensa di coloro che, nei secoli, sono andati cercando soluzione al più affascinante tra i "gialli": le origini del cristianesimo.

Non occorre però la passione del genere poliziesco per essere coinvolti da questa storia. Ciascuno di noi vi è aggregato di autorità, per il fatto stesso di vivere. "Vous étes embarqués", anche voi siete incastrati, ricorda Pascal a chi vorrebbe eludere il problema del proprio destino. Che lo si voglia o no, che piaccia o no, da secoli in Europa, nelle Americhe in Oceania, in Africa, in parte dell'Asia, quelle due sillabe (Gesù) sono legate al senso del nostro futuro. Quello vero: quello eterno. Lo ripetono, caparbi, dall'inizio dell'Impero Romano sino a noi, coloro che credono quel Nome risposta definitiva alle domande dell'uomo; che lo associano, addirittura, al concetto inaudito di "Figlio di Dio"; che dicono che nella sua storia noi tutti siamo, e saremo per sempre, coinvolti.

In queste pagine ho tentato di esaminare se vi sono ancora ragioni accettabili della testarda, incredibile riproposta agli uomini come loro Redentore e Rivelatore dell'oscuro israelita. Cercherò di spiegare più avanti perché, nel bric-à-brac delle religioni del mondo, sono persuaso che proprio di lui valga innanzitutto la pena di occuparsi. Perché Gesù e non Maometto o Lao-Tse o Zarathustra. Ho raccolto un dossier di notizie che rispondesse alle mie domande; ad alcune almeno, non certo a tutte. Domande, mi auguro, che sono anche quelle della gente che lavora. Della gente per la quale ogni giorno è un problema. E tanto spesso così assillante da non lasciare certo spazio alla ricerca di soluzioni al "Problema". Quello davvero di fondo, il più a monte di tutti, come si ama dire.

Il "Problema", cioè, che sta dietro alle domande spesso irrise, quasi fossero da lasciare agli adolescenti, indegne di adulti: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? C'è un futuro per noi, al di là della linea di un orizzonte che cozza, ineluttabile, contro il muro della morte? O davvero, come canticchiava amaro Petrolini, non siamo che pacchi, campioni senza valore, che l'ostetrico spedisce al becchino? Al di qua dell'ostetrico e al di là del becchino, la vita è aperta su due misteri. Prima della nascita e dopo la morte, da entrambi i capi la nostra esistenza è immersa nell'ignoto. Senza dubbio, sull'eterno. Eterno, il nulla da cui forse siamo venuti. Eterno, il niente nel quale forse sprofonderemo.

Non crediamo sia in torto chi ha paragonato la nostra condizione a quella di chi si svegli su un treno che corre nella notte. Da dove è partito quel treno su cui siamo stati caricati, non sappiamo quando e perché? dove è diretto? e perché questo treno e non un altro? C'è chi si accontenta di esaminare il suo scompartimento, di verificare le dimensioni dei sedili, di analizzare i materiali. Per poi riaddormentarsi tranquillo: ha preso coscienza dell'ambiente che lo circonda, tanto gli basta, il resto non è affar suo. Ché, se poi l'angoscia dell'ignoto prenderà alla gola, ci sarà sempre modo di scacciarla pensando ad altro. Come esorta il poeta, "meglio oprando obliar senza indagarlo, quest'enorme mistèr dell'universo".

Io non so chi mi ha messo al mondo né che cosa è il mondo né che cosa sono io stesso. Vedo questi impressionanti spazi dell'universo che mi rinchiudono e mi trovo attaccato a un angolo di questa vasta distesa, senza che io sappia perché sono stato collocato in questo luogo piuttosto che in un altro. Né perché questo poco tempo che mi è dato da vivere mi è dato a questo punto, piuttosto che a un altro di tutta l'eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Io non vedo che infiniti da tutte le parti che mi rinchiudono come un atomo e come un'ombra che dura solo un istante senza ritorno. Tutto quel che conosco è che debbo presto morire: ma quel che ignoro di più è proprio questa morte che non saprei evitare.

"Pazzo sublime", "nevrotico squilibrato", "inguaribile adolescente", "presuntuoso che non si è rassegnato alla legge del dubbio", "genio rubato alla scienza": sono alcune delle definizioni affibbiate a Pascal, l'autore delle righe riportate. Colpevole, infatti, di aver passato i suoi 39 anni a cercare se non ci fosse per caso soluzione al mistero della condizione umana. Agli ironici confortatori al suo capezzale, egli replicava però ritorcendo in anticipo l'ironia: "Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci". O meditava, amaro, che la sensibilità dell'uomo per le cose piccole e l'insensibilità per le cose grandi è indizio di uno strano pervertimento .

Pascal, infatti, amava e stimava in modo eguale due generi di persone: i "credenti" e gli "increduli". Chiunque, cioè, al tavolo dove si gioca la vita, avesse puntato per una ipotesi o per l'altra: "O Dio c'è o Dio non c'è. Su quale delle due possibilità volete scommettere?". Gli riusciva invece incomprensibile l'atteggiamento di chi non prende posizione: "Un erede trova i titoli relativi al suo casato. Credete che dirà: "Forse sono falsi" e che trascurerà di esaminarli?". E concludeva poi, con quel suo radicalismo così passionale e così scandaloso per orecchie delicate: "Ma allora, non soltanto lo zelo di coloro che lo cercano prova l'esistenza di Dio. Lo prova anche l'indifferenza di coloro che non lo cercano affatto".

Per tornare all'immagine del treno, anche i più saccenti, qui, hanno una sola informazione sicura da dare: che il convoglio finirà per imboccare un tunnel oscuro, senza che alcuno possa scendere prima. Ma che vi sia oltre l'imbocco della misteriosa galleria, non sanno. "Non c'è nulla, c'è solo il buio", dicono alcuni. Un'opinione rispettabile. Ma che ha purtroppo il difetto di mancare di prove. Nessuno è tornato indietro per darci relazione del suo viaggio al di là della Todeslinie, la linea della morte. Noi siamo tra gli ingenui, gli inguaribili adolescenti, gli alienati. Tra coloro cioè che sono sgomentati, e senza vergognarsene, dal silenzio eterno degli spazi infiniti che ci circondano. Invece di starcene tranquilli al nostro posto, guardando il buio correre fuori, preferiamo girare di scompartimento in scompartimento. Nella speranza, chissà?, di trovare un qualche "orario" che dia un nome e una direzione a questo viaggio che non abbiamo voluto.

Più che rispondere a delle domande, ho dunque cercato di dare delle informazioni. Ho raccolto notizie, nel tentativo di stendere una "ipotesi di bilancio" sul problema di Gesù. Questo, infatti, è il solo uomo nella storia di cui si dice che sia tornato vivo dalla galleria della morte. E se fosse vero? Sono partito oltre dieci anni fa come per un servizio giornalistico che rispondesse a quella domanda e ho finito (il lettore se ne accorgerà subito) per esserne sino in fondo coinvolto; forse, ancora una volta ha ragione il Cristo di Pascal: "Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato". Ciò che qui propongo è, comunque, offerto con onestà; ho lavorato innanzitutto per me. Dunque, ho cercato di non ingannare me stesso. Dio non ha bisogno delle nostre bugie. Il personaggio storico chiamato Gesù e che da venti secoli è legato al mistero stesso di Dio ha diritto alla verità, non alle astuzie apologetiche. E noi abbiamo diritto a non essere imboniti ma informati.

Ho cercato così di attenermi a ciò che tutti possono accettare; a ciò che è per quanto possibile fuori discussione. Dopo tante dotte e preziose analisi, occorre che qualcuno si azzardi, a suo rischio e pericolo, a tentare una sintesi. Questa mia è (come e più che ogni altra in questo argomento) una sintesi provvisoria. È una semplice proposta che ha bisogno di essere verificata e discussa, superata e nuovamente formulata. Anche se, purtroppo, ogni libro è per sua natura un mezzo "autoritario"; o, quanto meno, un monologo. Il vangelo, invece, è un dialogo che non finisce mai. "Ma voi, chi dite che io sia?", chiede ancora e sempre l'enigmatico protagonista.

Il mio debito verso tutti coloro che si sono occupati del problema (sia per negare che per affermare) è tale, da potere sottoscrivere quanto Pascal ebbe un giorno a osservare:

Quegli autori che, parlando delle loro opere, dicono "il mio libro, il mio commento, la mia storia", assomigliano a quei borghesi che hanno qualche bene al sole e sempre un "mio" sulla bocca. Farebbero meglio a dire: il nostro libro, il nostro commento, la nostra storia, visto che di solito in quelle opere ci sono più beni d'altri che loro.

Qui, addirittura, a ogni frase avrei potuto far seguire una nota con il riferimento a un lavoro altrui. Ho scelto l'estremo opposto e di note erudite non ne ho quasi messe, limitandomi a segnalare alcune citazioni prese di peso e neppure elaborate. Gli eruditi, infatti, probabilmente non leggeranno questo libro che pure deve tutto alle loro ricerche preziose. Molti lo sdegneranno come l'incursione di un dilettante, un intruso che ha tentato di mettere in piazza una disputa troppo profonda per il volgo. Di note, comunque, eventuali lettori specialisti non hanno bisogno: sanno bene dove controllare, se vorranno, le affermazioni sulle quali mi appoggio. Agli altri, ai "profani" come me, basti sapere che quanto cito è citato alla lettera, senza deformazioni interessate. Che ogni notizia è documentata e documentabile.

Ho dato quanto ho potuto, vincendo la riluttanza a tentare bilanci quando si è ancora, com'è il mio caso, in piena ricerca e si considera la profondità insondabile degli abissi che si spalancano da ogni lato. Paolo di Tarso descrive lo stato d'animo in cui si presentò davanti ai Corinti: "debole, timoroso, tutto tremante". Se è lecito richiamarsi, almeno nella debolezza, a quello straordinario press-agent del cristianesimo nascente, ebbene il mio stato d'animo è del tutto simile. Ho però avvertito anche il dovere di rispondere all'invito di un altro ebreo, Simone detto Pietro: "Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a chiunque chieda una spiegazione, ma con mansuetudine e rispetto".

"Mansuetudine e rispetto". Per affrontare questo problema di Gesù che investe l'uomo eppure lo supera, c'è davvero bisogno di tutti gli uomini. Le polemiche, qui, sono più che inutili; sono stupide. Do tutta la mia solidarietà e la mia simpatia ai cosiddetti "increduli" quando non vogliono i cristiani creduli; che è il contrario di credenti. Senza gli "increduli", sul problema di Gesù si sarebbe ancora all'apologetica barocca. Scriveva Lacordaire, il volterriano che finì domenicano:

Ciò che veramente mi importa non è convincere di errore chi la pensa diversamente da me. Ciò cui tengo è unirmi a lui in una verità più alta.

Mi è parso sin qui di scoprire che, malgrado tutto, su Gesù i conti tornano. Che l'ultimo passo della ragione può essere il riconoscere che vi è una dimensione che supera la ragione stessa. Che può essere ragionevole scommettere sull'ipotesi su cui si regge la fede. Certo, resta fitto il mistero, appena rischiarato da qualche luce; tanti problemi non trovano risposta. Se davvero il Creatore stesso dell'universo è entrato nel tempo e nello spazio, perché proprio su questo piccolo frammento di rocce e metalli che ruota attorno a una stella, tra i duecentocinquanta miliardi di stelle della sola nostra galassia? "Credere non è capire tutto" dice Teilhard de Chardin. Quel mistero, quei problemi, però, mi sembrano ancora più grandi se si punta sulla soluzione contraria. Se si afferma, cioè, che il cristianesimo non è che il più grosso degli equivoci in cui gli uomini siano incappati. Comunque, alla fin fine: "chi biasimerà i cristiani del non sapere dare sino in fondo ragione della loro fede, visto che dichiarano, esponendola al mondo, che quella fede è assurda, è un'idiozia?". Idiozia, stultitia è infatti, per Paolo di Tarso, l'annuncio che in un predicatore vagante ebreo Dio stesso si sarebbe manifestato; che quel visionario sconfitto avrebbe vinto la morte rovesciando la pietra del sepolcro. Un'idiozia, per la sapienza del "mondo".

Ma, avendo udito parlare di resurrezione dai morti, alcuni (degli ateniesi) presero a deriderlo, altri poi dissero: "Su questo ti sentire un'altra volta". Così Paolo uscì di mezzo a loro (Atti, cap. 17).

Proprio il mattino di quella risurrezione, secondo il racconto che è attribuito a Luca, "due uomini in abito sfolgorante" apparvero alle donne giunte al sepolcro. "Perché cercate colui che è vivo in mezzo ai morti?" chiesero i due. In questa domanda del vangelo è il senso e il limite di ogni ricerca come la nostra sul Gesù sulla storia, su quest'uomo da cui ci separano più di trenta vite d'uomo.

Dal Gesù nato sotto Augusto e morto sotto Tiberio bisognerebbe partire per riconoscere che ogni uomo, qui e ora, è il Cristo della fede. E per confessare che, ovunque si pratica davvero l'amore, lì il Dio di Abramo e di Gesù si manifesta ancora una volta nella storia. E che lì, dove si tende alla giustizia, alla liberazione da quanto opprime l'uomo dentro e fuori, lì è l'ecclesìa, l'adunanza di chi crede al Gesù resuscitato; conosca o no il suo nome. Ha scritto Bonhoffer, il cristiano appeso a un gancio dai nazisti, che chi dice di credere in un certo Gesù che ha insegnato, che è morto, che è risorto, può anche cantare in gregoriano. Ma, aggiunge, soltanto se grida allo stesso tempo per le vittime di ogni presente e futuro. Gesù, ha detto un poeta contemporaneo, non si trova al termine dei nostri ragionamenti; ma, semmai, al termine del nostro impegno di misericordia.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:35

Israel Knohl "Il Messia prima di Gesù" - Arnoldo Mondadori Editore 2001



Dopo tre giorni


Inizieremo la nostra ricerca sul contesto storico del messia di Qumran prendendo in esame due opere apocalittiche che, a mio parere, ci parlano della morte violenta del messia di Qumran. Il nostro primo compito consisterà nel datare gli eventi in esse narrati. In un'opera apocalittica l'autore descrive in genere gli accadimenti del suo tempo come profezia del futuro. Per questo le opere apocalittiche vanno interpretate sullo sfondo degli eventi storici dell'epoca in cui sono state composte. Come argomenterò in modo circostanziato, il contenuto delle nostre due apocalissi può essere chiaramente compreso alla luce della situazione politica nell'impero romano nella seconda metà del I secolo a.C., appena prima della vita e del ministero di Gesù. Nel 44 a.C. Giulio Cesare venne ucciso da un gruppo di cospiratori guidati da Bruto e Cassio. Dopo l'assassinio, si diede lettura del suo testamento. In esso Cesare dichiarava di avere adottato Ottaviano - figlio di sua nipote Azia - come proprio figlio, il quale ricevette il suo nome, divenendo Caio Giulio Cesare Ottaviano. A quell'epoca Ottaviano, che avrebbe ricevuto in seguito il titolo di "Augusto", era un giovane di diciannove anni, e dovette lottare per il potere a Roma contro rivali più anziani ed esperti, specialmente contro Marco Antonio. Gli sforzi principali di Ottaviano furono rivolti in quel periodo a ottenere onori divini per il Cesare assassinato; se fosse stata riconosciuta la divinità del padre adottivo, infatti, egli stesso avrebbe automaticamente acquisito uno status divino. Per sottolineare come fosse figlio del "divino Giulio", si definì divi filius, "figlio di dio" o "figlio del deificato". Tale titolo appare sulle sue monete. Gli anni successivi all'uccisione di Cesare videro divampare guerre spietate. Prima Ottaviano e Marco Antonio combatterono insieme contro gli assassini di Cesare e i loro sostenitori; poi, sconfitti i nemici, si divisero l'impero. Ottaviano, da Roma, si pose a capo delle regioni occidentali, mentre Marco Antonio, stabilitosi ad Alessandria, governava le province orientali. Ma gli stretti rapporti di Marco Antonio con Cleopatra, regina d'Egitto, suscitarono fra i due acute tensioni che sfociarono nel 31 a.C. nella battaglia navale di Azio. L'esito della battaglia era ancora indeciso quando

improvvisamente si videro le sessanta navi di Cleopatra alzare le vele per prendere il largo e fuggire passando attraverso il folto dei combattimenti. [...] Allora Antonio manifestò chiaro a tutto il mondo che non era più mosso dai pensieri e dalle ragioni dì un comandante, e neppure dai suoi propri [...] poiché si lasciò trascinare dalla donna quasi fosse attaccato e si muovesse con lei. Appena vide la sua nave che si allontanava, dimentico di tutto il resto, tradì, abbandonò coloro che combattevano e morivano per lui [...] e si diede a inseguire colei che l'aveva già rovinato.

Così Antonio e Cleopatra furono sconfitti dalla flotta di Ottaviano e, fuggiti ad Alessandria, si suicidarono. Tali drammatici eventi sono riflessi, a mio parere, nell'apocalisse nota come "Oracolo di Istaspe".


L'Oracolo di Istaspe

La profezia di Istaspe è menzionata per la prima volta a metà del II secolo d.C. da Giustino Martire, che fu messo a morte dalle autorità romane per la sua fede cristiana. Egli racconta che chiunque avesse letto quella profezia, che prediceva la caduta dell'impero romano, sarebbe stato condannato da Roma alla pena capitale. Ma aggiunge che, nonostante la crudele minaccia, lui e i suoi amici continuavano a leggerla. Il Padre della Chiesa Clemente Alessandrino, dal canto suo, dice che Paolo di Tarso raccomandava di leggere la profezia di Istaspe e di citarla. Il mitico Istaspe, cui l'Oracolo era attribuito, era un re della Media che si presumeva vissuto prima della guerra di Troia. Ma l'identità persiana maschera il fatto che l'opera apocalittica fu scritta da un ebreo per parlare del popolo giudaico e di Gerusalemme. Alcuni suoi brani si sono conservati in un'opera del Padre della Chiesa Lattanzio (300 d.C. circa), che era noto come il Cicerone cristiano. Nella sua profezia Istaspe parla di due re. Del primo, destinato a dominare sull'Asia, dice: "Angarierà il mondo con il suo intollerabile dominio [...] e accarezzerà nuovi progetti nel petto, per assicurare il potere a se stesso. [...] E infine muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la sede". Dopo di che giungerà un altro re, più terribile del primo, e lo annienterà. Di questo secondo re Istaspe scrive che "si costituirà e denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio". Chi sono questi due re? Istaspe dice che il primo, che dominerà sull'Asia, muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la capitale. Tali affermazioni corrispondono esattamente alle accuse che i sostenitori di Ottaviano Augusto muovevano a Marco Antonio per i suoi rapporti con Cleopatra. Nel 40 a.C. Antonio, in seguito a un accordo raggiunto quell'anno a Brindisi con Ottaviano Augusto, ne sposò la sorella, Ottavia. L'accordo e il matrimonio suscitarono grandi speranze fra i romani, stanchi di interminabili guerre, ma tali speranze s'infransero quando Antonio tornò dalla sua amante, Cleopatra, e la sposò. La sua rivalità con Ottaviano Augusto raggiunse l'apice nel 32 a.C., anno in cui divorziò da Ottavia e la scacciò dalla propria casa. Ottaviano reagì sottraendo illecitamente il suo testamento alla custodia delle sacerdotesse vestali a Roma e leggendolo di fronte al senato. In esso Antonio aveva scritto che, anche se fosse morto a Roma, desiderava essere portato ad Alessandria e sepolto accanto a Cleopatra. Tali volontà furono assunte a prova dell'accusa secondo cui mirava a trasferire la capitale dell'impero ad Alessandria. Il senato ordinò una guerra contro la regina d'Egitto, guerra che portò alla battaglia di Azio tra la flotta di Augusto e quella di Antonio e Cleopatra. Secondo lo storico romano Dione Cassio a Roma si credeva che "se [Antonio] avesse vinto, avrebbe fatto dono di Roma a Cleopatra e avrebbe trasferito in Egitto la capitale dell'Impero". Nella visione di Istaspe si dice che il primo re "accarezzerà nuovi progetti nel petto, per assicurare il potere a se stesso. [...] E infine muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la sede". In questo re si può identificare Marco Antonio. Egli, continua Istaspe, sarà annientato da un secondo re. Questo secondo re è Augusto, che prevalse su Antonio. Di lui Istaspe dice: "si [...] denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio"; e, come abbiamo visto, Ottaviano Augusto si denominò divi filius. Inoltre:

Sarà anche un profeta di menzogne, e si costituirà e denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio, e gli sarà dato il potere di compiere segni e prodigi, con la cui vista circuirà gli uomini perché lo adorino. Ordinerà che il fuoco scenda dal cielo.

Perché Augusto, il "figlio di dio", è descritto come falso profeta?


Il falso profeta nel Libro dell'Apocalisse

La figura di un falso profeta che fa scendere fuoco dal cielo ci è familiare anche dalla famosa visione del capitolo 13 del Libro dell'Apocalisse nel Nuovo Testamento. In questa visione sono descritte due bestie. La prima, che ha sette teste e dieci corna, sale dal mare. Una delle sue teste viene gravemente ferita, ma la ferita guarisce. Tutti gli abitanti della terra la adorano. In seguito "sorge" una seconda bestia: "Vidi poi salire dalla terra un'altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago" (Apocalisse 13,11). Per mezzo di segni e prodigi, tra cui quello di far piovere fuoco dal cielo, la bestia persuade gli abitanti della terra a farsi un'immagine della prima bestia e a adorarla. "Operava grandi prodigi, fino a fare piovere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini" (Apocalisse 13,13). La seconda bestia assomiglia moltissimo alla figura del falso profeta, il "figlio di dio", di Istaspe. Della visione delle due bestie sono state proposte, lungo tutta la storia del cristianesimo, interpretazioni d'ogni genere, ma nessuna finora, sembra, davvero convincente. A mio avviso la chiave per comprendere la visione sta nel rendersi conto che Giovanni, che pare abbia scritto il Libro dell'Apocalisse attorno all'80 d.C., si servì qui di uno scritto più antico, risalente all'inizio del I secolo, durante il regno di Augusto. Nella visione la seconda bestia ha due corna simili a quelle di un agnello e parla come un drago. Questa strana combinazione di drago e corna di agnello può trovare un'adeguata spiegazione nella propaganda sull'origine divina di Augusto. La figura di un capretto o una capra con due corna, il capricorno, svolge un ruolo importante nel mito sulla sua divinità. Il capricorno era il segno del mese in cui Augusto era stato concepito. L'importanza che egli attribuiva a questo segno è fatta risalire da Svetonio a quello che l'astrologo Teogene gli aveva detto quando era giovane:

Durante il suo ritiro in Apollonia, Augusto era salito in compagnia di Agrippa fino all'osservatorio dell'astrologo Teogene; essendo stato predetto un magnifico e quasi incredibile futuro ad Agrippa, che aveva consultato per primo l'astrologo, egli aveva insistito nel tacere i dati relativi alla propria nascita e a non volerli rivelare, per il timore e la vergogna di essere trovato inferiore al compagno. Quando tuttavia alla fine, dopo molte esortazioni, a stento ed esitando li rivelò, Teogene balzò su e si prosternò a adorarlo. In seguito Augusto ebbe tanta fiducia nel proprio destino, da far pubblicare il suo oroscopo e da far coniare una moneta d'argento con inciso il segno del capricorno, sotto il quale era nato.

In effetti il capricorno compare su numerose monete emesse da Augusto. Una di esse, coniata in Spagna, mostra una capra con due corna che regge un globo e, sotto, la scritta "Augustus". Augusto pose il simbolo del capricorno anche su alcune insegne delle legioni romane, il che, come ha spiegato il classicista J.R. Fears, voleva significare che egli regnava con il favore degli dei ed era stato scelto da loro per governare il mondo. Nell'Apocalisse la bestia con due corna d'agnello parla come un drago. Il drago simboleggia il legame di Augusto con il dio Apollo. Dione Cassio afferma che Giulio Cesare scelse Ottaviano Augusto come suo successore sotto l'influenza di una storia narrata da Azia secondo cui lo avrebbe concepito con il dio Apollo:

Vari motivi lo spingevano a ciò: soprattutto il fatto che Azia affermava con piena sicurezza di averlo generato da Apollo, perché, essendosi una volta addormentata nel tempio di questo dio, le era sembrato di avere rapporti con un drago, per cui al momento giusto aveva partorito il bambino.

Svetonio, che racconta anch'egli questa storia nelle Vite dei Cesari, aggiunge che dopo l'episodio nel tempio era apparsa sul corpo di Azia una macchia a forma di drago. Il drago era simbolo dell'epiteto "Pitico", che Apollo si era guadagnato uccidendo, nella grotta di Delfi, Pitone, il mostruoso serpente. La leggenda della nascita miracolosa di Augusto compare per la prima volta in un epigramma di Domizio Marso, poeta e amico dell'imperatore. Il legame di Augusto con il dio si fece ancora più stretto dopo la vittoria di Azio, che avvenne non lontano da un tempio di Apollo. Il poeta Properzio, contemporaneo di Augusto, descrive il dio Apollo in piedi sulla nave di Ottaviano nell'atto di scagliare frecce contro la flotta di Cleopatra. Dopo la vittoria, Augusto fece erigere presso la propria casa sul Palatino uno splendido tempio ad Apollo. Su un colonnato vicino al tempio venne innalzata una statua del dio con le fattezze dell'imperatore, e su monete coniate in Asia minore dopo la battaglia di Azio Augusto fu raffigurato come Apollo. La bestia con due corna d'agnello che parla come un drago è Augusto, che si rappresentava come Apollo. Questo dio era noto per le sue doti profetiche, la cui massima espressione era l'oracolo di Delfi, e doti profetiche furono attribuite anche ad Augusto. L'autore della visione del Libro dell'Apocalisse in realtà controbatte la propaganda augustea: l'imperatore, afferma, non è un vero profeta, ma un falso profeta che parla come un drago. Il drago profetante è Pitone, il mostruoso serpente di Delfi ucciso da Apollo. Se Augusto sfruttò il mito di Apollo per conferirsi la sua divinità, l'autore della visione sfruttò lo stesso mito per rappresentare Augusto come un mostruoso drago. Nella visione delle due bestie il falso profeta persuade tutti gli abitanti della terra a adorare l'immagine della prima bestia (Apocalisse, 13,12). Come spiega diffusamente R.H. Charles, la prima bestia vuole rappresentare l'impero romano. Essa viene ferita gravemente a una delle teste, ma guarisce, così come l'impero romano si riprese e continuò a dominare il mondo dopo l'uccisione di Giulio Cesare. Quindi l'immagine della prima bestia, immagine che il falso profeta persuade tutti gli abitanti della terra a adorare, è la statua rappresentante l'impero romano. A spiegarlo è Svetonio, il quale racconta che Augusto ordinò che accanto alla statua dell'imperatore, nei templi eretti in suo onore, si collocasse una statua della dea Roma, simbolo dell'impero. Augusto era il falso profeta del culto imperiale alla statua di Roma. Nella visione delle due bestie del capitolo 13 dell'Apocalisse e nell'Oracolo di Istaspe si esprime una polemica contro la propaganda che rappresentava Augusto quale sovrano con attributi divini e contro il culto imperiale diffuso al suo tempo. Istaspe critica Augusto e lo accusa di creare un culto in cui è adorato come dio e "figlio di dio", e il Libro dell'Apocalisse attacca il secondo elemento del culto imperiale, quello della dea Roma, simbolo dell'impero.


L'uccisione dei messia e la loro risurrezione

L'Oracolo di Istaspe descrive la venuta di un grande profeta:

All'avvicinarsi della fine dei tempi un grande profeta sarà inviato da Dio a convertire gli uomini alla Sua conoscenza. Ed egli riceverà il potere di fare cose prodigiose. Ogni qual volta gli uomini non lo ascolteranno, egli chiuderà il cielo, e farà sì che trattenga le sue piogge; egli tramuterà l'acqua in sangue [...] e se qualcuno tenterà di nuocergli, dalla sua bocca uscirà un fuoco che lo brucerà. Tramite questi prodigi e poteri egli convertirà molti al culto di dio.

Il secondo re, il "figlio di dio", descritto come falso profeta,

combatterà contro il profeta di Dio e vincerà e lo ucciderà, e lo condannerà a giacere insepolto; ma dopo il terzo giorno egli risusciterà; e mentre tutti guarderanno e si stupiranno, sarà rapito in cielo.

Il falso profeta, il "figlio di dio", è Augusto. Istaspe afferma quindi che Augusto, il falso profeta, ha combattuto contro il vero profeta mandato da Dio e lo ha ucciso. Poi ha impedito che il suo corpo venisse sepolto, ma dopo tre giorni il vero profeta è tornato in vita ed è salito al cielo. Una tradizione parallela si trova nella storia dei due testimoni nel capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse. Gli stessi miracoli attribuiti da Istaspe al profeta di Dio sono attribuiti qui ai due testimoni. E il loro destino assomiglia a quello del profeta:

E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che vengano deposti in un sepolcro. Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio dì vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: "Salite quassù" e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici (Apocalisse 11,7-9, 11-12).

Negli elementi essenziali i due racconti sono simili. La principale differenza è che Istaspe parla di un singolo profeta, mentre il Libro dell'Apocalisse di due testimoni profetanti, rappresentati come due olivi che stanno davanti al Signore di tutta la terra (11,4), una terminologia che è inequivocabilmente quella di Zaccaria 4,11,14: "Quindi gli domandai: "Che significano quei due olivi [...]?".Mi rispose: "[...] sono i due consacrati che assistono il dominatore di tutta la terra"". "Due olivi" e due "consacrati" indicano due messia unti con olio. Il profeta Zaccaria accenna qui ai due leader della sua epoca, l'epoca del ritorno a Sion: il messia regale Zorobabele, figlio di Sealtiel, e il messia sacerdotale Giosuè, figlio di Iozadak. Stando così le cose, si direbbe che i due testimoni dell'Apocalisse siano due capi messianici: un messia regale e un messia sacerdotale. Istaspe dice che il profeta di Dio viene ucciso dal "figlio di dio", che abbiamo identificato in Augusto. Nel Libro dell'Apocalisse (11,7) i due testimoni-messia sono uccisi da una bestia che sale da un abisso (abyssos), anch'essa una definizione di Augusto e del suo esercito. Secondo l'Apocalisse i due testimoni-messia vengono uccisi nel corso di una battaglia per le strade di Gerusalemme. Quando si svolse questa battaglia? Nei primi due versetti del capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse, prima della storia dei due testimoni, si dice:

Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: "Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando. Ma l'atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani".

Questi versetti ci dicono che durante la battaglia in cui i due testimoni furono uccisi, i soldati romani erano penetrati nel cortile del Tempio, ma il Tempio stesso e l'altare si salvarono. Il che ci offre la chiave per datare con precisione l'evento. Il re Erode, che regnava sulla terra di Israele per concessione dei romani, morì nel 4 a.C., e dopo la sua morte scoppiò nel paese una grande rivolta, contro il successore di Erode, Archelao, e l'esercito romano che lo appoggiava. Durante la rivolta i soldati romani entrarono nel cortile del Tempio e ne saccheggiarono il tesoro. Inoltre diedero alle fiamme le camere esterne del cortile, ma non entrarono nel Tempio né nei locali interni in cui era situato l'altare. Tutto ciò corrisponde esattamente ai versetti iniziali del capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse, dove si dice che i pagani calpestarono l'"atrio" del Tempio, ma non il Tempio stesso e l'altare. La rivolta del 4 a.C. fu brutalmente soffocata da Quintilio Varo, governatore di Augusto in Siria. Varo giunse dalla Siria con due legioni e altre forze, crocifisse duemila rivoltosi, e altri vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi. I soldati del suo esercito lasciarono dietro di sé distruzioni e abusarono delle donne. I giudei fecero ricadere la responsabilità della brutale repressione della rivolta e dell'incendio nel cortile del Tempio sull'imperatore romano Augusto. Tale accusa trova espressione in due versetti dell'opera pseudoepigrafa l'Assunzione di Mosè, che descrive la repressione:

Verranno nel loro territorio coorti e un potente re dall'occidente, che li sottometterà e li porterà via prigionieri. Brucerà una parte del loro tempio col fuoco, alcuni li crocifiggerà vicino alla loro città.

Il potente re giunto dall'occidente è Augusto, rappresentato qui come un crudele carnefice, agli occhi dei giudei responsabile delle azioni del suo governatore e dei suoi soldati. Si può capire, quindi, perché Augusto sia ritratto, nelle fonti che abbiamo esaminato, con tanto odio. L'Oracolo di Istaspe parla dell'uccisione del "profeta di Dio"e il Libro dell'Apocalisse di quella di due messia. Come va spiegata la differenza tra le due fonti? Si direbbe che uno dei due capi messianici fosse più importante dell'altro. Istaspe parla soltanto del "profeta di Dio" per creare un'opposizione con il "profeta di menzogne", Augusto. In entrambe le fonti troviamo motivi che ci sono familiari dalla letteratura del Mar Morto. Istaspe descrive la disfatta del falso profeta e del suo esercito a opera della spada di Dio, che scende dal cielo. Tale descrizione corrisponde a quella di Herev-El (la spada di Dio) nel Rotolo della Guerra dei Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre. Nell'Apocalisse troviamo la storia dei due testimoni messianici. Nella letteratura del Mar Morto troviamo due messia: un messia sacerdotale e un messia regale. È presumibile che la tradizione relativa all'uccisione del profeta o dei messia che trova espressione in queste opere provenisse dai membri della setta di Qumran o da circoli a loro vicini. Si direbbe quindi che i capi messianici delle cui morti parlano queste fonti appartenessero alla comunità di Qumran. Poiché i due capi messianici furono uccisi nel 4 a.C., erano indubbiamente attivi nel periodo precedente, cioè durante il regno di Erode (37-4 a.C.). Come abbiamo visto, tutte e quattro le copie degli inni messianici furono scritte proprio in tale periodo. Si può quindi presumere che uno dei due messia uccisi nel 4 a.C. fosse l'eroe degli inni messianici di Qumran, ma il protagonista di questi inni era il messia regale o il messia sacerdotale? L'eroe degli inni non ha alcun attributo sacerdotale, mentre afferma di sedere su un "trono di potere" e menziona una corona. Possiamo dedurne che si trattasse del messia regale. C'era tuttavia anche l'altro "olivo", un messia sacerdotale.


Guardando il messia trafitto

Gli inni messianici fanno pensare che per qualche anno i membri della setta di Qumran abbiano creduto che l'età della redenzione fosse giunta. Essi erano convinti che avesse avuto inizio una nuova era in cui il dolore fosse scomparso e dominassero luce e gioia. Ma la realtà si dimostrò diversa. Il loro capo messianico fu ucciso dai soldati romani e il suo corpo venne lasciato insepolto in strada per tre giorni, come quello di un criminale. Non disponiamo di fonti storiche che descrivano i sentimenti dei membri della setta di Qumran al vedere il corpo trafitto del messia giacere per strada. Può aiutarci tuttavia un'analogia storica. Rivolgiamoci alle osservazioni di Gershom Scholem sulla crisi in cui precipitarono i discepoli di Shabbetai Zevi, un leader messianico ebraico del XVII secolo, quando egli abbandonò l'ebraismo per farsi musulmano: i sentimenti dei seguaci del messia di Qumran prima del 4 a.C. dovevano indubbiamente essere simili a quelli dei seguaci di Shabbetai Zevi prima della crisi generata dal suo cambiamento di religione:

Essi dovevano credere in perfetta semplicità che si aprisse una nuova era della storia e che essi stessi avessero già iniziato ad abitare un mondo nuovo e redento. Una tale convinzione non poteva non esercitare un profondo impatto su coloro che la nutrivano: i loro più intimi sentimenti, che li assicuravano della presenza della realtà messianica, parevano del tutto in armonia con il corso esteriore degli eventi.

La crisi scoppiò, per i membri della setta di Qumran, quando gli eventi del 4 a.C. si dimostrarono in totale contraddizione con i loro sentimenti sull'avvento della redenzione. Una situazione analoga è descritta da Gershom Scholem:

Tra i due livelli del dramma della redenzione, quello dell'esperienza soggettiva e quello degli oggettivi fatti storici, appariva per la prima volta una contraddizione. [...] Soprattutto, i "credenti", coloro che rimanevano fedeli all'esperienza interiore, furono costretti a trovare una risposta alla semplice domanda: quale poteva essere il valore di una realtà storica che si era rivelata così amaramente deludente, e come si poteva porre tale realtà in rapporto con le speranze che aveva tradito?

Una risposta a tale domanda si può trovare soprattutto nelle fonti che descrivono la morte del messia: l'Oracolo di Istaspe e il capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse. Da queste fonti possiamo dedurre che i credenti trovarono una chiave fondamentale per comprendere la catastrofe nel Libro di Daniele. Essi interpretarono la visione della quarta bestia nel capitolo 7 di Daniele come una profezia su Augusto e l'impero romano: era l'impero romano sotto Augusto la bestia che divorava e calpestava tutta la terra. Daniele dice che la quarta bestia "muoveva guerra ai santi e li vinceva" (7,21). I credenti interpretarono queste parole come una predizione dello scontro militare tra il messia e i suoi seguaci e i soldati di Augusto. Secondo tale interpretazione la sconfitta dei "santi" (il messia e i suoi seguaci) da parte dell'esercito romano era stata predetta nelle Scritture. Un'altra Scrittura che servì da base alla comprensione del tragico destino del messia fu un versetto di Zaccaria (12,10): "Guarderanno a colui che hanno trafitto", interpretato in riferimento al messia, il cui corpo trafitto venne lasciato in strada per tre giorni perché tutti lo vedessero. Abbiamo osservato nel primo capitolo come il messia di Qumran si appropriasse della descrizione del 2servo sofferente" di Isaia 53,3-4:

Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.

Dopo la morte del messia questi versetti acquisirono indubbiamente un significato del tutto nuovo. Che il corpo del messia fosse stato lasciato insepolto in strada come quello di un criminale poteva ora essere spiegato da questo passo dello stesso capitolo di Isaia:

Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori. (Isaia 53,9,12)

Dopo la morte del messia, insomma, i suoi fedeli crearono un'ideologia "catastrofica". La reiezione del messia, la sua umiliazione e la sua morte furono ritenute predette nelle Scritture e passi necessari del processo di redenzione. I discepoli credettero che dopo tre giorni il messia umiliato e trafitto risuscitasse e fosse destinato a riapparire sulla terra come redentore, vincitore e giudice. Daniele profetizzava che la quarta bestia sarebbe stata distrutta e il regno consegnato al "figlio dell'uomo", che egli descrive seduto su un trono celeste e apparso sulle nubi del cielo. I discepoli e seguaci del messia qumranico credevano che dopo tre giorni egli fosse risorto e salito in cielo su una nube. Ora sedeva in cielo, come egli stesso aveva detto nella sua visione, su un "trono di potere nel concilio angelico". Alla fine sarebbe tornato, scendendo dall'alto con le nubi del cielo, circondato da angeli. Sarebbe allora giunto il tempo della disfatta della quarta bestia, Roma, e il messia avrebbe così realizzato la visione del "figlio dell'uomo" di Daniele.


Il messia di Qumran e Gesù

La data esatta della nascita di Gesù non ci è nota, ma si ritiene che egli sia nato nel 6 a.C., cioè a poca distanza dalla morte del messia di Qumran. Non è pensabile quindi che fra quest'ultimo e Gesù vi siano stati contatti personali. A mio parere, tuttavia, la figura del messia qumranico e l'ideologia messianica a lui connessa esercitarono una profonda influenza su Gesù e sullo sviluppo del messianismo cristiano. Gesù veniva dalla Galilea, e certi aspetti della sua personalità possono essere spiegati con le caratteristiche spirituali dell'ambiente in cui crebbe. Nel suo ruolo di operatore di miracoli e guaritore di malati fa pensare agli hasidim galilei della sua epoca, dediti anch'essi a tali attività. Anche la sua sensibilità morale trova un parallelo nei racconti sugli hasidim galilei e nei detti di Hillel, e le sue parabole sono di un genere usuale per il luogo e il tempo in cui visse. Il messianismo di Gesù tuttavia, l'elemento più importante della sua personalità qual è descritta nel Nuovo Testamento, non è spiegabile nei termini delle tradizioni galilee. Gli hasidim galilei non erano capi messianici, e non esiste una sola tradizione che li associ a personalità del genere. Se vogliamo capire il messianismo di Gesù dobbiamo renderci conto che, in aggiunta ai caratteri religiosi e spirituali che acquisì dal luogo in cui nacque e dall'educazione appresa in gioventù, subì anche l'influenza, negli ultimi anni, di un'altra tradizione religiosa, dalla quale ricevette la sua dottrina messianica. Il mio intento è di dimostrare che l'immagine messianica di Gesù si formò nell'incontro con coloro che tenevano viva la tradizione del messia di Qumran. Non c'è ragione di occuparci qui dei miracoli compiuti da Gesù, delle sue parabole e dei suoi insegnamenti morali. Nulla di tutto ciò ha a che vedere con il retaggio qumranico, bensì, come abbiamo osservato, con le tradizioni galilee e di Hillel. Ciò su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione è la cristologia di Gesù, cioè il suo messianismo quale lo descrivono i Vangeli.


Il segreto messianico

Dopo avere udito, mentre veniva battezzato da Giovanni, la voce dal cielo, Gesù tenne la conoscenza della propria missione messianica per sé, senza rivelarla a nessuno. La prima occasione in cui la rivelò ai suoi discepoli è raccontata dal Vangelo di Marco (8,27, 29-31):

Interrogava i suoi discepoli dicendo: "E voi chi dite che io sia?". Pietro gli rispose: "Tu sei il Cristo". E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno. E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare.

Questo racconto solleva diversi interrogativi: Gesù si vedeva quale "figlio dell'uomo"? In questo caso perché parlò del "figlio dell'uomo" in terza persona? Poteva prevedere la sua reiezione, la sua morte e la sua risurrezione? Come abbiamo visto, la tendenza dominante negli studi neotestamentari da oltre un secolo è di negare l'autenticità storica di tale racconto. Gesù, secondo questa posizione, non si riteneva il Messia e non era riconosciuto come tale dai suoi discepoli. Non poteva prevedere la sua passione, morte e risurrezione, e tale predizione gli fu attribuita in data posteriore. Nelle parole di R. Bultmann: "La scena della professione di fede messianica di Pietro non costituisce una controprova; al contrario! Essa infatti è un racconto pasquale che Marco proietta all'indietro nella vita di Gesù". Per Bultmann tutte le predizioni di Gesù relative alla sua futura passione e risurrezione sono invenzioni tarde, perché "il giudaismo non conosceva l'idea di un messia o "Figlio dell'uomo" che patisce, muore e risorge". Una visione simile è stata espressa più recentemente da G. Vermes, eminente studiosa dei Rotoli del Mar Morto e del Nuovo Testamento, che scrive: "Né la sofferenza del messia, né la sua morte e risurrezione sembra facessero parte della fede del giudaismo del I secolo". Il nostro studio ha rivelato che questa sentenza corrisponde solo in parte a verità. Essa si applica alla maggioranza dei giudei all'inizio del I secolo d.C., ma non ai discepoli del messia di Qumran. Questo gruppo reagì al trauma dell'anno 4 a.C. creando un modello catastrofico di messianismo basato su versetti della Bibbia. I suoi membri credettero che la sofferenza, morte e risurrezione del messia fossero una necessaria base per il processo di redenzione. In vita il messia di Qumran si era ritratto come una combinazione del "figlio dell'uomo", che siede in cielo su un trono possente, e del "servo sofferente", che si carica di tutti i dolori. Come abbiamo visto, questo messia aveva attribuito a se stesso le parole di Isaia 53: "Disprezzato e reietto dagli uomini". È una chiara dimostrazione che l'idea di un messia sofferente esisteva già una generazione prima di Gesù. Secondo Istaspe la risurrezione del grande profeta che abbiamo identificato con il messia di Qumran avvenne "dopo il terzo giorno". Come abbiamo osservato, la credenza nella risurrezione del messia dopo tre giorni era strettamente connessa con il fatto che per tre giorni i romani avevano proibito la sepoltura del suo corpo, che venne lasciato in strada perché tutti lo vedessero. Gesù si aspettava che il destino del "figlio dell'uomo" fosse simile a quello del messia di Qumran, e predisse che il "figlio dell'uomo" sarebbe stato ucciso, come era stato ucciso dai soldati romani il messia qumranico. Si aspettava inoltre che dopo tre giorni il "figlio dell'uomo" sarebbe risuscitato, come si credeva che "dopo il terzo giorno" fosse risuscitato il messia di Qumran.


La notte al Getsemani

La missione messianica di Gesù fu quindi un viaggio verso una sofferenza e una morte conosciute. Secondo l'idea che gli fu trasmessa dai discepoli del messia qumranico, passione e morte del messia erano parte integrante del destino messianico. Farsi carico di una tale missione era naturalmente molto arduo, e il parlare di se stesso in terza persona, come "figlio dell'uomo", sembra rifletterlo. La difficoltà di tale missione è drammaticamente espressa dal racconto dell'ultima notte della vita di Gesù. Dopo l'Ultima Cena, egli si recò con i discepoli nell'orto del Getsemani. Lì cadde in una profonda depressione:

Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate". Poi, andato un po' innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell'ora. E diceva: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu". (Marco 14,33-36)

La lotta interiore nell'anima di Gesù era ormai giunta al suo apice. Egli sentiva che era venuto il momento che si compisse la sua missione messianica, che non poteva che significare sofferenza e morte. Poiché la sua volontà di vivere si ribellava a un destino così terribile, pregò il proprio Padre onnipotente di revocare la dura sentenza. Tuttavia si rassegnò a quella che credeva fosse la decisione divina, anteponendo alla propria volontà quella di Dio. Avrebbe quindi seguito le orme del suo predecessore, il "servo sofferente" dei Rotoli del Mar Morto.


Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:38

Da Chi l'ha visto? del 12/02/2007



Di tutti i più importanti esponenti della banda della Magliana si conoscono nome e volto, ma di uno dei più pericolosi killer che ha agito per loro o contro di loro nella faida che ha disgregato la banda, non è mai apparsa alcuna immagine. Importanti pentiti hanno raccontato segreti terribili, hanno fatto nomi e cognomi, ma incredibilmente di questo killer, che avrebbe compiuto i delitti più feroci, non hanno mai pronunciato il vero nome: dicono di non ricordarsi il cognome, parlano di un tale Libero chiamato "Rufetto". Il pentito Antonio Mancini, a conoscenza di tanti oscuri retroscena, nel corso di un’intervista rilasciata a Chi l’ha visto?, riconobbe la voce dell’uomo, di quell’introvabile Mario, che fece una fondamentale telefonata depistante alla famiglia di Emanuela Orlandi: il collaboratore di giustizia disse che quella voce apparteneva a uno dei componenti della banda della Magliana, probabilmente a Rufetto; su queste dichiarazioni lo scorso marzo Antonio Mancini fu interrogato dal procuratore aggiunto Italo Ormanni e dal sostituto Simona Maisto. Seguirono lanci di agenzie con notizie fuorvianti e si fece anche circolare la voce che Rufetto fosse morto, ma diverse fonti ci dicono che Rufetto sarebbe vivo e il primo, vero mistero sta nel fatto che un malvivente al quale si attribuiscono crudeli delitti, circoli libero: forse perché Rufetto era l’uomo di fiducia di Enrico De Pedis, un killer al servizio di "Renatino", cioè il boss incredibilmente sepolto nella basilica vaticana di S. Apollinare al fianco di un cardinale? Un’importante testimone, amica intima di Renatino e compagna di due capi della banda, già nel giugno del 1994, testimoniava: "Il Rufetto era stato usato come killer dai testaccini, faceva il killer già all’epoca di Abbruciati". Rufetto avrebbe cominciato la sua carriera criminale con Danilo Abbruciati, che era appartenuto al clan dei marsigliesi al fianco di Albert Bergamelli e Francis Turatello; Abbruciati si era poi legato alla mafia di Pippo Calò, ai servizi segreti deviati, alla destra eversiva e alla massoneria piduista. Morì il 27 aprile del 1982 a Milano mentre cercava di attentare alla vita di Roberto Rosone, vice di Roberto Calvi al Banco Ambrosiano. Abbruciati ferì il banchiere ma venne colpito a morte da una guardia giurata: una morte misteriosa la sua, perché l’uomo era un boss, non certo un gregario; ad oggi non si è chiarito perché si scomodò personalmente per quell’avvertimento, invece di inviare un suo sottoposto. La risposta potrebbe essere in una visita che due settimane prima dell’agguato a Rosone, cioè il 9 aprile, Abbruciati ricevette mentre era in carcere a Rebibbia: con il lasciapassare di Maurizio Barbera, vicedirettore del penitenziario, lo andò a trovare il capitano dei carabinieri Giancarlo Paoletti, in forza al centro di controspionaggio Roma 2 del SISDE. Diciotto giorni dopo il capo dei testaccini, cui successe "Renatino" De Pedis, sparò a Rosone rimettendoci la vita. Si era nel pieno del ciclone che si stava abbattendo sulla vicenda del Banco Ambrosiano, che stava trascinando nello scandalo l’Istituto delle Opere vaticane e alcuni tra i più potenti uomini politici. Si direbbe che in un colpo solo i registi della storia occulta d’Italia lanciarono un avvertimento a Roberto Calvi perché tacesse e fecero tacere per sempre Danilo Abbruciati, che avevano adoperato per i loro torbidi intrighi. Enrico De Pedis, "Renatino", assunse in grande il ruolo che era stato di Abbruciati, e Rufetto passò definitivamente al suo servizio. Quando Renatino, che aveva ereditato oltre al potere anche grandi segreti, venne a sua volta eliminato, Rufetto sparì dalla circolazione. Subito dopo le rivelazioni di Mancini ci siamo messi a cercare di capire chi poteva essere questo misterioso "Rufetto" di cui nessuno sembrava conoscere, o poter conoscere, il suo vero nome. Abbiamo letto di un verbale dove risultava che un tale Libero, detto Rufetto, era stato fermato negli anni '80 nella caserma dei carabinieri di via Morosini nella Capitale; a raccontarlo era Fabiola Moretti, la donna che fece processare il senatore Claudio Vitalone nell’ambito del processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, per poi ritrattare: "Rufetto", che si chiama Libero, ma di cui non ricordo il cognome, una volta fu fermato in occasione di un nostro incontro dai carabinieri della caserma di via Emilio Morosini, nella stessa occasione io subii anche una perquisizione; il verbalizzante fu il capitano Tuosto, e il relativo processo lo aveva il giudice Destro”. Con questi labili elementi proviamo a rintracciarlo cercando di mettere insieme i pochi tasselli che abbiamo: la nostra ricerca cominciò la scorsa estate, come potete vedere dalle immagini, e poi continua in più riprese arrivando fino ad oggi. Cominciamo dai fatti, dalle persone che sicuramente lo hanno conosciuto: in questo libro [Gianni Flamini, La banda della Magliana, Kaos Edizioni 2002] leggiamo che il giudice Destro si occupò di lui, dopo diversi tentativi risaliamo a lui, scopriamo che attualmente lavora in Cassazione; lo scorso 5 settembre lo rintracciamo telefonicamente nel suo ufficio ma il giudice non sa dirci molto, ricorda questo soprannome ma non a chi potesse appartenere e ci dice che purtroppo non ha conservato i documenti dell’epoca. Ci rechiamo allora nella caserma dei carabinieri situata in via Morosini, dove avrebbe lavorato il capitano Tuosto citato da Fabiola Moretti; in caserma troviamo tante difficoltà, ci dicono che non possono recuperare i verbali dei primi anni '80 perché dopo dieci anni vengono portati al macero, abbiamo però la conferma che proprio negli anni '80 in questa caserma ha lavorato un carabiniere che si chiamava Giuseppe Tuosto, poi andato in pensione nel 1982. Quel carabiniere, ci dicono, aveva origini campane, inoltre aggiungono che non c’è mai stato un Tuosto che abbia avuto la qualifica di capitano. A questo punto cerchiamo il suo nome sull’elenco telefonico tramite i motori di ricerca su Internet: troviamo diversi omonimi, telefoniamo a tutti, finalmente qualcuno ci conferma di essere stato un militare, decidiamo di andarci a parlare da vicino.

D. Lei come si chiama?
R. Tuosto Giuseppe.
D. E’ stato carabiniere?
R. Sì… mi sono congedato nel 1983. Gli ultimi 10 anni, 9 anni li ho fatti qui a Cellole e sono rimasto qui a Cellole. A Roma non ci sono mai stato.
D. Non ha mai lavorato nella caserma di via Morosini?
R. No, no, no… anche perché io non avevo l’altezza per stare a Roma.
D. Addirittura?
R. Perché allora ci voleva minimo 1,70. Io 1,66… 1,67… per Roma non ero idoneo, per l’altezza…
D. Non ne sa niente della banda della Magliana, insomma?
R. No… ho sentito qualche volta per televisione, ma non so niente di questi fatti.

La nostra ricerca sembra terminata in un vicolo cieco, ma resta il fatto che Rufetto, secondo diverse testimonianze, già negli anni '80 si sarebbe macchiato di agguati e delitti: il 5 luglio del 1983 sarebbe stato lui a uccidere in una barberia di via Storelli a Ostia il ventiduenne Sergio Zampilloni, che stava occupando spazi nel campo dello spaccio di eroina.

Dal Tg1 del 5 luglio 1983: "E veniamo all’omicidio di Sergio Zampilloni, il giovane di ventidue anni, pregiudicato, ucciso questa mattina ad Ostia secondo un rituale che ha fatto rivivere il clima della Chicago anni ’30, il periodo delle lotte tra le cosche di Cosa Nostra. Zampilloni infatti è stato assassinato mentre si trovava dal barbiere, il killer è entrato nel negozio che vediamo nelle immagini, e all’improvviso, impugnando due pistole, ha fatto fuoco e poi si è dato alla fuga, la stessa dinamica che fu usata oltreoceano nell’uccisione di Anastasia, capo dell’anonima omicidi, braccio armato della mafia americana".

Il killer, mai identificato, entrò nella bottega impugnando due pistole e sparando cinque proiettili calibro 7,65. Due pallottole furono fatali per Zampilloni, che crollò in un lago di sangue trascinando la poltrona sulla quale era seduto. Fabiola Moretti racconta ancora: "Il Rufetto anche in altre occasioni era stato usato come killer dai testaccini, come in occasione dell’attentato a Raffaele Garofalo, detto "Ciambellone" in piazza Piscinula, dove però il Ciambellone venne mancato. Rufetto faceva il killer già all’epoca di Abbruciati". Poi si era messo a lavorare in grande, proprio come braccio armato di Enrico De Pedis, e sarebbe stato proprio Rufetto a togliere la vita a Edoardo Toscano, detto l’"Operaietto". Quest’ultimo, dopo il pentimento di Claudio Sicilia e la fuga all’estero di Maurizio Abbatino, insieme con l’ergastolano Marcello Colafigli e con Antonio Mancini, era uno dei personaggi più importanti del gruppo originario della banda della Magliana; Toscano venne scarcerato nel febbraio del 1989 e freddato poco più di un mese dopo, come racconta ancora Fabiola Moretti: "Quando Toscano venne rilasciato si diede subito a cercare De Pedis per ammazzarlo, prima di espatriare come era sua intenzione. Renatino venne a sapere che Edoardo lo cercava e ritenne di doverlo far uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui. Sapendo che Bruno Tosoni "reggeva" i soldi di Toscano – circa 50 milioni di lire – offrì a costui una somma di altri 50 milioni di lire, perché attirasse Toscano in una imboscata. L’incarico di uccidere Toscano venne dato da Renatino a "Ciletto" e a Rufetto". Il sedici marzo del 1989 il trentacinquenne Edoardo Toscano uscì dalla sua villa al villaggio Axa a Casal Palocco, dove viveva con la moglie Antonietta, sorella di Vittorio Carnovale. L’uomo si recò in via della Marina a Ostia perché aveva un appuntamento con il cinquantaduenne Bruno Tosoni, un pregiudicato già inquisito per rapine ed estorsioni che qui gestiva un forno. La panetteria esiste ancora ed è in funzione, solo che dalla strada non si vede, tredici anni fa è stata inglobata nella grand’area di questo ristorante cinese, come potete vedere. Ma torniamo al 1989: mentre Toscano e Tosone chiacchieravano sul marciapiede, si avvicinò a loro un killer a piedi: tre colpi, uno alla nuca, due ai polmoni, un quarto proiettile colpì Tosoni a una tibia, poi l’assassino scappò su una moto ritrovata successivamente a duecento metri dall’agguato e risultata rubata. Stranamente questo clamoroso delitto trovò poche tracce in cronaca e non si arrivò mai a mettere in piedi un processo: nessuno ha mai pagato per quell’omicidio. Gli ex componenti della banda della Magliana hanno detto e ripetuto che ad uccidere è stato Rufetto, però per la giustizia italiana non è stato ancora nessuno.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:43

I Millenari "Via col vento in Vaticano" - Kaos Edizioni 1999



LA ZIZZANIA NEL FRUMENTO


La tavola dei dieci comandamenti è la più grande zattera che Dio ha gettato agli uomini in traversata su cui potersi salvare; ma a lui resta un numero infinito di altre scialuppe da gettare in mare in aiuto ad altri natanti in pericolo. Sappiamo che ciò che sta nei comandamenti è ottimo, perché promanazione dell’infinita bontà di Dio; tuttavia Dio non può racchiudersi nel solo bene finito e limitato dei dieci comandamenti, i quali non sono che una piccola parte di Lui infinito. Ne consegue che l’amore infinito di Dio necessariamente trasborda l’amore del bene circoscritto dal decalogo. Si dà il caso di parecchi che si attengono ai comandamenti e tuttavia restano lontanissimi da Dio. E si dà il caso del contrario. Gli ostacoli all’amore sono differenti per ogni individuo. Ogni persona ha differenti debolezze, differenti vizi derivanti dal suo patrimonio genetico, dalla sua indole, dalla sua biografia, dal suo diennea. Anche un orologio rotto segna l’ora due volte al giorno, nel senso che in ognuno di noi v’è sempre un angolo d’umanità e un barlume di coscienza. Pertanto, ognuno ha degli ostacoli diversi, e le dosi di colpevolezza non sono misurabili soltanto sulla bilancia del decalogo: i pesi morali stanno sui piatti corrispondenti, quello della sua cosciente consapevolezza e quello della paternità divina. La morale non è una cosa statica; è un processo nel quale valori antichi vengono sempre scandagliati di nuovo, messi alla prova in contesti di vita diversi. A volte questi valori etici sono nuovamente indagati alla luce dell’esperienza della vita contemporanea; a volte essi si scoprono come non più pienamente adeguabili e quindi da riadattare all’autenticità del messaggio di Cristo che, non essendo mai statico, è sempre originale. Sebbene nel primo Concilio di Gerusalemme gli apostoli nella lettera ai fratelli di Antiochia, Siria e Cilicia scrissero "abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia. Farete quindi cosa buona a guardarvi da queste cose", oggi nessun moralista imporrebbe quei divieti sotto pena di peccato grave, ritenute allora cose necessarie e dettate dallo Spirito Santo in regime di rivelazione apostolica. Il concetto del buon costume è un concetto dinamico, più che statico, nel quale concorrono in varia misura molteplici elementi di principio e di prassi, di ideologie e di ambienti, di tradizioni e di tecnica, di umanità e di scienza, di progresso e di involuzione, di orientamenti e di comportamenti. "Il Signore si serve anche della miseria", dice don Primo Mazzolari. "Noi non sappiamo fin dove un peccato ci distacca momentaneamente da Dio e dove pone le gettate di un ponte sulla strada del ritorno". E Einstein diceva a modo suo di credere in un Dio grande e misericordioso, che pensa e provvede a tutto, talmente santo da ritenerlo alieno dalla morbosità d’ispezionare più di tanto i testicoli dell’uomo. Sant’Isacco Siro arrivò a dire: "Dio non è giusto, ma Amore senza limiti"; e Stefano Avtandilian, vescovo armeno di Tiflis nel 1789, insegnava: "Una tacita tolleranza sui fatti morali, quantunque reprensibili ma non in coscienza inquietanti, può in pratica mostrarsi di un certo vantaggio, anziché e al posto di uno sterile insegnamento pastorale proibitivo. Di fatto il Vangelo insegna che una zizzania radicata da tempo, che non ha viziato il frumento d’accanto, se si estirpasse inopportunamente, porterebbe per effetto lo sradicamento del frumento ed anche l’isterilimento del campo. Nel qual caso non è bene inquietare le coscienze degli uomini".


La lezione di San Bernardo

Ogni Papa dovrebbe imparare a memoria e recitare tutte le mattine quello che San Bernardo (1090-1153) scrisse al suo discepolo cistercense, fatto Pontefice col nome di Eugenio III, che chiedeva dal suo Maestro consigli su come riuscire a fare bene da Papa. Se poi il regnante Pontefice fosse uno che viene da lontano, cioè del tutto digiuno dei movimenti tellurici nel sottofondo della curia romana, codesto ignaro Pontefice dovrebbe recitare con la stessa frequenza del breviario ciò che fu scritto da Bernardo nella sua Considerazione IV. Eugenio III (1145-53) mai avrebbe pensato di diventare Papa; scelse la rigorosa solitudine claustrale dei cistercensi per non impelagarsi nelle pastoie mondane, che già da allora fiaccavano la Chiesa di Roma. Era uno dei migliori discepoli di Bernardo, anche lui chiamato Bernardo, forse dei Paganelli di Montemagno nell’astigiano. Dopo la sua morte gli fu riservato il culto di beato, confermato nel 1872. San Bernardo se ne privò solo per donarlo alla Chiesa, perché la riformasse. Sebbene già Papa, San Bernardo continuò a ritenere Eugenio III come alla sua scuola, dove impartire lezioni di vita, le più scabrose e rudi. Stralciamo qui i tratti più salienti non tanto per consolare i protagonisti che degenerano la curia e la Chiesa di questi tempi, quanto per esortare i riformatori ad accingersi all’opera che la Madonna a Fatima chiedeva.

"Bisogna ora riflettere sulle cose che ti circondano. Pure queste ti sono subordinate, ma proprio perché ti sono più vicine, riescono ancor più fastidiose. Infatti, non si può trascurare le cose che ci stanno intorno, né far finta di non vederle o dimenticarle. Esse incalzano con più impeto, aggrediscono con maggior furia, e c’è da temere che ci riducano all’impotenza. Intendo parlare qui del tuo cruccio quotidiano, quello che viene dalla città di Roma, dalla curia, dalla tua diocesi particolare. Son queste le cose - te lo ripeto - che stanno intorno a te, il tuo clero e il tuo popolo, quelli che ti assistono quotidianamente, che fanno parte della tua famiglia, della tua mensa, incaricati di diverse mansioni al tuo servizio. Tutte queste persone ti visitano con maggior familiarità, bussano più spesso alla tua porta, ti sollecitano con maggiore petulanza. E’ questa la gente che non ha ritegno a svegliare la diletta, prima che essa lo voglia. [Sul carattere del clero e della popolazione di Roma] Devi poi giudicare il disordine che ti circonda particolarmente scandaloso. E’ importante che chi ti circonda sia come lo specchio e il modello di ogni onestà e di ogni ordine. Quanto alla popolazione, che dire? Che c’è di più notorio della sfrontatezza e della caparbietà dei romani? Gente disabituata alla pace, riottosa che non si piega all’autorità se non quando non riesce più a reagire. Ecco la piaga: sta a te a curarla, non ti è lecito dissimularla. Forse tu sorridi di me, persuaso che la piaga sia incurabile. Ma non scoraggiarti: tu sei tenuto a curarla, non a guarirla. In fin dei conti, hai sentito dire: "Abbine cura" e non "curalo" o "guariscilo". Disse bene un poeta: "Non è sempre affar del medico che il malato torni in salute". Ma siamo giunti ora al punto critico e la discussione diventa piuttosto scabrosa. Da che parte dovrei cominciare per dire quel che penso? Ti rendo testimonianza che non badi alle ricchezze, non più dei tuoi predecessori. Qui sta il grande abuso: esse sono impiegate in modo diverso. Potresti citarmi uno solo, che non ti abbia accolto come Papa senza che fossero intervenute elargizioni di denaro o senza speranza di averne? E adesso, dopo che si sono dichiarati al tuo servizio, pretendono ogni potere. Si professano fedeli, ma per fare più comodamente del male a chi si fida di loro. Da questo momento non avrai progetto dal quale si credano esclusi; non avrai segreto nel quale non si intromettano. Non vorrei essere al posto di un usciere che faccia aspettare qualche minuto uno di costoro, mentre se ne sta alla porta! E ora puoi constatare da qualche accenno, se io non conosco un tantino il carattere di questa gente. Sono valentissimi nel fare il male, mentre sono incapaci di fare il bene. Sono in odio alla terra e al cielo, e su tutt’e due hanno allungato le mani; sono empi verso Dio, impudenti verso le cose sante; turbolenti tra loro, invidiosi dei vicini, senza pietà verso gli altri; nessuno riesce ad amare costoro, che non amano nessuno; e mentre si vantano d’essere temuti da tutti, è giocoforza che essi stessi abbian paura. Non accettano di star sottomessi, ma non hanno imparato a comandare; sono infedeli verso i superiori e insopportabili per gli inferiori. Sono senza ritegno nel domandare e altezzosi nel rifiutare. Insistono con petulanza quando vogliono ottenere qualcosa, sono impazienti finché non l’ottengono, sono più ingrati quando l’hanno ottenuta. Hanno imparato a riempirsi la bocca di grandi parole, ma nelle azioni sono meschini. Sono grandiosi nelle promesse, ma grettissimi nel mantenervi fede; sono carezzevoli nell’adulazione e taglienti nella maldicenza: dissimulano col più innocente candore, tradiscono con la più esperta perfidia. Mi sono lasciato andare a questa digressione, perché intendevo aprirti gli occhi su questo aspetto particolare di quel che ti circonda. Ritorniamo ora all’argomento. Cos’è questo sistema di comperare con il bottino delle chiese spogliate il favore di quelli che ti acclamano? E’ la vita dei poveri che si sperpera per le strade dei ricchi. È vero che questo costume, o piuttosto malcostume, non è cominciato con te, e voglia il cielo che con te finisca. Ma andiamo avanti. Eccoti avanzare tu, il pastore, tutto scintillante d’oro, rutilante di mille colori. Che vantaggio ne ha il tuo gregge? Oserei dire che questo è più un pascolo di demoni, che di pecore. S’affaccendava forse in queste cose Pietro, si divertiva in questo modo Paolo? Guarda come serve lo zelo degli ecclesiastici, tua solo per garantirsi il posto! Tutto vien fatto per la carriera, niente o ben poco per la santità. Se per qualche buona ragione tu tentassi di ridurre questo apparato e di essere un po’ più alla mano, direbbero: "Per carità, questo non va bene, non è conforme ai tempi, non è adatto alla vostra maestà; badate alla dignità della vostra persona". Il loro ultimo pensiero è quello che piace a Dio; sul pericolo della salvezza non han dubbi di sorta, a meno che vogliano credere salutare quello che è grandioso, e giusto quello che splende di gloria. Tutto quello che è modesto, è talmente aborrito dalla gente del palazzo che sarebbe più facile trovare chi preferisca essere umile piuttosto che sembrarlo. Il timor di Dio è considerato un’ingenuità, per non dire una dabbenaggine. Chi è giudizioso e ha cura della propria coscienza, vien bollato d’ipocrisia. Chi ama la pace e si dedica di tanto in tanto a se stesso, lo ritengono un fannullone. Ma su queste cose basta quanto abbiam detto. Ho appena sfiorato il muro, senza sfondarlo. Tocca a te, in quanto figlio di profeta, andare più a fondo e vederci chiaro. A me non è lecito andar oltre. Leggiamo nel Vangelo che vi fu una discussione tra i discepoli per sapere chi di loro fosse più importante. Saresti sfortunato, se intorno a te tutte le cose andassero in questa maniera. La curia ormai m’è venuta a noia e conviene uscir dal palazzo. Ci aspetta il personale della tua casa, che non solo ti circonda ma, in qualche modo, sta dentro di te. Non è inutile riflettere sui mezzi e i modi per riordinare la tua casa; direi persino che è necessario, senza trascurare gli affari di massima importanza per impicciolirti in faccende di bassa fureria, quasi a perderti in minuzie. Tuttavia, se bisogna attendere alle grandi cose, non si può trascurare le piccole. Devi allora cercarti un uomo che s’impegni e giri la mola per te; dico per te e non con te. Se però costui non sarà fedele, diventerà ladro; se non sarà avveduto, si farà derubare. Bisogna allora cercare un uomo fedele e avveduto da mettere a capo della tua famiglia. Vorrei che tu stabilissi come regola generale di ritenere sospetto chiunque abbia paura di dire in pubblico ciò che sussurra all’orecchio; se poi rifiutasse di ripeterlo davanti a tutti, consideralo alla stregua di un calunniatore, non di un accusatore. Accettiamo più facilmente le perdite di Cristo che le nostre. Il rigagnolo d’acqua col suo scorrere scava la terra; così il flusso delle cose temporali corrode la coscienza. Molte devi ignorarle, parecchie trascurarle, alcune dimenticarle. Ve ne sono tuttavia alcune che non vorrei fossero sconosciute, vale a dire la condotta e le inclinazioni di alcune persone. Tu non devi essere l’ultimo a conosce i disordini che avvengono nella tua casa. Alza la tua mano sul colpevole. L’impunità provoca la temerarietà e questa apre la via a ogni eccesso. Con chi hai dimestichezza, o sono più onesti degli altri, o riempiono di chiacchiere la bocca di tutti. I vescovi tuoi fratelli [cardinali, ndr] imparino da te a non tenersi attorno ragazzi zazzeruti o giovanotti seducenti [il solito vizietto di tutti i tempi, ndr]. Fra teste mitrate sta davvero male quel viavai di acconciature sofisticate [allora esattamente come adesso, ndr]. Non ti consiglio tuttavia di essere severo, ma grave. La severità è costante per chi è un po’ debole, mentre la gravità mette a freno chi è sventato. La prima rende odiosi, ma se manca la seconda si diventa oggetto di scherno. Comunque, è più importante in ogni caso il senso della misura. Io non ti vorrei né troppo severo, né troppo debole. Nel palazzo comportati da Papa, tra i più intimi da padre di famiglia. Riepilogando, la Chiesa romana, che governi per volontà di Dio, è madre delle altre chiese, non loro padrona: di conseguenza tu non sei il padrone dei vescovi ma uno di essi. Per il resto considera che devi essere il modello esemplare della giustizia, lo specchio della santità, l’esempio della pietà, il testimone della verità, il difensore della fede, il maestro delle genti, la guida dei cristiani, l’amico dello sposo, il paraninfo della sposa, l’ordinatore del clero, il pastore dei popoli, il maestro degli ignoranti, il rifugio dei perseguitati, il difensore dei poveri, l’occhio dei ciechi, la lingua dei muti, il sacerdote dell’Altissimo, il vicario di Cristo, l’unto del Signore, e… da ultimo il dio di faraone".

Tutte queste pennellate a spatola di Bernardo, altro non formano che l’esatto dipinto della curia romana dei nostri giorni nei loro protagonisti più immediati ed eloquenti: Papa, cardinali, arcivescovi, dignitari, prelati, carrieristi, imbroglioni e persino il viavai degli zazzeruti diversi.


Il dossier e il furto mirato

Paolo VI, che non fece misteri sull’asfissia del fumo satanico al centro della Chiesa, ai primi del 1974 si vide costretto a formare una ristretta commissione con incarico di facciata volta a studiare la riorganizzazione amministrativa della curia romana; invece le affidava il mandato secreto di appurare che cosa di marcio vi bollisse in pentola. A presidente di essa fu scelto un prelato canadese tanto genuino quanto retto e sincero, l’arcivescovo Edoard Gagnon, che a suo segretario scelse, o meglio gli affibbiarono, il tedesco monsignor Istvan Mester, capo ufficio della Congregazione per il clero. Passarono per quasi tutti i dipartimenti di curia invitando gli impiegati a esprimere liberamente il proprio punto di vista sui superiori e sull’andamento dell’ufficio. Posti a loro agio, furono molti quelli che si aprirono a denunziare fatti e misfatti dell’ambiente. Il materiale raccolto fu interessante e rivoluzionario. Il presidente della commissione monsignor Gagnon stette per tre mesi impegnato a stendere la voluminosa relazione, che alla massoneria vaticana apparve subito scottante e pericolosa: si facevano i nomi e le attività occulte di certi personaggi di curia. Occorreva inventarsi qualcosa perché la relazione inquisitoria non arrivasse a papa Montini, già non tanto bene in salute. Il tutto doveva essere eseguito nel più stretto riserbo. Si escogitò il piano e lo si pose in atto: "Nessun dorma!". Monsignor Gagnon, terminato in tutti i vari aspetti il duro lavoro d’insieme sul risultato conclusivo dell’inchiesta, domandò tramite la segreteria di Stato d’essere ricevuto da Paolo VI per esporgli di persona e a voce le sue riflessioni in merito a certe devianze all’interno del Vaticano. I giorni passavano e la risposta non veniva. Finalmente gli comunicarono che, data l’estrema riservatezza della materia, era bene che lui, Gagnon, consegnasse l’intero dossier della relazione alla Congregazione per il clero, dove il segretario, monsignor Istvan Mester, avrebbe pensato a custodire il tutto in un robusto cassettone a doppia serratura nella stanza d’ufficio. Il bravo arcivescovo non seppe darsene una spiegazione, ma ubbidì agli ordini. La mattina di lunedì 2 giugno 1974, monsignor Mester, aperta la porta, s’accorge subito che nella sua stanza qualcosa non va: qualche foglio sparso per terra, dei libri fuori posto, dei fascicoli spostati. Poi constata che il grosso cassettone accanto alla scrivania ha le serrature scardinate: dal ripiano manca la serie dei dossier relativi all’inchiesta fatta da Gagnon. Due giorni a disposizione degli asportatori, pomeriggio di sabato 31 maggio e domenica 1 giugno, sufficienti per lavorare con calma e riservatezza sul trafugamento del dossier. Tanto per cominciare, s’impone a tutti il secreto pontificio sull’accaduto; nessun deve parlare. Poi, vengono doverosamente informati la segreteria di Stato e il presidente Gagnon che, per niente sorpreso, promette d’essere in grado di stendere in breve tempo copia della relazione già redatta. Per tutta risposta intanto lo dispensano dal rifarla, se del caso gliel’avrebbero chiesta in seguito. Lo stesso capo dell’ufficio di vigilanza, Camillo Cibin, viene incaricato di eseguire il sopralluogo, mettendo a verbale quanto rilevato nell’ispezione, inviandolo in segreteria di Stato. Al Papa viene riferito del grave furto e che il dossier non è più reperibile. Sull’episodio, intanto, si sarebbe fatto scendere il silenzio più assoluto. Ma la notizia sul furto comincia a circolare già nel primo pomeriggio di martedì 3 giugno: dei ladri avrebbero forzato una cassaforte, si accenna alla scomparsa di documenti su commissione. I giornalisti prendono atto con poca convinzione della smentita del portavoce della sala stampa vaticana, dottor Federico Alessandrini. Gli addetti al mestiere sanno che là quando ci si affretta a dire di non essere a conoscenza di ciò che si asserisce, allora c’è sempre qualcosa sotto, di cui si è al corrente, allorquando la si smentisce. La si definisce restrizione mentale sulla verità che è diversa. Non essendo bugia, non è neanche peccatuccio. La notizia s’allarga a macchia d’olio, tanto che l’"Osservatore Romano", organo di stampa quasi ufficiale della Santa Sede, è invitato a dare informazione accomodante: "Si è trattato di un vero e proprio furto per sfregio. Ignoti ladri sono penetrati nell’ufficio di un prelato e hanno asportati alcuni dossier custoditi in un robusto cassettone a doppia serratura. Il furto è clamoroso". La loggia massonica conosce i mandati e i mandanti, che risultavano non del tutto ignoti a molti. La situazione della curia romana all’epoca era molto tesa e la Commissione di monsignor Gagnon non contribuì a rasserenare l’ambiente. Un capodicastero straniero mise con garbo alla porta i cinque membri di detta Commissione, mentre un altro cardinale dichiarò la propria indisponibilità a permettere un’indagine del genere sul personale del suo dicastero. Dunque quel dossier doveva contenere evidentemente giudizi e apprezzamenti sul personale, i superiori e l’andamento di tutta la curia. Il furto, pertanto, era mirato. Anche se non gli fu più richiesto, il prelato Gagnon approntò ugualmente un altro dossier simile al precedente; chiese di essere ricevuto in udienza privata dal Papa, che ancora una volta non gli fu accordata. Allora, pregò la segreteria di Stato di inoltrare il dossier in tutta segretezza a Paolo VI, ma neanche quest’altro malloppo fu recapitato, perché al Pontefice era stato riferito che i documenti asportati erano ormai irreperibili. La congiura di corte aveva deciso di lasciare il Papa all’oscuro degli intrallazzi di curia. Monsignor Gagnon, vistosi così raggirato, considerò ormai terminata la sua missione di permanenza a Roma, si consigliò con persone sagge e rette e prese la radicale decisione di ritirarsi in Canada, dove aveva già maturata la sua pensione. Tornò in patria, considerandosi un pensionato a tutti gli effetti. Ma papa Wojtyla, venuto a conoscenza della rettitudine del personaggio, lo richiamò a Roma, facendolo cardinale, per avvalersi del suo consiglio sul dissodamento dell’ambiente vaticano, intriso - ahinoi - nel profondo di diossina satanica. "Piangendo lo dico: ci sono tra voi molti che si comportano da nemici della croce di Cristo".
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:46

I Millenari "Fumo di Satana in Vaticano - Via col vento in Vaticano n. 2" - Kaos Edizioni 2001



LA DEBOLEZZA DELLA CARNE


* Nella Casa di Pietro c’è uno spettro innominabile ma ricorrente, fantasmatico ma tormentoso. Non se ne parla però aleggia, non si vede però esiste, lo si scaccia però incombe. E se per caso si soccombe, lo si fa ma non lo si dice - la castità è un imperativo assoluto, che viene dato per scontato benché non lo sia affatto. Come le schiere di religiosi, sacerdoti e vescovi che cedono alle lusinghe della carne una o cento o mille volte, così i prelati della Curia vaticana fronteggiano il dèmone tentatore con alterne fortune. L’essenziale è non parlarne, quasi che il silenzio fosse il solo antidoto in grado di cancellare il peccaminoso spettro materializzato. Il fantasma carnale assume spesso le sembianze vieppiù esecrande dell’omosessualità, una inclinazione che è da intendersi non solo in senso praticante ma anche quale allegorico strumento delle lotte carrieristiche e di potere curiale: o in forma di diceria calunniosa, oppure quale peculiare requisito aggiuntivo, handicap o benemerenza a seconda. Per i promuovendi, lo spettro della gayezza può consentire loro una più lesta avanzata, per i sommergendi può essere una pietra al collo. Vedasi due casi da manuale d’uso, come l’esemplare carriera al rialzo perenne dell’Arcieccellenza gioiosa dalla notoria propensione omoerotica. E per converso, le difficoltà al ribasso di Giovanni XXIII: per fermarne il processo di beatificazione, i tradizionalisti della Curia vaticana pensarono bene di riesumare l’antica diceria secondo la quale monsignor Roncalli, allorquando era Nunzio apostolico in Turchia, avrebbe intrattenuto una relazione sessuale con un suo domestico (stavolta però l’arma impropria fece cilecca: la Congregazione delle cause dei santi, con un’indagine suppletiva, appurò la totale infondatezza della diceria). Intanto echeggiano anche in Vaticano le esortazioni del Pontefice: "La castità è una difficile quanto necessaria conquista… La castità richiede un impegno coraggioso e perseverante della volontà corroborata dalla Grazia divina, che guarisce la natura dalle sue cattive inclinazioni e la orienta verso il bene. Il frutto della castità è l’armonia interiore della persona". Ma il cuore di questo popolo si è indurito, e con gli orecchi hanno udito male, e hanno chiuso i loro occhi; per non vedere con gli occhi né udire con gli orecchi.


* Per comprendere appieno la vicenda qui narrata occorre sapere che i Legionari di Cristo (Congregazione religiosa di diritto pontificio fondata in Messico nel 1941 per "stabilire il Regno di Cristo secondo le esigenze della giustizia e della carità cristiana fra intellettuali, professionisti e operai, con l’azione sociale e dell’insegnamento") sono uno dei gioielli della Chiesa. Attivi negli Stati Uniti, Canada, America Latina, Europa e Australia, i Legionari contano circa 500 sacerdoti e 2.500 chierici, e dirigono 9 Università e 166 scuole e istituti superiori. Una piccola potenza, sostanziata da molto denaro, guidata dal Padre fondatore nonché attuale Superiore generale. È accaduto di recente che una decina di ex seminaristi dei Legionari di Cristo, oramai in età adulta, abbiano denunciato pubblicamente di avere subìto, in gioventù, molestie e abusi sessuali da parte del Padre fondatore della Congregazione nonché attuale Superiore generale della medesima. Sette di essi – tre insegnanti, due imprenditori, un avvocato e un ingegnere, firmandosi con nome e cognome – hanno precisato le loro accuse ricordando i fatti accaduti in seminario:

Il primo denunciante: "Il Padre era a letto, completamente nudo, e volle che gli applicassi una lozione alle cosce e ai genitali. La cosa si ripeté decine di volte… Ma quando rifiutai di sottopormi a una penetrazione anale, lui rivolse le sue attenzioni a un altro seminarista".
Il secondo: "Il Padre cominciò ad abusare sessualmente di me quando avevo 12 anni… Io gli dicevo che ero turbato, che volevo andarmi a confessare; ma lui mi rispondeva: "Non c’è niente di male. Se proprio vuoi, ecco, ti do io l’assoluzione", e mi impartiva il segno della croce".
Il terzo: "A volte il Padre chiamava me e un altro ragazzo insieme nel suo letto per masturbarci reciprocamente. Io non riuscivo a nascondere la mia ripugnanza, ma il Padre mi assicurava che tutto era moralmente corretto, che il mio compito era quello tecnico di un infermiere, e che il Papa gli aveva dato lo speciale permesso di far svolgere questo compito professionale a ragazzi invece che a donne".
Il quarto: "Il Padre mi diceva che soffriva di una ritenzione di sperma nei testicoli, con dolori insopportabili che potevano essere alleviati solo da uno specifico farmaco o da una masturbazione, che egli mi chiede di praticargli in più occasioni e che io naturalmente gli praticai".
Il quinto: "A 14 anni decisi di non subire più gli abusi sessuali del Padre: feci di tutto per farmi espellere dal seminario, e ci riuscii".
Il sesto: "Il Padre mi abbassò i pantaloni e le mutande e cominciò a manipolarmi il sesso… Alla fine mi sentivo soddisfatto per essermi messo alla mercé di colui che giudicavo un santo, che aveva santificato con le sue mani e dato valore divino a un atto che i semplici mortali e la stessa Chiesa considerano peccaminoso".
Il settimo: "Il Padre sembrava dissociare se stesso, la propria attività di sacerdote, dagli atti sessuali che compiva. Dopo un incontro con lui nel suo letto, ricordo che egli si rivestì con calma e appena uscito fuori benedì un pranzo all’aperto, tra i suoi giovani, come se niente fosse accaduto".

Gli ex seminaristi della Legione hanno concluso la loro pubblica denuncia collettiva chiedendo alle autorità vaticane di accertare la verità dei fatti. In passato, era già pervenuta alla Segreteria di Stato un’analoga denuncia firmata da un sacerdote, che accusava il Padre fondatore dei Legionari di molestie e abusi sessuali contro i giovani seminaristi, ma era finita nel pozzo senza fondo della censura curiale: infatti – a parte il potere della Congregazione legionaria – l’accusato è un pupillo del segretario personale del Papa, del cardinale Segretario di Stato, e di varie Eccellenze della Curia vaticana, dunque in quanto tale egli è al di sopra di ogni sospetto. Di fronte alle accuse multiple e dettagliate con nomi, date e fatti, il Padre fondatore dei Legionari si è limitato a definirle "calunniose, false e senza nessun fondamento". La Segreteria di Stato ha mosso tutte le possibili pedine affinché i mass media ignorassero la vicenda. e il Padre accusato - vero intoccabile del potere vaticano - ha continuato tranquillamente a mantenere tutte le sue cariche: Superiore generale dei Legionari di Cristo, Consultore della Congregazione per il clero, Gran cancelliere del Pontificio ateneo "Regina Apostolorum". Così, in occasione del 60° anniversario dei Legionari di Cristo, il Pontefice ha celebrato la ricorrenza ricevendo in udienza, in piazza San Pietro, i membri della Congregazione guidati dal Padre fondatore nonché Superiore generale, al quale il Santo Padre ha rivolto uno speciale saluto "con particolare affetto". Come se niente fosse.


* L'uomo, un siciliano quarantenne, si inginocchiò di primo mattino sulla scalinata della Basilica di San Pietro, si versò addosso della benzina e appiccò il fuoco, trasformandosi in torcia umana. Il poveretto, ex seminarista tormentato dalla propria condizione omosessuale malvissuta, lasciò uno scritto che venne riportato dai giornali così: "Chiedo scusa per essere venuto al mondo, per aver appestato l’aria che respirate con il mio venefico respiro, per aver osato pensare e agire da uomo, per non aver accettato una diversità...". Il fuoco di quell’atroce suicidio nella Casa di Pietro incendiò anche la coda di paglia della Curia vaticana, più che altro per imbarazzo pubblico. Infatti il vice direttore della Sala stampa della Santa Sede, slavato Padre passionista agli ordini del superiore direttore-portavoce papale, si affrettò a mettete le mani avanti: "Nello scritto del suicida non si afferma in nessun modo che il suo gesto sia determinato dalla sua presunta omosessualità o da protesta contro la Chiesa. Le cause del gesto vanno ricercate in non meglio precisati motivi familiari". In verità, quello pubblicato dai giornali era solo la prima parte dello scritto lasciato dal suicida: la parte successiva era stata censurata per l’amor di Dio e soprattutto della Curia romana. Infatti c’era scritto: "Penseranno che sono pazzo perché ho scelto il Vaticano per darmi fuoco. Spero capiranno il messaggio che intendo lasciare: è una forma di protesta contro la Chiesa che demonizza I’omosessualità e al tempo stesso l’intera natura, poiché l'omosessualità è figlia di Madre natura. Se Dio non esiste non avrò paura dell'inferno, ma se davvero esiste sarà molto più buono, giusto e misericordioso di quanto lo descrive la Chiesa cattolica".


* Il pingue Monsignore, teologo della domenica e moralista di modernità, cenò insieme ad alcuni confratelli di buon appetito tracannando generose bicchierate di ottimo Chianti. Durante il dopocena, fra un sorseggio e l’altro di whiskey irlandese doc, la conviviale discussione incappò nei temi della morale sessuale, e allora l’alticcio Monsignore pingue fece sfoggio della propria caratura intellettuale: sostenne che la fellatio non fosse considerabile un rapporto sessuale vero e proprio, e che dunque dovesse essere ritenuta peccato carnale solo a metà. "In vino veritas, ha praticato a se stesso uno sconto del 50 per cento", malignò poi un confratello.


* Il Parroco, accusato da otto bambini di abusi sessuali, finì sotto processo insieme ad altre persone. Il pubblico ministero chiese dure condanne al carcere per pedofilia e sevizie, ma prima della sentenza il Sacerdote-imputato morì d’infarto. La Curia locale protestò l’innocenza del Sacerdote, la Curia vaticana tacque. Sulla vicenda "L’Osservatore Romano" fece calare la mannaia censoria: non le dedicò una sola riga. La sentenza del Tribunale riconobbe la colpevolezza di tutti gli imputati, e in sostanza anche del Parroco defunto (i giudici si limitarono infatti a stabilire il "non luogo a procedere per morte del reo"). La Curia locale protestò l'innocenza del defunto Parroco, la Curia vaticana tacque. "L'Osservatore Romano" mantenne la censura. Al termine del processo di appello, gli otto bambini furono giudicati non credibili, e tutti gli imputati - compreso il defunto Sacerdote - vennero assolti. La Curia locale festeggiò, quella vaticana mantenne ancora il silenzio. Parlò invece "L’Osservatore Romano": riportò la notizia della "assoluzione postuma" del Parroco "ingiustamente accusato", e precisò che "le campane delle chiese hanno suonato a festa per quasi un’ora".


* Il Vescovo francese venne processato dal Tribunale con l’accusa di non aver denunciato alla magistratura il Sacerdote pedofilo che nella Diocesi abusava di minori, delitti di cui Sua Eccellenza era stato puntualmente informato ma per i quali si era limitato a consigliare al Sacerdote reo il conforto della psicoterapia. Il Vescovo si difese sostenendo di aver ritenuto che si trattasse "solo di palpeggiamenti" e non di veri abusi sessuali, e comunque giustificò il proprio comportamento appellandosi alla necessità di salvaguardare il segreto confessionale e professionale. Non poteva certo riferire ai giudici di essersi consultato con l’amico Porporato della Curia vaticana, e di avere ricevuto la direttiva di mantenere il silenzio fecendo finta di niente. Tantopiù quando l’avvocato dei familiari delle vittime arrivò a chiedere alla Corte che venisse convocato di persona il Sommo Pontefice, allo scopo di "far prendere piena coscienza alla Chiesa che il dilagare della pedofilìa nel mondo ecclesiastico è ormai di estrema gravità": ben 30 sacerdoti condannati in Francia, negli ultimi tempi, per abusi sessuali a danno di minori, e altri 19 sotto inchiesta. Al termine del processo il Vescovo fu dichiarato colpevole della mancata denuncia dei crimini sessuali su minori commessi dal Sacerdote-pedofilo (condannato a 18 anni di carcere). Non tutto il male venne per nuocere: presso il vertice della Curia vaticana l’omertosa e stoica Eccellenza francese - confermata nell’incarico pastorale - guadagnò 200 punti in carriera. Tutt’altra storia, benché identica, quella dell’Arcivescovo inglese, finito nei guai ma privo di amicizie nell’alto dei cieli della Curia romana. In seguito alla condanna penale di due Sacerdoti della sua Arcidiocesi per pedofilìa, egli venne subito invitato dalla Congregazione per i vescovi a dimettersi in quanto ritenuto colpevole di non avere esercitato il dovuto controllo e il necessario rigore. L’Arcivescovo, però, si ribellò alla regola vaticana dei due pesi e due misure, e restò al suo posto.


* Era un anonimo monaco benedettino ben vicino all’Opus Dei, e grazie agli agganci che aveva nella Curia vaticana - in particolare con il Porporato stagionato, gallo cedrone della cordata piacentina, e all’interno del clan polacco - venne insediato d’un botto, come per miracolo, al vertice dell’episcopato austriaco: Arcivescovo di Vienna con acclusa berretta cardinalizia. L’Arcivescovo per nomina clientelare, del tutto inadeguato a ricoprire l’altissima carica, era un indefesso predicatore di morale sessuale e un inflessibile fustigatore dei peccati della carne. Con la goffaggine che gli era propria non si peritava di inneggiare al celibato né di ammonire: "Se un uomo o un ragazzo gioca con i suoi organi genitali, sbaglia: perché Dio gli ha dato questi organi non per giocare o per trarne soddisfazione come da una caramella, ma solo per creare una nuova vita - tutto il resto è peccato". Lo scandalo scoppiò quando alcuni ex seminaristi denunciarono pubblicamente di avere subìto per anni, in gioventù, insidie e abusi sessuali da parte dell’Arcivescovo, quando egli era insegnante nel seminario minore di Hollabrunn. Sua Eminenza reagì affermando che si trattava di falsità inventate per diffamare la Chiesa. Ma le voci di trascorsi pedofili dell’Arcivescovo erano già circolate da tempo nel convento in patria e fra il clero locale, ed erano rimbalzate anche nella Curia vaticana senza sortire alcun effetto. Nonostante il deflagrare dello scandalo, e l’evidente attendibilità delle accuse multiple rivolte all’Arcivescovo, il Vaticano fece muro in sua difesa. Infatti il porporato-pedofilo ricevette una lettera di solidarietà ispirata dai suoi sodali curiali e firmata dal Santo Padre, quindi venne rieletto Presidente della Conferenza episcopale austriaca. Tali furono le proteste dei fedeli della Diocesi che la Chiesa austriaca, per placarle, dovette avviare un’inchiesta interna finalizzata ad accertare la fondatezza delle accuse. L’Arcivescovo, coperto dai suoi protettori della Curia vaticana, venne mantenuto in carica fino al raggiungimento dell’età pensionabile. Poco dopo, l’inchiesta della Chiesa locale si concluse accertando che le accuse rivoltegli rispondevano a verità. "Abbiamo raggiunto la certezza morale che gli addebiti mossi all’Arcivescovo sono sostanzialmente veri", confermò il successore dell’Arcivescovo-pedofilo, e chiese perdono "per tutto quanto il mio predecessore, e altri dignitari della Chiesa, hanno inflitto ai ragazzi affidati alla loro cura". L'ex Arcivescovo-pedofilo venne esiliato in un convento svedese. I suoi sodali in Vaticano - cioè il Porporato stagionato e il clan polacco - erano già in tutt’altre faccende affaccendati, ma non si dimenticarono di lui: qualche tempo dopo gli fecero avere in gran segreto un’udienza del Papa a scopo di conforto.


* Sacerdote-imputato, al termine del processo di primo grado, venne riconosciuto colpevole e condannato per reiterate molestie sessuali nei riguardi di un chierichetto dodicenne. Ma in appello, come d’incanto, la sentenza si ribaltò in assoluzione. Il Vescovo della Diocesi, allo scoppio dello scandalo, aveva avviato un’inchiesta interna sulla vicenda, nel corso della quale erano emersi nuovi elementi a carico del Sacerdote, recidivo in materia di molestie sessuali, tali da sconsigliare "l’opportunità di un ulteriore incarico pastorale in questa o in altre Diocesi". Dunque, sebbene assolto dal Tribunale d’appello, il Sacerdote venne sospeso dal Vescovo, e invitato a sottoporsi a una terapia psicologica approfondita. Del resto, l’episcopato locale aveva opportunamente stabilito che, anche in assenza di condanne penali, nel caso di denunce a carico del clero per molestie o abusi sessuali si adottasse un particolare rigore. Forte dell’assoluzione giudiziaria in appello, il Sacerdote contestò la sospensione decisa dal Vescovo, e tramite l’amico Nunzio apostolico, effettivo di un clan della Curia romana (quello antico di connivenza massonica), chiese aiuto in Vaticano. E l’aiuto, puntuale, gli arrivò: un apposito decreto della Congregazione per il clero ordinò che egli fosse immediatamente reintegrato nel suo ministero sacerdotale, e che venisse risarcito di tutti i danni morali e materiali patiti durante la sospensione.


* Detestato e bersagliato da vari papaveri della Curia vaticana (i quali gli avevano affibbiato lo spregiativo soprannome di Monsignor stregone, e in passato, nei corridoi, gli avevano attribuito a mezza voce perfino lo stupro di una suora e altri crimini di natura sessuale), l’emerito Arcivescovo africano passò il segno per ritorsione: si unì a una setta, e con rito settario in mondovisione si legò in matrimonio a una donna coreana. Il rito si svolse in un albergo di New York sotto l’occhio delle telecamere - lo sposo in frac, e la sposa in abito nuziale con velo e strascico. Lo scalpore fu planetario: non solo apostasia ma anche proditoria violazione del celibato ecclesiastico, un doppio scandalo pubblico da scomunica ipso fatto. Ma l’Eccellenza stregona era ormai troppo nota e potente per incorrere nei rigori della legge canonica. Lo spiegò bene Monsignorone, il burocratico braccio destro dell’altrimenti inflessibile Presidente della Congregazione per la dottrina della fede: "C’è il pericolo che una parte della Chiesa, quella più progressista, segua quel suo esempio per cavalcare ancora l’abolizione del celibato per i preti. C’è il pericolo di uno scisma all’interno del clero che avrebbe conseguenze disastrose per la Chiesa". Così i falchi vaticani (cioè l’Eminenza mongolfiera, l’Eminenza teutonica, e il Sovrano cardinale Vicario) si fecero subito colombe, e il rigore della legge canonica - pronta e implacabile contro i deboli - svaporò per pura convenienza davanti al forte Arcivescovo. Ragione per cui l’Eccellenza stregona, fra blandizie e minacce, incontri segreti e udienze papali, promesse sostanziali e formali pentimenti pubblici, venne ammansita e condotta al sicuro, in isolamento. Il maggior turbamento vaticano non era tanto per lo scandalo in sé, quanto per l’enorme eco che esso aveva sui mass media - era il solito problema della "immagine pubblica" della Chiesa. Restava aperta la questione della di lui consorte, donna coreana determinata a far valere in pubblico le proprie ragioni di sposa sedotta e abbandonata dello sposo-Arcivescovo. La Curia vaticana tentò di cancellarla sostenendo che il matrimonio fosse inesistente perché il rito col quale era stato celebrato era irregolare, e in ogni caso l’unione era invalida essendo lo sposo "plagiato" dalla setta. Ma la sposa si recò a Roma e cominciò uno sciopero della fame contro la Santa Sede chiedendo di potersi incontrare col marito-Arcivescovo fatto sparire. Scandì la sua clamorosa protesta con raffiche di dichiarazioni raccolte dai mass media di mezzo mondo:

"Quando siamo partiti per l’Italia mio marito Monsignore mi ha avvertito che la situazione era difficile, ma mi ha detto di aver fiducia in lui e che mi avrebbe protetto da qualunque pericolo... Mi ha detto che non era libero di parlare, che mi avrebbe richiamato, ma non l’ho più sentito. Perché non me lo fanno vedere? Siccome la Chiesa non mi permette di vederlo, ho cominciato a digiunare. Il nostro matrimonio è stato consumato, noi siamo marito e moglie. Mio marito non ha mai abbandonato la sua fede, io non sono cattolica ma amo molto la Chiesa: ci alzavamo insieme, prima dell’alba, per pregare, per studiare la parola di Dio e imparare da mio marito i fondamenti della religione cattolica. Io e lui condividiamo una missione di fede, e certo anche le gioie del matrimonio... Facciamo la vita di tutte le coppie, Monsignore ha anche conosciuto i miei familiari, e mi ha regalato una collana e degli orecchini... So che sta cercando una strada per rimanere Vescovo e non abbandonare me. Perché un uomo di 72 anni, da sempre celibe, avrebbe dovuto fare il passo di sposarsi se non ne fosse stato convinto? Ho un ritardo mestruale. Certo non posso sapere se è dovuto allo stress di questi giorni e ai viaggi che ho fatto, ma non ho ancora fatto il test di gravidanza, lo farò quando Monsignore tornerà da me. Siamo una coppia normale, e come ogni coppia abbiamo desiderato un figlio. Abbiamo consumato il matrimonio, e so che a questo passo - me lo ha detto lui - lo hanno guidato Gesù e la Madonna. Lui aveva sempre vissuto una vita da celibe, casta: per quali altri motivi, se non per la diretta indicazione di Dio, poteva scegliere il matrimonio? Di certo non per il sesso: se avesse voluto, lo avrebbe fatto prima, oppure di nascosto. No, Monsignore non è stato accecato dalla libido, non è perché aveva voglia di una donna... Conosco cosa pensa mio marito, non può esistere il sesso libero, noi siamo assoluti su questo punto: purezza prima del matrimonio, fedeltà poi... Io e lui ci siamo sposati, e lo sa il mondo intero. Mio marito è anziano ma non è pazzo. Lui mi ha sposato davanti a tutto il mondo, mi ha abbracciata ed era felice, mi ha chiesto un bacio, era goffo perché non aveva mai baciato una donna sulle labbra prima di allora... Non è vero che adesso Monsignore vuole lasciarmi. Non è lui che non vuole vedermi, è che lo tengono prigioniero in Vaticano e sicuramente gli danno della droga per tenerlo stordito... Se non potrò rivedere mio marito, denuncerò la Santa Sede per sequestro dì persona e mi lascerò morire".

Le proteste della signora erano frecce che, scagliate dai mass media, piovevano sul Vaticano come dardi infuocati. Così, per tentare di placare l’incendio e diradare il fumo, prese la parola il solo Porporato della Curia romana non ostile all’Arcivescovo-sposo: "Monsignore comunicherà alla signora, con un messaggio, le ragioni del suo ripensamento. Lui vuole trascorrere un periodo nel silenzio, nella meditazione e nella preghiera... Non so se la signora sia incinta, aspettiamo di vedere come si evolverà la situazione: prima di preoccuparci se ci dobbiamo buttare nel fiume, aspettiamo di arrivare almeno presso la riva... Se arrivasse un figlio, il Monsignore, pur restando Vescovo e pur rimanendo nella comunità ecclesiale, sarà chiamato a rispettare gli obblighi di sostentamento per il figlio e per la madre... Non è la prima volta che la Chiesa fa tutto il possibile per recuperare un suo figlio che ha sbagliato. Certo, una moglie complica la situazione. Però Monsignore adesso vuole rimettersi in ordine, dentro la Chiesa, dopo un periodo di riflessione e preghiera. Lasciamolo in pace e tutto si risolverà". La donna si sottopose al test della gravidanza, che diede esito negativo - le Sacre mura vibrarono di sollievo. Subito dopo essa ricevette una lettera dell’Arcivescovo-sposo, preannunciata dal Porporato curiale. C’era scritto:

"La mia Madre Chiesa cattolica mi ha chiamato a ritornare nel suo ovile. Alcuni prelati mi hanno parlato in nome di Gesù per aiutarmi a capire la grande responsabilità che ho nella Chiesa. Le persone che mi cercano e mi aspettano sono molte. Più di queste sono soprattutto le congregazioni fondate da me stesso che attendono la mia guida spirituale. Le parole del Santo Padre mi hanno commosso: "In nome di Gesù Cristo ritorna alla Chiesa cattolica". Il mio vivo desiderio è quindi di obbedire al Santo Padre e di sottomettermi alle leggi della Santa Madre Chiesa. Io ti amo come sorella. Continuerò a pregare per te per tutta la mia vita. Il Signore ti benedica".

La signora non si diede per vinta, e proseguì lo sciopero della fame sotto l’occhio dei mass media. Fra le Sacre mura la tensione per la prova di forza era alle stelle, a memoria d’uomo mai prima il Vaticano era finito al centro di uno scandalo del genere. Determinata a incontrarsi a tu per tu con l’Arcivescovo che aveva sposato, la consorte dell’Eccellenza si spinse a rivolgere una pubblica supplica al Pontefice:

"La presente vuole essere un’umile preghiera a Sua Santità. Io sono la sposa e compagna di Sua Eccellenza l'Arcivescovo. Sono veramente dispiaciuta se durante il mio tentativo di tro vare mio marito le mie azioni abbiano in qualche modo causa to sconforto e offesa nei Vostri confronti. Io so che mio marito Vi ama profondamente. So anche che lui ha sempe avuto una grande stima e rispetto per Vostra Santità e ha sempre avuto la grande speranza di incontrarVi personalmente. Infatti è stato questo il motivo del suo viaggio in Italia: trovare il modo di riconciliarsi con la Santa Chiesa come fedele sposato. Per questo lui ha posto tutta la sua fede e la sua vita nelle Vostre Mani. Sua Eccellenza mio marito ha detto pubblicamente che in ogni sua decisione, riguardante il nostro futuro, mi avrebbe fatta partecipe. La supplico con tutto il mio cuore di facilitare tale incontro. Ora pare che lui abbia già deciso tutto senza interpellarmi, ma so anche che lui mi ama ancora, e vuole incontrarmi di persona. Se veramente il suo pensiero è cambiato, mi appello a Lei Santo Padre affinché possa ottenere un po' di più che pochi minuti con lui in un posto freddo e impersonale. Io e mio marito ci siamo sposati di fronte a Dio e al mondo. Abbiamo iniziato a vivere insieme. Ci siamo fatti promesse che io per prima non sarei mai capace di spezzare... Se mio marito intende rinunciare a tutto ciò che ha promesso, si sieda pure con me e me lo dica in faccia, e mi spieghi ogni cosa, con il cuore in mano, quale uomo libero e responsabile. Io lo ascolterò con tutto il cuore come sono sicura che lui ascolterà me. Una volta che ci saremo chiariti, io non farò più opposizione. Santo Padre, sono davvero dispiaciuta se i miei metodi possono averLa offesa, ma io devo rivedere mio marito. Ho cominciato a digiunare proprio per poterlo incontrare... Sono ormai tredici giorni che bevo solo acqua. Credo che se Monsignore potesse capire la mia situazione e la mia supplica, vorrebbe vedermi subito. Io credo e ho fiducia in Monsignore, Monsignore crede e ha fiducia in Voi. Quanto ancora dovrà continuare il mio digiuno? Se lui è pronto a incontranni, La prego, permetta che questo diventi realtà. Sua Santità, mi affido alla Vostra misericordia. La mia vita è nelle Vostre mani".

Le pressioni della donna attraverso i mass media finirono per avere la meglio. L’incontro fra i due sposi venne organizzato in un albergo di Roma presidiato dagli agenti della Vigilanza vaticana, e si svolse alla presenza di una decina di testimoni. L’Arcivescovo consegnò alla sposa ripudiata una lirica lettera di addio. C’era scritto:
"Mia cara sorella, come le acque del mare rilasciano i corpi annegati in stadi successivi, prima sulla superficie delle medesime acque, poi le onde spingono i corpi sulla spiaggia del mare, così è stato il mio destino. L’America mi ha depositato sulla superficie dell’Italia. L’Italia mi ha portato alla spiaggia della mia Chiesa, la Città Vaticana. Ed è qui che i miei confratelli mi hanno accolto di nuovo, e mi hanno portato non alla sepoltura, ma a rinforzare la vita in me. Il mio impegno nella vita della Chiesa tramite il celibato non mi permette di essere sposato. Il richiamo della mia Chiesa al mio primo impegno è giusto. Io sono consapevole della tua sofferenza. Io sono con te in tutte le tue sofferenze, pregando per te ogni giorno. Non soltanto io, ma ci sono tanti che sono con te. La benedizione di Dio ti accompagnerà per tutta la vita".

Al termine dell’incontro la signora dichiarò rassegnata: "La cosa più dolce che Monsignore mi ha detto è che siamo una cosa sola, un corpo unico. In passato, quando eravamo sposati, mi ripeteva sempre che siamo anime gemelle. Non si è pentito del matrimonio, noi rimarremo marito e moglie spiritualmente... Seguirò la volontà di Monsignore: partirò, andrò lontano, e soprattutto rimarrò zitta - mi ha detto che il modo migliore per stargli vicina spiritualmente è rimanere in silenzio. Lo amo, e farò quello che mi ha chiesto". Il ritorno nell’ombra dell’asiatica signora, e il suo silenzio, risolsero ogni problema. Nella Casa di Pietro tutto può accadere, purché non si sappia in giro. In Vaticano può succedere di tutto, basta che non se ne dia pubblico scandalo, cioè non se ne parli. Qualunque cosa è tollerabile tra le Sacre mura, a patto che sia salvaguardata "l'immagine pubblica" della Chiesa.


* Il Monaco benedettino austriaco, sull’onda del clamore suscitato dai ricorrenti scandali sessuali che coinvolgevano il clero, pubblicò un breve saggio tratteggiando "il terreno di coltura psicosociale che, all’interno della Chiesa, favorisce quei nefasti sviluppi e che nel corso dei secoli è diventato parte integrante della vita interna della Chiesa". Lo scritto, raccolto e diffuso da un’agenzia di stampa, suscitò grande irritazione ai piani alti della Curia vaticana. Forse perché le argomentazioni del Monaco benedettino erano pregnanti, articolate, disinibite e di pura ragionevolezza:

"Chi abbia seguito attentamente, negli ultimi anni, le vicende della Chiesa, si sarà accorto che vi sono alcuni ambiti in cui essa si ostina particolarmente a mantenere il suo punto di vista: penso qui al celibato, al rifiuto dell’accesso delle donne al sacerdozio, alla ridotta liceità consentita alla sessualità; penso all’esclusione dai sacramenti dei divorziati risposati, e penso al diritto esclusivo del Papa nella nomina dei vescovi. Tutti questi temi sono compresi nel campo di tensione sessualità-potere, e credo che siano tutti fra loro correlati. La Chiesa giustifica la sua intransigenza con la fedeltà alla volontà di Gesù Cristo, cioè alla volontà di Dio. La Chiesa si riferisce di solito a una concreta parola di Gesù. Ma se si guarda con maggiore attenzione, ci si accorge di una discrepanza, poiché il Magistero ecclesiale mentre pondera alcune singole espressioni di Gesù e ne fa discendere delle leggi, altre le giudica meno importanti o le sorvola. Un esempio: è sulla base del testo del discorso della montagna (Mt 5,31 ss) e di altri testi evangelici (come Mc 10,2 ss), che i moralisti della Chiesa giustificano il loro rigido atteggiamento rispetto al divorzio e all’esclusione dai sacramenti dei divorziati risposati. Non si discute: le parole di Gesù sono molto chiare e esigenti. Ma altrettanto chiare e esigenti sono le parole di Gesù riguardo alla rinuncia all’uso della forza (Mt 5,38-48), alla rinuncia al giuramento (Mt 5,33-37), e alla rinuncia al possesso (Lc 14,33). Se la fedeltà a ciò che Gesù voleva sta nel fatto di trasformare le Sue indicazioni in precetti morali, la cui inosservanza viene punita in parte con l’esclusione dai sacramenti, allora la Chiesa dovrebbe proprio fare anche della rinuncia all’uso della forza un precetto morale, dovrebbe introdurre il divieto di prestare giuramento e di possedere beni materiali. La realtà appare del tutto diversa: è facilmente dimostrabile quanto sia generosa la Chiesa nell’ammettere il diritto alla proprietà, quanto spesso debbano essere prestati giuramenti nell’assunzione di incarichi ecclesiali, e quanto disinvoltamente la Chiesa abbia giustificato la morte dei nemici in guerra. Che la discrepanza, così chiaramente riconoscibile, non sia presa sul serio dai moralisti cattolici appare dai forti meccanismi di rimozione, dai riferimenti distorti alla realtà, dalla tendenza alla fissazione, tutti sintomi che si possono osservare di solito negli psicopatici. lo penso che la tensione sessualità- potere, come si è formata nel corso dei secoli nella Chiesa cattolica, potrebbe essere una miniera e un ricco campo d’azione per gli psicoterapeuti. Per me è importante però illustrare quanto i moralisti cattolici abbiano nascosto i desideri autentici di Gesù, facendo esattamente quello che proibiscono agli altri: riducono il Vangelo, storpiano la volontà divina trasformandola in un codice morale umano, in paragrafi di una legge. Sul terreno di questa morale decadente talvolta nascono fiori grotteschi ma anche cinici. Faccio solo due esempi. La morale cattolica non giudica l’inclinazione omosessuale come peccato; ma chi vive questa inclinazione pecca gravemente. La soluzione per questo problema: pentimento e confessione. Il concetto chiaro e tondo di questa morale: ti amiamo, porco! Secondo esempio. I divorziati risposati sono esclusi dai sacramenti, con una sola eccezione: che vivano come fratello e sorella, cioè senza una vita sessuale. Invece di un concetto chiaro e tondo, una domanda: da dove viene un cinismo tanto lontano dalla realtà? In risposta, l’invito a riflettere sull’interrogativo: dall’invidia sessuale dei vertici "celibi" della Chiesa? Che in molte situazioni possa essere necessaria la rinuncia temporanea a soddisfare il proprio istinto non lo metto assolutamente in questione. Ma quando le leggi e le regole interne alla Chiesa prescrivono per tutta la vita un comportamento che è in contrasto con le fondamentali esperienze e esigenze della vita, si pecca contro la natura umana. Lo scandalo del cardinale-arcivescovo di Vienna dimostra una volta di più quanto sia inadeguata la prassi della nomina dei vescovi da parte di Roma. Se il vescovo fosse stato scelto dalla Chiesa locale, lo scandalo non si sarebbe mai verificato. Ma per l’ottusità degli attuali vertici della Chiesa un segnale così clamoroso e scioccante era necessario. Il Vaticano con lo scandalo del cardinale-arcivescovo si è messo in un bel guaio, e ne è responsabile. Per i "romani" avere a che fare con questo scandalo è di certo un fatto straordinariamente increscioso, solo che non lo manifestano apertamente. Perché se si tratta di ammettere un errore, le dittature come il Vaticano ovviamente non lo fanno mai. Da anni si chiede perdono per diversi capitoli bui e tristi della storia della Chiesa, che ormai appartengono al passato. Ma per riflettere sul presente in modo autocritico mancano palesemente carattere e spina dorsale. L’errore gravido di conseguenze per cui ammettere le proprie colpe e ritornare sulle proprie posizioni dottrinali indebolirebbe l’autorità della Chiesa, impedisce nella Chiesa sincerità e verità, e lascia il fedele nell’infantilismo e nell’immaturità al momento di formulare un proprio giudizio. L’unilaterale sopravvalutazione dell'ufficio pontificio si fonda su una parola di Gesù iperlogorata (Mt 16,18): "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa". Che Gesù non avesse l’intenzione di fare della persona di Pietro un papa infallibile, lo dimostra la scena che viene descritta qualche versetto dopo, dove Gesù rimprovera duramente Pietro a causa di parole superficiali (Mt 16,23): "Lungi da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini!". Un versetto che le autorità della Chiesa in confronto citano molto raramente. E' indiscutibile che in una istituzione come la Chiesa debbano esistere strutture di governo, e che all’interno di queste strutture venga anche esercitata l’autorità. Ma bisogna anche ricordare quello che Gesù ha detto sull’autorità della Chiesa (Lc 22,26): "Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve". E' senz’altro più che discutibile che si possa chiamare servizio il tentativo delle autorità vaticane di emettere prescrizioni ai cristiani di tutto il mondo fin nella camera da letto. Come anche - per rimanere in tema - quando Roma, in spregio ai desideri e alle esigenze delle comunità regionali, promuove vescovi la cui qualità consiste innanzitutto nel seguire acriticamente la linea dell’attuale Papa. Certo, Gesù non ha posto alla base delta sua Chiesa una struttura democratica. Sono pochi, negli scritti degli apostoli, i riferimenti a direttive di Gesù al riguardo. Ma ciò che sicuramente Egli non voleva era che un ceto elitario di celibi di un piccolo Stato del Sud Italia ordinasse e dirigesse fin nei dettagli la Chiesa di tutto il mondo, e che questo sistema di potere centralistico fosse perfino fatto risalire a Lui con argomenti ipocriti. Non si può giustificare con nulla, nemmeno con la volontà di Dio, il fatto che il Papa eserciti un potere illimitato su tutti i cattolici e che non esista alcun correttivo. E non ha sicuramente nulla a che fare con Gesù il fatto che il Papa abbia la possibilità di garantire la sua politica anche per il futuro nominando da solo quelli - i cardinali - che scelgono il suo successore. La maggior parte dei cattolici sono abituati a accettare questi fenomeni come ovvi. Non si accorgono che qui, con l’abuso della Bibbia e con il discutibile richiamo alla volontà d Dio, viene giustificato un sistema che in primo luogo serve a uno scopo quantomai banale: la protezione del proprio potere. Alcuni vescovi austriaci mi fanno pensare molto alle parole di Gesù (Mt 15,14): "Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!". Forse a volte le parole dei suddetti vescovi ci fanno un’impressione penosa, ma intanto realizzano anche qualcosa di buono: contribuiscono a smascherare il potere nella Chiesa [...] Qui diviene visibile quanto domini, nel repertorio della comunicazione all’interno della Chiesa, un gioco di volontà di dominio, di servilismo e di infantilismo. Si potrebbe anche parlare della cosiddetta "mentalità del ciclista": curvare la schiena verso l’alto per dare pedate verso il basso [...] Ciò che spesso ai cristiani manca sono prospettive, atteggiamenti e modi di agire pieni di speranza, che facciano capire come l’orientarsi al messaggio di gioia di Gesù porti a una vita sana. In questo i preti, i vescovi e il Papa dovrebbero vedere il loro compito prioritario: dovrebbero vivere in modo credibile l’invito di Gesù a fondare la propria idea di vita sulla fiducia e non sulla paura. I monasteri, per esempio, dovrebbero essere luoghi dove si possa avvertire che la fede dà frutti e fa bene, che la vita diventa vita sana. Sarebbe urgente e necessario, secondo me, che i cattolici la smettessero di guardare così tanto verso l’alto. La Chiesa non inizia in Vaticano, ma nelle singole comunità parrocchiali. E i responsabili delle strutture che vi poggiano sopra, fino ai più alti livelli della gerarchia ecclesiale, sarebbero ben consigliati se considerassero questi livelli di base, plasmati dalla vita reale, il fondamento della Chiesa e non soprattutto la buca delle lettere di prescrizioni e ammaestramenti. Laddove gli uomini edificano una comunità, è necessario anche l’esercizio dell’autorità; ma le autorità ricevono il loro incarico dalle comunità. Non c’è nessun motivo serio per cui questo non debba avvenire anche nella Chiesa: i responsabili continuano a essere controllabili dalla comunità, e possono essere rimossi dal loro ufficio. Se però si assiste al tentativo di eludere gli interrogativi critici sullo stile dell’esercizio dell'autorità con argomenti pseudoteologici (come: questa è la volontà di Gesù), la critica e la resistenza diventano un dovere di coscienza".

Apriti cielo! Il saggio del Benedettino austriaco provocò travasi di bile nella Segreteria di Stato, attacchi d’ira nella Congregazione per la dottrina della fede, sorde rabbie nel clan polacco, e accese riprovazioni nella Congregazione per i vescovi. Il testo venne messo all’indice - circolava nei corridoi curiali di nascosto, in fotocopie clandestine, come fosse un samiszdat.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:52

Giordano Bruno Guerri "Povera santa, povero assassino. La vera storia di Maria Goretti" - Oscar Mondadori Storia 2000



Maria Teresa Goretti nacque a Corinaldo (Ancona) il 16 ottobre del 1890. Sua madre Assunta era stata abbandonata neonata nella "ruota" della Casa degli Esposti di Senigallia e affidata in seguito ad una coppia di Corinaldo, persone indigenti ma di "buona condotta", erano "rigorosi in fatto di morale e la salvaguardavano dai divertimenti cattivi e dalla vita cattiva, abituandola ai dolori e alle privazioni della vita". Assunta sposò Luigi, garzone di un podere lì vicino e ben presto arrivarono i figli, sei, uno dopo l'altro: Maria Teresa, da sempre chiamata Maria, fu la seconda. All'epoca la media di figli era di 4-5 per matrimonio, a fronte di una mortalità infantile elevatissima: un bambino su cinque moriva prima di compiere 5 anni. Nelle Marche la percentuale saliva ad uno su quattro, e ciò era dovuto più all'ignoranza dei genitori che all'arretratezza della medicina. Data la situazione, la Chiesa aveva stabilito che i neonati dovessero essere battezzati "entro le 24 ore": che almeno l'anima si salvasse. Scriveva un medico lombardo alla fine dell'Ottocento: "Io veggo ne' miei paesi essere immensa la mortalità de' bambini nella stagione invernale e penso che l'egoistico pregiudizio comandato dai preti ai nostri villici, di farli trasferire al sacro fonte battesimale appena usciti alla luce e sotto qualsiasi rigore atmosferico, sia la principal sorgente della strage loro". In quell'epoca un individuo su due era analfabeta (molti di più se si considerano solo le donne), la vita media era di 17 anni, comprese le morti infantili; arrivava a 60 anni se valutiamo la vita media di chi sopravviveva ai primi 5 anni. Il mondo dorato, tutto trine e galanterie della Belle Epoque, era un mondo riservato a pochissimi, isole circondate da un popolo lacero e aggressivo. Alcuni dati: nel decennio 1891-1900, con una popolazione che era metà di quella attuale, gli omicidi volontari furono quasi 4000 all'anno contro i 1400 dei nostri "feroci" anni Settanta; i "fatti di sangue" fra il 1890 e il 1911 raggiunsero i 2 milioni; alle voci "rapine, estorsioni e sequestri di persona" abbiamo il 25 per cento in più di oggi, e assai di più erano i galeotti. Era questa la bella epoca di Maria. I Goretti si trasferirono ben presto nel Lazio, a Paliano (Frosinone), nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita, e qui conobbero un'altra famiglia marchigiana, i Serenelli, originari di Torrette, vicino ad Ancona, famiglia composta dal padre Giovanni e dai due figli Vincenzo e Alessandro. Ma la vita era durissima, si lavorava dall'alba al tramonto e a cena non si riusciva a mettere insieme una fetta di polenta. Dopo varie proteste con conseguente licenziamento da parte del padrone del terreno, i Goretti e i Serenelli si trasferirono nell'Agro Pontino (Roma). Le Paludi Pontine, un'estensione di circa 50 chilometri per 30 fra Anzio, Cisterna, Terracina e il Circeo, avevano resistito a numerosi tentativi di bonifica nel corso dei secoli. La zona, con l'acqua stagnante brulicante di miliardi di insetti, l'aria malarica, il caldo insopportabile in estate, la totale mancanza di igiene e la fame, era un autentico inferno: le statistiche parlano di circa 1500 morti all'anno su una popolazione di poche migliaia. Questo era il mondo di Maria, un mondo di silenzi e duro lavoro nei campi, di disperazione e abbrutimento, di miseria e ignoranza. In queste condizioni non si può parlare di "fede" ma di credenze popolari, di superstizioni, divieti e fobie: Assunta aveva trasmesso a Maria una profonda avversione per qualunque contatto fisico, considerato peccato: "Più volte io avevo raccomandato alla Maria di tenere bene coperta la Teresa [appena nata] specialmente quando c'erano i fratelli, e le avevo detto che stesse attenta, perché altrimenti si offendeva il Signore, come pure avevo detto che essa non guardasse i fratelli, perché era peccato". D'altronde era questa la concezione del sesso e del corpo umano che si aveva all'epoca, di cui abbiamo testimonianza in un noto manuale per confessori nel quale si legge: "E' peccato mortale il dilettarsi deliberatamente in qualsiasi emozione carnale, ancorché eccitata casualmente. Pericolosi sono anche i movimenti disordinati. E' lussuria: i pensieri voluttuosi, i baci, i contatti e gli sguardi impudichi, gli abbigliamenti femminili, le pitture e le sculture che sono indecenti; le danze, i balli e gli spettacoli. Non v'ha dubbio che mortalmente peccherebbe quella donna che anche senza passione di libidine, permettesse che la si toccasse nelle parti genitali, o vicine ad esse, o nelle mammelle, imperocché evidentemente si esporrebbe a pericolo venereo e certo prenderebbe parte alla libidine altrui; è perciò tenuta a respingere subito chi la tocca, rimproverarlo, percuoterlo, allontanare con forza le di lui mani, fuggire, o gridare se potesse mai avere speranza di soccorso". Il mezzo migliore per sfuggire ai pericoli della carne è "pensare alla morte, al giudizio di Dio, all'inferno, all'eternità". Nel 1901-1902 Alessandro Serenelli aveva 18-19 anni e non aveva mai toccato una donna. Sfogava la sua voglia di sesso masturbandosi di continuo ma era allo stesso tempo terrorizzato dagli ammonimenti dei confessori scatenati contro i giovani "che si toccano": gli dicono che potrà più generare, che il suo midollo spinale diventerà acqua, che ingobbirà e che forse rimarrà anche paralizzato: "Non vi ha vizio più nocivo, sotto qualunque aspetto, ai giovani, e specialmente se maschi" dice il manuale per i confessori "perché presi da questa prava consuetudine, indurano lo spirito, inebetiscono, dispregiano la virtù, disdegnano la religione; la loro indole diventa malinconiosa, incapace di energia, inetta a qualsiasi proposito tenace; le forze del corpo mancano, gravi infermità sopravvengono, si appalesa una caducità prematura, e spesso si muore di morte vergognosa". Alessandro era un ragazzo chiuso, silenzioso, con evidenti problemi di personalità; diverse volte aveva tentato di avvicinare Maria, senza riuscire nel proprio intento. Fino al fatale 5 luglio 1902, quando prende dalla cassetta degli attrezzi una specie di lungo chiodo quadrangolare lungo 23 centimetri e mezzo, con il manico d'osso, e va in cerca della ragazzina, la vede, l'afferra, la trascina in casa e la costringe a sdraiarsi su un basso panchetto di legno lungo un metro. E qui la vista, per la prima volta forse, della cucca (o pentecana) fa impazzire l'adrenalina del ragazzo: finalmente farà scarpetta, il suo sogno si avvera, deve solo mettere u' cellu lì dentro. Ma non ci riesce e non per la resistenza di Maria ma per una sua incapacità organica a farlo, e allora afferra il punteruolo e la colpisce quattordici volte di cui cinque proprio sotto l'ombelico. Per Alessandro fu, come sanno bene gli psichiatri che si occupano di questi delitti, un coito traslato, una scarpetta col punteruolo nell'impossibilità di usare lo strumento apposito. Il punteruolo che sfonda e riemerge, che sfonda e riemerge nelle carni gli dà un'estasiante sensazione di possesso, fino a portarlo all'orgasmo. Poi si placa, getta il punteruolo dietro il cassone e, convinto di averla uccisa, va in camera sua e si sdraia sul letto. I soccorsi per Maria arrivano dopo alcune ore, viene trasportata al più vicino ospedale ma le sue condizioni appaiono subito disperate: viene operata per due ore (senza anestesia e senza nessuna protezione antisettica) al polmone sinistro, al diaframma, all'intestino: morirà dopo altre lunghe ore di atroce agonia. La prima preoccupazione di Assunta è di sapere se "oltre l'averla ammazzata non l'avrà anche disonorata". Il medico la rassicura: "Sta' tranquilla, che essa è proprio come è nata". Assunta ringrazia il Signore. Intanto l'Italia viveva anni di cambiamenti: le prime automobili, la luce elettrica, il cinema, la psicoanalisi e perfino riviste e romanzi avevano contenuti sempre più "turpi e immorali", secondo la Chiesa. Inoltre il pericolo che le idee degli anticlericali toccassero e corrompessero perfino le masse popolari, la cui religiosità si basava proprio sul rispetto dell'autorità ecclesiastica e su forme di superstizione (culto dei santi patroni, processioni, miracoli), spinse gli esponenti della chiesa locale a promuovere la causa di Maria, scelta come rappresentante della "più sublime delle virtù" contro "le virtù di bagasce sacrificatesi turpemente sull'ara di Venere". Il processo di beatificazione, molto lungo e travagliato, rallentato dalla mancanza di qualsiasi elemento che provasse la santità della ragazzina, subì una improvvisa accelerazione nel 1943, dopo lo sbarco degli americani a Roma: i liberatori portano nella capitale della cristianità i chiari segni del loro accompagnarsi col demonio, tra cui danze oscene e musiche scostumate, anticoncezionali, nuovi modelli di vita e allora occorrono degli argini, la religione ha bisogno di esempi e una vergine e martire è quel che ci vuole per dare l'esempio contro la corruzione dei costumi. Tutto fu quindi fatto con velocità estrema: le testimonianze in favore della sua santità furono ampiamente "aggiustate" e molti fatti inventati di sana pianta, i ricordi di Alessandro e Assunta, interrogati più volte, modificati e manipolati al fine di dare di Maria l'immagine che si voleva. Si trovarono anche dei malati guariti per la sua intercessione. Maria fu proclamata beata il 27 aprile 1947 da Pio XII. La successiva canonizzazione avvenne il 24 giugno 1950. Alessandro, dopo il delitto, venne subito arrestato e condannato a 30 anni di carcere con un processo velocissimo, scontò una parte della pena a Regina Coeli, poi a Noto, nel sud della Sicilia, in seguito in Sardegna. Passava il tempo a masturbarsi e non è difficile credere che, ancora illibato, in lui esplose di nuovo il bisogno della carne. Il carcere lo portò all'omosessualità e probabilmente, data la sua impotenza, il suo destino fu quello di diventare la donna dei suoi compagni di cella. Fu liberato con due anni di anticipo, per buona condotta, aveva 47 anni ma ne dimostrava 70. Quando ottenne il permesso di lavorare, cominciò a girare di fattoria in fattoria, ovunque ce ne fosse bisogno. Più tardi sacerdoti e passionisti gli trovarono lavoro come domestico in vari santuari e monasteri, per ultimo il convento dei cappuccini di Macerata. Morì senza conoscere donna, a 89 anni.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:54

Giordano Bruno Guerri "Io ti assolvo. Etica, politica, sesso: i confessori di fronte a vecchi e nuovi peccati" - Baldini&Castoldi 1993



Dalla penitenza al "rito della penitenza": storia della confessione


La pratica della "confessione" esisteva già in civiltà anteriori al cristianesimo o estranee al suo influsso: era in uso nei culti di Iside, Orfeo e Cerere, e avveniva davanti allo ierofante e agli iniziati; monaci buddisti o jainisti dicono le proprie colpe al loro maestro, come il sikh si confessa al suo guru: è una forma di purificazione della coscienza per liberarla dalle forze maligne. Il rito della penitenza ha origini antichissime anche nella cultura ebraica precristiana: ogni sciagura - dalla sconfitta militare al cattivo raccolto - veniva considerata un segno dell'ira divina, da placare con suppliche collettive: digiuni, pianti, gesti di umiliazione come cospargersi la testa di cenere. L'intero popolo, attraverso le parole dei sacerdoti, si riconosceva colpevole e chiedeva perdono. Il perdono veniva concesso, ma non senza un'espiazione: benché Davide confessi la sua colpa, Dio lo punisce ugualmente con la morte del figlio. Alla severa giustizia divina si aggiungeva la severità degli uomini, perché il "popolo di Dio" non voleva rendersi complice della rottura dell'Alleanza, e puniva con la morte il colpevole: per i peccati più gravi, come l'idolatria e la bestemmia, c'era la lapidazione. In tempi più vicini alla nascita di Gesù, a questa severità si affianca - per peccati meno gravi - una più lieve penitenza individuale, ovvero l'espulsione dalla Sinagoga, che poteva essere definitiva o temporanea. Gesù partecipa alla cultura penitenziale e più volte annuncia la necessità della "conversione" e della "penitenza"; la parabola del figliol prodigo, l'incontro con la "peccatrice" e molti altri episodi del Vangelo testimoniano che il Padre sarà benevolo anche con il peccatore pentito. Cristo non "confessò" mai nessuno, ma "nessun'altra Chiesa cristiana e nessun'altra religione ha dato tanta importanza quanto il cattolicesimo alla confessione dettagliata e ripetuta dei peccati". Secondo l'interpretazione cattolica, il sacramento fu istituito da Gesù: nei Vangeli ci sono tre versetti che sembrano offrire alla Chiesa la possibilità di assolvere i peccatori: in Matteo 16,19 Gesù dice a Pietro: "A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli"; in Matteo 18,18 Gesù ripete ai discepoli: "Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo". Le più moderne interpretazioni filologiche (anche cattoliche) dell'espressione "legare e sciogliere" sottolineano che la lettura corretta è "dichiarare una cosa proibita e permessa", e solo secondariamente "scomunicare, togliere la scomunica"; oppure l'espressione si riferirebbe solo all'esclusione o alla riammissione nella comunità della Chiesa, per cui non si tratta di "assolvere o non assolvere", ma di un unico processo penitenziale. Secondo l'interpretazione più recente, infine, l'espressione rabbinica "legare e sciogliere" ha il significato di "vincolare con un sortilegio e rompere il sortilegio", cioè abbandonare il peccatore a Satana o liberarlo. In definitiva, legare e sciogliere indicherebbe solo l'esclusione dalla Chiesa e la riconciliazione, non la remissione dei peccati. Il recente Catechismo della Chiesa Cattolica, però, ha ribadito e precisato: "Le parole legare e sciogliere significano: colui che voi escluderete dalla vostra comunione, sarà escluso dalla comunione con Dio; colui che voi accoglierete di nuovo nella vostra comunione, Dio lo accoglierà anche nella sua. La riconciliazione con la Chiesa è inseparabile dalla riconciliazione con Dio". Il testo sul quale il concilio di Trento si appoggiò maggiormente per sancire l'origine divina della confessione è in Giovanni, 20,23: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi". La frase in Giovanni è meno equivocabile, ma anche secondo alcuni Padri della Chiesa - e scismatici come Calvino - indica solo il potere di rimettere i peccati attraverso il battesimo. Il dibattito verte intorno ai verbi afiemi e krateo, di difficile interpretazione in questo contesto, perché si tratta dell'unico versetto nel Nuovo Testamento in cui vengono riferiti al peccato. In definitiva, la lettura del versetto come istituzione divina della confessione è tutt'altro che pacifica, e anzi contestatissima dalla maggior parte degli autori protestanti. Ad ogni modo il perdono dei peccati venne interpretato in maniera estremamente restrittiva nei primi secoli del cristianesimo, fino al VI. San Paolo esclude dalla comunità cristiana, consegnandoli a Satana, tutti i peccatori notori, che danno scandalo alla comunità, ovvero gli "impudici", gli avari, gli idolatri, i maldicenti, gli ubriaconi, i ladri. A parte il rigore di Paolo, sembra accertato che in gran parte della cristianità non venissero perdonati i colpevoli di idolatria, omicidio, adulterio e fornicazione: solo verso il 220 papa Callisto ammise alla riconciliazione anche gli adulteri; tre decenni dopo fu la volta dei lapsi, ovvero di coloro che durante le persecuzioni tornavano al paganesimo, e soltanto con il concilio di Andra (314) furono ammessi al perdono anche gli omicidi. A quell'epoca i peccati gravi dovevano essere sottoposti alla penitenza pubblica, mentre quelli leggeri venivano estinti privatamente con la preghiera, la carità, il digiuno. Quasi tutto però veniva considerato peccato mortale, compresi i balli, l'invidia, la collera, l'orgoglio, l'ubriachezza (mentre - a differenza di oggi - veniva considerato peccato leggero avere rapporti sessuali con il coniuge evitando di procreare). Però "è lecito dubitare che, nella pratica, la penitenza ecclesiastica si sia estesa molto al di là dei casi notori di peccati capitali", soprattutto perché la penitenza era davvero penosa. Il peccatore poteva sia essere convocato dal vescovo, se notorio, sia presentarsi spontaneamente a dire le proprie colpe. Il vescovo stabiliva la penitenza, e se il colpevole non la accettava veniva escluso dalla Chiesa; se la accettava iniziava una diversa odissea: anche se non sempre doveva dichiarare in pubblico i propri peccati, la sua umiliazione veniva esibita a tutti i fedeli. Spesso lo stesso vescovo gli faceva indossare il cilicio, e da quel momento il peccatore entrava a far parte dell'"ordine dei penitenti". Ma, a differenza degli ordini religiosi, quello dei penitenti aveva caratteristiche infamanti ed esibite: a seconda dei luoghi bisognava radersi i capelli, oppure barba e capelli dovevano essere lunghi e incolti. Oltre ciò il peccatore pentito doveva iniziare la lunga catena delle opere penitenziali, private e pubbliche. Le prime consistevano in digiuni, dormire su un giaciglio cosparso di cenere, non lavarsi, piangere e pregare; pubblicamente doveva vestire il cilicio. I penitenti vennero distinti in quattro categorie: i flentes, che dovevano stare fuori dalla chiesa a implorare che i fedeli pregassero per loro, ma spesso venivano insultati e derisi; gli audientes potevano assistere alla messa, ma dovevano uscire al momento dell'eucaristia; i substrati potevano assistere, prostrati, alla celebrazione eucaristica; infine i consistentes dovevano assistere in piedi. I passaggi da una categoria all'altra erano molto lenti, fra i due e i sette anni. San Basilio il Grande (IV secolo) stabilì che si dovesse rimanere quattro anni tra i flentes e i consistentes, cinque tra gli audientes e sette tra i substrati. Fra il IV e il VI secolo le penitenze vennero sempre più codificate e rese severe: comprendevano fra l'altro l'astinenza dalle carni, l'obbligo di trasportare in chiesa i defunti e seppellirli, e vere e proprie espulsioni dalla vita civile, che duravano anche dopo la "riconciliazione": era proibito ricoprire cariche pubbliche, svolgere attività commerciali, fare il servizio militare; infine, "per tutta la durata del tempo di espiazione, è vietato al coniuge sposato di vivere maritalmente con l'altro coniuge. La continenza totale è obbligatoria anche dopo la riconciliazione". Chiunque non accettasse tutte queste penitenze o le interrompesse, veniva scomunicato per sempre. Alla fine della laboriosa e angosciante penitenza il fedele veniva reintegrato nella comunità, ma non poteva più peccare: la confessione era possibile una sola volta nella vita, essendo considerata alla stregua di un nuovo battesimo. Una seconda assoluzione non veniva concessa, neanche in punto di morte, a coloro che "ritornano, come cani e maiali, ai loro primi vomiti": così si espresse, nel 385, papa San Siricio. Dati questi presupposti, pochi confessavano volentieri i loro peccati. La stessa Chiesa - in concili, testi di papi e santi dottori - finì per consigliare una scappatoia di astuzia e opportunismo destinata a incidere nel carattere dei cattolici, e degli italiani in particolare. Sant'Ambrogio, per esempio, raccomanda di confessarsi quando "defervescat luxuria", sbollisca la lussuria. Fu così che si finì per confessarsi quasi solo da vecchi e in punto di morte, tanto che "alla fine del VI secolo si era giunti ad una situazione quanto mai insostenibile: la penitenza, di fatto e di diritto, era inaccessibile proprio a coloro che ne avevano più bisogno, cioè alle persone adulte e piene di vita. L'Ordo paenitentiarum si era ridotto praticamente ad essere una specie di terz'ordine religioso riservato a vecchi invalidi e a vedovi o celibatari senza speranza". Molti, piuttosto che affrontare la penitenza, preferivano prendere i voti, perché la vita monastica "malgrado il suo rigore, era più confortevole della penitenza pubblica e non infamante. Per questa ragione finì col soppiantarla. Aumentò il numero dei "conversi", non sempre a vantaggio della qualità della vita religiosa". Era ormai indispensabile un ripensamento della penitenza. Già da secoli era invalso l'uso di confessarsi anche ai presbiteri, per esserne confortati e sapere se quei peccati dovessero essere espiati nell'Ordo paenitentiarum o con la semplice preghiera. A partire dal IV secolo questa prassi prese sempre più piede, e i presbiteri divennero sempre più tolleranti, a mano a mano che si ampliava la schiera dei cristiani battezzati da piccoli e che quindi avevano ereditato, non scelto, il cristianesimo. Oltretutto la severità delle penitenze impediva a quasi tutti di ricevere l'eucaristia: proprio per combattere questo fenomeno il concilio di Agdes (506) impose ai cristiani di comunicarsi almeno a Natale, Pasqua e Pentecoste. I fedeli, stretti tra i due fuochi del rigidissimo Ordo paenitentiarum e dell'obbligo della comunione, presero - specialmente in Spagna - un'abitudine stigmatizzata dal concilio di Toledo (589): "Ogni volta che peccano, chiedono al sacerdote di essere riconciliati". Nonostante la condanna del concilio, i sacerdoti divennero di anno in anno più inclini al compromesso, sull'esempio dei monaci irlandesi che alla fine del VI secolo cominciarono a sciamare in Europa: nelle selvagge isole di Gran Bretagna e Irlanda non era mai esistita la penitenza pubblica, ma solo quella privata. In breve l'uso della confessione auricolare, ripetibile quante volte si vuole nel corso della vita, prevalse a tal punto che il concilio di Chalon-sur-Saone (647-653) definì "della massima utilità" la nuova pratica. Questa confessione venne chiamata tariffata, o tassata, perché il sacerdote aveva un elenco di peccati, cui corrispondeva una penitenza precisa. Al termine di un lungo interrogatorio-confessione, il fedele riceveva le penitenze, e solo quando le aveva adempiute poteva tornare a ricevere l'assoluzione, parola che da ora in poi sostituisce progressivamente la primitiva riconciliazione. A ricevere il nuovo tipo di sacramento sono anche i chierici (che prima non potevano pentirsi, e in caso di peccato grave venivano espulsi), e a esercitarlo ufficialmente non sono più soltanto i vescovi. L'elencazione schematica dei peccati contribuì in modo determinante a svuotare di reale contenuto il senso della confessione, e a renderla un fatto privato tra sacerdote e fedele, togliendo alla penitenza il suo originario significato anche sociale. Quanto alle tariffe, vennero il più possibile codificate, in modo che le penitenze fossero uguali per tutti. Consistevano specialmente in digiuni (di vino, carne, grassi eccetera) che potevano durare anche decenni. Ecco alcuni esempi dal Penitenziale di San Colombano, uno dei più diffusi: "Per il peccato di masturbazione, un anno di digiuno, se il colpevole è ancora giovane", altrimenti di più. "L'omicida digiunerà per tre anni a pane e acqua, senza portare armi, e vivrà in esilio. Dopo questi tre anni, ritornerà in patria e si metterà al servizio dei parenti della vittima, sostituendo colui che ha ucciso". "Se un laico avrà avuto un figlio dalla moglie di un altro, cioè avrà commesso adulterio, faccia penitenza per tre anni, astenendosi dai cibi grassi e dall'uso del matrimonio, rendendo inoltre il prezzo del disonore al marito della moglie violata". "Se un laico avrà fornicato in modo sodomitico, faccia penitenza per sette anni: i primi tre nutrendosi di solo pane, acqua e sale, e legumi secchi; gli altri quattro si astenga dal vino e dalle carni". Le tariffe per i chierici erano tanto più salate quanto più si saliva di grado. Poiché le tariffe dei singoli peccati si sommavano, finivano per diventare insopportabili od oltrepassare la durata della vita. Fu quindi necessario istituire una complessa serie di tabelle di commutazione, in modo da sostituire pene lunghe con altre più brevi ma più rigide. Esempi dai Canones Hibernenses: "Commutazione per un digiuno di tre giorni: stare in piedi un giorno e una notte senza dormire (o molto poco), oppure la recita di 50 salmi con i cantici corrispondenti". "Commutazione per un digiuno di un anno: passare tre giorni nella tomba di un santo senza bere e senza mangiare, senza dormire e senza togliersi gli abiti; durante questo tempo canterà salmi". Oppure: "Passare tre giorni in una chiesa, senza bere né mangiare, né dormire, completamente nudo, senza sedersi. Durante questo tempo il peccatore canterà salmi con i cantici e reciterà l'officio corale. Durante questa preghiera farà dodici genuflessioni". Piano piano cominciò a prendere piede anche la pratica di riscattare le pene con il denaro. Per evitare che i ricchi venissero favoriti, si studiarono pene differenti: a un povero basta "il prezzo di uno schiavo" per riscattare un anno di digiuno, mentre con la stessa cifra il ricco riscatta soltanto un mese. Ma la distinzione durerà poco. La confessione si trasforma in un grosso affare, soprattutto quando si comincia a stabilire che le penitenze possono essere commutate in messe, da pagare ai sacerdoti. Così, secondo il Penitenziale dello Pseudo-Teodoro, "una messa riscatta tre giorni di digiuno, tre messe riscattano una settimana di digiuno". Le messe si vendono anche a pacchetti: 100 soldi d'oro danno diritto a 120 messe. Per far fronte all'esorbitante numero di messe, nel IX secolo molti monaci vennero fatti sacerdoti; qualche codice cercò invano di arginare l'arricchimento del clero ponendo un limite di sette messe al giorno per sacerdote: ma - dietro richiesta del penitente - il sacerdote poteva celebrare anche più di venti messe al giorno. Finalmente si arrivò all'abuso più scandaloso, riservato ai ricchi, ovvero pagare qualcuno perché compisse al proprio posto la penitenza, come sancisce il Penitenziale dello Pseudo-Teodoro: "Chi non conosce i salmi e, a causa della sua debolezza, non può digiunare né vegliare né fare genuflessioni né tenere le braccia alzate né prostrarsi per terra, costui scelga qualcuno che compia la penitenza al suo posto e lo paghi per questo, poiché sta scritto: "Portate gli uni i pesi degli altri"". Per il povero invece sta scritto: "Ognuno porti il proprio fardello". Ecco come, secondo un altro canone, "l'uomo potente che ha molti amici" può riscattare sette anni di penitenza in tre giorni: "Prenderà 12 uomini che faranno digiuno al suo posto durante 3 giorni, mangiando solo pane, acqua e legumi secchi. Cercherà subito per 7 volte altri 120 uomini che facciano digiuno al suo posto durante 3 giorni. I giorni di digiuno così sommati sono uguali al numero di giorni contenuti in 7 anni". In genere erano i monaci a fare le penitenze a pagamento, e fu una delle cause dell'arricchimento dei monasteri, tanto più da quando - come "composizione" - prevalse l'uso di chiedere ai più ricchi il dono di terre o la costruzione di chiese e conventi. I tentativi della Chiesa di combattere questa prassi furono pochi e più che altro formali. Ci provarono con maggiore energia, ma invano, i re carolingi fra l'VIII e il X secolo. L'uso della penitenza tariffata si esaurì da solo, nel XII-XIII secolo. A partire dal IX secolo, infatti, l'assoluzione viene data sempre più spesso non dopo, ma prima della penitenza, perché consiste quasi sempre in un'offerta alla chiesa o allo stesso confessore, più qualche preghiera. Diventa quotidiano e comune, fino al Seicento, lo scandalo dei confessori estremamente sbrigativi nell'ascoltare e assolvere, per fare quante più confessioni possibile. Verso la fine del X secolo viene introdotta anche una nuova forma di "penitenza pubblica non solenne", ovvero il pellegrinaggio. I pellegrinaggi, che si tenevano in gran numero, erano riservati ai peccati pubblici "meno scandalosi" dei laici, ovvero quelli che non implicassero la sfera sessuale o teologica (furti, omicidi eccetera), oppure ai peccati scandalosi commessi da diaconi, presbiteri, vescovi. "I pellegrini penitenti erano dei peccatori forse pentiti, certamente dei criminali e, in gran parte, dei chierici criminali. Per questa ragione i pellegrinaggi penitenziali sono stati lo scandalo permanente della cristianità medievale: le bande di pellegrini, che in teoria passavano da un santuario all'altro per espiare i loro peccati, commettevano in realtà ogni tipo di abuso immaginabile". A lungo poi continuò - fino al Seicento e oltre - lo scandalo dei sacerdoti che approfittavano del confessionale per procacciarsi avventure galanti, e le novelle di Boccaccio sono buona testimonianza della interminabile lotta tra penitenti e confessori per ingannarsi a vicenda: particolarmente significativa la vicenda di ser Cepparello, peccatore impenitente, che con una magistrale e falsissima confessione senile riesce a farsi proclamare santo. Nel 1215 Innocenzo III, durante il concilio Laterano IV, rese obbligatoria la confessione almeno una volta l'anno, e contemporaneamente cominciò ad affermarsi, con le crociate, l'uso delle "assoluzioni generali", che poi furono alla base dello scandalo ancora più grave delle indulgenze, a sua volta determinante nel provocare lo scisma luterano. Anche riguardo alla confessione, in definitiva, "i riformatori resero pubblica una contestazione tenuta sino ad allora nascosta", per opportunismo, nel mondo cristiano. Per Lutero la confessione è un sacramento di importanza minore, perché non è stato esplicitamente istituito e regolato da Gesù, come il battesimo e l'eucaristia. Ancora più radicali sono calvinisti e anglicani, per i quali non è un sacramento. Lutero ritiene che la contrizione perfetta - ovvero l'odio per il peccato commesso e il serio proposito di non commetterlo più - sia impossibile all'uomo, mentre quella imperfetta (attrizione), dovuta soprattutto alla paura dell'inferno, è un'ipocrisia, un nuovo peccato che si aggiunge agli altri. Del resto, per Lutero, l'uomo non può essere del tutto cosciente del male, né il sacerdote ha il diritto di intromettersi nella sua coscienza. Inoltre la giustizia divina non può essere soddisfatta con opere umane, sia pure vantaggiose per il clero. Di conseguenza Lutero nega al sacerdote l'autorità di assegnare penitenze e concedere il perdono, che viene direttamente da Dio; è quindi attraverso la fede, non attraverso la confessione rituale, che il peccatore riceve il perdono divino; la Chiesa non può obbligare i fedeli a confessarsi, neppure prima di fare la comunione, perché non risulta dai Vangeli che Gesù abbia legato i due sacramenti. Tuttavia, secondo Lutero, il buon cristiano si confesserà spesso e volentieri per ascoltare il perdono divino, ma il confessore può essere anche un laico. Alla fine - presso i luterani come presso i calvinisti - si affermò prevalentemente l'uso della confessione generale, durante la messa. La Chiesa cattolica non poteva tollerare una così drastica riduzione del suo potere, e al concilio di Trento furono spese molte energie per riaffermare il valore della confessione tradizionale. Soprattutto nelle sessioni fra il 15 ottobre e il 25 novembre 1551 fu stabilito che la confessione è vere et proprie sacramentum istituito da Gesù come vitae remedium. Venne inoltre confermato il valore della contrizione e dell'attrizione. A una a una furono ribattute tutte le affermazioni dei protestanti, particolarmente quella che i laici possano confessare. Una delle conseguenze più importanti del concilio, legata al problema della confessione, fu che per combattere i riformisti si affermò una concezione del peccato come fatto personale, che offende Dio e se stessi, mentre scomparve il concetto - basilare nella Chiesa antica - del peccato come responsabilità sociale. Fu un fatto culturale determinante nella formazione dei diversi "caratteri nazionali": fra i cattolici è meno forte il senso di responsabilità sociale. Subito dopo il concilio, la Chiesa lanciò una grande campagna per la confessione, generalmente affidata a missionari popolari per le masse, e ai gesuiti per le élite. La preparazione dei confessori venne uniformata e resa più rigorosa nei seminari, e i numerosissimi manuali scritti per loro diventarono best seller dell'epoca: ma, se contribuirono a migliorare la preparazione dei confessori, provocarono un ulteriore appiattimento burocratico e fiscale. Il concilio volle anche l'installazione dei confessionali chiusi, che fino ad allora non esistevano, per rafforzare il concetto di individualità e il rapporto stretto con il sacerdote. Il confessionale serviva inoltre a combattere le frequenti tentazioni carnali tra i confessori e le penitenti (o i penitenti). Nel 1561 Pio IV emanò una bolla contro i sacerdoti che sollecitavano ad turpia durante la confessione. Nel 1622 Gregorio XV doveva di nuovo intervenire su questo delitto. Ma, per dare un parametro, nel Seicento, nel solo Stato di Venezia, si tennero 78 processi per "sollecitazione" in confessionale. Ancora nel 1745 Benedetto XIV emanò un decreto di lotta a quei confessori che "feriscono i penitenti e danno loro in luogo del pane, una pietra, invece del pesce un serpente". Oggi, la maggior parte degli abusi sessuali su bambini compiuti da sacerdoti - scoperti negli Stati Uniti - parte dai confessionali. Dopo il concilio di Trento, quella "penitenza" che nella Chiesa delle origini era stata un atto unico e irripetibile, diventa una via alla santità: Prospero Lambertini (1675-1758), il futuro papa Benedetto XIV, in un suo trattato sulla beatificazione sostiene che uno dei criteri della santità è l'assiduità, anche quotidiana, alla confessione. Data la nuova, straordinaria importanza che questo sacramento assume per la Chiesa, si fa vivacissimo il dibattito fra teologi, sostanzialmente divisi tra "rigoristi" e "lassisti". Ci furono interminabii polemiche sulla contrizione, l'attrizione, il "probabilismo" (la possibilità di scegliere liberamente il da farsi, quando la legge appaia incerta o dubbia), la "casuistica" (la classificazione dei problemi di coscienza, con diverse soluzioni di caso in caso). I problemi legati alla confessione ebbero

nelle preoccupazioni di allora - mutatis mutandis - un posto paragonabile a quello che oggi occupano, nei media e nell'opinione pubblica, la contraccezione, l'aborto, i diversi tipi di fecondazione artificiale e l'eutanasia. [...] Per il cattolico di un tempo non era irrilevante avere di fronte a sé, nella penombra del confessionale un prete intransigente o uno indulgente. Il suo conforto mentale, la sua vita di relazione, il suo comportamento quotidiano potevano essere modificati dalle pretese di colui che la Chiesa gli destinava come "padre", "medico" e "giudice" contemporaneamente.

Anche se gli effetti non si fecero sentire subito, la fiducia nella confessione venne minata alla base dalla constatazione che il giudizio dei sacerdoti - che rappresenta quello divino - è tanto variabile, e le proibizioni così numerose: un opuscolo del Seicento enumera diversi modi di peccare. Fino al termine del Settecento prevalsero i rigoristi. Dopo - anche in seguito agli sconvolgimenti e alla perdita di fedeli provocati dalla rivoluzione francese - si impose la tolleranza, predicata dal vescovo napoletano Alfonso Maria de' Liguori (1696-1787) nella Theologia moralis e nei suoi manuali per confessori, moderati e concilianti: finirono per soppiantare e ispirare tutti gli altri da quando l'autore fu fatto santo (1839) e dottore della Chiesa (1871). Sant'Alfonso si sforzò, in sostanza, di rendere accettabile l'obbligo della confessione, che non diventasse una tortura temibile da parte di confessori inflessibii. Soprattutto quindi affermò una tendenza gravida di conseguenze per i popoli cattolici: anche se un peccatore ricade frequentemente nello stesso peccato - e quindi sia lecito sospettare della sincerità del suo pentimento - va comunque assolto ogni volta. Nacque, nell'Ottocento, la moda dei confessori celebri, come il curato d'Ars, tanto era sentito il bisogno di confessori più sensibili e capaci di instaurare un dialogo personale. Ma rimase ossessiva, anche nei manuali e nei confessori più miti, l'attenzione ai pericoli della carne. Uno dei più diffusi manuali dell'Ottocento precisa: "È lussuria: i pensieri voluttuosi, i baci, i contatti e gli sguardi impudichi, gli abbigliamenti femminili, le pitture e le sculture che sono indecenti; le danze, i balli e gli spettacoli". Non fu l'ultimo dei motivi che - dopo l'illuminismo e la rivoluzione - provocarono, prima in Francia e poi negli altri paesi, una irreversibile crisi della confessione:

Si videro delle persone che volevano realmente riprendere l'abitudine della messa domenicale e fare di nuovo la Pasqua. Ma erano riluttanti a ritornare al confessionale e, alla fine, si allontanarono dalla Chiesa. Nel XIX secolo prenderà pubblicamente piede una violenta ostilità, soprattutto maschile, nei confronti della confessione. Le si rimprovererà di insinuarsi nell'intimità delle famiglie, di mettere la donna contro l'uomo, la religione contro la politica, la scuola confessionale contro quella laica, la nostalgia per l'Ancien Régime contro il progresso repubblicano. Sarà denunciata come un abuso di potere.

NeI 1905 papa San Pio X decreta che la confessione deve essere frequente, di preferenza una volta alla settimana. Pio XII lo ribadisce nell'encidica Mystici Corporis del 1943, anche per i peccati veniali, e lo stesso fece il Concilio Vaticano II. L'uso della confessione frequente, anche secondo autori cattolici, se "è servito per formare le coscienze e anche per mantenere un alto livello morale in buona parte delle popolazioni cristiane [...] ha portato con sé anche il marchio di un certo individualismo e schematismo che può rendere la confessione un qualcosa di formalistico e di meccanico". In realtà la maggior parte degli stessi cattolici oggi respingono quell'idea di "alto livello morale" applicato quasi soltanto a controllare la sessualità, e rifuggono dalla confessione come strumento di controllo personale e sociale. La confessione oggi è sottoposta, all'interno della Chiesa, a un dibattito intenso quanto la gravità della sua crisi. Per il momento il Vaticano sta prudentemente saggiando la confessione comunitaria che ha origine spontanea e popolare. In Belgio, nel 1947-48, in una comune parrocchia di operai, durante la messa i fedeli - su invito de sacerdote - riflettevano sui propri peccati, se ne pentivano e venivano collettivamente assolti. La pratica si diffuse rapidamente a tutta l'area linguistica francese e poi a tutta la cristianità. Il Concilio Vaticano II ribadì che la confessione auricolare resta l'unica via di remissione dei peccati gravi; contemporaneamente però dava un'indicazione precisa: "Si rivedano il rito e le formule della Penitenza, in modo che esprimano più chiaramente la natura e l'effetto del Sacramento". L'indicazione più importante del concilio fu la riscoperta dell'incidenza sociale del peccato, tanto da invitare i confessori a inculcare nell'animo dei fedeli "le conseguenze del peccato" nella società. Dopo anni di studio, e dopo avere esaminato le sollecitazioni "moderniste" delle varie Chiese nazionali non latine, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede il 19 giugno 1972 promulgò le Norme pastorali circa l'assoluzione sacramentale generale, sulle quali si basa l'attuale confessione. Il primo punto stabilisce che "dev'essere fermamente ritenuta e fedelmente applicata nella prassi la dottrina del Concilio di Trento. [...] La confessione individuale e completa con l'assoluzione resta l'unico mezzo ordinario, grazie al quale i fedeli si riconciliano con Dio e con la Chiesa". Inoltre "coloro ai quali sono rimessi i peccati gravi mediante l'assoluzione in forma collettiva, devono accostarsi alla confessione auricolare prima di ricevere di nuovo una tale assoluzione". Veniva anche confermato l'obbligo di confessarsi "privatamente a un sacerdote, perlomeno una volta l'anno", e veniva ribadito che la confessione auricolare deve essere frequente e incoraggiata anche per i peccati veniali ("i sacerdoti non si permettano di dissuadere i fedeli"...) Il 2 dicembre 1973 veniva promulgato in latino il testo sui nuovo Ordo paenitentiae, che diveniva operativo in Italia il 21 aprile 1974, con la pubblicazione del testo in italiano (Rito della penitenza). Non si parla più di confessione, ma di riconciliazione, per sottolineare che "confessare i peccati" è solo una parte del rito, il cui senso profondo dovrebbe essere pentirsi, quindi "riconciliarsi" con Dio e con la Chiesa; ma, vent'anni dopo, il vecchio nome - e vecchio concetto - prevalgono nel linguaggio della quasi totalità dei fedeli e anche dei sacerdoti. Né è stato recepito lo sforzo di dare alla pratica della confessione una maggiore dignità rituale e di richiamo alla parola di Dio; né le vecchie penitenze in forma di preghiera sono state sostituite, come suggerito, con azioni che riparino il male compiuto. Il nuovo testo conferma che il confessore "impersona l'immagine di Cristo buon pastore" e ammette tre tipi di confessione: a) Quella tradizionale auricolare, che resta l'unica veramente valida a tutti gli effetti. b) Il "Rito per la riconciliazione di più penitenti, con la confessione e l'assoluzione generale", subito adottato da fedeli e sacerdoti con un entusiasmo che alla Conferenza Episcopale Italiana parve eccessivo: tanto che il 30 aprile 1975 si affrettò a pubblicare una nota per ribadire che questa versione è accettabile solo in casi rarissimi, come il pericolo di morte. c) Il "Rito per la riconciliazione di più penitenti, con la confessione e l'assoluzione individuale". In questa "terza via", compromesso tra l'antico e il nuovo, c'è un esame di coscienza generale, poi i singoli fedeli dovrebbero andare dai confessori per l'elencazione dei peccati; ma quasi mai si dispone di sacerdoti in numero adeguato, e inoltre questa pratica esaspera l'impressione della confessione come "assoluzionificio" privo di contenuto. Una soluzione logica, liberatoria e piena di dignità per tutti sarebbe stata quella di lasciare al credente la possibilità di scegliere se confessarsi privatamente o con la confessione comunitaria. Ma le opzioni di coscienza e di libertà non sono una prerogativa della Chiesa. Nel dibattito c'è chi propone di tornare all'antico, cioè di concedere l'assoluzione solo dopo che il fedele ha dimostrato un concreto sforzo di conversione con una vera penitenza. C'è chi sostiene che il sacramento dovrebbe essere soltanto comunitario, e chi vorrebbe una catechesi più approfondita del peccato. C'è chi vorrebbe abolire l'obbligo della confessione prima della comunione, o renderla obbligatoria solo per peccati veramente "mortali", distinti da quelli soltanto "gravi", ma la distinzione è quanto mai complessa. I teologi più avanzati discutono persino la possibilità - remota - di concedere anche ai laici, in certe occasioni e in certi modi, la possibilità di confessare. E, molto opportunamente, c'è chi pensa di spostare la prima confessione dopo la prima comunione, perché si comincia a recepire, dagli studi della moderna psicologia, che un bambino di sette-otto anni non può afferrare il senso cristiano del peccato. È comunque iniziato un percorso che, in tempi prevedibilmente lunghi, porterà forse a una trasformazione della confessione in uso da otto secoli.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 20:58

Rivelazioni clamorose sulla storia della Chiesa tratte dal Concilio Vaticano I (dicembre 1869 – luglio 1870):

Il Concilio Vaticano I (dicembre 1869 – luglio 1870), si tenne nella basilica di S. Pietro a Roma.
Nel corso dei lavori si sancì il dogma dell’infallibilità del pontefice in materia di fede e di costume.
Uno degli atti rilevanti del pontificato di Pio IX fu la convocazione di questo Concilio Vaticano I che sancì questo importante dogma.
Indetto con la lettera apostolica Aeterni Patris ed aperto solennemente in Roma nel dicembre 1869, si chiuse nel luglio dell’anno successivo, due mesi prima della breccia di porta Pia;
l’aula conciliare, nella basilica di San Pietro, fu la navata destra della croce; assistettero circa settecento padri, segretario e coordinatore fu l’insigne canonista tedesco monsignor Fessler.

Il dogma non passò senza contrasti.

Il vescovo di Orlèans:
in una lettera pastorale, scriveva:
"Ho letto e riletto il grande Catechismo
composto per ordine del Concilio di Trento e dei sovrani pontefici dai più reputati teologi romani,
con l’intenzione di cercare se parli, o no, dell’infallibilità del papa ed ho constatato che non ne fa parola".


(Francesco Serantini)

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Discorso di un Vescovo nel Concilio ecumenico Vaticano I.
(discorso pronunciato dal vescovo Georg Joseph Strossmayer)

[Bibliografia:]
Papa e Vangelo - Discorso di un Vescovo nel Concilio Vaticano.
Firenze, Tipografia Nazionale di V. Sodi, 1870.


AVVERTENZA:
Essendoci stato trasmesso da Roma il discorso tenuto da un Vescovo nel Concilio ecumenico Vaticano,
abbiamo stimato utile pubblicarlo, parendoci altamente meritevole di essere conosciuto, comecchè contenente sì splendide verità, che niuno può certo combattere, o porre in dubbio.
Gli Editori



Discorso di un Vescovo
nel Concilio ecumenico Vaticano I


tratto dal sito Sentieri Antichi



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"Venerabili Padri e Fratelli.

Non è che tremando, ma con la coscienza libera e tranquilla davanti a Dio che vive e mi vede, che prendo la parola in mezzo di voi, in questa augusta assemblea.
Da che seggo qui con voi, ho con attenzione seguiti i vostri discorsi che si son fatti in quest'aula, sperando con vivo desiderio che un raggio di luce, scendendo dall'alto, illuminasse gli occhi del mio intendimento, e mi permettesse votare i canoni di questo santo concilio ecumenico, con perfetta cognizione di causa.
Penetrato della parte di responsabilità, di cui Dio mi chiederà conto, mi sono dato a studiare con la più seria attenzione gli scritti dell'antico e Nuovo Testamento, ed ho domandato a questi venerabili monumenti della verità, di farmi conoscere se il santo Pontefice che ci presiede è veramente il successore di S. Pietro, Vicario di G. C. e dottore infallibile della Chiesa.
Per risolvere questa grave questione, ho dovuto far tavola rasa dello stato attuale delle cose, e trasportarmi con la mente, con in mano la fiaccola evangelica, nel tempo in cui non si conosceva né ultramontanismo né gallicismo, e in cui la chiesa aveva per dottori san Paolo, san Pietro, san Giacomo, san Giovanni, dottori ai quali non potremmo negare la divina autorità, senza mettere in dubbio quello che c'insegna la SANTA BIBBIA, che è qui davanti a me, e che il Concilio di Trento ha proclamata regola della fede e dei costumi.

Ho dunque aperte queste sacre pagine ... Ebbene! ardirò dirlo? io nulla vi ho trovato che legittimi né da vicino né da lontano l'opinione degli oltramontani.
Di più, con mia gran meraviglia, non si fa questione, nei giorni apostolici, né di un papa, successore di san Pietro e vicario di G. Cristo, come di Maometto, che ancora non esisteva.
Voi, Monsignor Manning, direte che io bestemmio; voi Monsignor Pie, che son fuori di senno;
no, io non bestemmio, non son fuori di senno, Monsignori;
ora, a meno che non abbia letto tutto intiero il Nuovo Testamento, dichiaro davanti a Dio, la mano alzata verso questo gran crocifisso, che non vi ho trovata traccia alcuna del papato, come esiste attualmente.
Non mi recusate, venerabili fratelli, la vostra attenzione, e con i vostri mormorii e interruzioni non giustificate coloro che dicono, come il padre Giacinto, che questo Concilio non è libero, e che i nostri voti ci sono stati in precedenza imposti.
Dopo ciò, questa augusta assemblea, sulla quale son rivolti gli occhi del mondo intiero, cadrebbe nel più vergognoso disprezzo. Se vogliamo farla grande, siamo liberi.
Ringrazio S. E. Mons. Dupanloup del suo segno d'approvazione che fa con la testa; ciò mi dà coraggio e continuo.
Leggendo adunque con quella attenzione, di cui il Signore mi ha fatto capace, i sacri libri, non vi ho trovato un sol capitolo, un sol versetto, nel quale G. Cristo commetta a S. Pietro di ammaestrare gli apostoli, suoi compagni d'opera.
Se Simone, figlio di Giona, fosse stato quello che noi crediamo esser oggi S. S. Pio IX, fa meraviglia come non abbia detto loro: Quando sarò salito presso mio Padre, voi tutti obbedirete a Simon Pietro, come obbedite a me; io lo stabilisco mio vicario sulla terra.
Né solamente Cristo su questo punto, ma ancora pensa sì poco a dare un capo alla Chiesa, che quando promette dei troni a' suoi apostoli, per giudicare le dodici tribù di Israele, (Matt. XIX 28) glie ne promette dodici, uno per ciascuno, senza dire che fra questi troni, ve ne sarà uno più alto degli altri, che spetterà a Pietro.
Certamente, se avesse voluto che fosse così, lo avrebbe detto: che cosa concludere dal suo silenzio?
La logica lo dice: che Cristo non ha voluto fare di S. Pietro il capo del collegio apostolico.

Quando Cristo manda gli apostoli alla conquista del mondo, a tutti ugualmente dà il potere di sciogliere e legare: a tutti fa la promessa dello Spirito Santo.
Permettetemi che lo ripeta: se avesse voluto costituire Pietro suo vicario, gli avrebbe dato il comando in capo della sua milizia spirituale.
Cristo, lo dice la S. Scrittura, proibisce a Pietro ed ai suoi colleghi di regnare, signoreggiare e aver potestà sui fedeli, siccome usano i re delle genti (Luca XXII 25).
Se S. Pietro fosse stato eletto papa, Gesù non avrebbe parlato così, imperocché, secondo le nostre tradizioni, il papato tiene nelle sue mani due spade, simbolo del potere spirituale e temporale.

Un fatto mi ha vivamente maravigliato:
constatandolo, diceva a me stesso: Se Pietro fosse stato eletto papa, i suoi colleghi si sarebbero permessi di mandarlo con S. Giovanni in Samaria, per annunziarvi l'Evangelo del figlio di Dio? (Atti VIII, 14).

Che pensereste, venerabili fratelli, se in questo momento noi ci permettessimo deputare S. S. Pio IX e S. E. Monsignor Plantier a recarsi dal patriarca di Costantinopoli, per impegnarlo a far cessare lo scisma orientale?
Ma ecco un altro fatto più importante.
Un concilio ecumenico è riunito a Gerusalemme,
per decidere sulle questioni che dividono i fedeli. Chi avrebbe convocato quel concilio, se S. Pietro fosse stato papa? S. Pietro: chi lo avrebbe presieduto? S. Pietro o i suoi legati; chi ne avrebbe formulati e promulgati i canoni? S. Pietro: Ebbene! Nulla di tutto questo avviene.
L'apostolo assiste al concilio, come tutti gli altri suoi colleghi: non è lui che ne prende le conclusioni, ma S. Giacomo, e quando se ne promulgano i decreti, è a nome degli apostoli, degli anziani e dei fratelli. (Atti XV.)
È Così che facciam noi nella nostra chiesa? Più che mi addentro, o venerabili fratelli, nel mio esame, più mi convinco che nella Santa Scrittura non apparisce primato nel figliuolo di Giona: ora, mentre che noi insegnamo che la Chiesa è fabbricata sopra S. Pietro, S. Paolo, la cui autorità non può esser messa in dubbio, ci dice nella sua lettera agli Efesi (II, 20) essere edificata sopra il fondamento degli apostoli e de' profeti, essendo G. C. stesso la pietra del capo del cantone.
E il medesimo apostolo crede così poco alla supremazia di san Pietro, che biasima apertamente quelli che dicono: Noi siamo di Paolo, noi siamo d'Apollo, (Corinti I, 12) come quelli che direbbero: noi siamo di Pietro. Se dunque quest'ultimo apostolo fosse stato vicario di G. Cristo, S. Paolo si sarebbe guardato bene di censurare così violentemente quelli che si attenevano al suo collega.
Lo stesso apostolo Paolo, enumerando le cariche della Chiesa, rammenta gli Apostoli, i Profeti, gli Evangelisti, i Dottori, i Pastori.
È egli credibile, venerabili fratelli, che S. Paolo, il gran dottore delle genti, avesse dimenticata la prima delle cariche, il papato, se il papato fosse stato d'istituzione divina?
Questa dimenticanza non mi è sembrata possibile, come sarebbe quella di uno storico di questo concilio, che non dicesse una parola di S. Santità Pio Nono.

(Alcune voci: Silenzio, eretico, silenzio!)

Moderatevi, venerabili fratelli, non ho ancora detto tutto; impedendomi di continuare, mostrereste al mondo di aver torto e di aver chiusa la bocca al più piccolo membro di quest'assemblea.

Continuo.

L'apostolo Paolo, in alcuna delle sue lettere dirette alle varie chiese, non fa menzione del primato di Pietro.
Se questo primato fosse esistito, se in una parola, la Chiesa avesse avuto nel suo seno un capo supremo, infallibile nello insegnare il gran dottore delle genti avrebb'egli dimenticato di tenerne parola? Che dico io? Avrebbe scritta una lunga lettera su questo importante e capitale subietto. Allora quando, com'egli ha fatto, si erige l'edifizio della dommatica cristiana, può dimenticarsi il fondamento, la chiave della volta? Ora, a meno che non si ritenga per eretica la chiesa apostolica, ciò che noi non vorremo né oseremo dire, siamo costretti a convenire che la Chiesa non è mai stata né più bella, né più pura, né più santa, come nei giorni, nei quali non aveva il papa.

(Voci: Non è vero. Non è vero.)

Monsignore de Laval non dica no, poiché se alcuno di voi, venerabili fratelli, ardisse pensare che la Chiesa che ha oggi un papa per capo, è più ferma nella fede, più pura nei costumi della Chiesa Apostolica, lo dica apertamente in faccia all'Universo, imperocché questo è il centro, da cui le nostre parole volano da un polo all'altro. Proseguo.
Non negli scritti di S. Paolo, né in quelli di S. Giovanni, o di S. Giacomo, ho trovato traccia o germe del potere papale. S. Luca, lo storico dei lavori missionari degli apostoli, tace su questo punto capitale.
Il silenzio di questi santi uomini, i cui scritti fan parte del canone delle Scritture divinamente ispirate, mi è parso aggravante, e impossibile, se Pietro fosse stato papa, come non sarebbe giustificabile quello di Thiers se omettesse nella storia di Napoleone Bonaparte il titolo d’imperatore.
Sento là, davanti a me, un membro dell'assemblea che dice, mostrandomi a dito: È un vescovo scismatico, introdottosi fra noi sotto falso nome.
No, no, venerabili fratelli, io non sono entrato in questa augusta assemblea, come un ladro per la finestra; ma sibbene dalla porta come voi: il mio titolo di vescovo me ne dava il diritto, come la mi coscienza di cristiano m'impone parlare e dire quello che credo esser vero.
Ciò che mi ha maggiormente stupito, e più di quello che potrei dimostrare, è il silenzio di S. Pietro.
Se l'apostolo fosse stato quello che noi proclamiamo essere, cioè il vicario di G. Cristo sulla terra, egli avrebbe dovuto saperlo:
se lo ha saputo, come mai neppure una volta, una volta sola non ha fatto da papa?

Avrebbe potuto farlo il giorno della Pentecoste, quando pronunziò il suo primo discorso, e non lo fece: al concilio di Gerusalemme, e non lo fece: ad Antiochia, e non lo fece: nelle due lettere dirette alla chiesa, e non lo fece: immaginate voi un tal papa, venerabili fratelli, se S. Pietro fosse stato papa?
Se dunque vuolsi sostenere che egli è stato papa, ne nasce la naturale conseguenza che bisogna del pari sostenere che non ha saputo di esserlo; ora io domando a chiunque ha testa che pensa e mente per riflettere, sono possibili queste due supposizioni?

Riassumendo, dico: Mentre vivevano gli apostoli, la Chiesa non ha mai pensato che potesse esservi un papa: per sostenere il contrario, bisognerebbe dare alle fiamme gli scritti sacri, o ignorarli affatto.
Sento da tutte le parti dire: ma S. Pietro non è stato a Roma? Non vi è stato crocifisso col capo all'ingiù? La sedia sulla quale insegnava e l'altare su cui diceva la messa, non sono in questa città eterna?
La dimora di S. Pietro a Roma, venerabili fratelli, non ha altra prova che la tradizione: ma se egli fosse stato vescovo di Roma, che forse dal suo vescovato in questa città, potrà trarsi e concludere per la sua supremazia? Un dotto di primo ordine, lo Scaligero, non ha esitato dire, che il vescovato e la dimora di S. Pietro a Roma debbono essere posti fra le ridicole leggende. (Grida ripetute: Toglietegli la parola, toglietegli la parola! Discenda dall'ambone!)
Venerabili fratelli, son pronto a tacermi, ma non è egli più conveniente in un assemblea, quale è la nostra, esaminar tutto, siccome lo comanda l'apostolo e credere ciò ch'è buono? Ma, venerabili, noi abbiamo un dittatore, davanti al quale tutti dobbiamo prostrarci e tacere, anche Sua Santità Pio IX e abbassare la testa. Questo dittatore è la storia.
Essa non è come la leggenda, di cui si è fatto quello, che il vasellaio fa dell'argilla: è il diamante che incide sul vetro parole incancellabili. Finora non mi sono appoggiato che su lei, e se non ho trovato traccia del papato nei giorni apostolici, mia non è la colpa, ma sua. Volete mettermi in stato di accusa per delitto di falso? Padroni di farlo.
Mi giungono dalla destra queste parole: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa. Matt. XVI.
Fra poco, venerabili fratelli, risponderò a questo obietto: ma prima di farlo, debbo presentarvi il resultamento delle mie ricerche storiche.
Non trovando traccia del papato nei giorni apostolici, ho detto fra me: Troverai quello che cerchi negli annali della Chiesa. Ebbene! lo dirò francamente: ho cercato un papa nei primi quattro secoli e non l'ho trovato.
Nessuno di voi, spero, vorrà contestare la grande autorità del santo vescovo d'Ippona, il grande e beato s. Agostino. Questo pio dottore, onore e gloria della Chiesa cattolica, era segretario nel concilio Melivetano. Nei decreti di quella venerabile assemblea si leggono queste significanti parole: Chiunque vorrà appellare AL DI LA' DEL MARE, non sia ricevuto da alcuno, in Affrica, alla comunione.
I vescovi d'Affrica riconoscevano sì poco la supremazia del vescovo di Roma, che colpivano di scomunica coloro che a lui ricorressero in appello.
Questi medesimi vescovi, nel sesto concilio di Cartagine, tenuto sotto Aurelio, vescovo di quella città scrissero a Celestino vescovo di Roma, avvertendolo che non ricevesse appelli dei vescovi, preti e chierici d'Affrica: che non mandasse più legati, né commissari, e che non introducesse l'orgoglio umano nella Chiesa.
Che il patriarca di Roma abbia pensato fino dai primi tempi a trarre a sè tutta l'autorità, è un fatto evidente: ma è fatto del pari indubitato che egli non aveva la supremazia, che gli oltramontani gli attribuiscono: se l'avesse avuta, i vescovi d'Affrica, S. Agostino il primo, avrebbero ardito proibire di appellare dai loro decreti al suo tribunale supremo?
Confesso senza difficoltà che il partriarcato di Roma teneva il primo posto: una legge di Giustiniano dice "Ordiniamo, dietro la definizione dei quattro concilii, che il santissimo papa della vecchia Roma sia il primo dei vescovi, e che l'altissimo arcivescovo di Costantinopoli, che è la nuova Roma, sia il secondo."
Inchinati dunque alla supremazia del papa, mi direte.
Non siate si corrivi a questa conclusione, venerabili fratelli, imperciocché la legge di Giustiniano ha scritto in fronte "dell'ordine delle sedute dei pariarchi" Altra cosa dunque è la precedenza, altra il potere di giurisdizione: così, per esempio, supponiamo che in Firenze fosse una riunione di tutti i vescovi del regno: la precedenza sarebbe data al primate di Firenze, come presso gli orientali è accordata al Patriarca di Costantinopoli, e in Inghilterra all'arcivescovo di Cantorbery. Ma né il primo, né il secondo, né il terzo potrebbero dedurre dal posto che sarebbe loro assegnato, una giurisdizione sui loro colleghi.
La importanza dei vescovi di Roma proveniva, non da un potere divino, ma dalla considerazione della città, in cui avevano la loro sede. Monsignor Darboy non è superiore in dignità all'arcivescovo di Avignone: non per tanto, Parigi gli dà una considerazione che non avrebbe, se in vece di avere il suo palazzo sulle rive della Senna, lo avesse su quelle del Rodano. Quel che è vero nell'ordine religioso, lo è pure nel civile e politico: il prefetto di Firenze non è più prefetto di quello di Pisa: ma civilmente e politicamente ha una maggiore importanza.
Ho detto che il patriarca di Roma aspirò fino dai primi secoli al governo universale della chiesa. Sventuratamente vi giunse in appresso: ma certamente non lo aveva allora poiché, non ostante le sue pretese, l'imperatore Teodosio II. fece una legge con la quale stabilì che il patriarca di Costantinopoli aveva la medesima autorità , che quello di Roma. Leg. Cod. de Scr. ecc.
I padri del concilio di Calcedonia posero il vescovo della antica e nuova Roma al medesimo ordine in tutte le cose, anche nelle ecclesiastiche. Can. 28.
Il sesto concilio di Cartagine proibì ai vescovi tutti di prendere il titolo di principe dei vescovi, o di vescovo sovrano.
Quanto al titolo di vescovo universale, che i papi presero più tardi, S. Gregorio I, credendo che i suoi successori non se ne sarebbero mai fregiati, scrisse queste notevoli parole: "Nessuno de’ miei predecessori ha consentito di prendere questo nome profano, imperocché quando un patriarca si dà il nome di universale, il titolo di patriarca ne soffre di discredito. Lungi dunque dal cristiano il desiderio di darsi un titolo che lo discredita fra i suoi fratelli!"
Le parole di S. Gregorio sono dirette al suo collega di Costantinopoli, che pretendeva al primato nella chiesa. Il papa Pelagio II chiama Giovanni, vescovo di Costantinopoli, che aspirava al pontificato massimo, empio, e profano "Non vi curate, egli dice del titolo di universale, che Giovanni usurpò illegalmente: che nessuno dei patriarchi prenda questo nome profano: imperocché, quale sventura non dovremo aspettarci, se fra i preti sorgono tali elementi? Si avvererebbe quello che è stato predetto. – È il re dei figli dell’orgoglio. (Pelagio II. lett. 13)"
Queste autorità, e ne avrei cento altre di ugual valore, non provano esse, con chiarezza pari allo splendore del sole a mezzogiorno, che i primi vescovi di Roma non sono stati che molto tardi riconosciuti per vescovi universali e capi della chiesa?
E d’altra parte, chi non sa come dall’anno 225, in cui si tenne il I concilio di Nicea, fino al 580 in cui si tenne il secondo ecumenico di Costantinopoli, sopra 1109 vescovi che assisterono ai sei primi concilii generali, non vi furono presenti che 19 vescovi occidentali?
Chi non sa che i concili erano convocati dagli imperatori, senza prevenire, e qualche volta contro la volontà del vescovo di Roma?
Che Osio vescovo di Cordova, presiedè il primo concilio di Nicea e ne redigè i canoni?
Lo stesso Osio presiedè di poi il concilio di Sardica, escludendone i legati di Giulio vescovo di Roma: non insisto di più, venerabili fratelli, e vengo a parlare del grande argomento, che ponete innanzi, per istabilire il primato del vescovo di Roma.
Per la pietra, sulla quale la Santa Chiesa è fabbricata, voi intendete Pietro. Se fosse vero, la disputa sarebbe terminata: ma i nostri antenati, e certamente sapevano qualche cosa, non la pensavano come noi.
S. Cirillo, nel suo quarto libro sulla Trinità, dice "Io credo che per la "pietra", bisogna intendere la incrollabile fede dell’apostolo".
S. Ilario, vescovo di Poitiers, nel suo secondo libro sulla Trinità dice "La pietra (petra), è la beata ed unica pietra della fede confessata per bocca di S. Pietro: ed è, dice nel sesto libro della Trinità, su questa pietra della confessione, che la chiesa è edificata.
"Dio, dice S. Girolamo, nel 6° libro di S. Matteo, ha fondato la sua chiesa su questa pietra ed è su questa pietra che l’apostolo Pietro è stato nominato."
Dopo lui, S. Grisostomo dice, nella sua 53 omelia sopra S. Matteo".
Su questa pietra edificherò la mia chiesa, cioè sulla fede della confessione: or qual era la confessione dell’apostolo? Eccola "Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivente."
Ambrogio, il santo arcivescovo di Milano, nel secondo capitolo agli Efesi, S. Basilio di Seleucia, ed i padri del Concilio di Calcedonia insegnano esattamente la medesima cosa.

Di tutti i dottori della antichità cristiana, S. Agostino è quello, che occupa uno dei primi posti nella Chiesa, per la scienza e santità.
Ascoltate dunque ciò ch’egli scrive nel suo secondo trattato sulla prima lettera di S. Giovanni. "Che cosa vogliono dire le parole. "Io edificherò la mia chiesa su questa pietra? Su questa fede, su quello che è detto. Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivente."
Nel suo 124° trattato sopra S. Giovanni, troviamo questa significantissima frase "Sopra questa pietra che tu hai confessato, io edificherò la mia chiesa, imperocché Cristo era la pietra."
Il gran vescovo credeva tanto poco che la chiesa fosse fabbricata su S. Pietro, che diceva a’ suoi fedeli nel suo 13 sermone. "Tu sei Pietro e su questa pietra che tu hai confessato, su questa pietra, che tu hai conosciuto dicendo – Tu sei Cristo, il figlio di Dio vivente – io edificherò la mia chiesa sopra me stesso, che sono il figlio di Dio vivente: io la edificherò su ME, E NON ME SU TE."
Quello che S. Agostino pensava sopra questo celebre passo, era la opinione di tutta la cristianità del suo tempo.
Dunque riassumendo, stabilisco:

1° Che Gesù ha dato agli apostoli il medesimo potere che a san Pietro;

2° Che gli apostoli non hanno mai riconosciuto in S. Pietro il vicario di Gesù Cristo e il dottore infallibile della chiesa;

3° Che S. Pietro non ha mai pensato di essere papa, e non ha mai fatto da papa;

4° Che i concilii dei quattro primi secoli, mentre riconoscevano l’alto posto, che il vescovo di Roma occupava nella Chiesa, appunto per cagione di Roma, non gli hanno accordato che una preminenza d’onore, mai un potere, né una giurisdizione;

5° Che i SS. Padri nel famoso passo "Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa" non hanno mai inteso che la Chiesa fosse edificata su Pietro (super Petrum), ma sulla pietra (super petram), cioè sulla confessione della fede dell’apostolo.


Concluderò vittoriosamente con la storia, con la ragione, con la logica, col buon senso e con la coscienza cristiana, che
Gesù Cristo non ha conferito alcuna supremazia a S. Pietro,
e che i vescovi di Roma non son divenuti sovrani della Chiesa, se non che confiscando ad uno ad uno tutti i diritti dell’episcopato.


(voci: Taccia lo sfacciato protestante, taccia!)

Io sono uno sfacciato protestante!… Nò, mille volte no!
La storia non è né cattolica, né anglicana, né calvinista, né luterana, né armena, né greca scismatica, né oltramontana:
ella è quello che è, cioè qualche cosa di più forte di tutte le confessioni di fede dei canoni dei concilii ecumenici.
Scrivete in falso contro di lei, se lo ardite: ma voi non potete distruggerla,
come un mattone tolto dal Colosseo non lo farebbe cadere.
Se ho detto qualche cosa che la storia dimostri in contrario, mi si faccia conoscere con la storia,
e senza esitare un momento, farò onorevole ammenda:
ma siate pazienti e vedrete che non ho detto tutto ciò che io voleva e doveva:
quando anche il rogo mi attendesse sulla piazza di S. Pietro, io non debbo tacere e mi è obbligo continuare.

Monsignor Dupanloup, nelle sue celebri Osservazioni su questo concilio del Vaticano, ha detto e con ragione, che se noi dichiariamo Pio IX infallibile, siamo per necessaria e naturale logica obbligati a ritenere infallibili tutti i suoi antecessori.
Or bene! Venerabili fratelli,
ecco la storia che alza la sua voce autorevole, per assicurarvi che alcuni papi hanno errato:
avete un bel protestare, un negare, io vi dirò con quella:

* Papa Vittore (192) approvò il montanismo, poi lo condannò.
* Marcellino(296, 303) fu idolatra, entrò nel tempio di Vesta e offrì incensi alla dea. Voi direte fu un atto di debolezza: ma io risponderò: un Vicario di Gesù Cristo muore ma non diviene apostata.
* Liberio (358) consentì alla condanna di Anatasio e fece professione di Arianismo, per esser richiamato dall’esilio e reintegrato nel suo seggio.
* Onorio (625) aderì al monotelismo: il padre Gratry lo ha alla evidenza dimostrato.
* Gregorio I (578-90) chiama anticristo colui, che prende il nome di Vescovo universale, e al contrario Bonifazio III. (607-8) si fa conferire questo titolo dal parricida imperatore Foca.
* Pasquale II. (1088-1099) ed Eugenio III. (1145 - 1153) autorizzato il duello: Giulio II. (1509) e Pio IV. (1560) lo proibiscono.
* Eugenio IV. (1431-39) approva il Concilio di Basilea e la restituzione del calice alle chiese di Boemia: Pio II. (1658) revoca la concessione.
* Adriano II. (867-872) dichiara valido il matrimonio civile, Pio VII. (1800-23) lo condanna. Sisto V. (1585-1590) pubblica un edizione della Bibbia e ne raccomanda la lettura con una Bolla: Pio VII. ne condanna la lettura.
* Clemente XIV (1700-21) abolisce l’Ordine dei Gesuiti, permesso da Paolo III: Pio VII. lo ristabilisce.


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Ma perché cercare delle prove così remote? Il nostro santo padre Pio IX, qui presente, nella sua bolla che dà le norme per il concilio, nel caso in cui egli morisse, mentre è aperto, non ha revocato tutto quello che in passato gli sarebbe cotrario, anche quando provenisse da decisioni de’ suoi predecessori?
E certamente se Pio IX ha parlato ex cathedra, non è quando dal fondo del suo sepolcro impone le sue volontà ai sovrani della Chiesa.

Non terminerei più, Venerabili fratelli, se ponessi davanti ai vostri occhi le contradizioni dei papi nei loro insegnamenti.

Se voi dunque proclamate la infallibilità del papa attuale, bisognerà forzatamente, o che voi proviate ciò che è impossibile, che i papi non si sono contradetti, oppure che dichiariate che lo Spirito Santo vi ha rivelato che la infallibilità papale non data che dal 1870.
Avrete voi tanto ardimento?

I popoli passeranno indifferenti forse accanto a questioni teologiche,
delle quali non intendono e non sentono la importanza:
ma per quanto sieno indifferenti ai principii, non lo sono punto pei fatti.
Ora non v’illudete! se decretate il dogma della infallibilità papale, i protestanti, nostri avversari, monteranno sulla breccia tanto più arditi, in quanto che avranno contro di noi e in loro favore, la storia, mentre noi non avremo contro loro, che le nostre negative.


Che cosa diremo loro quando faranno marciare davanti al pubblico i vescovi di Roma da Luca a sua santità Pio Nono?
Ah! se tutti fossero stati come Pio IX, noi trionferemmo su tutta la linea; ma ohimè! non è così...

(Grida: silenzio, silenzio! basta, basta!)

Non gridate, Monsignori!
Temere la storia è darsi per vinti: e d’altronde, se faceste passare sopra di lei le acque del Tevere, non ne cancellereste una pagina.

Lasciatemi parlare e sarò breve, per quanto il comporta questo importante subietto.
Il papa Vigilio (538) comprò il papato da Belisario, luogotenente dell’imperatore Giustiniano: è vero che, rompendo la promessa, pagò nulla.
È egli canonico questo mezzo di cingere la tiara?
Il secondo Concilio di Calcedonia l’aveva formalmente condannato.
In uno dei suoi canoni si legge "che il vescovo, il quale ottiene il vescovato per danari, lo perda e sia degradato".


Il papa Eugenio IV. (1145) imitò Vigilio. San Bernardo, fulgida stella del suo secolo, rimproverò il papa dicendogli: "Potresti indicarmi alcuno in questa gran città di Roma, che ti abbia ricevuto per papa, senza che abbia ricevuto oro od argento?"
Un papa, Venerabili fratelli, che erige banco alle porte del tempio, sarà egli inspirato dallo Spirito Santo? Avrà diritto d’insegnare infallibilmente alla Chiesa?

Conoscete pur troppo la storia di Formoso, perché io la renda più grave.
Stefano XI. fece disseppellire il suo corpo, vestirlo di abiti pontificali, e tagliategli le dita, con le quali dava la benedizione lo fece gettare nel Tevere, e lo dichiarò spergiuro e illegittimo.
Egli poi fu dal popolo imprigionato, avvelenato e strangolato: ma vedete il giusto rimetter delle cose: Romano, successore di Stefano e dopo lui, Giovanni X, riabilitarono la memoria di Formoso.

Ma direte, queste son favole, non storia. Favole!
andate Monsignori, andate alla biblioteca vaticana, e leggete il Platina, lo storico del papato e gli annali del Baronio (anno 897).

Vi sono dei fatti che vorremmo cancellare, per l’onore della santa Sede;
ma quando si tratta di definire un domma, che può provocare un gran scisma in mezzo di noi, l’amore che portiamo alla nostra venerabile madre Chiesa cattolica, apostolica e romana, c’impone silenzio
– Aggiungo.

Il dotto Cardinale Baronio, parlando della corte papale, dice (prestate attenzione Venerabili fratelli, a queste parole)
"Qual era in quel tempo la faccia della Chiesa romana, e come obbrobriosa, non dominando a Roma che onnipossenti cortigiane?
Esse erano quelle che davano, permutavano, toglievano vescovati, e orribil cosa a credersi, i loro amanti, i falsi papi, venivan posti sul trono di san Pietro.
(Baronio anno 912)."
Quelli erano falsi papi, non veri, si replica:
e sia pure: ma in tal caso, Venerabili fratelli, se per cinquanta anni la sede di Roma non è stata occupata che da antipapi, come troverete voi il filo della successione pontificale?

La chiesa ha Ella potuto fare a meno per un secolo e mezzo del suo capo, e trovarsi acefala?
Vedete! La maggior parte di questi antipapi figurano nell’albero genealogico del papato, e certamente bisognava bene che fossero tali, quali Baronio li dipinge, perché Genebrardo, il grande adulatore dei papi, abbia osato dire nelle sue cronache (anno 901).
"Questo secolo è sventurato, imperocché per 150 anni circa, i papi sono del tutto decaduti dalle virtù dei loro antecessori, essendo piuttosto apostati, che apostolici."
Capisco come l’illustre Baronio abbia dovuto, narrando questi fatti dei vescovi di Roma, sentirsi arrossire il volto.

Parlando di Giovanni XI. (931) , bastardo di papa Sergio e di Marozia, quegli scriveva queste parole nei suoi annali. "La santa Chiesa, cioè la romana, ha dovuto vilmente esser calpestata da un tal mostro".
Giovanni XII (946) eletto papa a 18 anni per influenza di cortigiane, non era punto meglio del suo antecessore.

Deploro, Venerabili fratelli, di agitare tanto laidume:
mi taccio di Alessandro VI., padre e amante di Lucrezia:

trasvolo su Giovanni XXII. (1316),
che negava l’immortalità dell’anima e fu deposto dal santo concilio ecumenico di Costanza.


Alcuni asseriscono che questo concilio non fosse che un concilio particolare.
E sia pure: ma se gli ricusate ogni autorità, per essere logicamente conseguenti,
bisogna tenere per illegale la nomina di Martino V. (1417). Che cosa avverrà allora della successione papale?
Potrete voi trovarne il bandolo?

Non parlo degli scismi che hanno disonorato la chiesa.
In codesti sventurati giorni, la sede di Roma era occupata da due, e qualche volta da tre competitori: quale di questi era il vero papa?
Riassumendomi dico, se voi decretate la infallibilità dell’attuale vescovo di Roma, vi abbisognerà stabilire la infallibilità di tutti i precedenti, senza escluderne alcuno:
ma lo potrete voi, quando la storia è là, che stabilisce con chiarezza eguale a quella del sole, che i papi hanno errato nei loro insegnamenti?
Lo potrete voi, sostenendo che dei papi avari, incestuosi, omicidi, simoniaci sono stati vicari di Gesù Cristo?
Oh! Venerabili fratelli,
sostenere tale enormità, sarebbe tradire Cristo peggio di Giuda:
sarebbe gettargli del fango nel volto.

(Grida: Giù dal pulpito! zitto, silenzio l’eretico!)

Venerabili fratelli, voi gridate:
ma non sarebbe cosa più dignitosa pesare le mie ragioni e le mie prove sulla bilancia del santuario?
Credetemi, la storia non si rifà: ella è là e lo sarà in eterno per protestare energicamente contro il domma della infallibilità papale.
Voi lo ploclamerete all’unanimità, ma meno un voto, il mio!

I veri fedeli, Monsignori, hanno gli occhi su noi, attendono da noi il rimedio agl’innumerevoli mali che disonorano la Chiesa:
gl’inganneremo nelle loro speranze?
Qual non sarebbe innanzi a Dio la nostra responsabilità, se ci lasciassimo fuggire questa solenne occasione che Dio ci ha data, per render salda la vera fede?
Afferriamola, fratelli; armiamoci di un santo coraggio;
facciamo un violento e generoso sforzo; torniamo agl’insegnamenti apostolici:
imperocché, fuori di questi, non abbiamo che errori, tenebre e false tradizioni.
Valghiamoci della nostra ragione e della nostra intelligenza, per avere gli apostoli e profeti a nostri soli maestri infallibili, intorno alla domanda per eccellenza "che mi convien fare per essere salvato?" Ciò deciso, noi avremo posta la base della nostra dommatica.

Fermi ed immobili sulla roccia stabile e incrollabile della Santa Scrittura, divinamente inspirata, fiduciosi andremo innanzi al secolo, e come l’apostolo Paolo, in presenza dei liberi pensatori, non vorremo saper altro che G. Cristo, e Gesù Cristo crocifisso:
lo conquisteremo con la predicazione della follìa della croce, come Paolo conquistò i retori di Grecia e di Roma, e la Chiesa romana avrà il suo glorioso 89.

– (Grida clamorose – Abbasso, fuori il protestante, il calvinista, il traditore della chiesa!)

Le vostre grida, Monsignori, non mi spaventano:
se il mio dire è caldo, la testa è fredda: io non sono né di Lutero né di Calvino, né di Paolo, né di Apollo, ma di Cristo.

– (Nuove grida – Anatema, Anatema all’apostata!)

Anatema! Monsignori, Anatema!
voi sapete bene che non protestate contro di me, ma contro i santi apostoli, sotto la cui protezione vorrei che questo concilio ponesse la Chiesa.
Ah! se coperti dei loro sudarii, uscissero dalle loro tombe, vi parlerebbero essi un linguaggio differente dal mio?
Che cosa direste loro, quando coi loro scritti vi dicessero che il papato ha deviato dal Vangelo del figlio di Dio, che essi con tanto coraggio hanno predicato e confermato col loro generoso sangue?
Ardireste dir loro: Noi preferiamo ai vostri insegnamenti quelli dei nostri papi, dei nostri Bellarmino, e Ignazio di Loiola?
Nò, nò, mille volte nò, a meno che non abbiate chiuse le orecchie per non udire, gli occhi bendati per non vedere, la intelligenza ottusa per non intendere.
Ah! se colui che regna nei cieli vuole aggravare su noi la sua mano, siccome fece su Faraone,
non ha bisogno di permettere ai soldati di Garibaldi di scacciarci dalla città eterna,
non ha che lasciar fare di Pio IX un Dio,
come abbiamo fatto della Beata Vergine una dea.


Fermatevi fermatevi, Venerabili fratelli,
sul pendio odioso e ridicolo, su cui vi siete posti.
Salvate la Chiesa dal naufragio che la minaccia, domandando alle sole sante scritture la regola di fede, che dobbiamo credere e professare.
Ho detto.
Dio mi aiuti! "


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Queste ultime parole furono ricevute con i più plateali segni di disapprovazione.
Tutti i padri si alzarono; molti uscirono dalla sala;
ma un buon numero di Italiani, Americani, Tedeschi, e un piccol drappello di Francesi ed Inglesi circondarono il coraggioso oratore, gli strinsero fraternamente la mano, e gli mostrarono esser concordi nel suo modo di pensare.

Questo discorso nel secolo XVI avrebbe procurato al coraggioso vescovo la gloria di morire sul rogo:
nel secolo scorso, ha provocato lo sdegno di Pio IX e di tutti coloro che vogliono abusare della ignoranza dei popoli.

Poveri ciechi! "Cadranno nella fossa ch’eglino stessi hanno fatta" - Salmo VII 15.

Link . . .

(POSTATO DA ETRUSCO)
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 21:01

Renato Pierri "Sesso, diavolo e santità. Santi, demoni ed esorcismi di un falso Cristianesimo" - Coniglio Editore 2007



SACRI ERRORI


Eunuchi per il regno dei cieli

Leggendo la Bibbia sembrerebbe proprio che il più bel dono che si possa offrire al Creatore sia mettere al mondo un bambino. "Siate fecondi e moltiplicatevi", è la benedizione che il Signore dà ai progenitori; ad Abramo il Signore dice: "Renderò la tua discendenza come la polvere della terra; se qualcuno può contare il pulviscolo della terra, anche i tuoi discendenti potrà contare!". "Ci è nato un bambino, ci è stato dato un figlio!", è il grido possente di Isaia, carico di intenti messianici. Per gli israeliti, i figli erano una benedizione ed una ricchezza: "Ecco, eredità del Signore sono i figli, un premio il frutto del grembo". Nel giudaismo era sentito come un dovere religioso che uomo prendesse moglie: i rabbini dichiaravano che "un uomo senza figli deve essere considerato morto" e consideravano la sterilità provocata uno dei peggiori peccati. "Dammi dei figli, se no io muoio!" grida Rachele al marito Giacobbe. Nel Vangelo di Luca, Elisabetta, che era sterile, e concepisce per grazia di Dio, dice: "Ecco ciò che ha fatto per me il Signore in questi giorni nei quali ha volto su di me lo sguardo, per togliere la mia vergogna tra gli uomini". Eppure c’è un versetto del Vangelo che ha fatto pensare a molti che la rinuncia in sé al matrimonio e alla procreazione possa far piacere a Dio: "Vi sono infatti eunuchi che nacquero così dal seno della madre, e vi sono eunuchi che furono resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che si resero tali da sé per il regno dei cieli. Chi può comprendere, comprenda". Ed è la risposta che Gesù diede agli apostoli, quando gli fecero osservare che se l’uomo non aveva la possibilità di ripudiare la moglie, tanto valeva che non si sposasse. Le Chiese Orientali "hanno compreso" che uomini sposati possono essere ordinati sacerdoti, ma non vescovi. Le chiese protestanti "hanno compreso" che i ministri del culto possono sposarsi tranquillamente. La Chiesa latina "ha compreso", invece, che per i preti la rinuncia al matrimonio non debba essere una scelta, ma un obbligo. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, in proposito, cita un passo di San Paolo: "Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come piacere al Signore; lo sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso. Così la donna non maritata e la vergine si danno pensiero delle cose del Signore". Ora, a prescindere dal fatto che specialmente in tema di sessualità non sempre san Paolo può essere preso sul serio, la differenza tra la Chiesa Cattolica e l’ebreo di Tarso è che la prima "impone", ed il secondo dà consigli e non ordini. La rinuncia al matrimonio, per un sacerdote, dovrebbe essere una conseguenza della propria scelta, e non una condizione indispensabile per l’ordinazione. Inoltre, non è importante il tempo che si dedica a Dio, ma l’intensità dell’amore verso Dio. Un sacerdote potrebbe benissimo "donarsi totalmente" al Signore, dedicandosi anche alle sue creature (sposa, figli, prossimo bisognoso). Non ci sarebbe "divisione" alcuna, poiché l’amore verso Dio, e l’amore verso le sue creature sono una sola cosa. L’importante è che tale amore sia autentico. In ogni modo, c’è un problema che non viene considerato dalla Chiesa. L’evirazione, proibita espressamente nell’Antico Testamento, era intesa ovviamente da Gesù nel senso spirituale, come rinuncia perpetua al matrimonio; ma la rinuncia al matrimonio significa forse rinuncia alla sessualità? Ed è sempre vero che il celibe, e la vergine, rinunciando al matrimonio, possono pensare unicamente alle cose del Signore? Il comportamento non solo di molti preti, ma anche di santi famosi, dimostra il contrario. Un fiume, se non ha la possibilità di scorrere naturalmente nel proprio letto, straripa, e cerca altre vie. San Francesco passava nottate a combattere contro la tentazione di masturbarsi. Santa Caterina da Siena era ossessionata da visioni lascive. Santa Gemma Galgani, l’ultima grande mistica italiana, per tutta la vita fu tormentata da quelle che lei chiamava le "orribili tentazioni". San Paolo sbagliava, dunque, e sbaglia la Chiesa quando afferma: "Chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle sue cose, essi [i ministri] si donano interamente a Dio e agli uomini". Essi in realtà, anziché pensare soltanto alle cose del Signore, sono spesso costretti a pensare a cose assai meno spirituali. Altro che cuore indiviso! I santi hanno sempre considerato colpa gravissima i peccati contro la castità, al punto che, non sopportando il pensiero d’averne commessi, o anche d’avere la tentazione di commetterne, ne hanno immancabilmente attribuito la causa alle insidie del demonio. In realtà tali peccati, tranne l’adulterio, non sono tenuti in grande considerazione da Gesù, che enumera i peccati gravi che offendono Dio, ma non fa cenno alcuno, ad esempio, agli atti di omosessualità o alla masturbazione. In effetti, perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre condizioni: "E’ peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso". Ora, anche se nell’atto della masturbazione sussistessero le due ultime condizioni, verrebbe sempre a mancare la prima, vale a dire la materia grave, precisata dai dieci comandamenti, secondo la risposta di Gesù al giovane ricco: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre". L’atto della masturbazione potrebbe al più essere considerato un peccato veniale, che "non priva della grazia santificante, dell’amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna". Così molti santi hanno sbagliato non solo nel ritenere grave peccato ciò che peccato non è, ma anche nel credere in un diavolo inverosimile che li avrebbe spinti a commettere peccati inconsistenti, che non possono compromettere la santità di una persona.


La povertà

Purtroppo, molti santi, hanno commesso sbagli non solo riguardo ai peccati e al demonio, ma anche nei confronti di Dio. Un grave errore nei riguardi del Signore è stato di credere fermamente che procurarsi inutili tormenti possa essere cosa gradita al Padre misericordioso, e addirittura che il Signore stesso possa mandare patimenti alle sue creature; il che è addirittura blasfemo. Dio, infatti, per sua natura, non può volere la sofferenza degli uomini, e tanto meno essa può avere origine da lui. Altro errore, dovuto ad un’errata interpretazione del Vangelo, è stato quello di ritenere che per conformarsi a Cristo fosse indispensabile vivere in estrema povertà. La Regola di santa Chiara citava le parole che Francesco scrisse per la sua discepola e le sorelle del monastero di san Damiano d’Assisi: "Io, frate Francesco piccolino, voglio seguire la vita e la Povertà dell’altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, e perseverare in essa fino alla fine. E prego voi, mie signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà. E guardatevi molto bene dall’allontanarvi mai da essa. In nessuna maniera per l’insegnamento o il consiglio di alcuno". Racconta Tommaso da Celano nella Vita seconda che Francesco piangeva ogni volta che pensava alla penuria in cui era venuta a trovarsi Maria, al momento della nascita del Bambino; che un giorno scoppiò in lacrime, e si allontanò dalla mensa, per mangiare il resto del pane sulla nuda terra, poiché un compagno gli aveva rammentato la povertà della beata Vergine e di Cristo suo Figlio. Francesco e Chiara, vissero in estrema povertà, certi, come molti altri santi, di conformare la loro vita a Cristo, che “fu deposto nel presepe ed avvolto in poveri pannicelli”. Gesù, però, non era povero, come ritenevano Francesco e Chiara, e come comunemente si crede, e tra l’altro, della qualità, nonché della quantità, dei panni in cui fu avvolto quando nacque, non si sa assolutamente nulla, così come non v’è certezza che sia nato in una grotta. Luca, che non era uno dei dodici apostoli, racconta che Maria "avvolse il neonato in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto all’albergo". Matteo invece, che fu apostolo di Gesù, non accenna ad una grotta, ma riferisce che i Magi, giunti dall’oriente per adorare il Bambino, entrarono "nella casa". Gesù era figlio di un carpentiere, ed egli certamente esercitò lo stesso mestiere nella giovinezza. Il carpentiere, in Israele, era anche costruttore di case, ebanista, ecc,; si occupava, insomma, di tutti lavori del legno. Un falegname della Palestina era un uomo abile, utile, e particolarmente stimato. Così è ragionevole ritenere che Gesù fosse tutt’altro che povero. È pur vero che il Nazareno nel periodo della predicazione non avesse dove "reclinare il capo" ma non sembra si facesse mancare il cibo, a giudicare da tutte le volte che nei vangeli lo troviamo a tavola a casa di amici, e dalle sue stesse parole: "E' venuto Giovanni che non mangiava né beveva, e si diceva: - E' indemoniato -. E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e si dice: - È un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori!". Sicuramente non gli mancarono pane e pesce, e certo "bevve quel vino nero, pastoso e colorito, che bisognava annacquare prima di servirlo". Disponevano, lui e i suoi apostoli, di denaro, e facevano l’elemosina ai poveri. Se Cristo avesse ritenuto la povertà materiale un valore in sé, e condizione indispensabile per la perfezione interiore, sarebbe stato in contraddizione con se stesso e con il suo insegnamento; e si sarebbe costretti a pensare che egli non fosse perfetto! La povertà, intesa come privazione del necessario per vivere, comporta sofferenza. Ora, poiché la predicazione del Signore, il suo comportamento, ed i suoi miracoli, mirano al benessere non solo spirituale ma anche fisico dell’uomo; poiché tendono all’eliminazione, per quanto possibile, del dolore dalla faccia della Terra, è chiaro che tendono anche all’eliminazione della povertà. Nel Vangelo esistono versetti che sembrano spingere gli uomini alla scelta della povertà, ma per interpretarli nella maniera giusta è necessario tener conto del comandamento dell’amore scambievole: "Un comandamento nuovo vi do: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, affinché anche voi vi amiate gli uni gli altri". Questo fondamentale precetto, se fosse osservato da tutti gli uomini, non permetterebbe l’esistenza dei poveri, o perlomeno eliminerebbe l’iniqua distribuzione dei beni. Gesù aveva semplicemente chiesto agli uomini di non fare del denaro il proprio dio, di liberarsi del superfluo; di vivere non nell’indigenza ma morigeratamente. Ciò è anche dimostrato dal modo di vivere delle prime comunità cristiane: "Tutti i credenti, poi, stavano riuniti insieme e avevano tutto in comune; le loro proprietà e i loro beni li vendevano e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano assidui nel frequentare insieme il tempio, e nelle case spezzavano il pane, prendevano il cibo con gioia e semplicità di cuore". I primi cristiani, dunque, si erano liberati del superfluo, ma non della possibilità di mangiare, di vestirsi, e di abitare in una casa: "Non avete forse le vostre case per mangiare e bere?" Così, scriveva san Paolo tra il 55 e il 57 d.C., ai cristiani di Corinto, per rimproverarli, giacché abusavano nel mangiare e nel bere, durante la cena in comune che precedeva la celebrazione eucaristica. La Chiesa ha sempre lasciato credere ai fedeli che la povertà materiale sia una norma di vita evangelica. Al paragrafo n. 2444 del Catechismo si legge: "L’amore della Chiesa per i poveri appartiene alla sua grande tradizione. Si ispira al Vangelo delle beatitudini, alla povertà di Gesù"; e al n. 2546: "Gesù esalta la gioia dei poveri, ai quali già appartiene il Regno". Per lungo tempo, compito preminente della Chiesa non è stato quello di eliminare la povertà, secondo la volontà del Signore, quanto semplicemente di aiutare i poveri, che potevano tranquillamente continuare ad esistere in una società cristiana, giacché era capitata loro la fortuna di vivere nella gioia e nella beatitudine, essendo già in possesso del Regno. L’atteggiamento della Chiesa nei riguardi dei poveri è poi cambiato. Diverse Encicliche, a cominciare dalla Rerum novarum di Leone XII nel 1891, hanno affrontato con insistenza la problematica sociale.


Clausura, altro errore di molti santi

Altro errore di molti santi è stato quello di ritenere l’allontanamento materiale dalle cose del mondo e soprattutto dal consorzio umano, condizione indispensabile per la santità. Eppure la separazione dal mondo per tutta la vita contrasta con la ragione e col Vangelo. "Egli rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei precetti. Ma il secondo è simile ad esso: amerai il prossimo tuo come te stesso". L’anacoretismo non consente di osservare pienamente il secondo dei due fondamentali precetti, e poiché l’uno non può prescindere dall’altro, viene compromesso anche il reale adempimento del primo. Lo stesso discorso vale per i monaci e le monache di clausura, che pur facendo vita in comune (cenobitismo, dal greco koinòs bìos), vivono sempre separati dalla società. Gesù, infatti, quando disse ai discepoli: "Se dunque io, il Signore e il maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri", non intendeva certo comandare agli apostoli di chiudersi per tutta la vita in un monastero a pregare Dio, e a "lavarsi i piedi" reciprocamente! Il monachus che vive solo, separato dal mondo, non era nei progetti di Dio. Il Signore, infatti, ci ha creati unici, ma non soli; non ci ha destinati alla solitudine. Per comprendere appieno i motivi che impediscono di considerare veramente santo il monaco, occorre avere ben presente il concetto di santità in base al Vangelo. Concetto semplicissimo. Santità è, nei limiti ovviamente delle possibilità umane, somiglianza a Cristo. Più si somiglia a Cristo e più si è santi. Per imitare Cristo occorre spezzare il proprio corpo e distribuirlo; sacrificare la propria vita a favore del prossimo bisognoso. E’ la strada indicata da Gesù. Il Signore non invitò nessuno a segregarsi per tutta la vita; non è assolutamente il modo di dedicarsi a Dio. Il Vangelo è azione; è movimento. Gesù stesso era un uomo d’azione. La stia vita fu un cammino; ed invitò gli apostoli ad imitarlo: "Ecco: vi mando come pecore in mezzo ai lupi…". A dire il vero, il monaco si mette al riparo dai lupi. Se avessero fatto così anche gli apostoli, oggi il cristianesimo non esisterebbe. Si potrebbe obiettare che ognuno è chiamato a compiti diversi; ma chi ha stabilito che Dio ci "chiami" a separarci per sempre dal prossimo? Si può comprendere il bisogno di appartarsi per pregare, meditare, "contemplare"… Ma quanto può durare l’isolamento perché non si trasformi in sacrificio inutile ed irragionevole? Inginocchiarsi davanti all’altare per un po’ è cosa buona per un cristiano, restarvi sino a crollare è cosa assurda che sicuramente darebbe un certo fastidio… anche al buon Dio. Gesù non si appartò per tutta la vita. Nel Vangelo non esiste un solo verso che autorizzi a pensare che la separazione (non il distacco spirituale, che è altra cosa) dal mondo, per tutta la vita, sia un consiglio o un comandamento di Gesù. Del resto, quale frutto può portare chi si allontana per sempre dal mondo? Come dare da mangiare al Gesù affamato, dar da bere al Gesù assetato, vestire il Gesù nudo, visitare il Gesù malato o carcerato? Con l’immaginazione? "Da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni gli altri": come ravvisare un discepolo di Cristo in chi "fugge" dal prossimo? Gesù, tranne i quaranta giorni trascorsi nel deserto, visse in mezzo alla gente, ne conobbe i problemi, ed ebbe pietà della folla che rischiava di venir meno per la via. Fece esperienza di umanità. La Chiesa, per dare fondamento evangelico all’istituzione della clausura, ricorre all’episodio di Marta e Maria, del Vangelo di Luca. Riferendosi alla monaca di clausura, afferma: "Ella tende alla perfezione della carità scegliendo Dio come l’unico necessario". Questo il passo lucano: "Marta invece era assorbita per il grande servizio. Perciò si fece avanti e disse: "Signore, non vedi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque di aiutarmi". Ma Gesù le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti preoccupi di troppe cose. Invece una sola è la cosa necessaria. Maria ha scelto la parte migliore che nessuno le toglierà"". Un’interpretazione data dal Verbi Sponsa difficilmente si rivela errata per chi non è un buon conoscitore del Vangelo stesso: "Marta vuol fare onore a Gesù e se ne preoccupa; non ha ancora capito che Gesù, più che ricevere, vuol dare, e ciò che veramente conta per lui non è un buon pranzo, ma la conformità di ideali e aspirazioni". Conformità di ideali e di aspirazioni. La "cosa necessaria" non era il semplice fatto in sé di "appartarsi" con Cristo, ma di ascoltare, in quel momento, la sua parola, per comprenderla appieno e metterla in pratica: "Se capite queste cose, siete beati se le mettete in pratica". Per capire bene il significato dell’episodio di Marta e Maria, tanto caro soprattutto alle claustrali, per appurare se orazione e contemplazione bastino per essere veri discepoli di Cristo; e se la clausura non finisca per rendere vane l’una e l’altra, occorre non separarlo dal contesto, e riflettere profondamente sui versi che lo precedono.. "Maestro", chiede il dottore della legge a Gesù, "che cosa devo fare per avere la vita eterna?". Il Signore gli spiega che è necessario osservare i due comandamenti fondamentali: l’amore verso Dio, e l’amore verso il prossimo. E narra la parabola del buon Samaritano. Tre i personaggi che possono soccorrere il malcapitato percosso dai briganti: il sacerdote, che lo vede, ma passa oltre; il levita, che addirittura lo scansa e prosegue il suo cammino, ed il Samaritano che, avendone compassione, si ferma e lo aiuta. Potremmo anche immaginare che la parola del Signore, ascoltata da Maria, trattasse proprio questo tema, e che Gesù abbia detto a Maria, come al dottore della legge: "Va’ e anche tu fa’ lo stesso". Un monaco, separato dal mondo, non sarebbe mai passato per quella strada, e mai gli si sarebbe presentata l’occasione offerta al sacerdote, al levita, e al Samaritano. È assolutamente impensabile che Maria sia rimasta in perpetuo ascolto della parola di Gesù, senza accoglierla nella sua interezza, per poi metterla in pratica. La parte migliore, sino a che c’è un ferito da soccorrere, è quest’ultimo, giacché rappresenta Cristo stesso: "E il Re risponderà loro: "In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me"". Il comandamento di Gesù, dell’amore per il prossimo, non è tenuto in gran considerazione da colui che si separa dal consorzio umano. Il suo interesse non è rivolto a Dio e alle sue creature bisognose ma a se stesso in rapporto con Dio, e, alle volte, a se stesso in rapporto con Dio e col diavolo. Alcuni santi hanno speso tutte le proprie energie per evitare l’inferno ed assicurarsi il paradiso, magari torturandosi e sottoponendosi ad inutili sacrifici. Una forma forse inconscia ed innocua d’egoismo, ma pur sempre egoismo. La monaca di clausura, separandosi dal mondo, s’illude di imitare Cristo, "offrendosi con Gesù Cristo al Padre e collaborando all’opera della redenzione". Gesù, però, non chiese a nessuno di collaborare all’opera della redenzione. Limitazione di Cristo è apparente e quindi assurda; Gesù, infatti, offre il suo corpo, giacché altra via non è possibile per la salvezza dell’umanità. L’immolazione della monaca non ha senso. L’atto redentore di Cristo fu perfetto e sovrabbondante.


Miracoli di guarigione

Spesso è il popolo a creare i miracoli. La Chiesa, purtroppo, interviene quando le credenze hanno già assunto proporzioni inarrestabili, e sono radicate a tal punto nell’immaginario dei devoti, che deluderli diventa impossibile. Autorevoli teologi dubitano persino dell’attendibilità storica dei miracoli evangelici, (ritenendoli, alla stregua delle parabole che non sono fatti storici, reali enunciati di fede sul significato salvifico della persona e del messaggio di Gesù) e avanzano l’ipotesi che il Nuovo Testamento abbia arricchito la figura del Salvatore con motivi extracristiani per esaltarne l’eccezionalità. Non sono gli evangelisti, infatti, ad avere "inventato" i miracoli. Sia in campo rabbinico che in quello ellenistico si narrano storie di guarigioni, resurrezioni, tempeste sedate, ecc. Un certo Apollonio di Tiana, mago e guaritore contemporaneo di Gesù, presenta numerosi parallelismi con i miracoli dei vangeli. Guarigioni si sarebbero verificate nel santuario di Asclepio a Epidauro. Anche la struttura del racconto evangelico presenta somiglianze con analoghe narrazioni extracristiane. Di solito c’è uno schema in tre fasi: si comincia col sottolineare la gravità della malattia preparando psicologicamente il lettore ad ammettere la grandezza del miracolo; si prosegue esponendo come si sono svolti gli eventi miracolosi; si adducono infine i testimoni presenti che confermano coralmente i fatti. Questi motivi non sono sufficienti per negare la verità dei miracoli in genere; è chiaro, però, che la inspiegabilità di un fenomeno non autorizza assolutamente un credente ad attribuirlo ora a Dio ora al diavolo: per poterlo fare, occorrono argomenti teologici seri. Esiste, invece, un’importante ragione teologica che induce a non credere, se non altro, ai miracoli di guarigione: l’assoluta impossibilità che Dio, salvando da un malanno questa o quella sua creatura, possa fare discriminazioni. Si potrebbe pensare che un malato o i suoi familiari abbiano pregato un santo, oppure la Madonna, più intensamente di altri; oppure che siano più meritevoli di altri, ma come fare un ragionamento del genere quando la discriminazione riguarda i bambini? Non sono tutti uguali davanti a Dio? Perché Dio, Padre misericordioso, dovrebbe compiere un miracolo per un figlio e non per un altro? Ragioni imperscrutabili? Non è possibile, giacché Dio può nascondere quasi tutto di sé alla sue creature (non potrebbero afferrarne la grandezza), ma non può dare di sé un’immagine alterata, distorta, contrastante col senso di giustizia che Lui stesso ha infuso in noi, con l’intelligenza che lui ci ha donato, con l’amore che Lui ci ha comunicato. Alterato, distorto, falso, sarebbe anche il rapporto degli uomini con Dio. Sentirsi oggetto di un intervento divino, e quindi privilegiati da Dio, è anche un atto di presunzione, di cui neppure i santi si sono mai resi conto.


Il diavolo

Credere nell’esistenza di Dio è cosa seria e degna di rispetto; credere nell’esistenza del demonio è cosa altrettanto seria, ed altrettanto rispettabile. La credenza nel demonio, però, spesso rasenta il ridicolo. Di norma viene immaginato un diavolo che non risponde affatto al concetto che, in base alle Scritture, e naturalmente alla ragione, ci si dovrebbe fare del nemico di Dio. Si crede in un falso diavolo. Di conseguenza sono anche falsi, e perfettamente inutili, gli esorcismi atti a scacciare un demonio immaginario; false le possessioni diaboliche. Nel primo libro dell’Antico Testamento, Satana tenta i progenitori alla disobbedienza a Dio; riesce a rompere una meravigliosa amicizia; per causa sua la morte entra nel mondo, gettando "l’ombra del non senso sull’intera esistenza dell’uomo". Nel Vangelo, il diavolo osa tentare il Figlio dell’uomo; sfida Gesù a fare miracoli, gli chiede di prostarsi davanti a lui e di adorarlo: in cambio gli promette tutti i regni del mondo. Una figura tremenda quindi, che nulla può contro Dio, ma che può influire sull’uomo, spingendolo ad allontanarsi dal Signore. Il diavolo immaginato dal popolo, dagli esorcisti ma anche da molti santi è invece simile a un insulso monello che si diverte a far dispetti di poco conto. Ogni tanto, il principe di questo mondo, il seduttore, il mentitore, l’enorme drago, il leone affamato, non avendo altre cose di cui occuparsi, prenderebbe di mira una ragazza, magari bella (solitamente si tratta di donne, giacché nell’immaginario popolare il diavolo è maschio, e spesso è anche fornito di zampe e di coda), entrerebbe nel suo corpo, e si diletterebbe a farla dimenare e strillare, di solito con voce cavernosa; le farebbe tirar fuori, alle volte, un po’ di bestemmie, per andarsene, ma non sempre, solo dietro l’ordine perentorio e reiterato di un esorcista, munito di medagliette, crocifissi, e dell’indispensabile acqua santa, magari esorcizzata. Ora, si può essere certi, innanzi tutto, che se il demonio, essere soprannaturale, avesse la possibilità di impossessarsi di una persona, non avrebbe per nulla bisogno di "entrare" materialmente nel suo corpo. Inoltre il suo regno dovrebbe essere là ove avvengono guerre, genocidi, violenze, stupri, torture; le sue prede dovrebbero essere uomini sfruttatori dei deboli, assetati di denaro e di potere. Sarebbe più logico pensare che il demonio possa impossessarsi, ad esempio, di uomini come Hitler. E di conseguenza sarebbe cosa saggia, giacché si crede che gli esorcismi abbiano effetto anche a distanza, che le persone addette, anziché avvalersi della loro arte per liberare dal maligno persone malate, si adoperassero per allontanare l’influenza diabolica dai mercanti d’armi e dagli appassionati della guerra. Ma sarebbe anche logico pensare che dell’esorcista si possa fare tranquillamente a meno, giacché per implorare l’intervento di Dio contro Lucifero dovrebbero bastare le preghiere di un semplice sacerdote o di un semplice fedele. Rinunciando alla ragione, e prendendo alla lettera alcuni versetti del Vangelo d Marco, si potrebbe fare obiezione, sia riguardo alla negazione delle possessioni diaboliche, sia riguardo all’inutilità degli esorcismi: "Questi poi sono i segni che accompagneranno i credenti: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se avranno bevuto qualcosa di mortifero, non nuocerà loro, imporranno le mani agli infermi, e questi saranno risanati". L’obiezione, però, potrebbe essere presa in considerazione solo se riuscisse a dimostrare che gli esorcisti, oltre ad allontanare i demoni, a parlare lingue nuove e a risanare i malati, possano tranquillamente stringere tra le mani serpenti velenosi e sopravvivere, ad esempio ad una dose letale di cianuro. Inoltre, interpretato letteralmente, l’evangelista ci direbbe anche che la facoltà di scacciare i demoni non appartiene a persone "specializzate", bensì a tutti i credenti. Mentre è abbastanza comprensibile che il popolino abbia attribuito al diavolo aspetti ridicoli e poco credibili, non si spiega facilmente come lo stesso errore sia stato fatto da diversi grandi santi, i quali spesso hanno immaginato di essere assediati da un diavolo fasullo; un demonio che, per farli deviare dalla strada della santità, sarebbe ricorso a mezzi risibili, puerili, certamente non rispondenti alla sua immensa e sconfinata perfidia.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 21:04

Jurgen Becker "La resurrezione dei morti nel cristianesimo primitivo" - Paideia Editrice 1991



BATTESIMO E RESURREZIONE


I. Affermazioni sul battesimo con senso salvifico riferito al presente

Con la soluzione paolina alla questione del destino dei cristiani defunti in I Thess. 4, non viene certamente presentata l'unica possibilità allora esistente di approntare i mezzi per togliere a questo problema il suo effetto di minaccia nei confronti della fede e della speranza. E' probabile piuttosto che, prendendo le mosse da una determinata concezione della teologia battesimale, indipendentemente e parallelamente a Paolo, sia stata presa anche un'altra strada per dare fondamento a speranza e resurrezione: partendo cioè dall'ipotesi che nel battesimo si verificasse il "morire insieme" e "risuscitare insieme" con Cristo. Tanto la storia dell'interpretazione del battesimo in generale, quanto proprio gli inizi di questa speciale teologia battesimale non sono facilmente accertabili, dato che lo storico non può partire da prove testuali comparativamente sicure come I Thess. 4,13 ss. Le seguenti affermazioni contengono perciò in misura maggiore una costruzione di carattere ipotetico. Il necessario livello di ipoteticità è viceversa ricompensato dalla meta raggiunta. Chi in pochi punti della storia del cristianesimo primitivo non trova il coraggio per ipotesi di questo tipo, spesso deve rinunciare del tutto a spiegazioni, fermarsi all'ambito del frammentario e prescindere appunto anche da un'interpretazione globale dei fenomeni. Se nel battesimo si verifica la partecipazione soteriologia alla morte e resurrezione di Cristo, allora l'indicativo della salvezza, cioè lo stato di salvezza dei cristiani espresso al presente, viene con ciò manifestato in modo accentuato. La possibilità di un'affermazione di salvezza escatologica al presente, così marcata al momento del battesimo, da un lato presuppone - il che non dovrebbe essere contestato - che ci si trovi nell'ambito di un influsso diretto o indiretto delle religioni misteriche ellenistiche, dal momento che in esse la partecipazione esperimentata nel culto al destino della divinità è in effetti l'elemento fondamentale del trasferimento della salvezza al presente. D'altra parte, per poter comprendere tali affermazioni, devono naturalmente verificarsi anche premesse storico-teologiche di storia del cristianesimo. Se, per seguire questa connessione, si indaga su acuite affermazioni di salvezza al presente all'atto del battesimo, e quindi sull'interpretazione della situazione ecclesiale, si incontra una serie di espressioni formulari ben definibili, la cui radice più antica si trova probabilmente nella teologia siriaco-antiochena e le cui ramificazioni conducono presumibilmente soprattutto a Corinto. Nel periodo paolino della storia comunitaria antiochena l'unità della comunità "in Cristo" era evidentemente intesa come fattore livellante della divisione, fino ad allora fondamentale sotto il profilo della storia della salvezza, tra giudei e pagani. Con ciò la via di salvezza della legge come norma divina fondamentale per tutta quanta la storia è stata abrogata: l'essere in Cristo ha ora una qualità escatologica tale, che la legge, insieme con la sua validità, è revocata (cfr. Gal. 2,16a; 3,28a; 5,6; 6,15). Lo stato di salvezza escatologico, che viene sottolineato come presente, nel suo aspetto caratteristico di fondamento causale per l'abrogazione della legge, acquista importanza specialmente là dove "in Cristo" viene inteso come "nuova creazione" come in Gal. 6,15. Ci si dovrà chiedere, in effetti, che cosa un'affermazione del genere lasci ancora alla dimensione della speranza. La risposta a ciò dovrà venire in rapporto all'attesa imminente della parusia come è testimoniata in I Thess. 1,9 s. anche proprio per il periodo antiocheno di Paolo: che cioè al compimento, in sostanza, manca soltanto la diretta presenza del Signore che viene. Forse, a questo proposito, la consapevolezza della situazione escatologica nell'Antiochia antica veniva dopo tutto formulata solo riguardo all'abrogazione della legge. E' possibile però che anche qui si sia già andati oltre. Ad ogni modo, per il periodo della primitiva comunità di Corinto si dovrà probabilmente constatare che già allora, in relazione a battesimo - Spirito - corpo di Cristo, s'era largamente diffusa non solo la revoca dell'opposizione tra giudei e pagani, ma, oltre a questa differenziazione a livello di storia della salvezza, anche quella sociologica tra schiavi e padroni, come pure infine quella creaturale tra uomo e donna, ritenute tutte escatologicamente sorpassate nella comunità cristiana (I Cor. 12,12 s.; 7,19; 11,4 s.; cfr. Col. 3,11). Comunque, per coloro ai quali - come in I Cor. 4,8 - viene riconosciuta in modo così evidente la consapevolezza del compimento escatologico, tali affermazioni risultano calzanti. In base a questo risultato parziale, si può ora prendere in considerazione la più vasta tradizione chiusa riguardante questo contesto, caratteristica, fra l'altro, dell'ambiente di Corinto. Si trova in Gal. 3,26-28 e dice:

Tutti voi siete figli in Cristo Gesù.
Perché quanti siete stati battezzati in Cristo
vi siete rivestiti di Cristo.
Non c'è dunque né giudeo né greco,
né schiavo né libero,
né uomo né donna.
Poiché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù.

Il battesimo prende quasi l'aspetto di fusione identificatrice con Cristo. Il "rivestire Cristo" è espressione gravida di simbolismo per l'unione con il Signore, nella quale tendenzialmente soggetto e oggetto non sono più divisi in modo inequivocabile. La visuale delle religioni misteriche ellenistiche palesa qui la sua parentela spirituale sotto il profilo storico-religioso. Da notare che qui di Cristo non viene considerato il suo destino di morte, egli è invece inteso come il Figlio innalzato e come rappresentante della nuova creazione. I membri della comunità sono figli in base alla partecipazione alla sua qualità di figlio, come aiuta a spiegare il motivo di fondo della formula di missione che viene elaborato immediatamente dopo: "Dio inviò suo figlio, nato da una donna, ... affinché noi ottenessimo l'adozione a figli" (Gal. 4,4 s.). Questi figli sono quelli che posseggono lo Spirito, che gridano "Abba!" (4,6). Che qui si tratti di un contesto concluso, a livello di storia della tradizione, lo dimostra Rom. 8,12 ss. La qualità di figlio per i cristiani è costituita dunque dal "rivestire Cristo". La realizzazione di questo simbolo sta nell'unità indivisibile dei cristiani muniti dello Spirito con il pneuma celeste dell'Innalzato. Essere spiritualmente tutt'uno con il Cristo celeste, significa nel contempo avere accesso immediato a Dio. Così si è dispensati in modo molto reale dai vincoli relazionali esistenti, propri di questo mondo. Ora non ci si deve più sentire nella condizione storico-salvifica di giudaismo e paganesimo, in quella sociologica di schiavitù e padronato e in quella creaturale di virilità e femminilità. La nuova unione in Cristo esclude una tale ricaduta nella vecchia creazione. In verità manca solo un'accentuazione unilaterale, la tendenza cioè a sottolineare la piena identificazione ed il relativo appello a disprezzare in modo apodittico i rapporti tipici di questo mondo, e si è molto vicini agli abusi di Corinto.


2. Risuscitati con Cristo

Delle condizioni proprie di questo mondo fa parte, proprio nell'ambito dell'ellenismo, l'essere soggetti alla transitorietà ed alla morte. Cosa significhi il superamento soteriologico di morte e transitorietà nel contesto or ora descritto, può essere dimostrato anzi tutto sulla base della lettera deuteropaolina ai Colossesi. Per respingere l'erronea dottrina a Colossi, la cui discussione in questa sede dev'essere tralasciata, lo sconosciuto discepolo di Paolo scrive: "In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità ed è in lui che voi partecipate a questa pienezza Egli è il capo di ogni principato e potestà. In lui siete stati circoncisi di una circoncisione che non viene da mano d'uomo. Infatti con questa circoncisione di Cristo vi siete spogliati del vostro corpo di carne (come di un vestito). Nel battesimo siete sepolti con lui, in lui siete pure (insieme) con (lui) risorti per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Voi eravate morti a causa dei vostri peccati e a causa dell'incirconcisione della vostra carne, (ma) Dio vi ha risuscitati insieme con lui alla vita e vi ha perdonato tutti i vostri peccati" (Col 2,9-13). Dopo queste affermazioni la resurrezione come partecipazione alla signoria di Cristo è già avvenuta. La rimozione dalle condizioni di questo mondo non si riferisce solo alla sorpassata differenziazione fra giudeo-pagano, schiavo-libero (ecc., cfr. Col 3,11), ma anche al destino di morte. Il fatto di aver parte al Sovrano, nel quale la pienezza della divinità è presente corporalmente, significa lo spogliarsi del corpo della carne mortale nel battesimo (si noti ancora una volta il simbolismo dell'abito!) e l'essere risuscitato con lui, quindi la situazione di salvezza escatologica oltre la morte. La resurrezione è la perfezione della salvezza, vita escatologica in quanto contenuto dell'indicativo di salvezza, solo che è ancora nascosto e (con questo viene indicato l'unico contenuto restante della speranza) deve manifestarsi con la venuta di Cristo (3,1-4). Così la speranza non si estende più ad un nuovo essere, ma solo al suo attributo mancante, l'essere manifesto, revocando l'attuale segretezza. Un cristiano che già ora è partecipe "dell'eredità dei santi nella luce" e con ciò è già "strappato al potere delle tenebre e trasportato nel regno del Figlio suo diletto" (1,12 s.) in effetti non può più dire che l'ultimo nemico, la morte, dev'essere ancora vinto (cfr. I Cor. 15,26). Non si deve trascurare la vicinanza strutturale di quest'affermazione alla dottrina della redenzione così come viene espressa nella massima di 2 Tim. 2,18: "La resurrezione è già avvenuta". Ora, queste prove, che secondo la loro struttura possono essere ampliate dalla lettera agli Efesini e dal quarto vangelo, appartengono tutte alla terza generazione e non al periodo di Paolo immediatamente dopo le sue affermazioni di I Thess. 4. C'è da chiedersi però se queste affermazioni postpaoline sul battesimo, che parlano di una partecipazione identificatrice dei cristiani alla morte e resurrezione del Signore, non possano essere seguite a ritroso, relativamente a questo concetto di fondo, fin nel periodo paolino. A questa domanda si può rispondere molto verosimilmente in senso affermativo. Com'è noto, lo stereotipo del Dio che muore e risorge è familiare alle religioni misteriche ellenistiche. La sua ricezione da parte cristiana tramite e al di fuori di Paolo è già stata or ora stabilita per Gal 3,26-28 ed affermazioni simili in un caso ben preciso. Non occorre però fermarsi a questa generale constatazione storico-religiosa. Nella lettera ai Romani, che Paolo invia da Corinto, l'apostolo in 6,1 ss. interpreta il battesimo esplicitamente come un morire e risuscitare insieme con Cristo. Qui, per Paolo, il "morire con" [Cristo] appartiene agli aspetti compiuti della salvezza, mentre d'altra parte il dono della vita escatologica appartiene ancora al patrimonio della speranza. Di un essere "conrisuscitato" del cristiano per il momento si può parlare solo richiamando l'attenzione sulla nuova condotta. Il dono della vita viene in certo modo diviso tra la vita definitiva nell'eschaton presso Cristo e Dio, ancora oggetto di speranza, e la già ottenuta possibilità di una condotta nuova dopo l'essere "morti con" Cristo nel battesimo. Questa differenziazione tipica di Paolo costituisce una variazione secondaria in relazione al concetto di fondo effettivamente atteso. Di conseguenza, quest'alterazione porta troppo chiaramente in fronte la sostanziale incongruenza nell'analogia del destino di morte e resurrezione di Cristo e dell'inclusione dei cristiani in questo destino, perché questa possa restare nascosta. In effetti, il pensiero di 6,3 ss. sarebbe logico, se il testo suonasse così: "Quelli che sono battezzati in Cristo Gesù sono battezzati nella sua morte. Così con il battesimo noi siamo con lui sepolti nella sua morte. E come Cristo venne risuscitato dai morti in virtù della Signoria del Padre, così anche noi siamo stati risuscitati con lui. Perché, se siamo stati innestati e modellati nella sua morte, lo siamo allora anche in rapporto alla sua resurrezione".


3. Aspetti della teologia corinzia

Ora, a dire il vero, non è possibile trovare un effettivo indizio che lasci supporre in Rom. 6,1 ss. una polemica diretta contro una concezione che comprese e sostenne teologicamente in modo sostanzialmente conseguente l'analogia Cristo-cristiani nel senso di un ripensamento in chiave misterica della completa partecipazione al destino di Cristo inclusa la sua resurrezione. Questo potrebbe dare adito ad un giudizio generalizzante: la cristianità primitiva generalmente ha recepito il pensiero di tipo misterico solo alla maniera paolina, quindi sempre solo in senso molto frammentario, con la riserva escatologica di un compimento ancora aperto. Ma chi dice che quello che in un primo tempo aveva valore solo per Roma - cioè di non sostenere alcuna teologia del compimento della salvezza - non fosse pure in altri luoghi all'ordine del giorno sotto il profilo teologico? Non sarebbe concepibile che Paolo, solo dopo un aperto contrasto con una posizione simile, si fosse visto costretto a descrivere la sua concezione del battesimo in appoggio così diretto alle religioni misteriche, formulando al tempo stesso in modo competente e appropriato l'oggettiva differenza nei confronti di quelle? Ad ogni modo si può asserire, richiamandosi a I Cor. 10,1 ss., che Paolo dovette redarguire proprio i Corinti di non essere tanto convinti che i sacramenti, in modo magico-costrittivo, per il loro carattere irresistibile e senza considerazione per l'esistenza cristiana terrena e la sua condotta di vita (la quale potrebbe anche non avere buon esito), siano tali da trasferire nel compimento non più rivedibile della salvezza. La sicurezza del pieno possesso della salvezza viene precisamente respinta anche in I Cor. 4,8. Quindi, non solo non c'è alcuna prova della logicità della generalizzazione di Rom. 6 a tutto il cristianesimo primitivo della prima generazione, ma vi sono altresì prove contrarie, le quali presuppongono addirittura una situazione tale da costringere Paolo ad una critica in sostanza simile a quella che egli, solo indirettamente e senza immediata polemica, con implicita distruzione, cioè, dell'effettivo rapporto analogico, espone in Rom. 6,3 ss. Si può così intendere fondatamente Rom. 6 come risultato di un contrasto avuto in precedenza con la teologia corinzia. Chi giudica la situazione in questo modo deve poi situare in modo conseguente la netta analogia, elusa da Paolo e sottintesa in Rom. 6,3 ss., presso gli avversari di Paolo a Corinto. In questo caso non si trattava di cosa facile neanche per l'apostolo, dato che anch'egli - come probabilmente tutta la cristianità di quel tempo - teneva per fermo che i cristiani non potessero essere esclusi dalla salvezza finale. Così, ad esempio, il cosiddetto incestuoso di I Cor. 5,1 ss. può essere sì consegnato a Satana, ma solo affinché con ciò il suo Spirito venga salvato nel giorno del giudizio del Signore. Ora, i Corinti, con l'aiuto della loro visione teologica, reinterpretano questa incondizionata certezza nella salvezza da parte dei cristiani solo nel senso di una entusiastica presenza salvifica. Se il grido estatico "Signore (è) Gesù" di I Cor. 12,3 significa per loro l'identificazione diretta del cristiano con il Signore innalzato e con il suo dominio sul mondo, essi allora intendono lo Spirito come facoltà di partecipare alla già compiuta presa di potere del Signore. Questa unità identificatrice con l'Innalzato non fa solo sparire la differenza fra l'ecclesia viatorum da un lato ed il compimento di Cristo dall'altro, ma portò anche ad una problematica perdita di considerazione per i confratelli cristiani. L'essere tutt'uno con Cristo individualizzava e si rifletteva in senso distruttivo sulla comunità. Proprio questo è il tenore fondamentale della discussione paolina in I Cor. 12-14. Se là egli mette in evidenza l'edificazione e il bene della comunità, per invitare così all'elaborazione della realtà con le sue premesse terrene e mondane, in 4,8 si richiama allo stesso stato di cose, quando fa sentire energicamente la differenza - che veniva saltata a piè pari - fra lo stato dei cristiani e quello del Signore innalzato. I Corinti credono di possedere già tutta la pienezza della ricchezza escatologica, credono di essere già arrivati al dominio. Ma dall'esistenza dell'apostolo si può dedurre che la morte possiede ad ogni modo ancora il valore di una realtà (4,8-13). Certamente Paolo non vuole ancora rinunciare all'indicativo della salvezza del battesimo. In 6,11 egli lo difende con una formulazione tradizionale: voi siete lavati. Voi siete santificati. Voi siete stati giustificati. Così egli definisce la posizione dei cristiani anche di Corinto. Non sono, però, ancora entrati nel dominio di Dio: questo è un patrimonio di speranza ancora dovuto, a condizione di una condotta cristiana e dell'abbandono delle opere malvagie (6,9 s.). Così Paolo distingue fra indicativo di salvezza e speranza di salvezza. La partecipazione al dominio nel compimento non è ancora realtà attuale, anzi, realtà al presente è l'essere in vista della morte, come si può vedere dall'esistenza apostolica. Queste elaborazioni paoline, di cui è evidente l'analogia con Rom. 6,1 ss., presumono addirittura, unitamente alla polemica contro la garanzia della salvezza mediante i sacramenti (10,1 ss.), che i Corinti considerassero come già avvenuta anche la resurrezione: regnare insieme con Cristo richiede la trasposizione nel suo stato. Proprio a questo Paolo contrappone la vicinanza della morte alla sua esistenza. I Corinti dunque avranno sostenuto l'analogia di Rom. 6,3 ss. in modo netto e non paolino, forse anzi furono i primi cristiani a concepire il battesimo come partecipazione alla morte e resurrezione di Cristo. Se però i Corinti, allargando la tradizione accettata anche da Paolo in Gal. 3,26-28, includevano, a differenza dell'apostolo, anche la morte nella potenza escatologica già raggiunta dai cristiani, e si credevano risorti, essi che - per dirla con il vangelo di Giovanni - sono già passati dalla morte alla vita (Io. 5,24), evidentemente in precedenza era cambiata anche la concezione del mondo ed il quadro biografico rispetto a I Thess. 4. Nell'ambito della immediata attesa della parusia e senza l'esperienza dei primi cristiani defunti, un potere esplicitamente chiaro anche sulla morte era inconsistente. Una tale asserzione non avrebbe avuto alcun punto d'appoggio nella vita dei cristiani. Se, però, la morte di cristiani prima della parusia diventa in certo modo una situazione normale, così che rimane solo la certezza che non tutti quelli attualmente in vita saranno defunti alla venuta del Signore (I Cor. 15,51), e se è possibile parlare senza problemi della morte di un certo numero di testimoni pasquali (15,6), allora la nuova consapevolezza della situazione con ciò segnalata richiede anche una "normale" elaborazione della problematica della morte. Se l'argomentazione in I Thess. 4,13 ss. era ancora sotto il segno di un'esperienza irregolare, eccezionale di cristiani defunti, che potevano quindi essere inclusi come "eccezione" nella precedente attesa della parusia, la teologia del battesimo ricostruita per Corinto indica una soluzione del problema della morte, il cui valore è indipendente dalla proporzione, fra cristiani che vivono la parusia come viventi o come morti risuscitati. Anzi, in base alla provenienza storico-religiosa della concezione elaborata, questa soluzione del problema è in realtà indipendente da qualsiasi attesa di parusia. Il suo scopo non è di accomodare una nuova situazione all'attesa tradizionale della parusia, ma s'intende quale risposta alla comprensione ellenistica del generale destino di morte e transitorietà. Essa supera questa transitorietà individualmente, senza aver affatto bisogno della componente di una futura attesa cosmico-apocalittica. La soluzione del problema della morte da parte dei sacramentalisti e degli entusiasti dello Spirito, a Corinto, appartiene agli anni immediatamente successivi alla descritta risoluzione di tale questione in I Thess. 4,13 ss. Essa non è paolina, vive però in buona parte dell'eredità della teologia paolina ampiamente interpretata. Nonostante l'attacco frontale sferratole da Paolo, tale soluzione, con diverse modifiche, ha esercitato un grande fascino sulla storia del cristianesimo primitivo. Prova ne sono ad esempio le lettere ai Colossesi, agli Efesini ed il vangelo di Giovanni, come già s'è detto sopra. Questo fascino certamente non si spiega con la simpatia verso i Corinti, ma si fonda sulla generale struttura di plausibilità che era propria di questa posizione nell'ambito dell'intreccio sociologico-religioso dell'ellenismo. Nel contesto di questi problemi a Corinto ed a causa delle opinioni di un gruppo interno alla comunità, Paolo si deve esprimere ancora più esplicitamente sulla questione della resurrezione. Lo fa in I Cor. 15. Questo capitolo è stato tolto intenzionalmente dalla discussione ora conclusa, perché si dovrà innanzitutto chiarire a quali specifici avversari, all'interno dell'ambiente corinzio, Paolo replichi qui, non dovendo a priori e nettamente concordare con la teologia della comunità nel suo complesso. Questo passo, inoltre, presenta tali e tanti problemi specifici da consigliare, anche per questo verso, un discorso a parte. Infine, nell'esposizione si dovranno anche far risaltare le prove del fatto che Paolo stesso è cambiato nei confronti di I Thess. 4,13 ss.

Come risultato di questa ricerca stabiliamo questo: oltre alla soluzione della problematica della morte in I Thess. 4,13 ss. esiste un'altra concezione, non paolina, della vittoria sulla morte, che proviene da una ben precisa teologia battesimale. Come risposta alla concezione ellenistica di una generale corruzione mortale, il battesimo viene annunciato come partecipazione soteriologica alla morte e resurrezione di Cristo. L'aver parte alla resurrezione di Gesù Cristo significa nel contempo entusiastica partecipazione al regno del Cristo innalzato. Perciò il cristiano non è più soggetto alle condizioni terrene - inclusa la corruzione mortale. Questo concetto sembra essersi sviluppato principalmente a Corinto.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 21:07

Adolf Holl "Lo Spirito Santo. Una biografia" - RCS Libri 1998



FELICITA' PASQUALE


I tempi erano ormai maturi per un nuovo dio. Certo, i sacerdoti di Giove si occupavano ancora, come nei tempi antichi, di mantenere buone relazioni con le Potenze superiori; la Dea Madre aveva i suoi altari per tutto il Mediterraneo, e a essi ancora giungevano pellegrini per recitare le loro preghiere e malati che speravano in un miracolo. Ma a fianco della consueta pratica religiosa si facevano strada culti sempre più esotici, provenienti dalla periferia orientale dell’Impero romano. I figli dei patrizi, insoddisfatti della fede dei loro padri, viaggiavano dal Tevere al Nilo per farsi iniziare a misteri esoterici. Talora una divinità straniera riusciva persino a conquistarsi un tempio a Roma; nessuna però aveva ottenuto il primato assoluto nella sfera sacra tra Spagna e Siria, Africa e Britannia. Così stavano le cose quando i seguaci di un certo Cristo (Chrestos) cominciarono a far parlare di sé. La strana setta trovava adepti tra piccoli artigiani e schiavi, si teneva lontana dai bagni pubblici, dalle corse dei carri e dai combattimenti dei gladiatori, e predicava il disprezzo per gli dèi. Nessuno trovò da ridire quando le autorità presero severi provvedimenti contro questi spregiatori della religione. Di loro si sapeva comunque molto poco: pregavano un Giudeo che era morto crocifisso come criminale, si incontravano in segreto, erano legati da un profondo sentimento di fratellanza, avevano le loro associazioni in ogni città di una certa importanza ed erano rigidamente organizzati. E credevano in Dio - non nel significato generico, tradizionale, del termine usato per gli dèi Olimpi, ma nell’Entità singola assoluta appartenente alla dimensione ultraterrena, al cui confronto la familiare molteplicità dei Celesti si riduceva a impostura di dèmoni. Questo Dio, di origine ebraica come il Crocifisso, riuscì contro ogni previsione a diventare l’istanza politico-religiosa centrale nell’Impero romano, con le ben note conseguenze in Europa e nel resto del mondo. Dietro questo processo straordinario si celò fin dall’inizio una forza che i cristiani chiamarono "Spirito Santo". Per il resto, le notizie sul modo di agire di questa forza sono molto frammentarie: lo Spirito Santo si cela tra le righe dei testi cristiani fondamentali, e si svela solo attraverso indizi che danno l’impressione di essere cifrati, come se esso volesse occultare il proprio ruolo decisivo nell’evento della salvezza. Chi è capace di decifrare il codice e di leggere i segni, vedrà gli esordi del cristianesimo sotto un’altra luce. Essi si avvicinano a un fenomeno che ai nostri giorni, con un atteggiamento piuttosto restrittivo, sarebbe tutt’al più di competenza della psichiatria. Gesù diventa quindi un caso di possessione - resta semplicemente da chiedersi da chi o da che cosa sia provocato. Per chi medita questi misteri, la risposta a tale domanda, possiamo esserne sufficientemente certi, non si trova nella Bibbia.


UNA COLOMBA DAL CIELO

La prima notizia abbastanza attendibile sull’intervento di uno "Spirito Santo" nel corso degli eventi risale al secondo decennio della nostra era. In quei giorni, si dice nel Vangelo di Marco (1,9), Gesù venne da Nazareth in Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto. Nel Vangelo di Matteo la visione che ebbe Gesù è definita "Spirito di Dio". Luca è il più esplicito fra tutti: lo Spirito Santo, con articolo determinativo, sarebbe sceso dai cieli aperti su Gesù "in apparenza corporea, come di colomba". Il quarto Vangelo, infine, viene presentato come testimone Giovanni Battista: Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. La manifestazione del divino sotto forma di colomba sarebbe dunque stata percepita solo da Gesù e dal suo battezzatore. Viene spontaneo chiedersi in base a quale fonte i due interpretassero l’uccello celeste come incarnazione proprio dello Spirito Santo; non c’è un solo passo nell’Antico Testamento che colleghi lo Spirito di Dio a una colomba.

Nelle storie che circolavano tra i discepoli di Jeshu’a e quelli di Johanan, e che in seguito confluirono nei Vangeli cristiani, si può ancora notare la tensione originaria tra i due uomini: essi appaiono come una coppia antagonista, al pari di Romolo e Remo, Caino e Abele. Uno dei due deve morire, e in questo caso è Johanan, che difatti è già atteso dal boia. La scelta però è già stata fatta nella dimensione visionaria che avvolge i due uomini durante l’estasi. In questo spazio dominano certezze diverse da quelle della vita quotidiana: l’essere che scaturisce dalla cascata dei cieli aperti e come colomba scende a volteggiare sul prescelto deve trarre origine dall’ambito divino, deve provenire, per gli Ebrei credenti, da JHWH, l’Altissimo, sia lodato il Suo nome, i cui affiati già nei tempi antichi avevano ispirato i Profeti: lo Spirito di Dio, in ebraico ruah jahu. In questo modo si decide anche quale battesimo consacrerà da quel momento in poi gli araldi dell’imminente Regno di Dio - non il battesimo con acqua, ma il battesimo "in Spirito Santo".
Subito dopo, prosegue Marco, lo Spirito lo sospinse nel deserto. Così l’Evangelista intende chiarire come funziona il nuovo battesimo, innanzitutto per Jeshu’a il Nazareno, il prediletto dal Cielo per indicazione della colomba. Il battezzatore con acqua, Johanan, deve cedere il passo. La colomba spirituale non venne da allora mai più scorta.

Il Giordano proseguiva da lì la sua corsa verso il Mar Morto, il punto più basso della Terra, dove la moglie di Lot per la sua eccessiva curiosità si irrigidì in una statua di sale. Là, nel più inospitale dei deserti, Jeshu’a deve incontrare un altro spirito, non uno Spirito Santo, ma malvagio e nemico, chiamato Shaitan. Egli comanda sugli innumerevoli ginn di quelle lande desolate, i mostruosi esseri intermedi che fanno da corteo disordinato e strepitante al Signore delle Tenebre: da ogni parte spuntano spiriti, più o meno dotati di corpo, né dèi, né bestie, né uomini, asessuati, con artigli, becchi, occhi enormi, squame, code. Ma Jeshu’a è "pieno" di Spirito Santo, come sottolinea Luca e fin dall’inizio è stabilito che vincerà nella lotta per il potere. Nella bolgia degli spiriti giunge il comando di Dio: Nessuno può stare al mio confronto! A me solo spetta ogni ossequio! Subito gli esseri maligni si disperdono nell’aria, abbandonando il campo in attesa dell’attacco successivo. Già si avvicinano gli esseri dai volti fiammeggianti discesi dal Trono di JHWH, per ristorare l’estenuato Jeshu’a. Gli angeli lo servivano, osserva Marco. Poi Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio, prosegue l’Evangelista: è imminente la conversione dell’esistente, ecco io faccio nuova ogni cosa, la mensa di Abramo è già pronta per gli affamati, cielo in terra, a noi venga il tuo regno. I più sensibili a questo nuovo modo di esprimersi sono gli indemoniati. Se ne ha già un esempio quasi teatrale appena il Nazareno fa il suo primo ingresso nella sontuosa sinagoga di Cafarnao, sul lago di Tiberiade in Galilea: un uomo comincia a urlare, lo "spirito immondo" (così Marco) che lo possiede parla alla prima persona plurale - evidentemente non è l’unico ad essere nervoso. Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio! I dèmoni sanno dunque come stanno le cose. Ora l’uomo di Nazareth deve mostrare di che cosa è capace: il predicatore si è già trasformato in esorcista. Due comandi energici colpiscono al centro del problema: Taci! Esci da quell’uomo! Subito il corpo dell’indemoniato si contorce: la potenza che lo possiede non è disposta a cedere così facilmente. Alla fine l’urlo prolungato, segnale che il dèmone è uscito dal corpo. Poi, silenzio. Mormorii tra il pubblico: egli comanda persino agli spiriti immondi ed essi gli obbediscono. Matteo e Luca sanno qual è il passo successivo di uno spirito cacciato: dopo essere uscito dal corpo della vittima, se ne va per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: Ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito. E tornato la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, si prende sette altri spiriti peggiori ed entra a prendervi dimora. Questo racconto suona piuttosto inquietante: il mondo degli Evangelisti è pieno di spiriti, così come è oggi quello degli abitanti dell’isola di Bali. Tanto più energicamente insistono gli Evangelisti sulla singolarità dello Spirito che si è impadronito della persona del Nazareno: solo questo spirito disceso “dall’alto”, così dice il Vangelo di Giovanni, merita il titolo di Santo. Deve essere lui che ha designato Jeshu’a come salvatore di Israele, come mashiah (= Messia, letteralmente "l’Unto", in greco christòs). Senza questo "Spirito Santo", Gesù non sarebbe mai divenuto il Cristo, e la religione che a lui si richiama dovrebbe cercarsi un altro nome.


RITMO FRENETICO

No, il cristianesimo non è una religione del Libro, per lo meno non originariamente. il Nazareno non ha lasciato niente di scritto. Non mi trattenere, chiede Gesù nel Vangelo di Giovanni alla sua affezionata Maria di Magdala: con ciò veniva anche respinto ogni tentativo di fissare per iscritto le sue parole. Evidentemente Jeshu’a non aveva tempo di dedicarsi alla scrittura; e i testi sacri che furono poi composti su di lui sono gravati fin dal principio dal sospetto di avere falsato le intenzioni originarie del Nazareno. Non a caso, quindi, nel Nuovo Testamento affiorano, senza volerlo, tracce furtive di una profonda autoironia, come ad esempio nella Seconda lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo: la lettera uccide, lo spirito dà vita. Nel cuore stesso del testo, dunque, la tendenza alla fissazione della parola scritta è frenata dal principio divino originario, sotto la sigla "Spirito", senza il cui intervento il Nazareno sarebbe rimasto un falegname.

Con il termine "Geist" i popoli germanici convertiti al cristianesimo tradussero la parola greca pneuma (in latino: spiritus) presente nella Bibbia. Pneuma era a sua volta una traduzione della radice semitica rwh, di genere femminile, resa in ebraico con ruah, in siriano con ruho, dal significato originario di "aria in movimento". Il Geist germanico aveva sì in comune con la ruah semitica l’incorporeità, ed anche una certa vivacità, ma agli uomini del Nord era completamente estranea la sfera semantica del vento infuocato proveniente dal deserto arabo, che nell’Antico Testamento viene ugualmente chiamato ruah. Nel Vangelo di Giovanni, al contrario, è ancora presente il significato primitivo di ruah: il vento (pneuma) soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito. Nella versione originale greca, il pneuma di questo passo rivela con estrema chiarezza la sfumatura linguistica semitica soggiacente: il versetto indica la ruah come un vento impetuoso per poi subito trasformarla in metafora per qualcosa che afferra all’improvviso e trasforma in una nuova persona. L’effetto doveva dunque essere stato prorompente nell’evento che qui viene narrato, ma questo, con la sua natura così posata, è destinato a rimanere del tutto estraneo al Geist tedesco, anche a quello Santo, tanto quanto può esserlo un bazar orientale. I 378 passi dell’Antico Testamento in cui compare la ruah si possono al contrario associare a tutto ciò che contrasta l’uniforme andamento delle cose - che si tratti della creazione del mondo, di un accesso di collera, della condiscendenza di JHWH per l’uomo Mosè o della resurrezione di cadaveri, della garanzia dell’incomparabile forza fisica di Sansone o del furore estatico dei profeti di Dio, oppure della trasformazione di un guerrigliero come David in un monarca rispettabile. Non appena la ruah piomba dall’alto, i figli e le figlie di Israele cominciano a profetare, i fanciulli hanno visioni, i consiglieri vengono visitati da sogni veritieri, e Dio fa un nuovo Testamento.

Così fu anche per Jeshu’a, il figlio dl Giuseppe il falegname. Come la ruah abbia rivoluzionato la vita di quest’uomo, le cui fasi precedenti restano oscure, ci è svelato da una paroletta che l’evangelista Marco si lascia sfuggire, senza un’intenzione particolare, ben 41 volte: euthys. Si tratta solo di un pleonasmo su cui è facile sorvolare, presente all’inizio di alcune frasi, che funge da elemento di transizione da un episodio all’altro: "subito", "non appena", "senza indugio", "immediatamente dopo". Questa particella innesta un ritmo serrato nella vita del Nazareno: eccolo costretto a correre come un forsennato da una scadenza all’altra, per circa un anno, fino a che per lui non giunge la fine. Il rapido staccato della ruah ha inizio in Marco nell’istante in cui Jeshu’a emerge dalle acque del Giordano dopo il suo battesimo. Subito il cielo si spalanca, scende la colomba, risuona la voce imperiosa. Immediatamente dopo la ruah spedisce il suo uomo nel deserto. Ed ecco che Shim’on e suo fratello abbandonano le loro reti sulle sponde del lago di Genezaret per correre dietro a Jeshu’a, che li ha chiamati con un cenno. E non appena è sabato Jeshu’a mette piede nella Sinagoga di Cafarnao. Di colpo l’indemoniato grida e il dèmone lo lascia. E così via, in lungo e in largo per la Galilea, poi a Tiro e a Sidone, a sud verso Gerico e infine di nuovo a nord per la festa della Pasqua a Gerusalemme, dove l’ultimo euthys affretta la consegna a Pilato del prigioniero, all’alba del Venerdì Santo che porterà Jeshu’a sulla croce. Gesù può finalmente prendersi tempo solo dopo la sua morte, nel corso della sua divinizzazione e ascesa al trono alla destra del Padre: per tutto questo, nel Vangelo di Marco, non è più necessario alcun euthys.


PRESTO!

C’è una porzione di eredità ebraica, dunque, nell’accelerando spirituale della ruah di Colui il cui nome i pii giudei contemporanei di Jeshu’a non avevano più sulle labbra, per non offendere Dio. Per questo coloro che seguirono Jeshu’a dal battesimo nel Giordano fino alla crocifissione sul Golgota, impressionati dallo straordinario potere del loro maestro, aggiunsero alla ruah divina l’articolo determinativo e l’attributo di santità. Questo Spirito Santo aveva, si è detto, una certa fretta, come era già stato preannunciato da parecchio tempo in certi trattati, un nuovo tipo di letteratura "catastrofica" apparsa tra il II secolo a.C. e il I della nostra era, composti da Ebrei impazienti per i quali la vecchia fase del mondo non volgeva abbastanza velocemente alla fine. Uno di loro si chiamava Giovanni e il suo libretto, Apocalisse [cioè rivelazione] di Gesù Cristo, diede in seguito il nome all’intero genere letterario. L’autore dell’Apocalisse forse non doveva avere mai incontrato faccia a faccia l’uomo Jeshu’a, anche se si era appropriato del nome di uno dei discepoli del Nazareno. Nella sua mente creativa, lo Jeshu’a terreno divenne una figura terribile, dalla voce simile al fragore di grandi acque, gli occhi fiammeggianti come fuoco e i piedi che avevano l’aspetto del bronzo splendente. Egli avrebbe udito la voce dell’apparizione "in Spirito" una domenica sull’isola di Patmos, garantisce l’autore proprio all’inizio del suo scritto, reclamando così per sé la stessa vista profetica conferita a Jeshu’a e a Johanan quando scorsero la colomba, alla fine degli anni Venti del I secolo - nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, sentenzia Luca (3,1). Da allora qualche altro signore del mondo era trapassato all’Ade, tra cui il crudelissimo persecutore di cristiani Nerone, morto nel 68 d.C. Lo Spirito Santo, al contrario, era ancora ben vivo e vegeto stando alla testimonianza dell’Apocalisse di Giovanni, che si calcola sia stata redatta negli ultimi anni del regno di Domiziano, intorno all’anno 95 d.C. Evidentemente i destinatari dell’Apocalisse, sette comunità cristiane disseminate in altrettante città citate per nome nel territorio dell’attuale Turchia occidentale, sapevano bene quanto l’autore che cosa significasse "in Spirito" - altrimenti egli avrebbe sicuramente fornito loro una spiegazione. Erano anche informati dell’abitudine a conversare dei draghi, del significato del numero 666 e di altri messaggi cifrati che avrebbero dato parecchio filo da torcere agli esegeti posteriori. Esoterismo a non finire, dunque, nei circoli cristiani di Efeso o Pergamo che si immergevano nella lettura dell’Apocalisse. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Sette volte l’autore ripete l’ordine sceso dall’alto che lo ha spinto a scrivere, in modo che non sorga davvero alcun dubbio sul fatto che non l’ambizione letteraria ha guidato la sua penna, bensì lo pneuma santo, la ruah del Signore Gesù, del testimone fedele, del primo di coloro che sono risorti dalla morte, dell’arconte dei re della terra. I destinatari dell’Apocalisse di Giovanni non sono invitati allo studio del testo e al piacere della lettura, come potremmo aspettarci oggi, ma a trapassare nella sfera di un’esperienza spirituale che afferra e pervade il Signore Gesù così come l’autore e persino la sua cerchia di lettori - di cui Giovanni scrive che sono come afferrati dallo Spirito; il loro orecchio potrà udire solo se sarà diventato un orecchio ispirato. Lo Spirito Santo, l’autore non si stanca di precisarlo, è diventato mezzo esclusivo di coloro che hanno il privilegio di udirlo, e questo mezzo è anche il messaggio. I non-privilegiati, e cioè i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi,gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna, rimangono "fuori", esclusi dal medium-Spirito. L’ambito dell’esperienza spirituale rappresentato nell’Apocalisse giovannea è quello della setta.

Nello spazio ispirato, che l’autore dell’Apocalisse giovannea dispiega "in Spirito", vengono suscitate violente energie - paura e terrore, desideri di vendetta, sadismo, certezza di vittoria. A partire dal quinto capitolo la scena della visione è dominata da Gesù Cristo sotto forma di Agnello immolato, fornito di sette corna e sette occhi, protagonista mostruoso e implacabile di 28 passi. La collera dell’Agnello è immensa, rileva l’autore: non appena i primi quattro sigilli del Rotolo in cui sta scritto il destino dell’umanità vengono aperti, i destrieri dei cavalieri dell’Apocalisse cominciano a galoppare, e quello che portano è ben poco piacevole. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra. Lo psicologo del profondo Carl Gustav Jung diagnosticò nell’autore dell’Apocalisse una vasta trama di risentimenti, un’orgia di odio, collera, e cieca furia distruttiva, che si sfoga in immagini fantastiche e terrificanti, tutt’al più paragonabili alle allucinazioni che accompagnano le psicosi gravi. Questo però non ci impedisce di chiederci se il responsabile delle furiose galoppate dell’Apocalisse debba essere considerato lo Spirito Santo o lo sconosciuto scrittore di Patmo. O magari entrambi. A discarico dello Spirito Santo emerge il fatto che il suo portavoce, qua e là, ha un poco barato per quanto riguarda l’originalità delle visioni descritte. I quattro esseri viventi del quarto capitolo non derivano, come afferma l’autore, da una visione, ma sono una ripresa letterale dal libro del profeta Ezechiele. Ulteriori prestiti dalla letteratura apocalittica si possono dimostrare con altrettanta facilità - il che prova l’erudizione dell’autore dell’Apocalisse, ma non la sua qualificazione come mistico di talento. Forse gli capitò qualcosa di simile a quello che avvenne a Emanuel von Swedenborg, ingegnere minerario e visionario svedese, che di tanto in tanto, durante la semplice lettura di un testo sacro, improvvisamente "era in Spirito", conversava con gli angeli e incontrava anche parecchi draghi apocalittici. Mille e seicento anni separano Swedenborg dalla stesura dell'Apocalisse, il che è evidentemente del tutto irrilevante quando l’aldilà prende vita.

Poco fa abbiamo nominato un termine importante: psicosi. Il celebre indagatore di anime, a cui tale termine venne in mente durante la lettura dell’Apocalisse, era ben lungi dal paragonare la religiosità mistica alla pazzia: egli sapeva che difficilmente una religione di portata mondiale ha origine dallo schiamazzo di dementi. Jung si considerava un medico: mentre i cristiani litigano sulla giusta interpretazione della verità, scriveva, il medico si occupa di un caso urgente. Chi ha indagato sulle allucinazioni schizofreniche sa dell’esistenza di motivi archetipici nella psiche di persone che non hanno mai sentito parlare di mitologia. Un collega di Jung, lo psichiatra di origine praghese Stanislav Grof, si è ugualmente imbattuto nel corso delle sue terapie in quelle rappresentazioni collettive primordiali che Jung aveva chiamato archetipi. Grof lavorò dapprima con l’LSD, poi con l’iperventilazione (respirazione accelerata): chi partecipa all’esperimento raggiunge con essa stati di coscienza alterati e rivive il trauma della propria nascita, assieme alle paure e alle angosce che accompagnano il cammino del feto verso la luce del mondo. Grof menziona esplicitamente visioni apocalittiche nella sua descrizione delle immagini percepite durante viaggi del genere: possono comparire draghi, angeli e diavoli che combattono tra di loro, sino alla liberazione finale da tutte le paure, accompagnata da molta luce e colori sgargianti, come negli ultimi due capitoli dell'Apocalisse giovannea, dove la Sposa dell’Agnello discende dal cielo come città d’oro con dodici porte scintillanti formate da perle. Tra il disturbo psicotico e l’estasi mistica Grof non traccia un confine rigido: l’unica vera discriminante tra fatto clinico e fatto religioso è da lui individuata nell’abilità o meno a integrare l’esperienza vissuta nella vita quotidiana. Lo spazio "transpersonale", così lo definisce Grof, racchiude santi e folli: un esito accettabile anche sul piano teologico.

Per i "santi" che vivevano a Efeso, dove sorgeva il monumentale tempio di Artemide polimastide, o quelli di Pergamo, con il gigantesco altare di Zeus al di sopra della città, la vita quotidiana era determinata da forze che essi, in quanto cristiani, rifiutavano tassativamente. Tutte le nefandezze pagane, questo intimava loro l’Apocalisse "in Spirito" dovevano di lì a breve, nel corso di una sola ora, essere ridotte a un deserto, a un incolto terreno di rovine per archeologi. La profezia non era del tutto sbagliata, come si è rivelato nel frattempo. Ci vollero tuttavia ancora un paio di secoli perché le visioni di rovina dell'Apocalisse divenissero realtà. Il tempo è vicino, sottolinea la rivelazione esoterica proprio all’inizio dell’opera, e alla fine l’imperiosa voce divina dichiara: Sì, verrò presto! Che cosa ciò volesse dire, non potevano saperlo né l’autore né i destinatari dell'Apocalisse. Essi fecero l’errore di prendere alla lettera lo Spirito Santo. Senza questo errore essi sarebbero certamente da tempo dimenticati.


DOPO LA PASQUA

L’opera detto Spirito Santo, nei sessantacinque anni tra il battesimo del figlio del falegname e la dettatura dell'Apocalisse giovannea, ebbe il suo culmine assoluto nella settimana che seguì la morte di Cristo sulla croce. Se si deve credere ai Vangeli, che furono redatti parecchi decenni dopo i fatti, i seguaci del giustiziato, uomini e donne, vissero in maniera molto differenziata ciò che allora accadde. Talora è uno straniero che al momento decisivo si fa riconoscere come la persona creduta morta. In un’altra occasione il defunto compare davanti al gruppo di discepoli sconvolti, riuniti a porte chiuse, con le stimmate fresche sul corpo, e si fa ospitare. Oppure un giovinetto vestito di bianco, seduto nel sepolcro vuoto, annuncia alle giovani donne atterrite l’inconcepibile: È risorto, non è qui. A un altro testimone per credere è sufficiente la vista delle bende mortuarie abbandonate nella tomba. Non manca nemmeno il rappresentante dello scetticismo, l’incredulo Tommaso, come se il testo volesse alludere ironicamente ai tranelli in cui può finire il pensiero scientifico. Beati quelli che pur non avendo visto crederanno, viene detto all’apostolo dubbioso. Segue l’ascesa di Cristo al cielo sotto gli occhi dei fedeli, con la promessa del suo ritorno imminente. Sette settimane dopo la Pasqua lo Spirito Santo si manifesta, in forma definitiva, nella tempesta di fuoco della mattina di Pentecoste, come dono di grazia continuamente operante della rinvigorita forza profetica del nuovo Israele tra i popoli.

Tutto questo è ormai per noi storia superata, e le generazioni venute dopo il "Big-Bang" cristiano devono considerarsi ritardatarie, battezzate superficialmente come sono. Nei racconti pasquali che vengono loro letti ad alta voce resta inespressa la cosa più importante: in nessun luogo viene rivelato come la personalità di quegli uomini e di quelle donne, che dopo aver seppellito il loro Jeshu’a si accingevano a ritornare alle loro barche da pesca e alle loro pentole, venne invece completamente trasformata. L’apparizione del cadavere vivente suscita in loro innanzitutto terrore, e le parole rassicuranti del fantasma, Non temete, denunciano solamente l’abisso che doveva venire superato perché l’orrore si mutasse in giubilo. Questo giubilo di un circolo ristretto di discepoli di Gesù, che nella migliore delle ipotesi comprendeva una dozzina di persone, venne poi trasferito ai resto dei seguaci? Se sì, rimane comunque inspiegabile come una tale comunità in festa si sia tramutata in un’energica macchina di propaganda divina, che percorse in lungo e in largo le strade della Palestina, della Siria, dell’Arabia, dell’Asia Minore, per divulgare la notizia che un ebreo giustiziato aveva giocato un tiro mancino alla morte.

Si sono conservati solamente un paio di oscuri accenni all’azione dello Spirito tra la Pasqua e la Pentecoste nell'anno della morte di Cristo, che i "ritardatari" si sono sforzati di decifrare. Il maestro ritornato dal regno dei morti avrebbe alitato sui suoi discepoli e avrebbe detto: Ricevete lo Spirito Santo. Noi sappiamo, afferma un altro passo delle Scritture, che siamo passati dalla morte alla vita. Lo Spirito Santo sarebbe disceso su di lui e sugli altri Apostoli, racconta Pietro - sarebbe stata dunque una specie di distribuzione di premi tra i seguaci, ricolmati del dono dell’eloquenza e della persuasione retorica. La privazione del sonno potrebbe aver giocato in tutto ciò un certo ruolo. Le fonti riferiscono che gli uomini e le donne più legati a Jeshu’a, dopo l’ascesa al cielo del loro maestro, si sarebbero trasferiti in una stanza "al piano superiore" a Gerusalemme, per trattenervisi "assidui e concordi in preghiera". L’istantanea, sempre che sia stata scattata sotto la luce giusta, coglie un raggruppamento di persone fuori dal comune, impaurito da Dio, È difficile immaginarsi che queste persone, durante le loro peregrinazioni al seguito del nervoso Nazareno, abbiano dato tanto peso a un riposo notturno indisturbato. Poi l’angoscia degli ultimi giorni, dopo la Domenica delle Palme a Gerusalemme, pieni di presagi di una catastrofe ineluttabile. Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me, dice il Maestro nella notte del suo arresto ai discepoli che, esausti, si sono addormentati. Già al primo canto del gallo della mattina di Pasqua, dopo lo sgomento impietrito del Sabato Santo, alcune donne si precipitano fino al sepolcro e vengono subito sorprese da manifestazioni ultraterrene quanto mai reali. Gli uomini sono dapprima diffidenti, poi però vengono rapidamente coinvolti nell’evento che fa dell’ucciso un vincitore, fino a che egli non si dilegua in cielo lasciando vuoto il proprio posto nella consueta cerimonia dello spezzare il pane, in quella sala al piano superiore - cerimonia di cui si parla un’unica volta, senza darne ulteriore spiegazione. Non ce ne sono, di spiegazioni. La singolare e irripetibile dinamica di gruppo che intercorse, nei giorni precedenti l’esplosione della Pentecoste, tra uomini e donne di origine ebraica di cui conosciamo i nomi, resta per sempre sepolta nel segreto di quella stanza. Ci è dato solo di sbirciare dalla serratura per vedere un paio di persone sovraeccitate, che hanno poco tempo per l’igiene del corpo, mangiucchiano distrattamente qualche boccone di cibo quando la fame si fa sentire, dormono poco e per il resto non hanno altro in mente che colmare il vuoto creatosi al centro della loro comunità evocando con la preghiera la presenza di colui di cui essi così intensamente sentono la mancanza. Maranà tha: vieni, o Signore! In casi normali, un brusìo del genere non conduce proprio a niente, anche se dura per ore - a meno che lo Spirito Santo di Dio non si senta spinto ad assumere il controllo all’interno di questa associazione già piuttosto "fuori di testa" di massaie e pescatori analfabeti; essi perciò si persuaderanno di essere in contatto permanente con la Beatitudine dei troni celesti, dove sia il Padre che il Figlio vivono in eterno, come era in principio, così ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen. A partire dalle nove del mattino della domenica di Pentecoste il contatto permanente è attivato, la macchina dello Spirito ha dato il via al suo lavoro nella tempesta di fuoco - Anno Domini 30, se le date tornano. I cristiani "ritardatari" sarebbero stati felici di sapere come lo Spirito Santo, nel corso dei successivi quarant’anni, si fosse scelti i suoi quattro evangelisti, e soprattutto avrebbero appreso volentieri tutto ciò che fosse degno di nota sul costituirsi del Nuovo Testamento, ma purtroppo devono accontentarsi di qualche lettera dell’apostolo Paolo, dettata negli anni 50, e dei primi dodici capitoli degli Atti degli Apostoli, che furono messi per iscritto intorno al 70. Né le Lettere né gli Atti offrono dati utili sui metodi di suggestione dello Spirito Santo, sulla cosiddetta ispirazione, a cui si deve la mitezza severa di quella prosa che più tardi venne letta in ginocchio da regine e garzoni di ciabattini, papi e monache, conquistadores e popoli delle colonie dell’era cristiana. Gli studiosi della Bibbia si tormentano da un centinaio d’anni chiedendosi quali affermazioni attribuite a Jeshu’a nei Vangeli potrebbero discendere proprio da lui e quali furono invece formulate solo dopo la sua morte, nei circoli spirituali di coloro che credevano al Risorto e speravano nel Suo imminente ritorno per il Giudizio Universale - ebrei e greci, egiziani, siri e romani, poiché il Vangelo fu divulgato con grande rapidità. Come docenti accademici, i biblisti non possono lasciar affiorare nella loro prosa scientifica la benché minima fiducia nell’operato dello Spirito Santo, ma devono conservare un rigido distacco nel loro lavoro di ricerca. Quando sono più o meno sicuri che una parola autorevole del Nazareno venne coniata solo venti o trenta anni dopo la sua morte, parlano di "formula comunitaria" - come se le parole alate della Bibbia si potessero tranquillamente attribuire alle smanie di grandezza del primo maniaco religioso sulla piazza. Simili facezie non arrivano nemmeno a sfiorare la ragione per cui la Bibbia è stata per tanto tempo il libro in assoluto più popolare. Perciò quell’affascinante marxista messianico che fu il filosofo Ernst Bloch (morto nel 1977) ha tenuto in scarsa considerazione gli esegeti da parata come Rudolf Bultmann. La loro "demitologizzazione", così scrive Bloch, annulla le sfumature, riduce a menzogne tutte le favole, e finge di non sentire la voce di Prometeo nel sussurro dei miti. Dagli studiosi della Bibbia, pertanto, non c’è da aspettarsi nessuna risposta alla domanda dei "ritardatari" sull’origine della cultura occidentale del Libro. Tutt’al più, gli eruditi sono in grado di stabilire le coordinate politiche, sociali ed economiche all’interno delle quali furono redatti i testi fondamentali della cristianità. Una prospettiva di questo genere ci fa però sapere che in Terra Santa, proprio durante la più intensa attività d’ispirazione dello Spirito Santo, scoppiò una guerra dalle conseguenze catastrofiche per il popolo d’Israele.

Non rimarrà qui pietra su pietra. Così esclamò Gesù (secondo Marco) alla vista del tempio di Gerusalemme, considerato una delle meraviglie del mondo. Nessun’altra profezia del Nazareno si è avverata con maggior precisione: un unico muro è rimasto in piedi dell’edificio grandioso che il re Erode fece innalzare in dieci anni, e che al tempo di Cristo non aveva neppure cinquant’ anni. La sua distruzione nell’estate dell’anno 70 della nostra era - la risposta dei Romani a una rivolta popolare nella provincia della Giudea che durava già da quattro anni - privò i figli di Abramo del loro centro politico e religioso sino al tempo della fondazione di Israele nel 1948, nel XX secolo dopo la nascita di Cristo. Eppure, stranamente, né la guerra giudaica né la sua fine terribile trovano una diretta menzione negli scritti del Nuovo Testamento. Solo indirettamente, come profezia minacciosa di Jeshu’a, sono annunciati eserciti in guerra che assedieranno Gerusalemme, e una devastazione della Città Santa. Questo silenzio ha un effetto sorprendente, se si considera la manifesta ostilità di tutti e quattro gli Evangelisti nei confronti dei "Giudei" (Vangelo di Giovanni). Se i Vangeli, come oggi viene ammesso quasi unanimemente, furono redatti dopo la distruzione di Gerusalemme del 70, viene spontaneo chiedersi perché essi rinunciarono a buttare in faccia agli Ebrei la rovina del loro Tempio quale castigo divino per la loro incredulità. Lo Spirito Santo non ha forse permesso una tale perfidia? Dopo Auschwitz sarebbe bello poterselo immaginare. Ma purtroppo, come ben si sa, Dio preferisce eludere le domande sgradevoli.


BIBEL, BUBEL, BABEL

Ci vollero trecento anni perché i cristiani si mettessero d’ accordo su quali Vangeli fossero stati ispirati dallo Spirito Santo e quali no. I Vangeli respinti - ed erano molti - vennero tolti dalla circolazione, e che alcuni di essi, nonostante tutto, si siano conservati, è un fatto noto solo agli specialisti. Secondo la sistemazione data dalla Chiesa, il testo sacro della "Nuova Alleanza", come lo si può comprare nelle librerie, comprende in tutto ventisette scritti: i Vangeli di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, inoltre quattordici Lettere attribuite a Paolo, un paio di altri scritti epistolari, gli Atti degli Apostoli, e infine l’Apocalisse giovannea. Per persone ardentemente alla ricerca di Dio essi furono spesso insufficienti. Costoro non potevano proprio accontentarsi di credere che lo Spirito Santo avesse terminato la sua attività attorno all’anno 100, in accordo con quanto stabilito autorevolmente dalla rivelazione divina. Il propugnatore più acceso di questa spiritualità si chiamava Thomas Muntzer, e morì decapitato nel 1525 per aver partecipato all’insurrezione contadina tedesca. Se uno per tutta la vita, proclamò Muntzer, non avesse né udito né visto la Bibbia, potrebbe comunque avere un’autentica fede cristiana grazie al retto insegnamento dello Spirito, come l’ebbero tutti coloro che redassero le Sacre Scritture senza alcun uso di libri. Questo significava affermare, con il sostegno proprio degli autori dei testi biblici, che tutti i credenti "ritardatari", in linea di principio, erano contemporanei, e sottomessi solo all’afflato dello Spirito Santo - un’affermazione decisamente audace. Difatti all’epoca seguì anche una dura replica da parte di Martin Lutero al suo collega radicale, cui egli rinfacciò di aver deriso tutta la Sacra Scrittura con le parole Bibel, Bubel, Babel (Bibbia, bubbole, Babele). Muntzer non era da meno di Lutero quanto a violenza verbale: una persona che non sappia nulla della parola interiore di Dio racchiusa nel profondo della sua anima, scrisse, resterà sempre ignorante, anche se ha divorato centinaia di migliaia di Bibbie. Una riconciliazione tra il principio del Testo sostenuto da Lutero e il principio dello Spirito di Muntzer non è facile. Nel primo caso, la persona si appoggia alla garanzia delle Scritture, nell’altro alla presenza della loro origine spirituale. Ernst Bloch trovava che la forma di spiritualità solitaria, come essa si manifestò già nei primi tempi del cristianesimo, fosse da considerare come il prototipo della creatività umana di età moderna. Questo, per di più da parte di un ateo, è uno splendido complimento per lo Spirito Santo.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 21:12

Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) "Gesù di Nazaret" - RCS Libri 2007



IL BATTESIMO DI GESU'


L’attività pubblica di Gesù ha inizio con il suo battesimo al Giordano a opera di Giovanni il Battista. Mentre Matteo data questo avvenimento solo con una formula convenzionale – "In quel tempo" - Luca lo inserisce intenzionalmente nel grande contesto della storia universale, permettendo così una datazione ben precisa. A dire il vero, anche Matteo offre una sorta di datazione, premettendo al suo Vangelo l’albero genealogico di Gesù, costruito come albero genealogico di Abramo e Davide: Gesù è presentato come l’erede sia della promessa ad Abramo sia dell’impegno di Dio verso Davide, al quale - nonostante tutti i peccati d’Israele e tutti i castighi di Dio - Egli aveva promesso una regalità eterna. Secondo quest’albero genealogico la storia si articola in tre periodi di 14 generazioni - 14 è il valore numerico del nome Davide -: da Abramo a Davide, da Davide all’esilio babilonese e poi un ulteriore periodo di 14 generazioni. Proprio il particolare che sono di nuovo trascorse 14 generazioni indica che è venuta l’ora del Davide definitivo, della rinnovata regalità davidica intesa come instaurazione della regalità propria di Dio. Come si addice all’evangelista ebreo-cristiano Matteo, si tratta di un albero genealogico giudaico nella prospettiva della storia della salvezza, che guarda alla storia universale al massimo in modo indiretto, nella misura cioè in cui il regno del Davide definitivo, come regno di Dio, riguarda naturalmente il mondo nella sua interezza. Con ciò anche la datazione concreta rimane vaga, perché pure il computo delle generazioni è modellato più sulle tre fasi della promessa che su una struttura storica e non mira a stabilire precise coordinate temporali. Qui intanto osserviamo che Luca non colloca l’albero genealogico di Gesù all’inizio del Vangelo, ma lo collega alla narrazione del battesimo quale sua conclusione. Ci dice che a quel tempo Gesù aveva circa trent’anni, aveva cioè raggiunto l’età che lo autorizzava a un’attività pubblica. Nel suo albero genealogico Luca - al contrario di Matteo - parte da Gesù e percorre la storia a ritroso. Ad Abramo e Davide non viene data particolare rilevanza: l’albero genealogico va indietro fino ad Adamo, anzi fino alla creazione, poiché dopo il nome di Adamo Luca aggiunge: figlio di Dio. In questo modo mette in risalto la missione universale di Gesù: Egli è figlio di Adamo - figlio dell’uomo. Attraverso il suo essere uomo noi tutti apparteniamo a Lui, Lui a noi; in Lui l’umanità conosce un nuovo inizio e giunge a suo compimento.

Torniamo al racconto del battesimo. Luca aveva già fornito due importanti dati temporali nei racconti dell’infanzia. Circa l’inizio della vita del Battista ci dice che esso si deve datare "al tempo di Erode, re della Giudea" (1,5). Mentre il dato temporale concernente il Battista resta così all’interno della storia ebraica, il racconto dell’infanzia di Gesù comincia con le parole: "In quei giorni un decreto di Cesare Augusto..." (2,1). Sullo sfondo, cioè, appare la grande storia universale, rappresentata dall’impero romano.

Luca riprende questo filo introducendo il racconto del battesimo, l’inizio dell’attività pubblica di Gesù. Con solennità e precisione ci dice: "Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa..." (3,1s). Ancora una volta, con la citazione dell’imperatore romano, viene indicata la collocazione temporale di Gesù all’interno della storia universale: l’attività di Gesù non è da considerare inserita in un mitico prima-o-poi, che può significare insieme sempre e mai; è un avvenimento storico precisamente databile con tutta la serietà della storia umana realmente accaduta - con la sua unicità, la cui contemporaneità con tutti i tempi è diversa dalla atemporalità del mito. Non si tratta, tuttavia, solo di datazione: l’imperatore e Gesù personificano due diversi ordini della realtà, che non devono necessariamente escludersi a vicenda, ma che nel loro confronto recano in sé la miccia di un conflitto che riguarda le questioni fondamentali dell’umanità e dell’esistenza umana. "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12,17), dirà Gesù più tardi esprimendo così l’essenziale compatibilità delle due sfere. Ma se l’impero interpreta se stesso come divino, come è già implicito nell’autopresentazione di Augusto come portatore della pace mondiale e salvatore dell’umanità, allora il cristiano deve “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29); allora i cristiani diventano "martiri", testimoni di Cristo, che è morto Egli stesso sotto Ponzio Pilato come "il testimone fedele" (Ap 1,5). Con la citazione del nome di Ponzio Pilato, già dall’inizio l’attività di Gesù è collocata sotto l’ombra della croce. La croce si annuncia anche nei nomi di Erode, Anna, Caifa. Ma si può scorgere ancora qualcos’altro dall’accostamento di imperatore e principi, tra i quali è divisa la Terra Santa. Tutti questi principati dipendono dalla Roma pagana. Il regno di Davide è crollato, la sua "casa" è caduta (cfr. Am 9,11s); il discendente, che secondo la Legge è il padre di Gesù, è un artigiano della provincia della Galilea, abitata da una popolazione prevalentemente pagana. Ancora una volta Israele vive nell’oscurità di Dio, le promesse fatte ad Abramo e a Davide sembrano sprofondate nel silenzio di Dio. Ancora una volta vale il lamento: non abbiamo più profeti, sembra che Dio abbia abbandonato il suo popolo. Ma proprio per questo il Paese era in pieno fermento. Movimenti, speranze e aspettative contrastanti determinavano il clima politico e religioso. Più o meno al tempo della nascita di Gesù, Giuda il Galileo aveva incitato a una rivolta soffocata nel sangue dai romani. Il suo partito, gli zeloti, continuava a esistere, pronto al terrore e alla violenza per ripristinare la libertà di Israele; è possibile che uno o due dei dodici Apostoli di Gesù - Simone lo Zelota e forse anche Giuda Iscariota - provenissero da quella corrente. I farisei, che incontriamo di continuo nei Vangeli, cercavano di vivere seguendo con estrema precisione i dettami della Torah e di evitare l’adattamento alla cultura unitaria ellenistico- romana, che andava imponendosi quasi da sé nei territori dell’impero romano e ora minacciava di appiattire Israele sullo stile di vita dei popoli pagani del resto del mondo. I sadducei, che appartenevano in gran parte all’aristocrazia e alla classe sacerdotale, cercavano di vivere un giudaismo illuminato, consono allo standard spirituale del tempo, e quindi di trovare un compromesso anche con il potere romano. I sadducei sono scomparsi dopo la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), mentre lo stile di vita dei farisei ha trovato forma durevole nel giudaismo plasmato dalla Mishnah e dal Talmud. Se nei Vangeli osserviamo gli aspri contrasti tra Gesù e i farisei, e se la sua morte in croce fu l’esatto contrario del programma degli zeloti, non possiamo tuttavia dimenticare che trovarono la via a Cristo uomini di ogni corrente e che la prima comunità cristiana comprendeva non pochi sacerdoti ed ex farisei. Una casuale scoperta, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, ha avviato a Qumran degli scavi e portato alla luce dei testi che da alcuni studiosi vengono collegati con un movimento più ampio, gli esseni, conosciuto precedentemente solo in base a fonti letterarie. Era un gruppo che si era staccato dal tempio erodiano e dal suo culto e aveva dato vita nel deserto della Giudea a comunità monastiche, ma anche a una convivenza di famiglie fondata sulla religione, e aveva costituito un ricco patrimonio di scritti e di rituali propri, in particolare anche con abluzioni liturgiche e preghiere comunitarie. Ci colpisce la devota serietà di questi scritti; sembra che Giovanni il Battista, ma forse anche Gesù e la sua famiglia, fossero vicini a questa comunità. In ogni caso i manoscritti di Qumran presentano molteplici punti di contatto con l’annuncio cristiano. Non è da escludere che Giovanni il Battista abbia vissuto per qualche tempo in questa comunità e abbia in parte ricevuto da essa la sua formazione religiosa.

Tuttavia, l’entrata in scena del Battista portava con sé qualcosa di veramente nuovo. Il battesimo a cui egli invita si distingue dalle solite abluzioni religiose. Non è ripetibile e deve essere attuazione concreta di una svolta che determina in modo nuovo e per sempre la vita intera. È legato a un ardente invito a un nuovo modo di pensare e di agire, è legato soprattutto all’annuncio del giudizio di Dio e all’annuncio del più Grande che verrà dopo Giovanni. Il quarto Vangelo ci dice che il Battista "non conosceva" questo più Grande a cui voleva preparare la via (cfr. Gv 1,30-33). Ma sa di essere inviato per preparare la via al misterioso Altro, sa che la sua intera missione è orientata verso di Lui. In tutti e quattro i Vangeli questa sua missione è descritta con un passo di Isaia: “Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio"" (Is 40,3). Marco aggiunge un ulteriore passo risultante dalla fusione tra Malachia 3,1 e Esodo 23,20 che, in un altro contesto, incontriamo anche in Matteo (11,10) e in Luca (1,76; 7,27): "Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada" (Mc 1,2). Tutti questi testi dell’Antico Testamento parlano dell’intervento salvifico di Dio, che esce dalla sua imperscrutabilità per giudicare e salvare; a Lui bisogna aprire la porta, preparare la strada. Con la predicazione del Battista queste antiche parole di speranza erano diventate realtà: si annunciava qualcosa di grande.

Possiamo immaginare la straordinaria impressione che dovettero destare la figura e l’annuncio del Battista nell’atmosfera accesa di quel momento della storia di Gerusalemme. Finalmente c’era di nuovo un profeta, qualificato come tale anche dalla sua vita. Finalmente si annuncia di nuovo un agire di Dio nella storia. Giovanni battezza con l’acqua, ma il più Grande, Colui che battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco, è già alle porte. Così non dobbiamo affatto considerare un’esagerazione le parole di san Marco: "Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati" (1,5). Del Battesimo di Giovanni fa parte la confessione: il riconoscimento dei peccati. Il giudaismo del tempo conosceva confessioni di carattere più convenzionale e generico, ma anche l’ammissione personale dei peccati, in cui dovevano essere elencate le singole azioni peccaminose (Gnilka I, p. 68). Si tratta davvero di superare l’esistenza peccaminosa condotta fino a quel momento, di iniziare una vita nuova, mutata. Lo svolgimento del battesimo ne è simbolo. Da un lato, nell’immergersi nell’acqua c’è il simbolismo della morte, dietro il quale sta quello del diluvio che annienta e distrugge. L’oceano nel pensiero degli antichi appariva come la costante minaccia del cosmo, della terra: le acque originarie che possono seppellire ogni vita. Nell’immersione il fiume poteva assumere in sé anche questa simbologia. Ma, in quanto corrente, è soprattutto simbolo di vita; i grandi fiumi - Nilo, Eufrate, Tigri - sono i grandi dispensatori di vita. Anche il Giordano è fonte di vita per la sua terra, lo è ancor oggi. Vi è in gioco la purificazione, la liberazione dal sudiciume del passato, che pesa sulla vita e la altera; si tratta di un nuovo inizio, e cioè di morte e risurrezione, di ricominciare la vita da capo e in modo nuovo. Si potrebbe quindi dire che si tratta di rinascita. Tutto ciò verrà espressamente sviluppato solo nella teologia battesimale cristiana, ma è già incoativamente presente nella discesa nel Giordano e nella risalita dalle sue acque.

Abbiamo appena udito che tutta la Giudea e Gerusalemme accorrevano a farsi battezzare. Ma adesso sopraggiunge qualcosa di nuovo: "In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni" (Mc 1,9). Di pellegrini provenienti dalla Galilea non si era ancora parlato; tutto sembrava limitato al territorio della Giudea. Ma il fatto veramente nuovo non è che Gesù venga da un’altra area geografica, da lontano, per così dire. Il fatto veramente nuovo è che Egli - Gesù - vuole farsi battezzare, che entra nella grigia moltitudine dei peccatori in attesa sulla riva del Giordano. Del battesimo faceva parte la confessione dei peccati (l’abbiamo appena udito). Esso stesso era una confessione delle proprie colpe e il tentativo di deporre una vecchia vita mal spesa per riceverne una nuova. Gesù poteva farlo? Come poteva confessare dei peccati? Come staccarsi dalla vita precedente per una nuova? E’ una domanda che i cristiani si dovettero porre. La disputa tra il Battista e Gesù, di cui ci parla Matteo, dava voce anche a una loro domanda a Gesù: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?" (Mt 3,14). Matteo ci racconta: "Ma Gesù gli disse: “Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia". Allora Giovanni acconsentì" (Mt 3,15). Il senso di questa risposta, che suona enigmatica, non è facile da decifrare. In ogni caso nella parola àrti - per ora - c’è una certa riserva: in una determinata situazione provvisoria vale un determinato modo di agire. Per interpretare la risposta di Gesù è decisivo il significato che si attribuisce alla parola "giustizia": si deve adempiere ogni "giustizia". Nel mondo in cui vive Gesù, "giustizia" è la risposta dell’uomo alla Torah, l’accettazione della piena volontà divina, è prendere su di sé "il giogo del regno di Dio", secondo la formulazione giudaica. Il battesimo di Giovanni non è previsto dalla Torah, ma con la sua risposta Gesù lo riconosce come espressione del sì incondizionato alla volontà di Dio, come obbediente assunzione del suo giogo. Poiché nella discesa in questo battesimo sono contenute una confessione di colpa e una richiesta di perdono per un nuovo inizio, vi è in questo sì alla piena volontà di Dio in un mondo segnato dal peccato anche un’espressione di solidarietà con gli uomini, che si sono resi colpevoli, ma tendono verso la giustizia. Solo a partire dalla croce e dalla risurrezione l’intero significato di questo avvenimento è divenuto chiaro. Scendendo nell’acqua, i battezzandi riconoscono i propri peccati e cercano di liberarsi dal peso di essere sottomessi alla colpa. Che cosa ha fatto Gesù? Luca, che in tutto il suo Vangelo presta una viva attenzione alla preghiera di Gesù, e lo presenta costantemente come Colui che prega - in dialogo con il Padre -, ci dice che Gesù ha ricevuto il battesimo stando in preghiera (cfr. 3,21). A partire dalla croce e dalla risurrezione divenne chiaro per i cristiani che cosa era accaduto: Gesù si era preso sulle spalle il peso della colpa dell’intera umanità; lo portò con sé nel Giordano. Dà inizio alla sua attività prendendo il posto dei peccatori. La inizia con l’anticipazione della croce. Egli è, per così dire, il vero Giona, che aveva detto ai marinai: prendetemi e gettatemi in mare (cfr. Gio 1,12). Il significato pieno del battesimo di Gesù, il suo portare "ogni giustizia" si rivela solo nella croce: il battesimo è l’accettazione della morte per i peccati dell’umanità, e la voce dal cielo "Questi è il Figlio mio prediletto" (Mc 3,17) è il rimando anticipato alla risurrezione. Così si comprende il motivo per cui nei discorsi propri di Gesù la parola "battesimo" designa la sua morte (cfr. Mc 10,38; Lc 12,50).

Solo a partire da qui si può capire il battesimo cristiano. L’anticipazione della morte sulla croce, che era avvenuta nel battesimo di Gesù, e l’anticipazione della risurrezione, annunciata dalla voce dal cielo, ora sono diventate realtà. Così il battesimo con acqua di Giovanni riceve pienezza di significato dal battesimo di vita e di morte di Gesù. Accettare l’invito al battesimo significa ora portarsi al luogo del battesimo di Gesù e così nella sua identificazione con noi ricevere la nostra identificazione con Lui. Il punto della sua anticipazione della morte è ora diventato per noi il punto della nostra anticipazione della risurrezione insieme con Lui. Nella sua teologia del battesimo (cfr. Rm 6), Paolo ha sviluppato questa relazione intrinseca senza parlare espressamente del battesimo di Gesù al Giordano.

Nella sua liturgia e teologia dell’icona la Chiesa orientale ha ulteriormente spiegato e approfondito questa interpretazione del battesimo di Gesù. Essa vede un legame profondo tra il contenuto della festa dell’Epifania (proclamazione della filiazione divina per mezzo della voce dal cielo: per l’Oriente l’Epifania è la festa del battesimo) e la Pasqua. Nella parola di Gesù a Giovanni – "poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia" (Mt 3,15) - essa vede l’anticipazione della parola pronunciata nel Getsemani: "Padre [...] non come voglio io, ma come vuoi tu!" (Mt 26,39); i canti liturgici del 3 gennaio corrispondono a quelli del Mercoledì santo, quelli del 4 gennaio al Giovedì santo, quelli del 5 gennaio a quelli del Venerdì e del Sabato santo. L’iconografia riprende queste corrispondenze. L’icona del battesimo di Gesù riproduce l’acqua come un sepolcro liquido, dalla forma di cavità oscura, che a sua volta è l’immagine iconografica dell’Ade, gli inferi, l’inferno. La discesa di Gesù in questo sepolcro liquido, in questo inferno, che lo contiene tutto, è anticipazione della discesa agli inferi: "Essendo sceso nelle acque legò il Forte" (cfr. Lc 11,22), dice Cirillo di Gerusalemme. Giovanni Crisostomo scrive: "L’immersione e l’emersione sono immagine della discesa agli inferi e della risurrezione". I tropari della liturgia bizantina aggiungono ancora un ulteriore riferimento simbolico: "Il Giordano un tempo ritornò indietro a causa del mantello di Eliseo e le acque si divisero lasciando un passaggio asciutto, vera immagine del battesimo, mediante il quale noi attraversiamo il corso della vita" (Evdokimov, pp. 275-76).

Il battesimo di Gesù viene così inteso come compendio di tutta la storia, in esso viene ripreso il passato e anticipato il futuro. L’ingresso nei peccati degli altri è discesa all’"inferno" - non solo, come in Dante, da spettatore, ma con-patendo e, con una sofferenza trasformatrice, convertendo gli inferi, travolgendo e aprendo le porte dell’abisso. È discesa nella casa del male, lotta con il Forte che tiene prigioniero l’uomo (e quanto è vero che tutti noi siamo tenuti prigionieri dalle potenze senza nome, che ci manipolano!). Questo Forte, invincibile con le sole forze della storia universale, viene sopraffatto e legato dal più Forte che, essendo della stessa natura di Dio, può prendere su di sé tutta la colpa del mondo e la esaurisce soffrendola fino in fondo - nulla tralasciando nella discesa nell’identità di coloro che sono caduti. Questa lotta è la "svolta" dell’essere che produce una nuova qualità dell’essere, prepara un nuovo cielo e una nuova terra. Il sacramento - il Battesimo - appare quindi come dono di partecipazione alla lotta di trasformazione del mondo intrapresa da Gesù nella svolta della vita che è avvenuta nella sua discesa e risalita.

Con questa interpretazione e assimilazione ecclesiale dell’avvenimento del battesimo di Gesù ci siamo allontanati troppo dalla Bibbia? In questo contesto conviene ascoltare il quarto Vangelo, secondo il quale Giovanni il Battista, nel vedere Gesù, pronunciò le seguenti parole: "Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" (Gv 1,29). Ci si è arrovellati molto su queste parole, che nel rito romano vengono pronunciate prima della distribuzione dell’Eucaristia. Che cosa significa "agnello di Dio"? Perché Gesù viene chiamato "agnello" e perché questo "agnello" porta via i peccati del mondo, li vince fino a togliere loro sostanza e realtà? Joachim Jeremias ha messo a disposizione i mezzi decisivi per comprendere in modo corretto questa parola e poterla considerare - anche dal punto di vista storico - come vera parola del Battista. Anzitutto sono riconoscibili in essa due allusioni veterotestamentarie. Il canto del servo di Dio in Isaia 53,7 paragona il servo sofferente a un agnello che viene condotto al macello: "come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, [egli] non aprì la sua bocca". Ancora più importante è il fatto che Gesù fu crocifisso durante una festa di Pasqua ebraica e dovette dunque sembrare proprio il vero agnello pasquale, in cui si compiva quello che era stato il significato dell’agnello pasquale nell’uscita dall’Egitto: liberazione dalla mortale tirannia egizia e via libera all’esodo, al cammino verso la libertà della promessa. A partire dalla Pasqua la simbologia dell’agnello è divenuta fondamentale per la comprensione di Cristo. La troviamo in Paolo (cfr. 1 Cor 5,7), in Giovanni (cfr. 19,36), nella Prima Lettera di Pietro (1,19) e nell’Apocalisse (per esempio 5,6). Jeremias sottolinea inoltre che l’unica parola aramaica talja’ significa sia "agnello" sia "giovanetto", "servitore" (GLNT I 1919). Cosi le parole del Battista possono aver indicato anzitutto il servo di Dio che con le sue penitenze vicarie "porta" i peccati del mondo; ma nello stesso tempo esse lo facevano riconoscere come il vero agnello pasquale, che espiando cancella i peccati del mondo. "Paziente come un agnello offerto in sacrificio, il Salvatore è andato a morte per gli altri sulla croce; con la forza espiatrice della sua morte innocente ha cancellato la colpa di tutta l’umanità" (GLNT I 921). Se nell’angustia dell’oppressione egizia il sangue dell’agnello pasquale era divenuto decisivo per la liberazione di Israele, Egli, il Figlio che è divenuto servo - il pastore che è diventato agnello - si fa garante non più soltanto per Israele, ma per la liberazione del "mondo", per l’intera umanità. Con ciò ho toccato il tema dell’universalità della missione di Gesù. Israele non esiste solo per se stesso: la sua elezione è la via attraverso la quale Dio vuole arrivare a tutti. Incontreremo ripetutamente il tema dell’universalità quale centro autentico della missione di Gesù. Con la frase dell’agnello di Dio che porta i peccati del mondo, nel quarto Vangelo tale tema è presente subito all’inizio del cammino di Gesù.

L’espressione "agnello di Dio" interpreta il carattere - se così possiamo dire - di teologia della croce del battesimo di Gesù, della sua discesa nelle profondità della morte. Tutti e quattro i Vangeli riferiscono, anche se in maniera diversa, che nel momento in cui Gesù salì dall’acqua "il cielo si squarciò" (Mc), "si aprirono i cieli" (Mt e Lc), lo Spirito discese su di Lui "come una colomba", mentre dal cielo risuonava una voce: essa, secondo Marco e Luca, si rivolge a Gesù: "Tu sei..."; secondo Matteo, invece, dice di Lui: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto" (Mt 3,18). L’immagine della colomba può ricordare l’aleggiare dello Spirito sulle acque, del quale parla il racconto della creazione (cfr. Gn 1,2); attraverso la piccola parola "come" (come una colomba) essa funge da "immagine di ciò che in sostanza non è descrivibile" (Gnilka I, p. 129). Quanto alla "voce", la incontreremo di nuovo in occasione della trasfigurazione di Gesù, dove però è aggiunto l’imperativo: "Ascoltatelo!". Quando ne parleremo, dovremo dedicare a queste parole una riflessione più approfondita. Qui desidero solo sottolineare brevemente tre aspetti. Anzitutto vi è l’immagine del cielo squarciato: sopra Gesù il cielo è aperto. La sua comunione di volontà con il Padre, l’"intera giustizia" che adempie, apre il cielo, che per natura è il luogo in cui si adempie perfettamente la volontà di Dio. A ciò si aggiunge poi la proclamazione da parte di Dio, il Padre, della missione di Cristo, che però non annuncia un fare, ma il suo essere: Egli è il Figlio prediletto, su cui sta il beneplacito di Dio. Infine vorrei far notare che qui, insieme con il Figlio, incontriamo anche il Padre e lo Spirito Santo: si preannuncia il mistero di Dio Trinità, che naturalmente può svelare se stesso nella sua profondità solo nel corso dell’intero cammino di Gesù. In questo senso, tuttavia, si delinea un arco che unisce quest’inizio del cammino di Gesù alle parole con le quali il Risorto invierà i suoi discepoli nel "mondo": "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19). Il Battesimo che i discepoli di Gesù amministrano da quel momento in poi è l’ingresso nel battesimo di Gesù, l’ingresso nella realtà che Egli con esso ha anticipato. Così si diventa cristiani.

Un’ampia corrente della teologia liberale ha interpretato il battesimo di Gesù come un’esperienza vocazionale: qui Egli, che fino a quel momento aveva condotto una vita del tutto normale nella provincia di Galilea, avrebbe fatto un’esperienza sconvolgente; qui avrebbe raggiunto la consapevolezza di uno speciale rapporto con Dio e della sua missione religiosa, consapevolezza maturata sulla base delle attese allora dominanti in Israele, a cui Giovanni aveva dato nuova forma, e grazie alla commozione personale provocata in Lui dall’avvenimento del battesimo. Ma niente di ciò si trova nei testi. Per quanto colta sia la veste che si può dare a questa teoria, essa è più riconducibile al genere del romanzo su Gesù che alla vera interpretazione dei testi. Questi non ci permettono di guardare nell’intimo di Gesù. Egli è al di sopra delle nostre psicologie (Romano Guardini). Ci fanno, invece, sapere in che rapporto sta Gesù con "Mosè e i Profeti". Ci fanno conoscere l’intima unità del suo cammino dal primo momento della sua vita fino alla croce e alla risurrezione. Gesù non appare come un uomo geniale con le sue emozioni, insuccessi e successi - in tal modo, come individuo di un’epoca storica passata, Egli resterebbe in definitiva a una distanza insuperabile rispetto a noi. Egli invece sta di fronte a noi come "il Figlio prediletto", che se da un lato è il totalmente Altro, proprio per questo può anche diventare contemporaneo di tutti noi, per ognuno di noi più intimo di quanto ciascuno lo sia a se stesso (cfr. sant’Agostino, Confessioni, III,6,11).
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 21:18

Joseph Ratzinger "In cammino verso Gesù Cristo" - Edizioni San Paolo 2004



"Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,9)


Il volto di Cristo nella Sacra Scrittura


"Vedere Gesù" nel Vangelo di Giovanni

I discorsi dell’addio, tramandati nel vangelo di Giovanni, oscillano in maniera tutta singolare tra tempo ed eternità, tra l’incombere della passione di Gesù e una sua nuova presenza, essendo la passione già di per sé anche "esaltazione" del Figlio. Da una parte grava su questi discorsi l’oscurità del tradimento e della diserzione, del consegnarsi di Gesù all’estrema umiliazione della croce; dall’altra, tutto questo sembra già vinto e trasfigurato nella gloria a venire. Gesù indica la sua passione come un andarsene, preludio di un nuovo e più intenso ritorno, come un cammino di cui i discepoli già sono a conoscenza. E la domanda di Tommaso non si fa attendere: "Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?". La risposta di Gesù è divenuta una proposizione centrale della cristologia: "Io sono la Via e la Verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". Questa rivelazione del Signore suscita una nuova domanda - o piuttosto una richiesta - questa volta presentata da Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta". Gesù risponde con una nuova rivelazione, che sotto altro aspetto introduce nella profondità della sua coscienza, nel cuore della fede cristologica della Chiesa: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,2-9). L’ancestrale aspirazione dell’uomo alla visione di Dio si era espressa nell’Antico Testamento come "ricerca del volto di Dio". Anche i discepoli di Gesù sono dei cercatori del volto di Dio: per questo hanno seguito il Maestro. E ora, nella sorprendente risposta data a Filippo ecco condensata, come in un cristallo, tutta la novità del Nuovo Testamento che irrompe attraverso Cristo: Dio si può vedere, è visibile in Cristo. Questa rivelazione, che qualifica il cristianesimo come religione della compiutezza, ovvero della presenza divina, dà adito immediato ad una nuova domanda, volta a comprendere che cosa significhi il "già-e-non-ancora" come struttura fondamentale dell’esistenza cristiana. Un interrogativo che sentiamo risuonare in tutto il cristianesimo post-apostolico: com’è possibile vedere Cristo e contemporaneamente vedere il Padre? Il Vangelo di Giovanni affronta la questione non nei discorsi del cenacolo, ma il giorno del festoso ingresso in Gerusalemme, allorché alcuni greci, venuti per la Pasqua, si presentano a Filippo, il discepolo che nel cenacolo chiederà di poter vedere il Padre. Filippo è originario di Betsaida di Galilea, una regione fortemente ellenizzata della Terra Santa, e il desiderio espresso dai greci suona: "Signore, vogliamo vedere Gesù" (Gv 12,20s). E’ la richiesta del mondo pagano, ma è anche quella dei cristiani di tutti i tempi, e pure la nostra: Vogliamo vedere Gesù! Ma com’è possibile questo? Filippo la trasmette al Signore, facendosi accompagnare da Andrea; ma non sappiamo se l’incontro dei greci con Gesù sia realmente avvenuto. Abbiamo però la risposta di Gesù, misteriosa come quasi tutte le risposte che nel quarto Vangelo il Maestro riserva ai grandi interrogativi dell’umanità. Con le sue parole egli dischiude un orizzonte del tutto inatteso in questo momento; vede infatti, in tale richiesta, l’approssimarsi della sua glorificazione, che esprime con queste parole: "... se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (12,24). La glorificazione avviene nella passione, e da essa deriva il frutto abbondante: cioè - possiamo noi completare - la Chiesa dei gentili, l’incontro di Cristo con i greci, rappresentanti di tutti i popoli della terra.

La risposta di Gesù, in questo modo, va oltre la situazione del momento per proiettarsi nel futuro: "Certamente i greci mi vedranno, e non solo questi venuti da Filippo, ma tutto il mondo dei greci. Mi vedranno non nella mia esistenza terrena e storica, "secondo la carne" (cfr 2Cor 5,16), ma attraverso la mia passione. Attraverso di essa io vengo, e non più soltanto in un limitato spazio fisico ma oltre tutti i confini geografici, nella vastità del mondo che desidera vedere il Padre". Gesù annuncia la sua venuta con la risurrezione, nella potenza dello Spirito Santo, e quindi un nuovo modo di "vedere" nella fede. Perciò la passione non è accantonata come qualcosa di obsoleto, ma rimane il luogo dal quale e nel quale soltanto egli può essere visto. Gesù estende la parabola del chicco di grano, che soltanto morendo diventa fecondo, a norma basilare di un’esistenza umana autentica, di un’esistenza nella fede: "Chi ama la sua vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo" (Gv 12,25s). Il vedere si realizza nella sequela, che significa vivere nel luogo dove Gesù dimora. Questo luogo è la sua passione, qui soltanto è presente la sua gloria. Che cos’è accaduto? L’idea del "vedere" ha assunto una dinamica insospettata. Si vede mediante un modo di vita definito "sequela". Si vede prendendo parte alla passione di Gesù. E lì che, in lui, si vede anche il Padre. Acquista così tutto il suo alto significato la profezia riportata da Giovanni a conclusione del racconto della passione: "Guarderanno a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37; cfr. Zc 12,10). Vedere Gesù, vedendo in lui allo stesso tempo il Padre, è un atto dell’intera esistenza. Sotto l’aspetto terminologico occorre precisare che l’espressione "volto di Cristo" non compare nei testi giovannei, che tuttavia appaiono intimamente legati ad una tematica centrale dell’Antico Testamento, il cui contenuto religioso si esprime in tutta una serie di testi come "ricerca del volto di Dio". Esiste pertanto una stretta continuità tra il giovanneo "guardare a Cristo" e il tendere veterotestamentario alla visione del volto di Dio. Paolo dà risalto anche al legame terminologico quando, nella seconda lettera ai Corinzi, parla della gloria di Dio che risplende sul volto di Cristo (4,6). Su questo torneremo più avanti. I passi neotestamentari (Giovanni e Paolo) sul vedere Dio in Cristo sono profondamente ispirati dalla pietà d’Israele e mediante essa si collegano alla storia universale delle religioni; o meglio: essi orientano verso Cristo l’indistinta aspirazione della religiosità umana, portandola a incontrare la risposta. Se vogliamo comprendere, in tutta la sua profondità, la teologia neotestamentaria del volto di Cristo, dobbiamo richiamarci all’Antico Testamento.


La ricerca del volto di Dio nell’AT

Il termine panim ("volto") ricorre circa 400 volte nell’Antico Testamento; quasi la metà dei passi riguarda una persona umana o qualche misterioso essere intermedio come cherubini e serafini; a Dio stesso si riferisce oltre un quarto dei passi, quindi un buon centinaio. Questa frequenza del termine in tutta la letteratura veterotestamentaria ci suggerisce l’importanza del concetto di cui esso è tramite. Dovremo anche chiarire alcune espressioni caratteristiche, quali "cercare il volto di Dio", "splendore del volto di Dio", ecc. Come va interpretata questa nostalgia della visione in una religione che, proibendo del tutto le immagini, sembra escludere assolutamente il "vedere" dal culto e dalla pietà? A che cosa mira l’israelita quando cerca il volto di Dio, pur sapendo che non può esistere alcuna immagine di lui? Si è cercato di far risalire tutto questo complesso lessicale, nelle sue svariate forme, ai culti pagani: la "visione del volto" richiamerebbe la contemplazione di un’immagine; la "luce del volto" fa pensare a divinità astrali, e così via. Si tratta di ipotesi indimostrabili, che nell’insieme hanno trovato scarso credito presso gli studiosi. Si può comunque aderire al presupposto che la terminologia della ricerca del volto di Dio provenga in qualche modo dal culto delle immagini. Ciò aiuta a comprendere meglio la radicalità del passo compiuto dall’Antico Testamento: l’immagine è abbandonata, mentre la ricerca del volto rimane. Viene meno la forma concretizzata, la riduzione della divinità ad oggetto, ma Dio conserva il suo volto. Proprio perché non riproducibile in immagini, egli rimane Colui che ha un volto, che può vedere e può essere veduto. L’antica forma cultuale, che aveva materializzato Dio riducendolo ad un "particolare", è stata dissolta, lasciando così emergere il suo significato più profondo: questo Dio ha un volto, è una "persona". Simian-Yofre nel suo art. cit. "Panim", assai dettagliato sotto il profilo filologico, ha così riassunto la questione: "Per la sua idoneità a esprimere sentimenti e reazioni, panim designa il soggetto in quanto si rivolge ad altri... cioè quale soggetto di relazioni. Panim è un concetto che esprime relazioni". Possiamo dire che, nel venir meno del culto delle immagini, proprio col vocabolo panim ha preso forma il concetto di persona, e precisamente come dimensione relazionale. Accanto a panim occorre menzionare, quale ulteriore forma della medesima intuizione, il termine sem ("nome"): il Dio dell’Antico Testamento rivela il suo nome, col quale può essere invocato. Anche il nome è un concetto relazionale: chi ha un nome può ascoltare e rivolgere a sua volta la parola ad altri; attraverso il suo nome può essere invocato. La filosofia greca ha identificato l’idea di natura, ma non ha conosciuto il concetto e la natura della persona. Per essa la persona non esiste; c’è soltanto l’individuo, ma come una delle molteplici espressioni della natura, l’unica realtà che conta. Quella peculiarità che noi definiamo persona è invece venuta alla luce nel quadro della fede biblica, quando dal rifiuto dell’immagine emerse ciò che vi è di più autentico: quell’essenza che può vedere ed essere vista, che può ascoltare, parlare ed essere interpellata. Fu dunque secondo logica che panim venisse reso prevalentemente col greco prosopon ("volto/faccia"), una parola assente dalla filosofia greca come termine tecnico. E giustamente prosopon divenne in latino persona, una parola che poco alla volta vide riconosciuto il suo pieno significato anche in ambito filosofico. Inoltre, non fu un caso se l’approfondimento della nuova nozione, l’evidenziarsi del mistero della persona, avvenne proprio nella disputa sulla dottrina della Trinità. Si può ritenere questo: il termine ebraico panim esprime Dio come persona, come un essere che si rivolge a noi e ci ascolta, vede, parla, è capace di amare e di adirarsi; un Dio che è al di sopra d’ogni cosa e tuttavia ha davvero un volto. Esattamente in questo l’uomo è simile a Dio, è sua immagine; dal volto egli può riconoscere chi è Dio, che cos’è e com’è. Verso questo volto si orienta, lo cerca con tutto il suo cuore. Mi sembra importante che a entrambi i concetti – "nome" e "volto" – da un lato sia soggiacente una profonda intuizione spirituale, divenuta possibile soltanto col rifiuto dell’immagine esteriore; e dall’altro che non si alimenti una nozione puramente concettuale: il guardare sensibile e l’idea del volto restano essenziali. Cerchiamo ora, attraverso un paio d’esempi, di cogliere più da vicino come concretamente, nella fede e nella pietà d’Israele, si presenti la relazione evocata dal termine panim. Risalta in primo luogo l’atteggiamento fondamentale della ricerca del volto di Dio. Recita il salmo 105,3s: "Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto". Il salmo 24 enumera le condizioni richieste per chi desidera entrare nella santa dimora del Signore: mani pure e cuore puro. Tutto è poi condensato nelle parole: "Questa è la generazione di coloro che lo cercano, di quanti desiderano il tuo volto, o Dio di Giacobbe" (Sal 24,6). Ambedue i salmi si richiamano all’ingresso nel santuario, al corteo che introduce l’arca santa nel tempio. Non si può dunque negare un contesto cultuale: il volto di Dio lo si può incontrare nel tempio, lo si cerca ponendosi in cammino verso il luogo santo. Tuttavia il significato di panim va oltre il puro dato del culto. Ciò è evidente in Os 5,15, dove Dio, riferendosi a Israele, dice: "Me ne tornerò alla mia dimora, finché non si saranno pentiti e cercheranno il mio volto, e si volgeranno di nuovo a me nella loro angoscia". Questo "cercare" e "volgersi" deve abbracciare tutto l’uomo; soltanto quando egli è "giusto" con tutto il suo cuore, essendo secondo Dio, può sperare nell’incontro con il volto del Signore. Giustamente scrive Simian-Yofre: "Cercare il volto del Signore è un comando di valore universale e permanente". Ciò risulta con chiarezza dal salmo 17: la preghiera del giusto che non si lascia distogliere dalla via di Dio, anche se deve subire le aspre minacce dei suoi persecutori. Nell’insieme si delineano due forme d’esistenza. Da una parte, coloro che si affidano totalmente alle realtà materiali e se ne saziano. Senza provare invidia, il giusto sofferente dice al Signore: "Ricolma pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli e ne avanzi per la loro prole”". L’orante, invece, vede il proprio destino diversamente: "Nella giustizia io contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza". Egli vuole un appagamento che non è quello del ventre; desidera saziarsi alla vista del suo Dio; sa che la sua ricerca troverà compimento nella visione. Due aspetti sono importanti in quest’ultimo testo. Innanzitutto, ciò che conferisce all’orante la capacità di vedere Dio è la giustizia. Una parola che compendia l’atteggiamento basilare della pietà veterotestamentaria, ed è l’esatto corrispondente di ciò che il Nuovo Testamento e la Chiesa chiameranno fede. La giustizia è un modo di vita conformato sulla parola di Dio, è un dimorare in questa parola mettendola in pratica. Possiamo dire: giustizia è vita secondo Dio. Il salmo 17 è in consonanza col salmo 24: la ricerca del volto di Dio è un atteggiamento che coinvolge tutta la vita; per poter alla fine contemplare il volto di Dio, l’uomo dev’essere da Dio totalmente illuminato. Va inoltre osservato che il giusto si attende il dono della visione - della beatitudine che darà compimento a tutti i suoi desideri - per il momento del "risveglio". Il salmo, in questo modo, si proietta chiaramente oltre l’esistenza storica dell’uomo; è l’attesa di un risveglio che segnerà l’inizio della vera vita. Proprio per questo il giusto si distingue dai suoi avversari senza Dio, i quali ripongono tutta la loro felicità, e quindi il fine dell’esistenza umana, unicamente nella soddisfazione del momento, nel successo e nella sazietà materiale. Essi restano nell’ambito del mondano, imbrigliati nei limiti temporali della vita terrena. Di conseguenza, non può valere per loro il criterio della "giustizia"; si deve allungare la mano là dove sono disponibili successo e soddisfazioni. La giustizia, come "vita secondo Dio", rinvia oltre la nuda materialità e temporalità dell’esistenza terrena. In questa luce, l’osservanza dei precetti di Dio e la prospettiva escatologica appaiono intimamente connesse. Anche se l’idea della vita nuova è qui semplicemente accennata, senza ulteriore sviluppo, l’orientamento escatologico dell’esistenza è di fatto ben evidente per chi cerca il volto di Dio con tutta sua vita, nella certezza di poterlo contemplare "al risveglio". La ricerca del volto di Dio comporta il superamento del tempo e la speranza escatologica. L’Antico Testamento offre tuttavia anche un anticipo di "ciò che sarà". Nel salmo 24 abbiamo osservato la connessione tra la ricerca del volto di Dio e il culto, rilevando peraltro la necessità di andare oltre il culto. Nel salmo 17 l’elemento cultuale è del tutto assente, ma nella maggioranza dei testi veterotestamentari l’espressione "cercare il volto di Dio" ha un significato cultuale, anzi è addirittura un termine tecnico dell’incontro con Dio nel culto. I tre calendari liturgici (Es 23,14-19; 34,18-26; Dt 16,1-17) menzionano due volte ciascuno l’espressione. Con formulazione quasi identica si stabilisce l’obbligo per gli uomini, tre volte l’anno, di visitare il santuario (“contemplare il volto di JHWH”). "Dt 31,11 prevede, ogni sette anni, la proclamazione della legge davanti a tutto il popolo convenuto per la festa delle capanne nel santuario (di Gerusalemme) a "contemplare il volto di JHWH"". Così, l’evento cultuale diviene un incontro con Dio, una forma di contemplazione del divino; ma alla luce dell’insieme dei testi si rivela più che altro come una sorta di anticipazione, che rinvia oltre se stessa. Quest’orizzonte complessivo si ripropone quando consideriamo le espressioni riferite alla luce del volto di Dio o all’occultarsi, della sua faccia. Luce e vita sono, per l’uomo dell’Antico Testamento, concetti intimamente connessi. Quando si parla dello splendore del volto divino, s’indica Dio come fonte della vita. Sal 4,7b supplica: "Risplenda su di noi, o Signore, la luce del tuo volto", e questo per ottenere vita e salvezza. Altrove la richiesta ha come oggetto la fecondità della terra, la liberazione e la prosperità del popolo: "Rialzaci, Signore nostro Dio, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi" (Sal 80,4.8.20). Entra in tema anche l’illuminazione del cuore, affinché l’uomo possa riconoscere i suoi peccati (Sal 90,8). Viceversa, quando Dio nasconde la sua faccia, tutto fa ritorno alla polvere. Per questo, la preghiera affinché Dio non nasconda il suo volto è supplica per la vita stessa, per la capacità di vedere, senza di che nulla può esserci di buono. Il silenzio di Dio, l’occultamento della sua faccia significano punizione. Purtroppo il nascondersi di Dio può suscitare nel peccatore una sicurezza ingannevole, quasi che Dio non esista. Sembra possibile vivere tranquillamente senza di Lui, contro di lui, voltandogli le spalle. Questa sicurezza dell’uomo senza Dio è davvero la sua più profonda rovina. Proprio in questo nostro tempo del silenzio di Dio, quando il suo volto sembra divenuto irriconoscibile, non dovremmo riflettere con un po’ di timore sul significato del suo nascondimento? Non dovremmo vedere in ciò la vera sciagura del mondo, e quindi con maggior forza e insistenza gridare a Dio affinché mostri il suo volto? Non si è fatta ancora più urgente, in tale situazione, la ricerca del volto di Dio?


Mosè e Cristo

A completamento di questi accenni sui presupposti veterotestamentari della ricerca del volto di Cristo e di Dio come ce la propone il NT, desidero ancora prendere in esame un testo basilare dell’AT che lo stesso Paolo - come già è stato accennato - ha ripreso in 2Cor 3,4-4,6 leggendolo alla luce di Cristo. Diventa così ancor più palese tutta la novità del cristianesimo, come l’intima unità dei due Testamenti. Intendo il complesso di Es 32-34, dove si racconta il peccato d’Israele, l’adorazione del vitello d’oro, la punizione dei peccatori e infine la contesa di Mosè con Dio, per indurlo ad accogliere di nuovo il suo popolo, dal quale minaccia d’allontanarsi. L’intercessione di Mosè raggiunge il suo culmine nell’offerta che fa di se stesso: "Ecco, questo popolo ha commesso un grande peccato... Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... Se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!" (32,31s). Nel cap. 33 dell’Esodo il nostro tema compare in due passi che sembrano quasi contraddirsi, ma che si sono rivelati di somma importanza per la ricerca cristiana del volto di Dio. Dapprima si descrive il confidenziale rapporto tra Mosè e Dio: "Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino" (33,11). In seguito Mosè chiede a Dio: "Fammi vedere la tua gloria!". Questa è la risposta: "Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. [...] Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sulla rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e tu vedrai le mie spalle. Ma il mio volto non si può vedere" (33,18.20-23). Da una parte, dunque, c’è il colloquiare faccia a faccia come tra amici, dall’altra l’impossibilità di vedere in questa vita il volto di Dio: l’uomo può conoscerlo soltanto di spalle. Ovviamente, nella rilettura cristiana dell'Antico Testamento, questo passo doveva assumere un nuovo significato. Dalle parole di Stefano davanti al sinedrio (At 7,37) deduciamo che la promessa contenuta nel Deuteronomio restava ben presente ai cristiani: "Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto" (Dt 18,15). Ma in seguito Israele dovette prendere atto della malinconica considerazione con cui si chiude il Deuteronomio: "Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, col quale il Signore s’intratteneva faccia a faccia" (34,10). Stefano vuol dire che la promessa, fino allora rimasta aperta, si è finalmente avverata in Gesù di Nazaret, il quale, come Mosè sul monte, ha offerto se stesso quale vittima d’espiazione. L’offerta di Mosè non era stata accolta; Cristo invece è divenuto realmente per noi peccato, ha preso su di sé la maledizione (Gal 3,13) e ora è nostro intercessore presso il Padre (1Gv 2,1). Egli stava ininterrottamente faccia a faccia con il Padre - assai più che un profeta, assai più che un amico, ma come Figlio -, e sul suo volto rifulge per noi la gloria di Dio (2Cor 4,6). Da allora, per gli uomini, la ricerca del volto di Dio si è fatta più concreta: consiste nell’incontro con Cristo, nell’amicizia con lui, che non ci chiama più servi, ma amici (Gv 15,10). Se il conversare di Mosè faccia a faccia con Dio era per il lettore cristiano dell’Esodo un evidente richiamo a Cristo, l’impossibilità della visione piena, limitata alle "spalle di Dio", non poteva però riguardare allo stesso modo Gesù. Nella figura di Mosè era quindi significato sia il mistero di Cristo, sia il cammino dei suoi discepoli, ai quali - perciò a tutti noi, seguaci di Cristo - andava riferito il secondo testo. E’ questa, fondamentalmente, l’interpretazione di Es 33 presso i Padri; varia tuttavia nei particolari, in specie per il difficile riferimento alla visione delle “spalle di Dio”, allo stare nella fenditura della roccia, alle mani di Dio che ci ricoprono. Personalmente, sono sempre attratto dall’interpretazione che ne dà Gregorio di Nissa. Che cosa significa poter vedere Dio soltanto di spalle - scrive il Nisseno - se non che ci è possibile incontrare Dio esclusivamente camminando dietro a Gesù; perciò solamente attraverso la sequela, che è un procedere sulle orme di Gesù, quindi alle spalle di Dio? Vedere Dio, in questo mondo, significa fare di tutta la nostra esistenza un cammino verso il Dio vivente, nella sequela di Gesù Cristo, il quale ci addita la sua strada, che è l’itinerario del mistero pasquale di passione e morte, di risurrezione e ascensione.


Contemplare Cristo nell’esistenza cristiana

La testimonianza centrale dell’AT sulla visione del volto di Dio ci ha introdotti al NT. In che cosa consiste la vera novità del Nuovo Testamento? Non si tratta certo di un’idea. La novità è un fatto, o meglio una persona: Gesù Cristo. Nella sua luce numerosi aspetti della religiosità veterotestamentaria si riorganizzano e assumono, soprattutto dopo la distruzione del tempio, una nuova concretezza. Adesso è lui il volto di Dio per noi. Sulla base di questa coscienza ha preso vita la grande arte delle icone, che tuttavia non possono pretendere di rappresentare la meta finale della nostra ricerca del volto di Cristo. Questo vale naturalmente anche per le cosiddette achiropite, ovvero immagini "non fatte da mano d’uomo" che secondo la tradizione avrebbero ispirato le icone di Cristo. Nella disputa tra culto delle immagini e iconoclastia era questo il punto discriminante: l’icona non può diventare un’immagine di Dio a sé stante, quasi a voler rendere la divinità materialmente afferrabile. Deve invece esprimere il dinamismo del superamento, cioè rinviare oltre se stessa, farsi invito a intraprendere la ricerca del volto del Signore: un richiamo a oltrepassare la dimensione materiale e a mantenersi sull’itinerario della sequela, che non potrà mai concludersi in questa vita. Per esprimerci ad un livello teologicamente più rigoroso: l’icona reca in sé una tensione escatologica, e soltanto in questa prospettiva è possibile contemplarla correttamente. Nel secolo XIX da questi impulsi rinasce, collegandosi a forme di pietà tardomedievale, la devozione al Sacro Volto, che giunge ad espressione somma con Teresa di Lisieux, la quale non esita a definirsi "del Bambino Gesù e del Volto Santo". Entrambi questi titoli fanno riferimento alla kénosis di Dio, al suo farsi piccolo in Cristo, al suo discendere nella povertà dell’esistenza umana. E mentre il primo sottolinea preferibilmente l’amabilità di questa discesa, il secondo mette l’accento sull’aspetto della passione, poiché in questo mondo Cristo si presenta col "capo coperto di sangue e ferite" (O caput cruentatum!). In tal modo egli rivela tutto il mistero dell’amore di Dio e il suo vero volto. Volendo approfondire ulteriormente, possiamo distinguere tre momenti basilari nella pietà cristiana - fondata sul Nuovo Testamento - della ricerca del volto di Cristo e del volto di Dio. In primo luogo la sequela, ovvero l’intera esistenza orientata all’incontro con Gesù. In essa il posto centrale spetta all’amore del prossimo; quell’amore che alla luce del crocifisso ci fa riconoscere il volto di Gesù in chi è povero, debole e sofferente. Mettendoci al servizio dei bisognosi, è lui che amiamo, a lui ci accostiamo, lo vediamo e lo tocchiamo (cfr. Mt 25,31-46). Nella realtà, ci è possibile riconoscere Gesù nei poveri soltanto se il suo vero volto già ci è divenuto familiare e prossimo, e questo soprattutto nel mistero dell’Eucaristia, dove continuamente si ripropone per noi la contesa di Mosè sul monte: ora sul monte c’è il Signore Gesù, che per noi "si fa peccato". Egli è il chicco di grano che muore, per potersi donare a tutti noi nell’Eucaristia, vero pane di vita nelle nostre mani. L’Eucaristia, come già per i discepoli di Emmaus, diventa un "vedere": lo riconosciamo allo spezzare del pane, ci cadono dagli occhi le scaglie, guardiamo a colui che abbiamo trafitto, contempliamo il suo capo insanguinato. Così, imparando a conoscere lui, possiamo riconoscerlo nei poveri. In questo senso, appartengono alla pietà liturgica la personale devozione alla passione, l’incontro intimo con Gesù e la stessa pietà popolare. La vera icona nasce da quest’incontro con Gesù e conduce a lui, e di conseguenza, irresistibilmente, anche al prossimo. Oltre a questi due momenti, tra loro inseparabili, della contemplazione del volto di Cristo, ne riconosciamo un terzo: quello escatologico. Come l’icona è destinata a rinviare sempre oltre se stessa, così la celebrazione eucaristica esprime una tensione dinamica verso il Cristo che viene, verso quel "risveglio" in cui egli ci sazierà con il suo volto, con il volto del Dio trinitario. La stessa attenzione al prossimo, le varie forme dell’impegno sociale, devono mirare oltre il momento presente. L’amore, certamente, interviene dove adesso è necessario, soccorre i sofferenti e i bisognosi al presente. La teologia politica voleva posporre quest’aiuto, da offrire subito, al compito primario della costruzione di un mondo migliore. Ma si trattava, e si tratta, d’un intento presuntuoso, col quale si riducono gli individui a strumenti di sogni politici futuri, destinati per lo più a rimanere irrealizzabili. Nemmeno qui, però, manca il solito "granello di verità": in effetti, l’offerta d’aiuto al singolo fa parte della grande lotta dell’amore, della lotta della fede per il compimento del regno di Dio. Il Regno non è una realtà politica realizzabile dall’uomo, ma è dono di Dio, che a noi non è concesso di forzare. E tuttavia sta in rapporto col nostro impegno di sequela nel servizio, poiché l’amore che attraverso l’aiuto materiale non offrisse anche Dio, che non conducesse anche Dio, che non orientasse al suo volto, darebbe sempre troppo poco. Amore del prossimo e culto sono anticipazioni di ciò che in questo mondo sopravvive come speranza; sono energie della speranza che conducono a ciò che di più grande sta per venire, cioè alla vera salvezza e al vero compimento: la contemplazione del volto di Dio.


Le religioni mondiali e la fede

A conclusione della nostra riflessione vogliamo tornare sul problema della connessione di questa tematica con la storia delle religioni nel suo insieme. Avevamo osservato come l’abolizione delle immagini cultuali - che peraltro avevano mantenuto viva la ricerca del volto di Dio - conducesse al riconoscimento di un Dio personale, e in seguito al concetto di persona. E' a questo punto che si dividono le vie della storia religiosa. Le grandi costruzioni religiose che non conoscono un Dio personale (ad es. il neoplatonismo e il buddismo, o importanti correnti dell’induismo) enumerano comunque numerose divinità alle quali vengono rivolte preghiere, essendo in grado di aiutare o di nuocere. Queste sono raffigurabili con immagini, hanno un volto, in qualche modo sono anche persone. Sono "dèi", ma non sono Dio. Rappresentano delle potenze operanti in quello spazio intermedio, oltre il quale molti non riescono ad andare. Non appartengono al regno del "definitivo", del "totalmente altro", del vero "autentico". La realtà autentica - che Plotino chiama l’Uno, al di sopra d’ogni essere e d’ogni nome, e che nella concezione buddistica è il Nulla assoluto - non ha nome e non ha volto. Il fine ultimo di ogni purificazione e di ogni forma di salvezza sta nell’uscire dalla cerchia dei nomi e dei volti, delle distinzioni e delle contrapposizioni, per entrare nell’anonimato dell’uno o del Nulla. La novità della religione biblica era e consiste nel fatto che quest’essere originario, il Dio vero di cui non può darsi alcuna immagine, ha nondimeno un volto e un nome, è persona. La salvezza non sta più nel cadere nell’anonimato, ma in quel "saziarsi del suo volto", che al nostro "risveglio" ci verrà concesso. A questo risveglio, a questo saziarsi va il cristiano incontro, tenendo fisso lo sguardo sul Trafitto, cercando il volto di Gesù Cristo.

Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 21:21

Bart D. Ehrman "I cristianesimi perduti. Apocrifi, sette ed eretici nella battaglia per le Sacre Scritture" – Carocci editore 2005



L’arsenale dei conflitti: trattati polemici e denigrazioni personali


Le dispute dottrinali del primo Cristianesimo non vennero combattute con picconi e spade, ma con le parole. La parola parlata aveva un’importanza vitale, perché come si può immaginare le conversazioni quotidiane, l’insegnamento catechistico, le conversazioni settimanali, i sermoni, le discussioni private e i dibattiti pubblici influenzavano l’opinione in un senso o nell’altro. Purtroppo solo raramente possiamo sapere che cosa venne davvero detto nell’ardore della battaglia, a meno che qualcuno non si sia preso la briga di registrarlo all’epoca; ma anche la parola scritta era importante, perché due avversari teologici potevano incrociare le spade anche solo metaforicamente, attaccando le idee dell’altro, gettando ombre sulla personalità del nemico, richiamandosi alle autorità scritte precedenti a sostegno delle proprie tesi, falsificando documenti a nome di quelle autorità quando era necessario o utile, raccogliendo libri sacri nei canoni e conferendo loro uno status divino. Da molto tempo conosciamo nel dettaglio gli attacchi scritti sferrati dai proto-ortodossi contro i cristiani di orientamento diverso: le opere di eresiologi come Ireneo e Tertulliano, per esempio, sono sempre state disponibili, anche se quelle di altri autori del II secolo, come Egesippo e Giustino sono andate in gran parte perdute. Ma fino a un’epoca recente non conoscevamo altrettanto bene gli attacchi degli "eretici" nei confronti dei proto-ortodossi e disponevamo solo di qualche indizio frammentario su come dovessero svolgersi i dibattiti veri. Dato che la letteratura contraria è andata quasi interamente distrutta o perduta, le opere polemiche di quel periodo ci fanno sentire solo la voce di una parte, tanto che molti lettori hanno accettato tranquillamente l’idea che gli "eretici" non fossero in grado di difendersi e che alla fine furono più o meno obbligati a sottomettersi a una fustigazione letteraria dalla quale non furono mai in grado di risollevarsi. Ma un’analisi più ravvicinata dei resti superstiti, alcuni dei quali scoperti solo di recente, suggerisce un’idea più realistica: quelli che pensavano di avere ragione (cioè tutti, come in ogni disputa) seppero lottare per le loro tesi, e la guerra di parole venne condotta ovunque all’ultimo sangue. Il fatto che solo una fazione sia risultata vincitrice non deve farci pensare che la sua vittoria sia stata scontata fin dall’inizio o che sia stato facile sconfiggere gli avversari. Anche se il nome, la circonferenza toracica, la forza e l’agilità non vengono trasmesse ai posteri, può darsi che ai suoi tempi lo sconfitto di un incontro di pesi massimi sia stato un vero colosso.


Gli Ebioniti contro il proto-ortodosso Paolo: la letteratura pseudo-clementina

Una delle prove che nei primi secoli del Cristianesimo si svolse una vigorosa battaglia letteraria anziché un massacro univoco ci giunge da una serie di opere note già da molti anni, ma di cui solo relativamente di recente si è capito il carattere di polemica contro il Cristianesimo proto-ortodosso. Abbiamo già visto che i cristiani del II e III secolo amavano narrare storie sugli apostoli, cioè episodi delle loro avventure missionarie dopo l’ascesa di Gesù poi redatte in testi apocrifi come gli Atti di Giovanni e gli Atti di Pietro. Talvolta circolavano anche storie sui compagni degli apostoli, come abbiamo visto a proposito degli Atti di Tecla; tra queste troviamo anche storie leggendarie su Clemente, il vescovo di Roma e presunto autore della Prima lettera di Clemente. Ci restano due raccolte di questo tipo, oltre a varie altre opere. La prima è una serie di venti Omelie attribuite direttamente a Clemente, in cui il vescovo parla suoi viaggi, delle sue avventure e soprattutto dei suoi lunghi contatti con l’apostolo Pietro, che lo aveva convertito alla fede in Cristo La seconda è una storia in dieci libri dei viaggi di Clemente, la cui cornice è costituita dalla ricerca dei suoi parenti perduti; la ricerca ha un lieto fine e dà origine al titolo della raccolta, Recognitiones ("riconoscimenti"). La relazione tra le Omelie e i Riconoscimenti è molto complessa ed è una delle questioni più spinose di cui si debbano occupare gli studiosi di letteratura cristiana antica. Entrambe le opere sembrano risalire a un documento più antico che venne modificato e redatto in varie versioni nel corso del tempo; in ogni caso, alcune di queste opere su Clemente abbracciano idee giudaico-cristiane, e nel farlo talvolta criticano alquanto esplicitamente altre forme di Cristianesimo, tra cui la proto-ortodossia. Queste opere sono chiamate nel loro complesso letteratura pseudo-clementina. La linea narrativa di base di questi libri è la ricerca da parte di Clemente della sua famiglia e della verità. Clemente è membro di una famiglia romana aristocratica; quando è ancora giovane, sua madre ha una misteriosa visione che la spinge a lasciare la città portando con sé i suoi due gemelli, i fratelli maggiori di Clemente; qualche tempo dopo suo padre parte alla loro ricerca e anche lui non torna più. Intanto Clemente diventa grande e si dedica a una ricerca religiosa che lo porta ad attraversare varie forme di filosofia pagana, nessuna delle quali soddisfa la sua curiosità intellettuale, ma poi sente dire che il Figlio di Dio è comparso in Giudea e parte per trovarlo. Ma è troppo tardi: quando arriva a destinazione, Gesù è già stato giustiziato. Clemente incontra l’apostolo Pietro, si converte alla fede in Cristo e accompagna l'apostolo nei suoi viaggi missionari. Questi viaggi sono pieni di avventure durante le quali si verificano molti confronti tra Pietro e Simone Mago, che Pietro sconfigge grazie al miracoloso potere di Dio. Alla fine Clemente si riunisce con tutta la sua famiglia e così torna l’armonia: oltre ai suoi genitori e ai suoi fratelli, ha trovato anche la vera fede. L’eretico Simone Mago occupa un posto importante in questa storia, ma almeno in alcune occasioni sembra che l’avversario di Pietro non siail mago di cui sappiamo dagli Atti degli Apostoli e dalle prime opere eresiologiche. Qui Simone sembra piuttosto una maschera nientemeno che dell’apostolo Paolo, e da certi punti di vista il nemico attaccato in quest’opera sembra proprio lui. Il Vangelo di Pietro, per cui la validità della Legge di Mosè continua a essere valida per tutti (cristiani, ebrei e gentili), viene contrapposto alle tesi eretiche di Paolo, visto come predicatore di una versione del messaggio cristiano che risulta letteralmente priva di legge. La controversia tra Pietro e Paolo prefigurata in queste pagine romanzesche è basata su un vero conflitto storico tra i due leggibile anche nelle opere di Paolo. In particolare nella Lettera ai Galati (2.11-14), Paolo parla di uno scontro pubblico con Pietro nella città di Antiochia su una questione importante: i gentili che sono diventati cristiani devono osservare la Legge ebraica? Nel riferire il confronto, Paolo afferma in termini nettissimi la sua idea per cui i gentili non sarebbero tenuti a farlo in nessun caso. Come gli studiosi hanno notato da tempo, Paolo però non parla del risultato dello scontro, il che ha fatto spesso pensare che ne sia uscito sconfitto, almeno agli occhi dei presenti. La letteratura pseudo-clementina riprende questo dibattito per mostrare come Pietro sostenesse la continua vitalità della Legge contro Paolo, malamente mascherato da Simone Mago. I libri sono preceduti da una prefazione che sarebbe una lettera spedita da Pietro a Giacomo, fratello di Gesù e capo della chiesa di Gerusalemme (una delle molte lettere false a nome di Pietro), in cui l’apostolo parla del suo "nemico" che insegna ai gentili a non obbedire alla Legge e gli contrappone la sua autorevole tesi:

Alcuni tra i gentili hanno rifiutato la mia predicazione legale e hanno preferito una dottrina illegale e assurda dell’uomo che è mio nemico. Anzi, alcuni hanno anche cercato, pur essendo io ancora in vita, di distorcere le mie parole con interpretazioni di ogni sorta, come se io avessi insegnato la dissoluzione della Legge. [...] Dio ce ne scampi! Una cosa simile significherebbe agire in modo contrario alla Legge di Dio che venne data a Mosè e confermata nella Sua eterna continuità dal nostro Signore. Egli infatti ha detto: "finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge" (Lettera di Pietro a Giacomo, 2.3-5).

La Legge di Mosè va dunque sempre osservata da ebrei e gentili. Non ci vuole molto a riconoscere chi sia qui il "nemico" di Pietro, chi si oppone alle sue tesi "tra i gentili": l’apostolo Paolo si mostrava sempre come apostolo dei gentili e affermava che non dovevano osservare la Legge (ad esempio Lettera ai Galati 2.15, 5.2-5). Anche riguardo al responsabile dell'affermazione che Pietro stesso esortasse alla "dissoluzione della Legge", non c’è bisogno di cercare lontano: il libro neotestamentario degli Atti, attribuito a Luca, il compagno di viaggio di Paolo, ritrae Pietro proprio in questa posizione (10-11.15). Anche se alla fine Paolo e gli Atti entrarono a far parte del canone ortodosso, per questo autore entrambi sono eretici. Dunque la letteratura pseudo-clementina sembra inglobare una polemica ebionitica contro le idee poi incluse nel Cristianesimo proto-ortodosso. Gli attacchi a Paolo e le sue posizioni sono ancora più chiari in alcuni passi delle Omelie. In particolare in una sezione si afferma che Pietro sviluppò l’idea che nel piano di Dio per gli uomini il peggiore compare sempre prima del migliore. E così Adamo ebbe due figli, l’omicida Caino e il pio Abele, due ne ebbe anche Abramo, il reietto Ismaele e il prescelto Isacco, e da Isacco nacquero l’empio Esaù e il divino Giacobbe. Applicando il principio a epoche più recenti, comparvero due uomini nel campo della missione, Simone (Paolo) e Pietro, che ovviamente fu il più grande dei due, "che comparve dopo l’altro e venne su di lui come la luce sulle tenebre, come la conoscenza sopra l’ignoranza, come la cura sopra la malattia" (Omelie 2.17). Un ultimo esempio di questa polemica proviene da una scena immaginaria in cui Pietro attacca un malcelato Paolo per aver pensato che il suo breve incontro visionario con Cristo lo autorizzi a proporre un messaggio evangelico in contrasto con quello di chi ha passato molto tempo con Gesù mentre era ancora vivo e operante tra gli uomini.

E se il nostro Gesù è comparso anche a te e lo hai conosciuto in una visione e ti ha incontrato come chi è irato con un nemico [si ricordi che Paolo ebbe la sua visione mentre ancora perseguitava i cristiani, Atti 9], comunque egli ha parlato solo tramite visioni e sogni o rivelazioni esterne. Ma si può diventare abili alla predicazione grazie a una visione? E se pensi che sia possibile, perché il nostro maestro avrebbe passato un anno intero con noi che eravamo svegli? Come possiamo crederti, anche se lui ti è apparso? [...] Ma se sei stato visitato da lui per un’ora e sei stato istruito da lui e così sei diventato un apostolo, allora proclama almeno le sue parole, esponi ciò che lui ha insegnato, sii amico dei suoi apostoli e non lottare con me, che sono suo confidente; tu infatti ti sei contrapposto in modo ostile a me, che sono una roccia salda, la pietra angolare della chiesa (Omelie 17.19).

Pietro, non Paolo è la vera autorità per capire il messaggio di Gesù. Paolo ha corrotto la vera fede basandosi su una breve visione, che sicuramente ha inventato. Dunque Paolo è il nemico degli apostoli, non il loro capo: è al di fuori della fede, un eretico da condannare, non un apostolo da seguire. E così la letteratura pseudo-clementina, soprattutto nella forma più antica, poi modificata nel corso del tempo, sembra mostrare una forma di polemica ebionita contro il Cristianesimo paolino e contro i proto— ortodossi del II e III secolo che continuano a seguire Paolo rifiutando la Legge di Mosè. Per questi cristiani ebioniti la Legge è stata data da Dio, e al contrario di quanto affermano Paolo e i suoi successori proto-ortodossi, continua a essere necessaria per la salvezza in Cristo.


Attacchi gnostici alla proto-ortodossia

Di tutta la letteratura polemica che venne prodotta contro i proto-ortodossi dai loro avversari, quella che conosciamo meglio è uella gnostica. Questo grazie alla scoperta della biblioteca d Nag Hammadi, che contiene diversi trattati che attaccano le posizioni proto-ortodosse; prima del ritrovamento sapevamo che la lotta era stata dura, ma conoscevamo solo i prolissi attacchi di Ireneo, Tertulliano, Ippolito e dei loro successori, pagine su pagine di aspra polemica con l’intento di distruggere i nemici gnostici e cancellare le loro idee. Esamineremo questa tattica proto-ortodossa tra poco; per ora vediamo che cosa aveva da dire l’altra sponda. La polemica gnostica è alquanto diversa da quello che ci si potrebbe aspettare. Gli gnostici, almeno quelli che conosciamo meglio, non affermavano che le idee proto-ortodosse fossero pienamente sbagliate, ma che fossero inadeguate e superficiali, anzi ridicolmente inadeguate e superficiali. Gli gnostici, cioè, non negavano la validità delle affermazioni dottrinarie proto-ortodosse, ma le reinterpretavano in un modo che ritenevano più spirituale e profondo. Gli gnostici potevano professare credenze proto-ortodosse, leggere Scritture proto-ortodosse e accettare sacramenti proto-ortodossi, ma intendevano tutte queste cose in modo molto diverso, basandosi sulla loro capacità di guardarvi più a fondo garantita dalla loro superiore conoscenza (gnosis) della verità divina. E così, come temevano anche gli eresiologi proto-ortodossi, gli gnostici non erano nemici esterni ma interni, che pregavano nelle chiese proto-ortodosse ma si consideravano un'élite spirituale, una cerchia interna che riconosceva il significato spirituale più profondo di dottrine, Scritture e rituali che i proto-ortodossi prendevano solo per il loro valore di facciata. Tra gli attacchi gnostici alla superficialità delle idee proto-ortodosse, nessuno è più spietato dell'Apocalisse copta di Pietro scoperta a Nag Hammadi, che non va confusa con la proto-ortodossa Apocalisse di Pietro, in cui Pietro compie una visita guidata in paradiso e all’inferno. L’"apocalisse" o "rivelazione" di Nag Hammadi ritrae la vera natura di Cristo e biasima l’ignoranza dei semplici (i proto-ortodossi) che non la riconoscono. Il libro inizia con gli insegnamenti del "Salvatore", che informa Pietro che ci sono molti falsi maestri che sono "ciechi e sordi", bestemmiano la verità e insegnano cose malvagie; Pietro, invece, riceverà la conoscenza segreta (Apocalisse di Pietro 73). Gesù procede dicendo al discepolo che i suoi avversari sono "privi di percezione", perché "si attaccano al nome di un uomo morto": in altre parole, pensano che sia la morte di Gesù a essere importante per la salvezza. Questa, ovviamente, era stata un’idea proto—ortodossa fin dall’inizio; ma per questo autore quelli che pensano una cosa simile "bestemmiano la verità e proclamano un insegnamento malvagio" (74). Insomma, quelli che professano la fede in un morto si aggrappano alla morte, non alla vita immortale. Queste anime sono morte e sono state create per la morte.

Non tutte le anime vengono dalla verità o dall'immortalità. Ogni anima di questa èra infatti ha la sua morte assegnata; di conseguenza è sempre una schiava. Viene creata per i suoi desideri e per la loro distruzione eterna, per la quale e nella quale esistono. Esse [le anime] amano le creature materiali che sono venute alla luce con loro. Ma le anime immortali non sono come queste, o Pietro. Però, finché non giungerà l’ora, essa [l'anima immortale] sembrerà proprio un’anima mortale (75).

Nel mondo gli gnostici possono sembrare uguali agli altri uomini, ma in realtà sono diversi: non si aggrappano alle cose materiali e non vivono seguendo i loro desideri. Le loro anime sono immortali, anche se pochi lo sanno: "Gli altri non capiscono i misteri, anche se parlano di queste cose che non comprendono. Malgrado ciò, si vanteranno che il mistero della verità sia solo loro" (76). Come è possibile che quelli che non capiscono e che non insegnano la verità comprendano? "E ci saranno altri di quelli che non sono nel nostro numero che si chiamano "vescovi" e "diaconi", come se avessero ricevuto la loro autorità da Dio. [...] Questi uomini sono canali secchi" (79). Decisamente questo non è un complimento per i capi delle chiese cristiane: non sono fontane di conoscenza e saggezza ma letti di fiume essiccati. Ma che cos’è questa conoscenza accessibile alle anime immortali che sono invischiate nelle cose materiali? È la conoscenza della vera natura di Cristo e della sua crocifissione, che è erroneamente intesa (dai proto-ortodossi) come riferita alla morte di Cristo per i peccati. In realtà il vero Cristo non può essere toccato da dolore, sofferenza e morte, ma è al di là di queste cose. Ciò che venne crocifisso non era il Cristo divino ma il suo involucro fisico. In un'affascinante scena, Pietro assiste alla crocifissione e ammette di sentirsi confuso da ciò che vede:

Quando ebbe detto quelle cose, lo vidi chiaramente catturato da loro e dissi: "Che cosa vedo, o Signore? Sei tu quello che stanno prendendo? [...] Chi è quello ai di sopra della croce, felice e ridente? È un altra persona quello cui inchiodano le mani e i piedi?".

Allora Gesù dà la risposta indimenticabile che spiega il vero significato della crocifissione:

Il Salvatore mi disse: "Quello che vedi al di sopra della croce, felice e ridente, è il Gesù vivente, ma quello alle cui mani e piedi piantano i chiodi è la sua parte fisica, il sostituto. Stanno disonorando ciò che gli somiglia. Ma guarda lui e me" (81).

Solo la parvenza fisica di Cristo è messa a morte. Il Cristo vivente trascende la morte, trascende letteralmente la croce: sta lì, al di sopra di essa, a ridere di quelli che pensano di potergli fare male, di quelli che pensano che lo spirito divino dentro di lui possa soffrire e morire. Ma lo spirito di Cristo è al di là del dolore e della morte, così come gli spiriti di quelli che capiscono chi lui sia veramente e sanno chi sono veramente, spiriti intrappolati in una parvenza fisica ma che non possono soffrire o morire. La visione continua:

E vidi qualcuno venirci incontro, che sembrava lui e anche quello che rideva al di sopra della croce, ed era pieno di un puro spirito, ed era il Salvatore. [...] E mi disse: "Sii forte! Tu sei colui cui sono stati rivelati questi misteri, in modo che attraverso la rivelazione tu sappia che colui che crocifiggono è il primo nato, e la casa dei demoni, e il vaso di argilla in cui abitano, che appartiene a Elohim [cioè il Dio di questo mondo] e alla croce che è sottoposta alla legge. Ma colui che sta in piedi accanto a lui è il Salvatore vivente, la parte più importante dentro colui che hanno catturato; ed è stato liberato. Se ne sta lì a guardare con gioia quelli che lo hanno perseguitato. [...] Perciò ride della loro mancanza di comprensione. Anzi, è per questo che colui che soffre deve restare, poiché il corpo è il sostituto. Ma ciò che è stato liberato era il mio corpo incorporeo" (82).

Il corpo è solo un involucro che appartiene al creatore di questo mondo (Elohim, la parola ebraica usata a significare "Dio" nel Vecchio Testamento). La vera natura è dentro e non può essere toccata dal dolore fisico. Quelli che non hanno questa vera conoscenza pensano di poter uccidere Gesù, ma il Gesù vivente si innalza su tutto e li schernisce ridendo. Ma chi è veramente l’oggetto della derisione? I proto-ortodossi, che pensano che la morte di Gesù sia la chiave della salvezza. Per questo autore si tratta di un'idea ridicola: la salvezza non viene di corpo, ma dalla fuga da esso; non è la morte di Gesù a salvare, ma il Gesù vivente. I cosiddetti credenti che non capiscono non sono i beneficiari della morte di Gesù, ma le vittime del suo scherno.

Un attacco motto simile ai proto-ortodossi si legge in un altro trattato di Nag Hammadi, il Secondo trattato del grande Seth, che, come l’Apocalisse copta di Pietro, ridicolizza quelli che hanno una visione superficiale e letterale della morte di Gesù:

Infatti la mia morte, che loro credono sia avvenuta, è [invece] accaduta per loro nel loro errore e nella loro cecità. Hanno inchiodato il loro uomo alla [loro] morte. Le loro menti infatti non mi videro, perché erano sordi e ciechi. [...] Quanto a me, da un lato mi hanno visto e mi hanno punito. Un altro, il loro padre, fu colui che bevve il fiele e l’aceto, non io. Mi colpivano con la canna; un altro, che era Simone, fu quello che sollevò la croce sulla spalla. Un altro fu quello cui misero la croce di spine. Ma io mi rallegravo in alto di tutte le ricchezze degli arconti [...] ridendo della loro ignoranza. [...] Infatti continuavo a cambiare le mie forme dall’alto, trasformandomi di parvenza in parvenza (Secondo trattato del grande Seth 55-56).

Questa idea di Gesù che cambia forma richiama una delle versioni più inquietanti della crocifissione mai proposta da un maestro gnostico, non presente nei testi di Nag Hammadi ma nelle opere oggi perdute di Basilide e riferita da Ireneo. Il testo del Nuovo Testamento dice che sulla strada verso la crocifissione Simone di Cirene venne costretto a portare la croce di Gesù (cfr. Marco 14.21). Secondo Basilide, Gesù sfruttò l’occasione per attuare un cambio soprannaturale, trasformando se stesso in Simone e Simone in se stesso, cosicché i Romani crocifissero l’uomo sbagliato mentre Gesù se ne stava in disparte a ridere della sua trovata (Contro le eresie 1.24.3). Probabilmente Simone non la trovava altrettanto divertente. Ma la risata di Gesù non riguarda solo i trucchi che riesce a giocare. In questi testi la risata è rivolta contro quelli che non hanno occhi per vedere, che non capiscono la vera natura di Gesù o il significato della sua presunta morte sulla croce. Invece i veri "gnostici", sapendo da dove vengono, capiscono come sono giunti qui e come torneranno. Dopo la dissoluzione di questo involucro mortale, torneranno alla loro casa celeste, avendo trovato la salvezza non in questo corpo o in questo mondo ma lontano da questo corpo e da questo mondo. Chi non riesce a capire la natura di questa salvezza e guarda solo alla superficie delle cose e al lato esterno e materiale della realtà è giustamente oggetto di scherno da parte di Gesù e di quelli che hanno ricevuto la sua verità.


I proto-ortodossi all'attacco

Ma alla fine a ridere furono i proto-ortodossi. Con i loro attacchi polemici riuscirono a sradicare gli gnostici dalle proprie chiese, a distruggere le loro Scritture particolari, ad annientare il loro seguito. La distruzione fu talmente efficace che solo di recente siamo riusciti a farci un’idea di quanto sia stato importante lo Gnosticismo nei primi secoli del Cristianesimo e di come abbia cercato di contrattaccare, mentre prima la nostra unica fonte sul dibattito era stata la violenta opposizione scritta dei loro avversari proto-ortodossi. Certo, questa opposizione, realizzata sul piano letterario, ci aveva già fatto sospettare che i proto-ortodossi si trovassero di fronte a qualcosa che temevano sinceramente, e avevamo buoni motivi per pensare che le loro paure fossero radicate in una concreta realtà sociale, ma prima della scoperta della biblioteca di Nag Hammadi eravamo alquanto ignari delle strategie polemiche degli avversari gnostici. Dall’altro lato della barricata, le strategie degli eresiologi proto-ortodossi erano fin troppo note, e vennero ripetute in continuazione in tutta la letteratura finché non divennero praticamente stereotipi.


UNITA' E DIVERSITA'

Pane della strategia proto-ortodossa consisteva nell’accentuare il concetto di "unità" a tutti i livelli. Innanzitutto l’unità di Dio con la sua creazione: c’è un Dio che ha creato il mondo; poi l’unità di Dio con Gesù: Gesù è l’unico figlio di Dio; poi l’unità di Gesù con Cristo: egli è "uno e medesimo"; poi l’unità della chiesa: le divisioni sono causate dagli eretici; infine l’unità della verità: la verità non è contraddittoria o in contrasto con se stessa. Inoltre, come abbiamo visto, gli autori proto-ortodossi affermavano che le loro idee erano state trasmesse così fin dall’inizio: c’era dunque una continuità nella storia della loro fede, radicata nell’unità di Gesù con i suoi apostoli e degli apostoli con i loro successori, i vescovi delle varie chiese. Pertanto, ovunque ci fosse disunità c’era un problema. E il problema non era solamente al livello sociale della comunità, ma andava più a fondo, tanto a fondo quanto la verità del Vangelo. La disunità mostra divisione, e la divisione non è di Dio. Questa visione venne ben presto applicata alle "eresie", poiché si affermava che esse portavano non unità ma divisione. Dividevano Dio dalla sua creazione, il creatore da Gesù, Gesù da Cristo; dividevano la chiesa, dividevano la verità. Inoltre, il fatto che gli eretici fossero divisi anche tra di loro era una chiara prova che le loro idee non potessero provenire da Dio. In un passo Ireneo lamenta la propria incapacità di capire qualcosa nelle sette interne degli gnostici valentiniani: "Poiché differiscono tanto tra loro stessi, sia per dottrina che per tradizione, e poiché quelli di loro che sono riconosciuti come più moderni si sforzano ogni giorno di inventare qualche nuova opinione e di proporre ciò a cui nessuno ha mai pensato prima, è impresa difficile descrivere tutte le loro opinioni (Contro le eresie 1.21.5). Non solo era difficile descrivere tutte le loro opinioni, ma la grande eterogeneità degli stessi gnostici valentiniani provava a Ireneo che l’intero sistema conteneva solamente bugie: "Gli stessi padri di questa favola [il mito gnostico] differiscono tra di loro, come se fossero stati ispirati di diversi spiriti di errore. Questo stesso fatto costituisce una prova a priori che la verità proclamata dalla chiesa è immutabile e che le teorie di questi uomini non sono altro che un tessuto di falsità" (Contro le eresie 1.9.5). Oppure, per dirla più sinteticamente con Tertulliano: "Dove si trova diversità di dottrina, lì si deve credere che ci sia corruzione tanto delle Scritture quanto della loro esposizione" (Prescrizione 38).


SENSATEZZA E ASSURDITA'

Ma a essere attaccate non erano solo le contraddizioni interne degli eretici: venivano prese di mira anche le contraddizioni con ciò che i proto-ortodossi ritenevano buon senso e logica, molte delle quali riguardavano i complessi miti alla base delle dottrine dei vari gruppi gnostici. Prima di esaminare nel dettaglio alcune di queste obiezioni proto-ortodosse, vorrei osservare che alcuni studiosi hanno sospettato che i cristiani gnostici in realtà non trattassero i propri miti come descrizioni letterali del passato, cioè come un fondamentalista cristiano di oggi tratterebbe i capitoli iniziali della Genesi. Nel mondo moderno, molte chiese cristiane non integraliste concordano sull'idea che la Genesi contenga elementi mitici e leggendari, e non c'è bisogno di credere a una creazione letterale in sei giorni o all’esistenza di Adamo ed Eva come persone storiche per appartenere a queste comunità. I cristiani gnostici evidentemente avevano un approccio simile ai propri miti, mentre gli eresiologi proto-ortodossi li interpretavano in modo letterale, trattandoli come affermazioni logiche sul passato e quindi mostrando quanto fossero ridicoli. Questo poteva servire quando bisognava sferrare un attacco fulminante e che al tempo stesso risultasse retoricamente convincente per un pubblico profano. Soltanto raccontare i miti in tutta la loro estensione, uno dopo l’altro, può avere l’effetto di farli sembrare assurdi, e a quanto pare Ireneo e i suoi successori lo sapevano. Era impossibile che tutte quelle descrizioni della creazione, così complesse e involute, fossero giuste! Inoltre, come abbiamo detto, un insieme di miti non può essere conciliato con un altro, premesso che entrambi contengano affermazioni "logiche" su quanto è avvenuto nel passato. Ma gli eresiologi non si limitarono a fornire dettagli su dettagli, pagina dopo pagina: si misero a esaminare i miti separatamente per dimostrare che non potevano essere veri. Ad esempio, parlando della teogonia (spiegazione della nascita del regno divino) degli gnostici valentiniani, Ireneo osserva che in uno dei miti principali, tra il primo gruppo di eoni a emergere dall’unico vero Dio ci sono sia Silenzio (sige) sia Parola (logos): ma questo non ha senso, perché se c’è una parola, non può più esserci silenzio (Contro le eresie 2.12.5). Un altro esempio tra molti: in una spiegazione di come avvenne il disastro cosmico che portò alla creazione del mondo, il dodicesimo eone, Sophia (saggezza), frustrato dalla propria ignoranza, cerca di comprendere il Padre di Tutto, esagera e cade. Ma questo è un’assurdità, dice Ireneo, perché Saggezza, per la sua stessa natura, non può essere ignorante (Contro le eresie 2.18.2). Alcune obiezioni proto-ortodosse alla logica dei sistemi ereticali non riguardavano dettagli tanto secondari ma cercavano di andare dritte al nocciolo della questione. I cinque libri scritti da Tertulliano contro Marcione, ad esempio, iniziano col chiedersi direttamente se sia logicamente possibile avere due Dèi. Tertulliano fissa il principio cui si atterrà: "Dio, se non è uno, non è" (Contro Marcione 3). La sua premessa logica è che per poter realizzare una discussione teologica bisogna prima mettersi d’accordo sulla definizione di "Dio", e chiunque sia dotato di coscienza riconoscerà che la definizione è: "Dio è il grande Supremo che esiste eternamente, non generato, non creato, senza principio né fine". Ma una volta ammesso ciò (e ovviamente Tertulliano suppone che ognuno lo ammetta, altrimenti non sarebbe una persona "di coscienza"), ad avere più di un Dio c’è una difficoltà insormontabile. È impossibile avere due esseri supremi, perché se ne esistono due, nessuno dei due è supremo; e se uno dì loro è più grande dell’altro, allora l'altro non può essere Dio, perché non è supremo. Tertulliano prosegue affermando che non è possibile sostenere che i due Dèi possono essere supremi ciascuno nella sua sfera (ad esempio uno nella bontà e uno nella giustizia), perché ciò vorrebbe dire che nello schema generale ogni Dio è supremo solo parzialmente, e Dio, per essere Dio, deve essere completamente supremo. Il fatto che i loro avversari eretici non sapessero o volessero vedere la logica porta talvolta gli eresiologi proto-ortodossi al sarcasmo e allo scherno. Le più vivaci alla lettura sono spesso le battute di Tertulliano. I due Dèi di Marcione, sostiene, derivano dal fatto che egli vede doppio: "Agli uomini malati agli occhi anche una lucerna sembra come molte" (Contro Marcione 1.2). La realtà fisica smentisce le idee di Marcione (ormai morto) per cui si è salvati dal Dio creatore: "Come fai a immaginare di essere liberato dal suo regno, se le sue mosche ti volano ancora sulla faccia?" (1.24). Il Cristo-fantasma di Marcione è come l’intelligenza-fantasma di Marcione: "Vi assicuro, è più facile trovare un uomo nato senza cuore o senza cervello, come Marcione, che senza un corpo, come il Cristo di Marcione" (4.1).


VERITA' ED ERRORE

Un’argomentazione alquanto più sostanziale consiste nell’affermazione proto-ortodossa che la verità precede sempre l’errore, e ricorre in varie forme. Al livello più basilare, gli eresiologi osservano che le idee fondamentali di ogni eresia sono state create dal fondatore: Marcione per i marcioniti, Valentino per i valentiniani, Ebion per gli ebioniti (almeno secondo Tertulliano). Ma se questi maestri furono i primi a proporre un'interpretazione corretta della verità del Vangelo, che dire di tutti i cristiani vissuti prima di loro? Avevano torto e basta? Per i proto-ortodossi questo è assurdo: per loro "la verità precede la sua copia, la somiglianza vien dopo la realtà" (Tertulliano, Prescrizione 29). Un altro modo di presentare questa argomentazione prevedeva una specie di teoria della "contaminazione", ripetuta più volte nelle opere proto-ortodosse. Secondo questa idea, la fede originaria del messaggio cristiano è stata corrotta da elementi stranieri che vi sono stati aggiunti in un secondo momento in modo da alterarla in maniera talvolta irriconoscibile. In particolare questi autori non potevano sopportare gli eretici che utilizzavano la filosofia greca per spiegare la vera fede; soprattutto Tertulliano ne era infastidito:

Le eresie stesse sono anzi istigate dalla filosofia. Da questa fonte provengono gli eoni [gnostici] e non so quali infinite forme e la trinità dell’uomo [cioè la divisione tripartita dell’uomo in corpo, anima e spirito, corrispondente a uomini animali, "psichici" e spirituali] nel sistema di Valentino, che era della scuola di Platone. Dalla stessa fonte è giunto il dio migliore di Marcione, con tutta la sua tranquillità: proviene dagli stoici (Prescrizione 7).

Tertulliano rifiutava completamente l’intrusione della filosofia nella verità del Vangelo cristiano, secondo la sua famosa domanda: "Che cosa ha a che fare Atene con Gerusalemme? Che concordia esiste tra l’Accademia e la chiesa? E quale tra eretici e cristiani?" (Prescrizione 7). Anche Ireneo trova reprensibile l’uso delle idee filosofiche, e paragona quelli che prendono "le cose dette da tutti quelli che erano ignoranti di Dio e che sono chiamati filosofi" a quelli che "hanno cucito insieme un abito variopinto a partire da un ammasso di miserabili stracci [...] facendosi un mantello che non è veramente loro" e che in realtà è "vecchio e inutile". Se la filosofia potesse davvero rivelare la verità su Dio, chiede Ireneo, che bisogno c’era di mandare Cristo nel mondo? (Contro le eresie 2.14.6-7). Nessuno fu più strenuo nel combattere l’elemento filosofico nell’eresia d Ippolito di Roma, i cui dieci libri di Confutazione di tutte le eresie sono interamente dedicati a dimostrare che l’eresia deriva dalla tradizione filosofica greca. I primi quattro volumi dell’opera parlano infatti dei filosofi greci con i loro termini, mentre gli ultimi sei mostrano come ogni eresia, nessuna esclusa, prenda in prestito da loro le sue idee fondamentali. Ad alcuni lettori questo è sembrato eccessivo, soprattutto perché Ippolito, per continuare nella metafora usata da Ireneo, talvolta si trova a dover cucire varie eresie tra loro per adattarle al loro presunto tracciato filosofico. Gli eresiologi proto-ortodossi usarono un altro aspetto della teoria della contaminazione, cioè l’idea per cui con il passare del tempo un eretico corrompe le idee già di per sé corrotte del suo predecessore, cosicché nelle cerchie eretiche le variazioni diventano sempre più devianti e la verità sempre più lontana a mano a mano che il tempo passa. Questa idea della progressiva perversione della verità spiega perché gli eresiologi si interessassero tanto alle radici genealogiche dell’eresia. Per Ireneo e i suoi successori, Simone Mago è stato il padre di tutti gli eretici, poi gli successe Menandro, che a sua volta fu seguito da Saturnino e Basilide e così via (cfr. Ireneo, Contro le eresie 1.23ss). Secondo questa teoria, gli eretici sono tanto creativi che nessuno di loro si accontenta di ereditare il falso sistema del suo maestro: ognuno vuole corrompere ancora di più la verità secondo la sua immaginazione. E così le eresie iniziano a germogliare con riproduzioni e permutazioni incontrollate, come un’idra dalle molte teste che ne genera di nuove più velocemente di quanto le si riesca a tagliare. Questo grande numero di dottrine eretiche poteva forse sembrare scoraggiante per gli eresiologi, ma d’altra parte si consolavano con la certezza di lottare per la verità rivelata una volta per tutte ai santi e per l’ortodossia insegnata da Gesù ai suoi discepoli e tramandata senza cambiamenti e corruzioni fino ai loro giorni.


LA SUCCESSIONE APOSTOLICA

Come abbiamo visto più volte, affermare che la verità proveniva dagli apostoli era fondamentale nei dibattiti sull’eresia. I proto-ortodossi avevano molte strategie per ricollegare le loro idee a quelle degli apostoli. L’argomentazione più semplice prevedeva la "successione apostolica", già visibile in forma abbastanza embrionale nella Prima lettera di Clemente. Qui i Romani affermavano che i Corinzi dovevano reinsediare i loro presbiteri deposti perché i capi delle chiese (tra cui quei presbiteri) erano stati nominati da vescovi che erano stati selezionati dagli apostoli che erano stati scelti da Gesù che era stato mandato da Dio; opporsi ai capi delle chiese voleva dunque dire opporsi a Dio (Prima lettera di Clemente 42-44). Nelle mani di Tertulliano il concetto di successione apostolica venne sviluppato in modo leggermente diverso, cioè riferendosi all’autorizzazione a esercitare non solo le cariche ecclesiastiche ma anche l’insegnamento catechistico. Come osserva l’eresiologo, dopo la resurrezione Cristo ordinò agli apostoli di predicare il suo Vangelo a tutte le nazioni, ed essi lo fecero fondando in tutto il mondo importanti chiese basate sulla stessa predicazione dello stesso vangelo in ogni luogo. Queste fondazioni inviarono poi missionari a fondare altre chiese ancora: "Perciò le chiese, anche se sono tanto numerose e grandi, comprendono solamente l’unica chiesa primitiva fondata dagli apostoli, dalla quale sorsero. In questo modo tutte sono originarie e tutte apostoliche" (Prescrizione 20). La conclusione è la seguente:

Da ciò deriviamo dunque la nostra regola. Poiché il Signore Gesù ha inviato gli apostoli a predicare, la nostra regola è che nessun altro debba essere considerato predicatore al di fuori di quelli che Cristo ha nominato. [...] Se dunque le cose stanno così, è altrettanto chiaro che ogni dottrina che concorda con le chiese apostoliche [...] deve essere riconosciuta come veritiera, in quanto contiene senza alcun dubbio ciò che le sopraddette chiese hanno ricevuto dagli apostoli, gli apostoli da Cristo, Cristo da Dio (Prescrizione 21).

Tertulliano passa poi a nominare le chiese che possono far risalire la loro linea diretta agli apostoli, anche se forse è sorprendente e forse significativo che ne nomini solo due: Smirne, il cui vescovo Policarpo fu nominato dall’apostolo Giovanni, e Roma, il cui vescovo Clemente venne nominato da Pietro. Egli sfida comunque gli eretici a citargli come esenpio una qualsiasi loro chiesa di cui si possa dire lo stesso, e si mostra sicuro ch nessuno raccoglierà la sfida (cap. 32). L’argomentazione suona convincente, ma vale la pena di notare che anche altri gruppi oltre ai proto-ortodossi potevano vantare una discendenza diretta del loro insegnamento dagli apostoli. Sappiamo ad esempio da Clemente di Alessandria che Valentino era discepolo di Teuda, di cui si diceva fosse stato seguace di Paolo; e che lo gnostico Basilide studiò presso Glaucia, supposto discepolo di Pietro (Stromateis, 7.17.106). Per lo più i proto-ortodossi si limitarono a screditare queste connessioni.


LA REGOLA DELLA FEDE E DEL CREDO

Il vanto dei proto-ortodossi di rappresentare l’insegnamento apostolico sfociò in una serie di affermazioni dottrinali con cui espressero quella che secondo loro era la vera natura della religione. Entro il II secolo, prima che esistessero credi universali che ogni cristiano potesse pronunciare, questo insieme di dottrine venne chiamato regula fidei, letteralmente "regola della fede". Questa regola includeva le credenze fondamentali e basilari che tutti i cristiani dovevano condividere, in quanto erano stati insegnati dagli apostoli in persona. Vari autori proto-ortodossi, tra cui Ireneo e Tertulliano, espongono la regula fidei, che pure non fu mai fissata in una forma ben definita (in ogni caso essa era diretta contro chi non ne accettava uno o più aspetti). Di solito nelle varie forme della regola c’è la fede in un solo Dio, creatore del mondo, che ha creato tutto dal nulla, in suo figlio, Gesù Cristo, predetto dai profeti e nato dalla Vergine Maria, nella sua miracolosa vita, morte e resurrezione, e nello Spirito Santo, che sarà presente sulla terra fino alla fine, quando ci sarà un giudizio finale in cui i giusti saranno premiati e gli ingiusti condannati al tormento eterno (così ad esempio Tertulliano, Prescrizione 13). Alla fine oltre alla regula fidei si svilupparono vari credi cristiani che i convertiti dovevano recitare forse all’inizio, nell’intraprendere un programma di educazione cristiana (catechesi), cioè al momento del battesimo. Forse in origine i credi erano una serie di domande e risposte in tre parti, in conformità con la triplice immersione nell’acqua, come suggerisce Matteo 28.19-20: "Insegnate a tutte Le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e insegnando loro a seguire quanto vi ho ordinato". Poi il credo divenne tripartito, incentrandosi maggiormente sulla retta dottrina relativa a Padre, Figlio e Spirito Santo, e come la regula fidei era diretto contro le dottrine erronee proposte dagli altri gruppi. Alla fine, entro il IV secolo, il credo familiare ai cristiani di oggi si era ormai sviluppato in una forma rudimentale, soprattutto nella forma del "Credo apostolico" e del "Credo niceno". Vale la pena di notare che queste formulazioni sono mirate contro specifici gruppi eretici. Prendiamo l’inizio del Credo niceno: "Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio". In tutta la storia del pensiero cristiano queste parole sono state non solo solenni, ma anche foriere di serie riflessioni teologiche; allo stesso tempo, dobbiamo ricordare che rappresentano la reazione contro affermazioni dottrinali fatte da gruppi cristiani che non erano d’accordo con loro, come quelli che credevano che ci fosse più di un Dio, che il vero Dio non fosse il creatore, che Gesù non fosse il figlio del creatore o che Gesù Cristo non fosse una sola persona ma due. Si noti soprattutto che, essendo state formulate in un certo contesto, molte delle idee esposte in questi credi sono profondamente paradossali. Cristo è Dio o uomo? Entrambi. Se è entrambi, sono due persone? No, egli è l’"unico" Signore Gesù Cristo. Se Cristo è Dio e suo padre è Dio, ci sono due Dèi? No: "Credo in un solo Dio". La causa dei paradossi dovrebbe risultare chiara da ciò che abbiamo visto. I cristiani proto-ortodossi furono costretti a combattere da un lato gli adozionisti e dall'altro i docetisti, da un lato Marcione e dall’altro le varie sette gnostiche. Quando si afferma contro gli adozionisti che Gesù è divino, si rischia di sembrare docetisti, perciò si deve anche affermare contro i docetisti che Gesù è umano, ma a questo punto si rischia di sembrare adozionisti. Allora l'unica soluzione è affermare entrambe le cose in una volta: Gesù è divino e Gesù è umano. E si devono anche negare le implicazioni potenzialmente eretiche di entrambe le affermazioni: Gesù è divino, ma questo non significa che non sia anche umano; Gesù è umano, ma questo non significa che non sia anche divino. Dunque egli è divino e umano allo stesso tempo. Lo stesso vale per le paradossali affermazioni proto-ortodosse contenute nei credi su Dio creatore di tutte le cose ma non del male e della sofferenza che si trovano nel creato; su Gesù completamente umano e insieme completamente divino, e non metà dell’uno e metà dell’altro, ma entrambi allo stesso tempo, senza che ciò comporti essere due, perché egli è uno; su Padre, Figlio e Spirito Santo come tre persone separate eppure formanti un solo Dio.


L'INTERPRETAZIONE DELLA SCRITTURA

Un aspetto importante della polemica proto-ortodossa contro i vari eretici consisteva nell’affermare non soltanto le dottrine da seguire, ma anche l'interpretazione dei testi sacri su cui queste dottrine si basavano. Certo, c’era qualche disaccordo sul numero dei libri da accettare come sacri; ma c’era anche la questione di come interpretare i testi accettati. Questo era stato un punto importante fin dall'inizio del Cristianesimo, poiché Gesù e i suoi seguaci, come Paolo, citavano abbondantemente le Scritture e le interpretavano nei loro insegnamenti. Nel mondo antico non c'era maggiore unanimità di oggi su come leggere un testo. Se il significato dei testi fosse tanto evidente, non avremmo bisogno di commentatori, esperti legali, critici letterari o teorie dell’interpretazione: tutti potremmo leggere e capire subito. Si potrebbe pensare che basti il buon senso per decodificare un testo, ma provate a chiudere una decina di persone in una stanza con un testo della Bibbia o di Shakespeare o della Costituzione e vedrete quante interpretazioni ne usciranno fuori. Nell’antichità non era diverso. Ben presto nelle controversie su eresia e ortodossia si capì che avere un testo sacro non è lo stesso che interpretarlo. Per poter raggiungere un accordo unanime sul significato di un testo dovevano esistere precisi vincoli testuali imposti dall’alto, regole di lettura, pratiche accettare di interpretazione, modi di legittimazione e così via. La cosa divenne sempre più importante a mano a mano che maestri di diversi orientamenti teologici interpretavano gli stessi testi in modo diverso e poi si appellavano a questi testi a sostegno dei loro punti di vista. Marcione, per fare un esempio importante, sosteneva un’interpretazione letterale del Vecchio Testamento che lo condusse a concludere che il Dio del Vecchio Testamento era inferiore al Vero Dio. Il Dio del Vecchio Testamento, notava Marcione, non sapeva dove trovare Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, fu convinto a non distruggere Sodoma e Gomorra per un certo periodo, ordinò il massacro di tutti gli innocenti di Gerico, uomini, donne e bambini, e promise punizioni severe contro chiunque infrangesse la sua legge; in altre parole, leggendo le Scritture ebraiche semplicemente in modo letterale, in alcune occasioni il Dio ebraico si mostra ignorante, indeciso, iracondo e vendicativo. Per Marcione questo non era il Dio di Gesù, e poteva affermare questa tesi semplicemente prendendo il testo per il suo valore di facciata. Ma l’avversario proto-ortodosso di Marcione, Tertulliano, affermò che i brani che parlano dell’ignoranza o delle emozioni di Dio andavano presi in senso non letterale ma figurato. Poiché Dio non poteva essere veramente ignorante, indeciso o malevolo, questi passi andavano interpretati alla luce della piena conoscenza di come Dio è veramente, e così Tertulliano reinterpretò un gran numero di brani in modo figurato per provare la sua visione di Dio e Cristo. Facciamo solo un esempio: c’è un passo importante nel Levitico (16) che descrive due capri offerti dai sacerdoti ebrei il Giorno dell’Espiazione; secondo il testo, un capro deve essere mandato nel deserto e l’altro deve essere offerto in sacrificio. Tertulliano afferma che i due capri si riferiscono ai due avventi (cioè le venute sulla terra) di Cristo: la prima volta viene come colui che è maledetto (abbandonato nel deserto), la volta successiva (la sua "seconda venuta") come portatore di salvezza per quelli che appartengono al suo tempio spirituale (Contro Marcione 3.7). Si veda anche come Ireneo interpreta i cibi "puri e impuri" della Legge di Mosè. I figli di Israele sono autorizzati a mangiare animali che hanno lo zoccolo fesso e che ruminano, ma non animali che non hanno lo zoccolo fesso o che non ruminano (Levitico 11.2, Deuteronomio 14.3 ecc.). Che cosa significa questo? Per Ireneo, la norma indica i tipi di persone con cui i cristiani sono associati. Gli animali con lo zoccolo fesso sono puri perché rappresentano le persone che avanzano costantemente verso Dio e il Figlio per mezzo della fede (Dio + Figlio = zoccolo fesso); gli animali che ruminano ma non hanno lo zoccolo fesso sono impuri perché rappresentano gli ebrei che hanno in bocca le parole della Scrittura ma non avanzano costantemente verso la conoscenza di Dio (Contro le eresie 5.8.4). Scegliendo un’interpretazione figurativa dei passi, Tertulliano e Ireneo seguivano precedenti ben precisi tra i loro antenati proto-ortodossi: si ricordi l’ampio uso dell’interpretazione figurativa da parte di Barnaba per attaccare gli ebrei, che seguono solo il significato letterale delle loro leggi. Ma in altri casi, quando gli autori proto-ortodossi affrontavano avversari come alcuni gnostici, che già di loro usavano l’interpretazione figurativa, allora affermavano decisamente che solo l’interpretazione letterale del testo era ammissibile. In particolare Ireneo obietta contro le modalità interpretative che gli gnostici usano a sostegno delle loro tesi e esempi precisi. Gli gnostici che credevano in trenta eoni divini si appellavano all’affermazione del Vangelo di Luca per cui Gesù iniziò la sua missione all’età dì trent’anni e alla parabola della vigna, nella quale il proprietario recluta i lavoratori alla prima, terza, sesta, nona e undicesima ora (numeri che sommati insieme danno trenta). Inoltre essi affermavano che questi trenta eoni erano divisi in tre gruppi, il terzo dei quali consisteva in dodici eoni, l’ultimo dei quali era Sophia, l'eone che cadde dal regno divino portando alla creazione dell’universo. La nozione di Sophia (in greco "saggezza"), il dodicesimo eone, sarebbe stata evidenziata dalla comparsa di Gesù nel Tempio a dodici anni per discutere della Legge (mostrando così la sua "saggezza") e dal fatto che Giuda Iscariota, il dodicesimo degli apostoli, cadde e diventò un traditore (cfr. Contro le eresie 2.20-26). Ireneo considerava ridicole queste interpretazioni. Secondo lui, gli gnostici non facevano altro che far dire ai testi ciò che volevano loro e ignoravano i "chiari e piani" insegnamenti del testo, tra i quali per Ireneo c'era anche l'dea che esista un solo Dio, creatore buono di una creazione buona, macchiata non dalla caduta di un eone divino ma dal peccato di un uomo. Usando un’immagine brusca ma efficace, Ireneo paragona il capriccioso uso della scrittura da parte degli gnostici a una persona che, osservando un bel mosaico che raffigura un re, decide di staccare le pietre preziose e di ricomporle nella forma di un cane bastardo, sostenendo poi che quello era il vero intento dell'artista (Contro le eresie 1.8). All’osservatore moderno di questi dibattiti antichi può sembrare un problema che i proto-ortodossi insistessero sull’affermazione letterale del testo e poi, quando faceva loro più comodo, usassero quella figurativa. Eppure probabilmente è giusto affermare che questi autori proto-ortodossi ritenevano primaria l’interpretazione letterale del testo, mentre quella figurativa andava usata solo per supportare idee stabilite su base letterale. Questo vale anche per il più famoso allegorista proto-ortodosso, Origene di Alessandria, che era notevolmente propenso a fornire ricche e profonde interpretazioni figurative della Scrittura ma affermava che i metodi andavano applicati solo quando il significato letterale del testo sembrava disperatamente contraddittorio o assurdo (Origene, I princìpi, libro IV). In ogni caso, che l'insistenza sulla superiorità dell’interpretazione letterale abbia convinto gli gnostici o meno, nei dibattiti i proto-ortodossi ebbero una certa forza di convinzione nei confronti degli altri, soprattutto tra i simpatizzanti proto-ortodossi. Per loro la Scrittura doveva essere interpretata seguendo metodi letterali, cioè lasciando dire alle parole ciò che vogliono dire normalmente e seguendo pratiche largamente accettate di costruzione grammaticale. Se interpretate così, le parole rendono le intenzioni dell’autore; e poiché questi autori erano ritenuti tutti apostoli, questo tipo di pratica interpretativa poteva rivelare l'insegnamento apostolico trasmesso una volta per tutte alle chiese che si collocavano nella tradizione ortodossa di Gesù.
Nikki72
00venerdì 25 luglio 2008 21:23

L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti

23 marzo 2008 - Prof. Paolo Franceschetti -
http://paolofranceschetti.blogspot.com/


Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati.
Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso.
Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo.

Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze).
Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale.

I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente.
Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore.

L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande.
Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)?
Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti)
Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro?
Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso.
Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo?

La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore.
Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti.

Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre.
Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente.
Senz’altro queste due motivazioni ci sono.
Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente.
La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo).
Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta.
E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso.

Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa.
Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato.
E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso.
Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo.
Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime.
La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani.
Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina.
Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave.

Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca.
Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani)[1]. Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico).
Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”[2]. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina.

Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”).

Il mio articolo termina qui.
Non voglio approfondire per vari motivi.
In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho.
Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire.
E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto.
La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi.
Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce.
Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra.
Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce.
Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa.

Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo.
E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti.

(Io speriamo che non mi suicido)

Note
[1] Il magistrato restò ferito, poiché al momento dell'esplosione l'auto del magistrato stava superando una vettura su cui si trovavano Barbara Asta e i suoi due piccoli gemelli Salvatore e Giuseppe, che morirono dilaniati, investiti in pieno dall'esplosione
[2] 11 settembre 2001. Quarto livello. Ultimo atto, Editori Riuniti.

(POSTATO DA ORCKRIST)
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