Dalla penitenza al "rito della penitenza": storia della confessione - di Giordano Bruno Guerri

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Nikki72
00domenica 12 novembre 2006 19:18
La pratica della «confessione» esisteva già in civiltà anteriori al cristianesimo o estranee al suo influsso: era in uso nei culti di Iside, Orfeo e Cerere, e avveniva davanti allo ierofante e agli iniziati; monaci buddisti o jainisti dicono le proprie colpe al loro maestro, come il sikh si confessa al suo guru: è una forma di purificazione della coscienza per liberarla dalle forze maligne. Il rito della penitenza ha origini antichissime anche nella cultura ebraica precristiana: ogni sciagura — dalla sconfitta militare al cattivo raccolto — veniva considerata un segno dell’ira divina, da placare con suppliche collettive: digiuni, pianti, gesti di umiliazione come cospargersi la testa di cenere. L’intero popolo, attraverso le parole dei sacerdoti, si riconosceva colpevole e chiedeva perdono. Il perdono veniva concesso, ma non senza un’espiazione: benché Davide confessi la sua colpa, Dio lo punisce ugualmente con la morte del figlio. Alla severa giustizia divina si aggiungeva la severità degli uomini, perché il «popolo di Dio» non voleva rendersi complice della rottura dell’Alleanza, e puniva con la morte il colpevole: per i peccati più gravi, come l’idolatria e la bestemmia, c’era la lapidazione. In tempi più vicini alla nascita di Gesù, a questa severità si affianca — per peccati meno gravi — una più lieve penitenza individuale, ovvero l’espulsione dalla Sinagoga, che poteva essere definitiva o temporanea. Gesù partecipa alla cultura penitenziale e più volte annuncia la necessità della «conversione» e della «penitenza»; la parabola del figliol prodigo, l’incontro con la «peccatrice» e molti altri episodi del Vangelo testimoniano che il Padre sarà benevolo anche con il peccatore pentito. Cristo non «confessò» mai nessuno, ma «nessun’altra Chiesa cristiana e nessun’altra religione ha dato tanta importanza quanto il cattolicesimo alla confessione dettagliata e ripetuta dei peccati». Secondo l’interpretazione cattolica, il sacramento fu istituito da Gesù: nei Vangeli ci sono tre versetti che sembrano offrire alla Chiesa la possibilità di assolvere i peccatori: in Matteo 16,19 Gesù dice a Pietro: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»; in Matteo 18,18 Gesù ripete ai discepoli: «Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo». Le più moderne interpretazioni filologiche (anche cattoliche) dell’espressione «legare e sciogliere» sottolineano che la lettura corretta è «dichiarare una cosa proibita e permessa», e solo secondariamente «scomunicare, togliere la scomunica»; oppure l’espressione si riferirebbe solo all’esclusione o alla riammissione nella comunità della Chiesa, per cui non si tratta di «assolvere o non assolvere», ma di un unico processo penitenziale. Secondo l’interpretazione più recente, infine, l’espressione rabbinica «legare e sciogliere» ha il significato di «vincolare con un sortilegio e rompere il sortilegio», cioè abbandonare il peccatore a Satana o liberarlo. In definitiva, legare e sciogliere indicherebbe solo l’esclusione dalla Chiesa e la riconciliazione, non la remissione dei peccati. Il recente Catechismo della Chiesa Cattolica, però, ha ribadito e precisato: «Le parole legare e sciogliere significano: colui che voi escluderete dalla vostra comunione, sarà escluso dalla comunione con Dio; colui che voi accoglierete di nuovo nella vostra comunione, Dio lo accoglierà anche nella sua. La riconciliazione con la Chiesa è inseparabile dalla riconciliazione con Dio». Il testo sul quale il concilio di Trento si appoggiò maggiormente per sancire l’origine divina della confessione è in Giovanni, 20,23: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». La frase in Giovanni è meno equivocabile, ma anche secondo alcuni Padri della Chiesa - e scismatici come Calvino — indica solo il potere di rimettere i peccati attraverso il battesimo. Il dibattito verte intorno ai verbi afiemi e krateo, di difficile interpretazione in questo contesto, perché si tratta dell’unico versetto nel Nuovo Testamento in cui vengono riferiti al peccato. In definitiva, la lettura del versetto come istituzione divina della confessione è tutt’altro che pacifica, e anzi contestatissima dalla maggior parte degli autori protestanti. Ad ogni modo il perdono dei peccati venne interpretato in maniera estremamente restrittiva nei primi secoli del cristianesimo, fino al VI. San Paolo esclude dalla comunità cristiana, consegnandoli a Satana, tutti i peccatori notori, che danno scandalo alla comunità, ovvero gli «impudici», gli avari, gli idolatri, i maldicenti, gli ubriaconi, i ladri. A parte il rigore di Paolo, sembra accertato che in gran parte della cristianità non venissero perdonati i colpevoli di idolatria, omicidio, adulterio e fornicazione: solo verso il 220 papa Callisto ammise alla riconciliazione anche gli adulteri; tre decenni dopo fu la volta dei lapsi, ovvero di coloro che durante le persecuzioni tornavano al paganesimo, e soltanto con il concilio di Andra (314) furono ammessi al perdono anche gli omicidi. A quell’epoca i peccati gravi dovevano essere sottoposti alla penitenza pubblica, mentre quelli leggeri venivano estinti privatamente con la preghiera, la carità, il digiuno. Quasi tutto però veniva considerato peccato mortale, compresi i balli, l’invidia, la collera, l’orgoglio, l’ubriachezza (mentre — a differenza di oggi — veniva considerato peccato leggero avere rapporti sessuali con il coniuge evitando di procreare). Però «è lecito dubitare che, nella pratica, la penitenza ecclesiastica si sia estesa molto al di là dei casi notori di peccati capitali», soprattutto perché la penitenza era davvero penosa. Il peccatore poteva sia essere convocato dal vescovo, se notorio, sia presentarsi spontaneamente a dire le proprie colpe. Il vescovo stabiliva la penitenza, e se il colpevole non la accettava veniva escluso dalla Chiesa; se la accettava iniziava una diversa odissea: anche se non sempre doveva dichiarare in pubblico i propri peccati, la sua umiliazione veniva esibita a tutti i fedeli. Spesso lo stesso vescovo gli faceva indossare il cilicio, e da quel momento il peccatore entrava a far parte dell’«ordine dei penitenti». Ma, a differenza degli ordini religiosi, quello dei penitenti aveva caratteristiche infamanti ed esibite: a seconda dei luoghi bisognava radersi i capelli, oppure barba e capelli dovevano essere lunghi e incolti. Oltre ciò il peccatore pentito doveva iniziare la lunga catena delle opere penitenziali, private e pubbliche. Le prime consistevano in digiuni, dormire su un giaciglio cosparso di cenere, non lavarsi, piangere e pregare; pubblicamente doveva vestire il cilicio. I penitenti vennero distinti in quattro categorie: i flentes, che dovevano stare fuori dalla chiesa a implorare che i fedeli pregassero per loro, ma spesso venivano insultati e derisi; gli audientes potevano assistere alla messa, ma dovevano uscire al momento dell’eucaristia; i substrati potevano assistere, prostrati, alla celebrazione eucaristica; infine i consistentes dovevano assistere in piedi. I passaggi da una categoria all’altra erano molto lenti, fra i due e i sette anni. San Basilio il Grande (IV secolo) stabilì che si dovesse rimanere quattro anni tra i flentes e i consistentes, cinque tra gli audientes e sette tra i substrati. Fra il IV e il VI secolo le penitenze vennero sempre più codificate e rese severe: comprendevano fra l’altro l’astinenza dalle carni, l’obbligo di trasportare in chiesa i defunti e seppellirli, e vere e proprie espulsioni dalla vita civile, che duravano anche dopo la «riconciliazione”: era proibito ricoprire cariche pubbliche, svolgere attività commerciali, fare il servizio militare; infine, «per tutta la durata del tempo di espiazione, è vietato al coniuge sposato di vivere maritalmente con l’altro coniuge. La continenza totale è obbligatoria anche dopo la riconciliazione». Chiunque non accettasse tutte queste penitenze o le interrompesse, veniva scomunicato per sempre. Alla fine della laboriosa e angosciante penitenza il fedele veniva reintegrato nella comunità, ma non poteva più peccare: la confessione era possibile una sola volta nella vita, essendo considerata alla stregua di un nuovo battesimo. Una seconda assoluzione non veniva concessa, neanche in punto di morte, a coloro che «ritornano, come cani e maiali, ai loro primi vomiti»: così si espresse, nel 385, papa San Siricio. Dati questi presupposti, pochi confessavano volentieri i loro peccati. La stessa Chiesa — in concili, testi di papi e santi dottori — finì per consigliare una scappatoia di astuzia e opportunismo destinata a incidere nel carattere dei cattolici, e degli italiani in particolare. Sant’Ambrogio, per esempio, raccomanda di confessarsi quando «defervescat luxuria», sbollisca la lussuria. Fu così che si finì per confessarsi quasi solo da vecchi e in punto di morte, tanto che «alla fine del VI secolo si era giunti ad una situazione quanto mai insostenibile: la penitenza, di fatto e di diritto, era inaccessibile proprio a coloro che ne avevano più bisogno, cioè alle persone adulte e piene di vita. L’Ordo paenitentiarum si era ridotto praticamente ad essere una specie di terz’ordine religioso riservato a vecchi invalidi e a vedovi o celibatari senza speranza». Molti, piuttosto che affrontare la penitenza, preferivano prendere i voti, perché la vita monastica «malgrado il suo rigore, era più confortevole della penitenza pubblica e non infamante. Per questa ragione finì col soppiantarla. Aumentò il numero dei “conversi”, non sempre a vantaggio della qualità della vita religiosa». Era ormai indispensabile un ripensamento della penitenza. Già da secoli era invalso l’uso di confessarsi anche ai presbiteri, per esserne confortati e sapere se quei peccati dovessero essere espiati nell’Ordo paenitentiarum o con la semplice preghiera. A partire dal IV secolo questa prassi prese sempre più piede, e i presbiteri divennero sempre più tolleranti, a mano a mano che si ampliava la schiera dei cristiani battezzati da piccoli e che quindi avevano ereditato, non scelto, il cristianesimo. Oltretutto la severità delle penitenze impediva a quasi tutti di ricevere l’eucaristia: proprio per combattere questo fenomeno il concilio di Agdes (506) impose ai cristiani di comunicarsi almeno a Natale, Pasqua e Pentecoste. I fedeli, stretti tra i due fuochi del rigidissimo Ordo paenitentiarum e dell’obbligo della comunione, presero — specialmente in Spagna — un’abitudine stigmatizzata dal concilio di Toledo (589): «Ogni volta che peccano, chiedono al sacerdote di essere riconciliati». Nonostante la condanna del concilio, i sacerdoti divennero di anno in anno più inclini al compromesso, sull’esempio dei monaci irlandesi che alla fine del VI secolo cominciarono a sciamare in Europa: nelle selvagge isole di Gran Bretagna e Irlanda non era mai esistita la penitenza pubblica, ma solo quella privata. In breve l’uso della confessione auricolare, ripetibile quante volte si vuole nel corso della vita, prevalse a tal punto che il concilio di Chalon-sur-Saone (647-653) definì «della massima utilità» la nuova pratica.
Questa confessione venne chiamata tariffata, o tassata, perché il sacerdote aveva un elenco di peccati, cui corrispondeva una penitenza precisa. Al termine di un lungo interrogatorio-confessione, il fedele riceveva le penitenze, e solo quando le aveva adempiute poteva tornare a ricevere l’assoluzione, parola che da ora in poi sostituisce progressivamente la primitiva riconciliazione. A ricevere il nuovo tipo di sacramento sono anche i chierici (che prima non potevano pentirsi, e in caso di peccato grave venivano espulsi), e a esercitarlo ufficialmente non sono più soltanto i vescovi. L’elencazione schematica dei peccati contribuì in modo determinante a svuotare di reale contenuto senso della confessione, e a renderla un fatto privato tra sacerdote e fedele, togliendo alla penitenza il suo originario significato anche sociale. Quanto alle tariffe, vennero il più possibile codificate, in modo che le penitenze fossero uguali per tutti. Consistevano specialmente in digiuni (di vino, carne, grassi eccetera) che potevano durare anche decenni. Ecco alcuni esempi dal Penitenziale di San Colombano, uno dei più diffusi: «Per il peccato di masturbazione, un anno di digiuno, se il colpevole è ancora giovane», altrimenti di più. «L’omicida digiunerà per tre anni a pane e acqua, senza portare armi, e vivrà in esilio. Dopo questi tre anni, ritornerà in patria e si metterà al servizio dei parenti della vittima, sostituendo colui che ha ucciso.» «Se un laico avrà avuto un figlio dalla moglie di un altro, cioè avrà commesso adulterio, faccia penitenza per tre anni, astenendosi dai cibi grassi e dall’uso del matrimonio, rendendo inoltre il prezzo del disonore al marito della moglie violata.» «Se un laico avrà fornicato in modo sodomitico, faccia penitenza per sette anni: i primi tre nutrendosi di solo pane, acqua e sale, e legumi secchi; gli altri quattro si astenga dal vino e dalle carni.» Le tariffe per i chierici erano tanto più salate quanto più si saliva di grado. Poiché le tariffe dei singoli peccati si sommavano, finivano per diventare insopportabili od oltrepassare la durata della vita. Fu quindi necessario istituire una complessa serie di tabelle di commutazione, in modo da sostituire pene lunghe con altre più brevi ma più rigide. Esempi dai Canones Hibernenses: «Commutazione per un digiuno di tre giorni: stare in piedi un giorno e una notte senza dormire (o molto poco), oppure la recita di 50 salmi con i cantici corripondenti». «Commutazione per un digiuno di un anno: passare tre giorni nella tomba di un santo senza bere e senza mangiare, senza dormire e senza togliersi gli abiti; durante questo tempo canterà salmi.» Oppure: «Passare tre giorni in una chiesa, senza bere né mangiare, né dormire, completamente nudo, senza sedersi. Durante questo tempo il peccatore canterà salmi con i cantici e reciterà l’officio corale. Durante questa preghiera farà dodici genuflessioni». Piano piano cominciò a prendere piede anche la pratica di riscattare le pene con il denaro. Per evitare che i ricchi venissero favoriti, si studiarono pene differenti: a un povero basta «il prezzo di uno schiavo» per riscattare un anno di digiuno, mentre con la stessa cifra il ricco riscatta soltanto un mese. Ma la distinzione durerà poco. La confessione si trasforma in un grosso affare, soprattutto quando si comincia a stabilire che le penitenze possono essere commutate in messe, da pagare ai sacerdoti. Così, secondo il Penitenziale dello Pseudo-Teodoro, «una messa riscatta tre giorni di digiuno, tre messe riscattano una settimana di digiuno». Le messe si vendono anche a pacchetti: 100 soldi d’oro danno diritto a 120 messe. Per far fronte all’esorbitante numero dimesse, nel IX secolo molti monaci vennero fatti sacerdoti; qualche codice cercò invano di arginare l’arricchimento del clero ponendo un limite di sette messe al giorno per sacerdote: ma — dietro richiesta del penitente — il sacerdote poteva celebrare anche più di venti messe al giorno. Finalmente si arrivò all’abuso più scandaloso, riservato ai ricchi, ovvero pagare qualcuno perché compisse al proprio posto la penitenza, come sancisce il Penitenziale dello Pseudo-Teodoro: «Chi non conosce i salmi e, a causa della sua debolezza, non può digiunare né vegliare né fare genuflessioni né tenere le braccia alzate né prostrarsi per terra, costui scelga qualcuno che compia la penitenza al suo posto e lo paghi per questo, poiché sta scritto: “Portate gli uni i pesi degli altri”». Per il povero invece sta scritto: «Ognuno porti il proprio fardello». Ecco come, secondo un altro canone, «l’uomo potente che ha molti amici» può riscattare sette anni di penitenza in tre giorni: «Prenderà 12 uomini che faranno digiuno al suo posto durante 3 giorni, mangiando solo pane, acqua e legumi secchi. Cercherà subito per 7 volte altri 120 uomini che facciano digiuno al suo posto durante 3 giorni. I giorni di digiuno così sommati sono uguali al numero di giorni contenuti in 7 anni». In genere erano i monaci a fare le penitenze a pagamento, e fu una delle cause dell’arricchimento dei monasteri, tanto più da quando — come «composizione» — prevalse l’uso di chiedere ai più ricchi il dono di terre o la costruzione di chiese e conventi, I tentativi della Chiesa di combattere questa prassi furono pochi e più che altro formali. Ci provarono con maggiore energia, ma invano, i re carolingi fra l’VIII e il X secolo. L’uso della penitenza tariffata si esaurì da solo, nel XII-XIII secolo. A partire dal IX secolo, infatti, l’assoluzione viene data sempre più spesso non dopo, ma prima della penitenza, perché consiste quasi sempre in un’offerta alla chiesa o allo stesso confessore, più qualche preghiera. Diventa quotidiano e comune, fino al Seicento, lo scandalo dei confessori estremamente sbrigativi nell’ascoltare e assolvere, per fare quante più confessioni possibile. Verso la fine del X secolo viene introdotta anche una nuova forma di «penitenza pubblica non solenne»,ovvero il pellegrinaggio. I pellegrinaggi, che si tenevano in gran numero, erano riservati ai peccati pubblici «meno scandalosi» dei laici, ovvero quelli che non implicassero la sfera sessuale o teologica (furti, omicidi eccetera), oppure ai peccati scandalosi commessi da diaconi, presbiteri, vescovi. «I pellegrini penitenti erano dei peccatori forse pentiti, certamente dei criminali e, in gran parte, dei chierici criminali. Per questa ragione i pellegrinaggi penitenziali sono stati lo scandalo permanente della cristianità medievale: le bande di pellegrini, che in teoria passavano da un santuario all’altro per espiare i loro peccati, commettevano in realtà ogni tipo di abuso immaginabile.» A lungo poi continuò — fino al Seicento e oltre —lo scandalo dei sacerdoti che approfittavano del confessionale per procacciarsi avventure galanti, e le novelle di Boccaccio sono buona testimonianza della interminabile lotta tra penitenti e confessori per ingannarsi a vicenda: particolarmente significativa la vicenda di ser Cepparello, peccatore impenitente, che con una magistrale e falsissima confessione senile riesce a farsi proclamare santo. Nel 1215 Innocenzo III, durante il concilio Laterano IV, rese obbligatoria la confessione almeno una volta l’anno, e contemporaneamente cominciò ad affermarsi, con le crociate, l’uso delle «assoluzioni generali», che poi furono alla base dello scandalo ancora più grave delle indulgenze, a sua volta determinante nel provocare lo scisma luterano. Anche riguardo alla confessione, in definitiva, «i riformatori resero pubblica una contestazione tenuta sino ad allora nascosta», per opportunismo, nel mondo cristiano. Per Lutero la confessione è un sacramento di importanza minore, perché non è stato esplicitamente istituito e regolato da Gesù, come il battesimo e l’eucaristia. Ancora più radicali sono calvinisti e anglicani, per i quali non è un sacramento. Lutero ritiene che la contrizione perfetta — ovvero l’odio per il peccato commesso e il serio proposito di non commetterlo più — sia impossibile all’uomo, mentre quella imperfetta (attrizione), dovuta soprattutto alla paura dell’inferno, è un’ipocrisia, un nuovo peccato che si aggiunge agli altri. Del resto, per Lutero, l’uomo non può essere del tutto cosciente del male, né il sacerdote ha il diritto di intromettersi nella sua coscienza. Inoltre la giustizia divina non può essere soddisfatta con opere umane, sia pure vantaggiose per il clero. Di conseguenza Lutero nega al sacerdote l’autorità di assegnare penitenze e concedere il perdono, che viene direttamente da Dio; è quindi attraverso la fede, non attraverso la confessione rituale, che il peccatore riceve il perdono divino; la Chiesa non può obbligare i fedeli a confessarsi, neppure prima di fare la comunione, perché non risulta dai Vangeli che Gesù abbia legato i due sacramenti. Tuttavia, secondo Lutero, il buon cristiano si confesserà spesso e volentieri per ascoltare il perdono divino, ma il confessore può essere anche un laico. Alla fine — presso i luterani come presso i calvinisti — si affermò prevalentemente l’uso della confessione generale, durante la messa. La Chiesa cattolica non poteva tollerare una così drastica riduzione del suo potere, e al concilio di Trento furono spese molte energie per riaffermare il valore della confessione tradizionale. Soprattutto nelle sessioni fra il 15 ottobre e il 25 novembre 1551 fu stabilito che la confessione è vere et proprie sacramentum istituito da Gesù come vitae remedium. Venne inoltre confermato il valore della contrizione e dell’attrizione. A una a una furono ribattute tutte le affermazioni dei protestanti, particolarmente quella che i laici possano confessare. Una delle conseguenze più importanti del concilio, legata al problema della confessione, fu che per combattere i riformisti si affermò una concezione del peccato come fatto personale, che offende Dio e se stessi, mentre scomparve il concetto — basilare nella Chiesa antica — del peccato come responsabilità sociale. Fu un fatto culturale determinante nella formazione dei diversi «caratteri nazionali: fra i cattolici è meno forte il senso di responsabilità sociale. Subito dopo il concilio, la Chiesa lanciò una grande campagna per la confessione, generalmente affidata a missionari popolari per le masse, e ai gesuiti per le élite. La preparazione dei confessori venne uniformata e resa più rigorosa nei seminari, e i numerosissimi manuali scritti per loro diventarono best seller dell’epoca: ma, se contribuirono a migliorare la preparazione dei confessori, provocarono un ulteriore appiattimento burocratico e fiscale. Il concilio volle anche l’installazione dei confessionali chiusi, che fino ad allora non esistevano, per rafforzare il concetto di individualità e il rapporto stretto con il sacerdote. Il confessionale serviva inoltre a combattere le frequenti tentazioni carnali tra i confessori e le penitenti (o i penitenti). Nel 1561 Pio IV emanò una bolla contro i sacerdoti che sollecitavano ad turpia durante la confessione. Nel 1622 Gregorio XV doveva di nuovo intervenire su questo delitto. Ma, per dare un parametro, nel Seicento, nel solo Stato di Venezia, si tennero 78 processi per «sollecitazione» in confessionale. Ancora nel 1745 Benedetto XIV emanò un decreto di lotta a quei confessori che «feriscono i penitenti e danno loro in luogo del pane, una pietra, invece del pesce un serpente». Oggi, la maggior parte degli abusi sessuali su bambini compiuti da sacerdoti — scoperti negli Stati Uniti — parte dai confessionali. Dopo il concilio di Trento, quella «penitenza» che nella Chiesa delle origini era stata un atto unico e irripetibile, diventa una via alla santità: Prospero Lambertini (1675-1758), il futuro papa Benedetto XIV, in un suo trattato sulla beatificazione sostiene che uno dei criteri della santità è l’assiduità, anche quotidiana, alla confessione. Data la nuova, straordinaria importanza che questo sacramento assume per la Chiesa, si fa vivacissimo il dibattito fra teologi, sostanzialmente divisi tra «rigoristi» e «lassisti. Ci furono interminabii polemiche sulla contrizione, l’attrizione, il «probabilismo» (la possibilità di scegliere liberamente il da farsi, quando la legge appaia incerta o dubbia), la «casuistica» (la classificazione dei problemi di coscienza, con diverse soluzioni di caso in caso). I problemi legati alla confessione ebbero

nelle preoccupazioni di allora — mutatis mutandis — un posto paragonabile a quello che oggi occupano, nei media e nell’opinione pubblica, la contraccezione, l’aborto, i diversi tipi di fecondazione artificiale e l’eutanasia. […] Per il cattolico di un tempo non era irrilevante avere di fronte a sé, nella penombra del confessionale un prete intransigente o uno indulgente. Il suo conforto mentale, la sua vita di relazione, il suo comportamento quotidiano potevano essere modificati dalle pretese di colui che la Chiesa gli destinava come «padre», «medico» e «giudice» contemporaneamente.

Anche se gli effetti non si fecero sentire subito, la fiducia nella confessione venne minata alla base dalla constatazione che il giudizio dei sacerdoti — che rappresenta quello divino — è tanto variabile, e le proibizioni così numerose: un opuscolo del Seicento enumera diversi modi di peccare.
Fino al termine del Settecento prevalsero i rigoristi. Dopo — anche in seguito agli sconvolgimenti e alla perdita di fedeli provocati dalla rivoluzione francese — si impose la tolleranza, predicata dal vescovo napoletano Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) nella Theologia moralis e nei suoi manuali per confessori, moderati e concilianti: finirono per soppiantare e ispirare tutti gli altri da quando l’autore fu fatto santo (1839) e dottore della Chiesa (1871). Sant’Alfonso si sforzò, in sostanza, di rendere accettabile l’obbligo della confessione, che non diventasse una tortura temibile da parte di confessori inflessibii. Soprattutto quindi affermò una tendenza gravida di conseguenze per i popoli cattolici: anche se un peccatore ricade frequentemente nello stesso peccato — e quindi sia lecito sospettare della sincerità del suo pentimento — va comunque assolto ogni volta. Nacque, nell’Ottocento, la moda dei confessori celebri, come il curato d’Ars, tanto era sentito il bisogno di confessori più sensibili e capaci di instaurare un dialogo personale. Ma rimase ossessiva, anche nei manuali e nei confessori più miti, l’attenzione ai pericoli della carne. Uno dei più diffusi manuali dell’Ottocento precisa: «È lussuria: i pensieri voluttuosi, i baci, i contatti e gli sguardi impudichi, gli abbigliamenti femminili [sic], le pitture e le sculture che sono indecenti; le danze, i balli e gli spettacoli». Non fu l’ultimo dei motivi che — dopo l’illuminismo e la rivoluzione — provocarono, prima in Francia e poi negli altri paesi, una irreversibile crisi della confessione:

Si videro delle persone che volevano realmente riprendere l’abitudine della messa domenicale e fare di nuovo la Pasqua. Ma erano riluttanti a ritornare al confessionale e, alla fine, si allontanarono dalla Chiesa. Nel XIX secolo prenderà pubblicamente piede una violenta ostilità, soprattutto maschile, nei confronti della confessione. Le si rimprovererà di insinuarsi nell’intimità delle famiglie, di mettere la donna contro l’uomo, la religione contro la politica, la scuola confessionale contro quella laica, la nostalgia per l’Ancien Régime contro il progresso repubblicano. Sarà denunciata come un abuso di potere.

NeI 1905 papa San Pio X decreta che la confessione deve essere frequente, di preferenza una volta alla settimana. Pio XII lo ribadisce nell’encidica Mystici Corporis del 1943, anche per i peccati veniali, e lo stesso fece il Concilio Vaticano II. L’uso della confessione frequente, anche secondo autori cattolici, se «è servito per formare le coscienze e anche per mantenere un alto livello morale in buona parte delle popolazioni cristiane […] ha portato con sé anche il marchio di un certo individualismo e schematismo che può rendere la confessione un qualcosa di formalistico e di meccanico». In realtà la maggior parte degli stessi cattolici oggi respingono quell’idea di «alto livello morale» applicato quasi soltanto a controllare la sessualità, e rifuggono dalla confessione come strumento di controllo personale e sociale. La confessione oggi è sottoposta, all’interno della Chiesa, a un dibattito intenso quanto la gravità della sua crisi. Per il momento il Vaticano sta prudentemente saggiando la confessione comunitaria che ha origine spontanea e popolare. In Belgio, nel 1947-48, in una comune parrocchia di operai, durante la messa i fedeli — su invito de sacerdote — riflettevano sui propri peccati, se ne pentivano e venivano collettivamente assolti. La pratica si diffuse rapidamente a tutta l’area linguistica francese e poi a tutta la cristianità. Il Concilio Vaticano II ribadì che la confessione auricolare resta l’unica via di remissione dei peccati gravi; contemporaneamente però dava un’indicazione precisa: «Si rivedano il rito e le formule della Penitenza, in modo che esprimano più chiaramente la natura e l’effetto del Sacramento». L’indicazione più importante del concilio fu la riscoperta dell’incidenza sociale del peccato, tanto da invitare i confessori a inculcare nell’animo dei fedeli «le conseguenze del peccato» nella società. Dopo anni di studio, e dopo avere esaminato le sollecitazioni «moderniste» delle varie Chiese nazionali non latine, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede il 19 giugno 1972 promulgò le Norme pastorali circa l’assoluzione sacramentale generale, sulle quali si basa l’attuale confessione. Il primo punto stabilisce che «dev’essere fermamente ritenuta e fedelmente applicata nella prassi la dottrina del Concilio di Trento. […] La confessione individuale e completa con l’assoluzione resta l’unico mezzo ordinario, grazie al quale i fedeli si riconciliano con Dio e con la Chiesa». Inoltre «coloro ai quali sono rimessi i peccati gravi mediante l’assoluzione in forma collettiva, devono accostarsi alla confessione auricolare prima di ricevere di nuovo una tale assoluzione». Veniva anche confermato l’obbligo di confessarsi «privatamente a un sacerdote, perlomeno una volta l’anno», e veniva ribadito che la confessione auricolare deve essere frequente e incoraggiata anche per i peccati veniali (“i sacerdoti non si permettano di dissuadere i fedeli»...) Il 2 dicembre 1973 veniva promulgato in latino il testo sui nuovo Ordo paenitentiae, che diveniva operativo in Italia il 21 aprile 1974, con la pubblicazione del testo in italiano (Rito della penitenza). Non si parla più di confessione, ma di riconciliazione, per sottolineare che «confessare i peccati» è solo una parte del rito, il cui senso profondo dovrebbe essere pentirsi, quindi «riconciliarsi» con Dio e con la Chiesa; ma, vent’anni dopo, il vecchio nome — e vecchio concetto — prevalgono nel linguaggio della quasi totalità dei fedeli e anche dei sacerdoti. Né è stato recepito lo sforzo di dare alla pratica della confessione una maggiore dignità rituale e di richiamo alla parola di Dio; né le vecchie penitenze in forma di preghiera sono state sostituite, come suggerito, con azioni che riparino il male compiuto. Il nuovo testo conferma che il confessore «impersona l’immagine di Cristo buon pastore» e ammette tre tipi di confessione: a) Quella tradizionale auricolare, che resta l’unica veramente valida a tutti gli effetti. b) Il «Rito per la riconciliazione di più penitenti, con la confessione e l’assoluzione generale», subito adottato da fedeli e sacerdoti con un entusiasmo che alla Conferenza Episcopale Italiana parve eccessivo: tanto che il 30 aprile 1975 si affrettò a pubblicare una nota per ribadire che questa versione è accettabile solo in casi rarissimi, come il pericolo di morte. c) Il «Rito per la riconciliazione di più penitenti, con la confessione e l’assoluzione individuale». In questa «terza via», compromesso tra l’antico e il nuovo, c’è un esame di coscienza generale, poi i singoli fedeli dovrebbero andare dai confessori per l’elencazione dei peccati; maquasi mai si dispone di sacerdoti in numero adeguato, e inoltre questa pratica esaspera l’impressione della confessione come «assoluzionificio» privo di contenuto. Una soluzione logica, liberatoria e piena di dignità per tutti sarebbe stata quella di lasciare al credente la possibilità di scegliere se confessarsi privatamente o con la confessione comunitaria. Ma le opzioni di coscienza e di libertà non sono una prerogativa della Chiesa. Nel dibattito c’è chi propone di tornare all’antico, cioè di concedere l’assoluzione solo dopo che il fedele ha dimostrato un concreto sforzo di conversione con una vera penitenza. C’è chi sostiene che il sacramento dovrebbe essere soltanto comunitario, e chi vorrebbe una catechesi più approfondita del peccato. C’è chi vorrebbe abolire l’obbligo della confessione prima della comunione, o renderla obbligatoria solo per peccati veramente «mortali», distinti da quelli soltanto «gravi», ma la distinzione è quanto mai complessa. I teologi più avanzati discutono persino la possibilità — remota — di concedere anche ai laici, in certe occasioni e in certi modi, la possibilità di confessare. E, molto opportunamente, c’è chi pensa di spostare la prima confessione dopo la prima comunione, perché si comincia a recepire, dagli studi della moderna psicologia, che un bambino di sette-otto anni non può afferrare il senso cristiano del peccato. È comunque iniziato un percorso che, in tempi prevedibilmente lunghi, porterà forse a una trasformazione della confessione in uso da otto secoli.

Tratto dal libro "Io ti assolvo", Baldini&Castoldi 1993.







[Modificato da Nikki72 12/11/2006 19.26]

[Modificato da Nikki72 12/11/2006 19.43]

Zalmoxis
00lunedì 13 novembre 2006 05:30


Molto bello anche se un po' lungo

[SM=x44462] [SM=x44520] [SM=x44462]
Etrusco
00mercoledì 15 novembre 2006 04:04
è tutto molto interessante e potrebbe aiutare a riflettere meglio su tanti precetti del cattolicesimo.

Comunque è da notare che sono sempre presenti richiami ai culti dell'antico Egitto, forse per mutuazioni che ebbero gli ebrei durante quei 4 secoli di schiavitù [SM=x44461]

"Shemà Israel Adonai elohenu, Adonai ehad "
Ascolta Israele, Ascolta Israele. Il Signore è nostro Dio. Il Signore è Uno.

Dove quell'Adonai non si capisce se sia una contaminazione con qualche divinità siriaca o egiziana [SM=x44473]

Bestionn
00mercoledì 15 novembre 2006 15:54
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE


PRESENTAZIONE DELLA LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI "MOTU PROPRIO" MISERICORDIA DEI
SU ALCUNI ASPETTI DELLA CELEBRAZIONE
DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. JOSEPH RATZINGER

Giovedì, 2 maggio 2002



Che l'umanità abbia bisogno di purificazione e di perdono, è del tutto evidente in questa nostra ora storica. Proprio per questo il Santo Padre nella sua Lettera Apostolica Novo millennio ineunte ha auspicato fra le priorità della missione della Chiesa per il nuovo millennio "un rinnovato coraggio pastorale per proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della Riconciliazione" (n. 37).

A questo invito si riallaccia il nuovo Motu proprio Misericordia Dei e concretizza teologicamente, pastoralmente e giuridicamente alcuni importanti aspetti della prassi di questo Sacramento. Il Motu proprio sottolinea innanzitutto il carattere personalistico del Sacramento della Penitenza: come la colpa malgrado tutti i nostri legami con la comunità umana è ultimamente qualcosa di totalmente personale, così anche la nostra guarigione, il perdono deve essere totalmente personale. Dio non ci tratta come parti di un collettivo - egli conosce ogni singolo per nome, lo chiama personalmente e lo salva, se è caduto nella colpa. Anche se in tutti i sacramenti il Signore si rivolge direttamente al singolo, il carattere personalistico dell'essere cristiani si manifesta in modo particolarmente chiaro nel sacramento della penitenza. Ciò significa che sono parti costitutive del sacramento la confessione personale e il perdono rivolto a questa persona. L'assoluzione collettiva è una forma straordinaria e possibile solo in ben determinati casi di necessità; essa presuppone inoltre - proprio a partire dall'essenza del sacramento - la volontà di provvedere alla confessione personale dei peccati, non appena ciò sarà possibile. Questo carattere fortemente personalistico del Sacramento della Penitenza era stato un po' messo in ombra negli ultimi decenni a motivo di un sempre più frequente ricorso all'assoluzione collettiva, che era considerata sempre più come una forma normale del sacramento della Penitenza - un abuso, che ha contribuito alla progressiva scomparsa di questo sacramento in alcune parti della Chiesa.

Se il Papa ora riduce nuovamente i confini di questa possibilità, potrebbe insorgere l'obiezione: ma il sacramento della penitenza ha pur subito nella storia molte trasformazioni, e perché non anche questa? Al riguardo occorre dire che la forma del sacramento manifesta in realtà nel corso della storia notevoli variazioni, ma la componente personalistica gli era sempre essenziale.

La Chiesa ha avuto coscienza ed ha coscienza che solo Dio può perdonare i peccati (cfr Mc 2,7). Perciò doveva imparare a discernere con attenzione, quasi con timore, quali poteri il Signore le aveva trasmesso e quali no. Dopo un lungo cammino di maturazione storica il Concilio di Trento ha esposto in una forma organica la dottrina ecclesiale sul sacramento della penitenza (DS 1667-1693; 1701-1715).

I Padri del Concilio di Trento hanno compreso le parole del Risorto ai suoi discepoli in Giov. 20, 22s come le specifiche parole dell'istituzione del sacramento: "Ricevete lo Spirito Santo! A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (DS 1670; 1703; 1710). A partire da Giov. 20 essi hanno interpretato Mt 16, 19 e 18, 18 e compreso il potere delle chiavi della Chiesa come potere di remissione dei peccati (DS 1692; 1710). Erano pienamente consapevoli dei problemi di interpretazione di questi testi ed hanno fondato pertanto l'interpretazione nel senso del sacramento della penitenza con l'ausilio dell' "intelligenza della Chiesa", che si esprime nel consenso universale dei Padri (1670; 1679; 1683; importante 1703). Il punto decisivo in queste parole di istituzione consiste nel fatto che il Signore affida ai discepoli la scelta fra remittere et ligare, retinere et solvere: i discepoli non sono semplicemente uno strumento neutrale del perdono divino, piuttosto è loro affidato un potere di discernere e così un dovere di discernere nei singoli casi. I Padri hanno visto qui il carattere giudiziale del sacramento. Al sacramento della penitenza appartengono pertanto essenzialmente due aspetti: da una parte quello sacramentale, cioè il mandato del Signore, che va al di là del potere proprio dei discepoli, ed anche della comunità dei discepoli della Chiesa; dall'altra l'incarico della decisione, che deve essere fondata oggettivamente, quindi deve essere giusta ed in questo senso ha carattere giudiziale.

Appartiene così al sacramento stesso la "iurisdictio", che esige un ordinamento giuridico da parte della Chiesa, ma naturalmente deve essere sempre orientata all'essenza del sacramento, alla volontà salvifica di Dio (1686s). Trento si differenzia così chiaramente dalla posizione riformata, secondo cui il sacramento della penitenza significa solo una manifestazione di un perdono già concesso nella fede, quindi non pone nulla di nuovo, ma solo annuncia, ciò che nella fede sempre già esiste.

Questo carattere sacramentale-giuridico del sacramento ha due importanti implicazioni: si tratta, se le cose stanno così, di un sacramento diverso dal battesimo, di un sacramento specifico, che presuppone un particolare potere sacramentale, quindi che è legato all'ordine (1684). Se però deve esserci una valutazione giudiziale, allora è chiaro che il giudice deve conoscere la fattispecie da giudicare. Nell'aspetto giuridico è implicita la necessità della confessione personale con la comunicazione dei peccati, per i quali deve essere chiesto il perdono a Dio e alla Chiesa, perché essi hanno infranto quell'unità di amore con Dio donata nel battesimo. A partire di qui il Concilio può dire che è necessario "iure divino" confessare tutti e singoli i peccati mortali (can. 7, 1707). Il dovere della confessione è istituito - così ci dice il Concilio - dal Signore stesso e costitutivo del sacramento, non lasciato quindi alla disposizione della Chiesa.

Non è dunque nel potere della Chiesa sostituire la confessione personale con l'assoluzione generale: questo ci ricorda il Papa nel nuovo Motu proprio, che è così espressione della coscienza della Chiesa a riguardo dei limiti del suo potere - esprime il legame con la parola del Signore, che obbliga anche il Papa. Solo nella situazione di necessità, nella quale la salvezza ultima dell'uomo è in gioco, l'assoluzione può essere anticipata e la confessione rimandata ad un momento, in cui per questo sarà data la possibilità: questo è il vero senso di ciò che in modo piuttosto oscuro viene reso con la parola assoluzione collettiva. Qui è ora nondimeno compito della Chiesa definire quando si è in presenza di una tale situazione di necessità. Dopo che negli ultimi decenni - come già accennato - si erano diffuse interpretazioni estensive per molti motivi insostenibili del concetto di necessità, il Papa in questo documento dà precise determinazioni, che devono essere applicate nei particolari da parte dei Vescovi.

E' allora questo un testo, che pone nuovi pesi sulle spalle dei cristiani? E' proprio il contrario: il carattere totalmente personale dell'esistenza cristiana viene difeso. Certamente, la confessione della propria colpa può apparire spesso pesante alla persona, perché umilia il suo orgoglio e lo confronta con la sua povertà. Ma è proprio di questo che abbiamo bisogno; proprio di questo soffriamo, che ci rinchiudiamo nel nostro delirio di incolpevolezza e così ci chiudiamo anche davanti agli altri e nei confronti degli altri. Nelle cure psicoterapeutiche si esige dalle persone di portare il peso di profonde e spesso pericolose rivelazioni circa la loro interiorità. Nel sacramento della Penitenza si depone con fiducia nella bontà misericordiosa di Dio la semplice confessione della propria colpa. E' importante fare questo senza cadere nello scrupulo, nello spirito di confidenza proprio dei figli di Dio. Così la confessione può divenire un'esperienza di liberazione, nella quale il peso del passato ci abbandona e noi possiamo sentirci ringiovaniti per merito della grazia di Dio, che ci ridona ogni volta la giovinezza del cuore.


- fonte -
Bestionn
00mercoledì 15 novembre 2006 16:14
Sulla Confessione...


LETTERA APOSTOLICA NOVO MILLENNIO INEUNTE
DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO, AL CLERO E AI FEDELI
AL TERMINE DEL GRANDE GIUBILEO
DELL'ANNO DUEMILA


Ai Confratelli nell'Episcopato,
ai sacerdoti e ai diaconi,
ai religiosi e alle religiose,
a tutti i fedeli laici.

1. All'inizio del nuovo millennio, mentre si chiude il Grande Giubileo in cui abbiamo celebrato i duemila anni della nascita di Gesù e un nuovo tratto di cammino si apre per la Chiesa, riecheggiano nel nostro cuore le parole con cui un giorno Gesù, dopo aver parlato alle folle dalla barca di Simone, invitò l'Apostolo a « prendere il largo » per la pesca: « Duc in altum » (Lc 5,4). Pietro e i primi compagni si fidarono della parola di Cristo, e gettarono le reti. « E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci » (Lc 5,6).

Duc in altum! Questa parola risuona oggi per noi, e ci invita a fare memoria grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro: « Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre! » (Eb 13,8).

Grande è stata quest'anno la gioia della Chiesa, che si è dedicata a contemplare il volto del suo Sposo e Signore. Essa si è fatta più che mai popolo pellegrinante, guidato da Colui che è « il Pastore grande delle pecore » (Eb 13,20). Con uno straordinario dinamismo, che ha coinvolto tanti suoi membri, il Popolo di Dio, qui a Roma, come a Gerusalemme e in tutte le singole Chiese locali, è passato attraverso la « Porta Santa » che è Cristo. A lui, traguardo della storia e unico Salvatore del mondo, la Chiesa e lo Spirito hanno gridato: « Marana tha — Vieni, Signore Gesù » (cfr Ap 22,17.20; 1 Cor 16,22).

È impossibile misurare l'evento di grazia che, nel corso dell'anno, ha toccato le coscienze. Ma certamente, « un fiume d'acqua viva », quello che perennemente scaturisce « dal trono di Dio e dell'Agnello » (cfr Ap 22,1), si è riversato sulla Chiesa. E l'acqua dello Spirito che disseta e rinnova (cfr Gv 4,14). E l'amore misericordioso del Padre che, in Cristo, ci è stato ancora una volta svelato e donato. Al termine di quest'anno possiamo ripetere, con rinnovata esultanza, l'antica parola della gratitudine: « Celebrate il Signore perché è buono, perché eterna è la sua misericordia » (Sal 118[117],1).

2. Sento perciò il bisogno di rivolgermi a voi, carissimi, per condividere il canto della lode. A quest'Anno Santo del Duemila avevo pensato, come ad una scadenza importante, fin dall'inizio del mio Pontificato. Avevo colto, in questa celebrazione, un appuntamento provvidenziale, in cui la Chiesa, a trentacinque anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II, sarebbe stata invitata ad interrogarsi sul suo rinnovamento per assumere con nuovo slancio la sua missione evangelizzatrice.

È riuscito il Giubileo in questo intento? Il nostro impegno, con i suoi sforzi generosi e le immancabili fragilità, è davanti allo sguardo di Dio. Ma non possiamo sottrarci al dovere della gratitudine per le « meraviglie » che Dio ha compiuto per noi. « Misericordias Domini in aeternum cantabo » (Sal 89[88],2).

Al tempo stesso, quanto è avvenuto sotto i nostri occhi chiede di essere riconsiderato e, in certo senso, decifrato, per ascoltare ciò che lo Spirito, lungo quest'anno così intenso, ha detto alla Chiesa (cfr Ap 2,7.11.17 ecc.).

3. Soprattutto, carissimi Fratelli e Sorelle, è doveroso per noi proiettarci verso il futuro che ci attende. Tante volte, in questi mesi, abbiamo guardato al nuovo millennio che si apre, vivendo il Giubileo non solo come memoria del passato, ma come profezia dell'avvenire. Bisogna ora far tesoro della grazia ricevuta, traducendola in fervore di propositi e concrete linee operative. Un compito al quale desidero invitare tutte le Chiese locali. In ciascuna di esse, raccolta intorno al suo Vescovo, nell'ascolto della Parola, nell'unione fraterna e nella « frazione del pane » (cfr At 2,42), è « veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica ».1 È soprattutto nel concreto di ciascuna Chiesa che il mistero dell'unico Popolo di Dio assume quella speciale configurazione che lo rende aderente ai singoli contesti e culture.

Questo radicarsi della Chiesa nel tempo e nello spazio riflette, in ultima analisi, il movimento stesso dell'Incarnazione. E ora dunque che ciascuna Chiesa, riflettendo su ciò che lo Spirito ha detto al Popolo di Dio in questo speciale anno di grazia, ed anzi nel più lungo arco di tempo che va dal Concilio Vaticano II al Grande Giubileo, compia una verifica del suo fervore e recuperi nuovo slancio per il suo impegno spirituale e pastorale. È a tal fine che desidero offrire in questa Lettera, a conclusione dell'Anno giubilare, il contributo del mio ministero petrino, perché la Chiesa risplenda sempre di più nella varietà dei suoi doni e nell'unità del suo cammino.

I
L'incontro con Cristo
EreditÀ del Grande Giubileo

4. « Noi ti rendiamo grazie, Signore Dio onnipotente » (Ap 11,17). Nella Bolla di indizione del Giubileo auspicavo che la celebrazione bimillenaria del mistero dell'Incarnazione fosse vissuta come «un unico, ininterrotto canto di lode alla Trinità»2 e insieme «come cammino di riconciliazione e come segno di genuina speranza per quanti guardano a Cristo ed alla sua Chiesa».3 L'esperienza dell'Anno giubilare si è modulata appunto secondo queste dimensioni vitali, raggiungendo momenti di intensità che ci hanno fatto quasi toccare con mano la presenza misericordiosa di Dio, dal quale «discende ogni buon regalo e ogni dono perfetto» (Gc 1,17).

Penso alla dimensione della lode, innanzitutto. È da qui infatti che muove ogni autentica risposta di fede alla rivelazione di Dio in Cristo. Il cristianesimo è grazia, è la sorpresa di un Dio che, non pago di creare il mondo e l'uomo, si è messo al passo con la sua creatura, e dopo aver parlato a più riprese e in diversi modi « per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio » (Eb 1,1-2).

In questi giorni! Sì, il Giubileo ci ha fatto sentire che duemila anni di storia sono passati senza attenuare la freschezza di quell'« oggi » con cui gli angeli annunciarono ai pastori l'evento meraviglioso della nascita di Gesù a Betlemme: « Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore » (Lc 2,11). Duemila anni sono passati, ma resta più che mai viva la proclamazione che Gesù fece della sua missione davanti ai suoi attoniti concittadini nella sinagoga di Nazareth, applicando a sé la profezia di Isaia: « Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi » (Lc 4,21). Duemila anni sono passati, ma torna sempre consolante per i peccatori bisognosi di misericordia — e chi non lo è ? — quell'« oggi » della salvezza che sulla Croce aprì le porte del Regno di Dio al ladrone pentito: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso » (Lc 23,43).

La pienezza del tempo

5. La coincidenza di questo Giubileo con l'ingresso in un nuovo millennio ha certamente favorito, senza alcun cedimento a fantasie millenariste, la percezione del mistero di Cristo nel grande orizzonte della storia della salvezza. Il cristianesimo è religione calata nella storia! È sul terreno della storia, infatti, che Dio ha voluto stabilire con Israele un'alleanza e preparare così la nascita del Figlio dal grembo di Maria nella « pienezza del tempo » (Gal 4,4). Colto nel suo mistero divino e umano, Cristo è il fondamento e il centro della storia, ne è il senso e la meta ultima. È per mezzo di lui, infatti, Verbo e immagine del Padre, che « tutto è stato fatto » (Gv 1,3; cfr Col 1,15). La sua incarnazione, culminante nel mistero pasquale e nel dono dello Spirito, costituisce il cuore pulsante del tempo, l'ora misteriosa in cui il Regno di Dio si è fatto vicino (cfr Mc 1,15), anzi ha messo radici, come seme destinato a diventare un grande albero (cfr Mc 4,30-32), nella nostra storia.

« Gloria a te, Cristo Gesù, oggi e sempre tu regnerai ». Con questo canto mille e mille volte ripetuto, abbiamo quest'anno contemplato Cristo quale ce lo presenta l'Apocalisse: « l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il principio e la fine » (Ap 22,13). E contemplando Cristo, abbiamo insieme adorato il Padre e lo Spirito, l'unica e indivisa Trinità, mistero ineffabile in cui tutto ha la sua origine e tutto il suo compimento.

Purificazione della memoria

6. Perché il nostro occhio potesse essere più puro per contemplare il mistero, quest'Anno giubilare è stato fortemente caratterizzato dalla richiesta di perdono. E ciò è stato vero non solo per i singoli, che si sono interrogati sulla propria vita, per implorare misericordia e ottenere il dono speciale dell'indulgenza, ma per l'intera Chiesa, che ha voluto ricordare le infedeltà con cui tanti suoi figli, nel corso della storia, hanno gettato ombra sul suo volto di Sposa di Cristo.

A questo esame di coscienza ci eravamo a lungo disposti, consapevoli che la Chiesa, comprendendo nel suo seno i peccatori, è « santa e sempre bisognosa di purificazione ».4 Convegni scientifici ci hanno aiutato a focalizzare quegli aspetti in cui lo spirito evangelico, nel corso dei primi due millenni, non sempre ha brillato. Come dimenticare la toccante Liturgia del 12 marzo 2000, in cui io stesso, nella Basilica di san Pietro, fissando lo sguardo sul Crocifisso, mi sono fatto voce della Chiesa chiedendo perdono per il peccato di tutti i suoi figli? Questa « purificazione della memoria » ha rafforzato i nostri passi nel cammino verso il futuro, rendendoci insieme più umili e vigili nella nostra adesione al Vangelo.

I testimoni della fede

7. La viva coscienza penitenziale, tuttavia, non ci ha impedito di rendere gloria al Signore per quanto ha operato in tutti i secoli, e in particolare nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle, assicurando alla sua Chiesa una grande schiera di santi e di martiri. Per alcuni di essi l'Anno giubilare è stato anche l'anno della beatificazione o canonizzazione. Riferita a Pontefici ben noti alla storia o ad umili figure di laici e religiosi, da un continente all'altro del globo, la santità è apparsa più che mai la dimensione che meglio esprime il mistero della Chiesa. Messaggio eloquente che non ha bisogno di parole, essa rappresenta al vivo il volto di Cristo.

Molto si è fatto poi, in occasione dell'Anno Santo, per raccogliere le memorie preziose dei Testimoni della fede nel secolo XX. Li abbiamo commemorati il 7 maggio 2000, insieme con i rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, nello scenario suggestivo del Colosseo, simbolo delle antiche persecuzioni. È un'eredità da non disperdere, da consegnare a un perenne dovere di gratitudine e a un rinnovato proposito di imitazione.

Chiesa pellegrinante

8. Quasi mettendosi sulle orme dei Santi, si sono avvicendati qui a Roma, presso le tombe degli Apostoli, innumerevoli figli della Chiesa, desiderosi di professare la propria fede, confessare i propri peccati e ricevere la misericordia che salva. Il mio sguardo quest'anno non è rimasto soltanto impressionato dalle folle che hanno riempito Piazza san Pietro durante molte celebrazioni. Non di rado mi sono soffermato a guardare le lunghe file di pellegrini in paziente attesa di varcare la Porta Santa. In ciascuno di essi cercavo di immaginare una storia di vita, fatta di gioie, ansie, dolori; una storia incontrata da Cristo, e che nel dialogo con lui riprendeva il suo cammino di speranza.

Osservando poi il continuo fluire dei gruppi, ne traevo come un'immagine plastica della Chiesa pellegrinante, di quella Chiesa posta, come dice sant'Agostino, « fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio ».5 A noi non è dato di osservare che il volto più esteriore di questo evento singolare. Chi può misurare le meraviglie di grazia, che si sono realizzate nei cuori? Conviene tacere e adorare, fidandosi umilmente dell'azione misteriosa di Dio e cantandone l'amore senza fine: «Misericordias Domini in aeternum cantabo!».

I giovani

9. I numerosi incontri giubilari hanno visto radunarsi le più diverse categorie di persone, registrando una partecipazione davvero impressionante, che talvolta ha messo a dura prova l'impegno degli organizzatori e degli animatori, sia ecclesiali che civili. Desidero approfittare di questa Lettera per esprimere a tutti il mio grazie più cordiale. Ma al di là del numero, ciò che tante volte mi ha commosso è stata la constatazione dell'impegno serio di preghiera, di riflessione, di comunione, che questi incontri hanno per lo più manifestato.

E come non ricordare specialmente il gioioso ed entusiasmante raduno dei giovani? Se c'è un'immagine del Giubileo dell'Anno 2000 che più di altre resterà viva nella memoria, sicuramente è quella della marea di giovani con i quali ho potuto stabilire una sorta di dialogo privilegiato, sul filo di una reciproca simpatia e di un'intesa profonda. È stato così fin dal benvenuto che ho loro dato in Piazza san Giovanni in Laterano e in Piazza san Pietro. Poi li ho visti sciamare per la Città, allegri come devono essere i giovani, ma anche pensosi, desiderosi di preghiera, di « senso », di amicizia vera. Non sarà facile, né per loro stessi, né per quanti li hanno osservati, cancellare dalla memoria quella settimana in cui Roma si è fatta « giovane coi giovani ». Non sarà possibile dimenticare la celebrazione eucaristica di Tor Vergata.

Ancora una volta, i giovani si sono rivelati per Roma e per la Chiesa un dono speciale dello Spirito di Dio. C'è talvolta, quando si guarda ai giovani, con i problemi e le fragilità che li segnano nella società contemporanea, una tendenza al pessimismo. Il Giubileo dei Giovani ci ha come «spiazzati», consegnandoci invece il messaggio di una gioventù che esprime un anelito profondo, nonostante possibili ambiguità, verso quei valori autentici che hanno in Cristo la loro pienezza. Non è forse Cristo il segreto della vera libertà e della gioia profonda del cuore? Non è Cristo l'amico supremo e insieme l'educatore di ogni autentica amicizia? Se ai giovani Cristo è presentato col suo vero volto, essi lo sentono come una risposta convincente e sono capaci di accoglierne il messaggio, anche se esigente e segnato dalla Croce. Per questo, vibrando al loro entusiasmo, non ho esitato a chiedere loro una scelta radicale di fede e di vita, additando un compito stupendo: quello di farsi « sentinelle del mattino » (cfr Is 21,11-12) in questa aurora del nuovo millennio.

Pellegrini delle varie categorie

10. Non posso ovviamente soffermarmi in dettaglio sui singoli eventi giubilari. Ciascuno di essi ha avuto il suo carattere e ha lasciato il suo messaggio non solo a quanti vi hanno preso parte direttamente, ma anche a quanti ne hanno avuto notizia o vi hanno partecipato a distanza, attraverso i mass media. Ma come non ricordare il tono festoso del primo grande incontro dedicato ai bambini? Iniziare con loro, significava in certo modo rispettare il monito di Gesù: « Lasciate che i bambini vengano a me » (Mc 10,14). Significava forse ancor più ripetere il gesto che egli compì, quando « pose in mezzo » un bambino e ne fece il simbolo stesso dell'atteggiamento da assumere, se si vuole entrare nel Regno di Dio (cfr Mt 18,2-4).

Così, in certo senso, è sulle orme dei bambini che sono venuti a chiedere la misericordia giubilare le più varie categorie di adulti: dagli anziani ai malati e disabili, dai lavoratori delle officine e dei campi agli sportivi, dagli artisti ai docenti universitari, dai Vescovi e presbiteri alle persone di vita consacrata, dai politici ai giornalisti fino ai militari, venuti a ribadire il senso del loro servizio come un servizio alla pace.

Grande respiro ebbe il raduno dei lavoratori, svoltosi il 1° maggio nella tradizionale data della festa del lavoro. Ad essi chiesi di vivere la spiritualità del lavoro, ad imitazione di san Giuseppe e di Gesù stesso. Il loro giubileo mi offrì inoltre l'occasione per pronunciare un forte invito a sanare gli squilibri economici e sociali esistenti nel mondo del lavoro, e a governare con decisione i processi della globalizzazione economica in funzione della solidarietà e del rispetto dovuto a ciascuna persona umana.

I bambini, con la loro incontenibile festosità, sono tornati nel Giubileo delle Famiglie, in cui sono stati additati al mondo come « primavera della famiglia e della società ». Davvero eloquente è stato questo incontro giubilare, in cui tante famiglie, provenienti dalle diverse regioni del mondo, sono venute ad attingere con rinnovato fervore la luce di Cristo sul disegno originario di Dio a loro riguardo (cfr Mc 10,6-8; Mt 19,4-6). Esse si sono impegnate a irradiarla verso una cultura che rischia di smarrire in modo sempre più preoccupante il senso stesso del matrimonio e dell'istituto familiare.

Tra gli incontri più toccanti, poi, rimane per me quello che ho avuto con i carcerati di Regina Caeli. Nei loro occhi ho letto il dolore, ma anche il pentimento e la speranza. Per loro il Giubileo è stato a titolo tutto speciale un « anno di misericordia ».

Simpatico, infine, negli ultimi giorni dell'anno, l'incontro con il mondo dello spettacolo, che tanta forza di attrazione esercita sull'animo della gente. Alle persone coinvolte in questo settore ho ricordato la grande responsabilità di proporre, con il lieto divertimento, messaggi positivi, moralmente sani, capaci di infondere fiducia e amore alla vita.

Il Congresso Eucaristico Internazionale

11. Nella logica di quest'Anno giubilare, un significato qualificante doveva avere il Congresso Eucaristico Internazionale. E lo ha avuto! Se l'Eucaristia è il sacrificio di Cristo che si rende presente tra noi, poteva la sua presenza reale non essere al centro dell'Anno Santo dedicato all'incarnazione del Verbo? Fu previsto, proprio per questo, come anno «intensamente eucaristico»6 e così abbiamo cercato di viverlo. Al tempo stesso, come poteva mancare, accanto al ricordo della nascita del Figlio, quello della Madre? Maria è stata presente nella celebrazione giubilare non solo attraverso opportuni e qualificati Convegni, ma soprattutto attraverso il grande Atto di affidamento con cui, affiancato da buona parte dell'Episcopato mondiale, ho consegnato alla sua premura materna la vita degli uomini e delle donne del nuovo millennio.

La dimensione ecumenica

12. Si comprenderà che mi sia spontaneo parlare soprattutto del Giubileo visto dalla Sede di Pietro. Non dimentico tuttavia di aver voluto io stesso che la sua celebrazione avesse luogo a pieno titolo anche nelle Chiese particolari, ed è lì che la maggior parte dei fedeli ha potuto ottenere le grazie speciali e, in particolare, l'indulgenza legata all'Anno giubilare. Resta comunque significativo che numerose Diocesi abbiano sentito il desiderio di rendersi presenti, con vasti gruppi di fedeli, anche qui a Roma. La Città eterna ha così manifestato ancora una volta il suo ruolo provvidenziale di luogo in cui le ricchezze e i doni di ogni singola Chiesa, ed anzi di ogni singola nazione e cultura, si armonizzano nella « cattolicità », perché l'unica Chiesa di Cristo manifesti in modo sempre più eloquente il suo mistero di sacramento di unità.7

Un'attenzione speciale avevo anche chiesto che si riservasse nel programma dell'Anno giubilare alla dimensione ecumenica. Quale occasione più propizia, per incoraggiare il cammino verso la piena comunione, che la comune celebrazione della nascita di Cristo? Molti sforzi sono stati compiuti a tale scopo, e rimane luminoso l'incontro ecumenico nella Basilica di san Paolo, il 18 gennaio 2000, quando per la prima volta nella storia una Porta Santa è stata aperta congiuntamente dal Successore di Pietro, dal Primate Anglicano e da un Metropolita del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, alla presenza di rappresentanti di Chiese e Comunità ecclesiali di tutto il mondo. In questa linea sono andati anche alcuni importanti incontri con Patriarchi ortodossi e Capi di altre Confessioni cristiane. Ricordo, in particolare, la recente visita di S.S. Karekin II, Patriarca Supremo e Catholicos di tutti gli Armeni. Inoltre tanti fedeli di altre Chiese e Comunità ecclesiali hanno partecipato agli incontri giubilari delle singole categorie. Il cammino ecumenico resta certo faticoso, forse lungo, ma ci anima la speranza di essere guidati dalla presenza del Risorto e dalla forza inesauribile del suo Spirito, capace di sorprese sempre nuove.

Il pellegrinaggio in Terra Santa

13. E come poi non ricordare il mio personale Giubileo sulle strade della Terra Santa? Avrei desiderato iniziarlo ad Ur dei Caldei, per mettermi quasi sensibilmente sulle orme di Abramo «nostro padre nella fede» (cfr Rm 4,11-16). Dovetti invece accontentarmi di una tappa solo spirituale, con la suggestiva « Liturgia della Parola » celebrata il 23 febbraio nell'Aula Paolo VI. Venne subito dopo il pellegrinaggio vero e proprio, seguendo l'itinerario della storia della salvezza. Ebbi così la gioia di sostare al Monte Sinai, nello scenario del dono del Decalogo e della prima Alleanza. Ripresi un mese più tardi il cammino, toccando il Monte Nebo e recandomi poi negli stessi luoghi abitati e santificati dal Redentore. È difficile esprimere la commozione che ho provato nel poter venerare i luoghi della nascita e della vita di Cristo, a Betlemme e a Nazareth, nel celebrare l'Eucaristia nel Cenacolo, nello stesso luogo della sua istituzione, nel rimeditare il mistero della Croce sul Golgotha, dove Egli ha dato la vita per noi. In quei luoghi, ancora tanto travagliati e anche recentemente funestati dalla violenza, ho potuto sperimentare un'accoglienza straordinaria non soltanto da parte dei figli della Chiesa, ma anche da parte delle comunità israeliana e palestinese. Intensa è stata poi la mia emozione nella preghiera presso il Muro del Pianto e nella visita al Mausoleo di Yad Vashem, ricordo agghiacciante delle vittime dei campi di sterminio nazisti. Quel pellegrinaggio è stato un momento di fraternità e di pace, che mi piace raccogliere come uno dei più bei doni dell'evento giubilare. Ripensando al clima vissuto in quei giorni, non posso non esprimere l'augurio sentito di una sollecita e giusta soluzione dei problemi ancora aperti in quei luoghi santi, congiuntamente cari agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani.

Il debito internazionale

14. Il Giubileo è stato anche — e non poteva essere diversamente — un grande evento di carità. Fin dagli anni preparatori, avevo fatto appello ad una maggiore e più operosa attenzione ai problemi della povertà che ancora travagliano il mondo. Un particolare significato ha assunto, in questo scenario, il problema del debito internazionale dei Paesi poveri. Nei confronti di questi ultimi, un gesto di generosità era nella logica stessa del Giubileo, che nella sua originaria configurazione biblica era appunto il tempo in cui la comunità si impegnava a ristabilire giustizia e solidarietà nei rapporti tra le persone, restituendo anche i beni materiali sottratti. Sono lieto di osservare che recentemente i Parlamenti di molti degli Stati creditori hanno votato un sostanziale condono del debito bilaterale a carico dei Paesi più poveri e indebitati. Faccio voti che i rispettivi Governi diano compimento, in tempi brevi, a queste decisioni parlamentari. Piuttosto problematica si è rivelata invece la questione del debito multilaterale, contratto dai Paesi più poveri con gli Organismi finanziari internazionali. C'è da augurarsi che gli Stati membri di tali Organizzazioni, soprattutto quelli che hanno un maggiore peso decisionale, riescano a trovare i necessari consensi per arrivare alla rapida soluzione di una questione, da cui dipende il cammino di sviluppo di molti Paesi, con pesanti conseguenze per la condizione economica ed esistenziale di tante persone.

Un dinamismo nuovo

15. Sono, queste, soltanto alcune delle linee emergenti dall'esperienza giubilare. Essa lascia impressi in noi tanti ricordi. Ma se volessimo ricondurre al nucleo essenziale la grande eredità che essa ci consegna, non esiterei ad individuarlo nella contemplazione del volto di Cristo: lui considerato nei suoi lineamenti storici e nel suo mistero, accolto nella sua molteplice presenza nella Chiesa e nel mondo, confessato come senso della storia e luce del nostro cammino.

Ora dobbiamo guardare avanti, dobbiamo « prendere il largo », fiduciosi nella parola di Cristo: Duc in altum! Ciò che abbiamo fatto quest'anno non può giustificare una sensazione di appagamento ed ancor meno indurci ad un atteggiamento di disimpegno. Al contrario, le esperienze vissute devono suscitare in noi un dinamismo nuovo, spingendoci ad investire l'entusiasmo provato in iniziative concrete. Gesù stesso ci ammonisce: « Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio » (Lc 9,62). Nella causa del Regno non c'è tempo per guardare indietro, tanto meno per adagiarsi nella pigrizia. Molto ci attende, e dobbiamo per questo porre mano ad un'efficace programmazione pastorale post-giubilare.

È tuttavia importante che quanto ci proporremo, con l'aiuto di Dio, sia profondamente radicato nella contemplazione e nella preghiera. Il nostro è tempo di continuo movimento che giunge spesso fino all'agitazione, col facile rischio del « fare per fare ». Dobbiamo resistere a questa tentazione, cercando di « essere » prima che di « fare ». Ricordiamo a questo proposito il rimprovero di Gesù a Marta: « Tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno » (Lc 10,41-42). In questo spirito, prima di proporre alla vostra considerazione alcune linee operative, desidero parteciparvi qualche spunto di meditazione sul mistero di Cristo, fondamento assoluto di ogni nostra azione pastorale.



II
UN VOLTO DA CONTEMPLARE

16. « Vogliamo vedere Gesù » (Gv 12,21). Questa richiesta, fatta all'apostolo Filippo da alcuni Greci che si erano recati a Gerusalemme per il pellegrinaggio pasquale, è riecheggiata spiritualmente anche alle nostre orecchie in questo Anno giubilare. Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di « parlare » di Cristo, ma in certo senso di farlo loro « vedere ». E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio?

La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto. Il Grande Giubileo ci ha sicuramente aiutati ad esserlo più profondamente. A conclusione del Giubileo, mentre riprendiamo il cammino ordinario, portando nell'animo la ricchezza delle esperienze vissute in questo periodo specialissimo, lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore.

La testimonianza dei Vangeli

17. E la contemplazione del volto di Cristo non può che ispirarsi a quanto di Lui ci dice la Sacra Scrittura, che è, da capo a fondo, attraversata dal suo mistero, oscuramente additato nell'Antico Testamento, pienamente rivelato nel Nuovo, al punto che san Girolamo sentenzia con vigore: «L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo stesso».8 Restando ancorati alla Scrittura, ci apriamo all'azione dello Spirito (cfr Gv 15,26), che è all'origine di quegli scritti, e insieme alla testimonianza degli Apostoli (cfr ibid., 27), che hanno fatto esperienza viva di Cristo, il Verbo della vita, lo hanno visto con i loro occhi, udito con le loro orecchie, toccato con le loro mani (cfr 1 Gv 1,1).

Quella che ci giunge per loro tramite è una visione di fede, suffragata da una precisa testimonianza storica: una testimonianza veritiera, che i Vangeli, pur nella loro complessa redazione e con un'intenzionalità primariamente catechetica, ci consegnano in modo pienamente attendibile.9

18. I Vangeli in realtà non pretendono di essere una biografia completa di Gesù secondo i canoni della moderna scienza storica. Da essi tuttavia il volto del Nazareno emerge con sicuro fondamento storico, giacché gli Evangelisti si preoccuparono di delinearlo raccogliendo testimonianze affidabili (cfr Lc 1,3) e lavorando su documenti sottoposti al vigile discernimento ecclesiale. Fu sulla base di queste testimonianze della prima ora che essi, sotto l'azione illuminante dello Spirito Santo, appresero il dato umanamente sconcertante della nascita verginale di Gesù da Maria, sposa di Giuseppe. Da chi lo aveva conosciuto durante i circa trent'anni da lui trascorsi a Nazareth (cfr Lc 3,23), raccolsero i dati sulla sua vita di « figlio del carpentiere » (Mt 13,55) e «carpentiere» egli stesso, ben collocato nel quadro della sua parentela (cfr Mc 6,3). Ne registrarono la religiosità, che lo spingeva a recarsi con i suoi in pellegrinaggio annuale al tempio di Gerusalemme (cfr Lc 2,41) e soprattutto lo rendeva abituale frequentatore della sinagoga della sua città (cfr Lc 4,16).

Le notizie si fanno poi più ampie, pur senza essere un resoconto organico e dettagliato, per il periodo del ministero pubblico, a partire dal momento in cui il giovane Galileo si fa battezzare da Giovanni Battista al Giordano, e forte della testimonianza dall'alto, con la consapevolezza di essere il « figlio prediletto » (Lc 3,22), inizia la sua predicazione dell'avvento del Regno di Dio, illustrandone le esigenze e la potenza attraverso parole e segni di grazia e misericordia. I Vangeli ce lo presentano così in cammino per città e villaggi, accompagnato da dodici Apostoli da lui scelti (cfr Mc 3,13-19), da un gruppo di donne che li assistono (cfr Lc 8,2-3), da folle che lo cercano o lo seguono, da malati che ne invocano la potenza guaritrice, da interlocutori che ne ascoltano, con vario profitto, le parole.

La narrazione dei Vangeli converge poi nel mostrare la crescente tensione che si verifica tra Gesù e i gruppi emergenti della società religiosa del suo tempo, fino alla crisi finale, che ha il suo drammatico epilogo sul Golgotha. È l'ora delle tenebre, a cui segue una nuova, radiosa e definitiva aurora. I racconti evangelici si chiudono infatti mostrando il Nazareno vittorioso sulla morte, ne additano la tomba vuota e lo seguono nel ciclo delle apparizioni, nelle quali i discepoli, prima perplessi e attoniti, poi colmi di indicibile gioia, lo sperimentano vivente e radioso, e da lui ricevono il dono dello Spirito (cfr Gv 20,22) e il mandato di annunciare il Vangelo a « tutte le nazioni » (Mt 28,19).

La via della fede

19. « E i discepoli gioirono al vedere il Signore » (Gv 20,20). Il volto che gli Apostoli contemplarono dopo la risurrezione era lo stesso di quel Gesù col quale avevano vissuto circa tre anni, e che ora li convinceva della verità strabiliante della sua nuova vita mostrando loro « le mani e il costato » (ibid.). Certo, non fu facile credere. I discepoli di Emmaus credettero solo dopo un faticoso itinerario dello spirito (cfr Lc 24,13-35). L'apostolo Tommaso credette solo dopo aver constatato il prodigio (cfr Gv 20,24-29). In realtà, per quanto si vedesse e si toccasse il suo corpo, solo la fede poteva varcare pienamente il mistero di quel volto. Era, questa, un'esperienza che i discepoli dovevano aver fatto già nella vita storica di Cristo, negli interrogativi che affioravano alla loro mente ogni volta che si sentivano interpellati dai suoi gesti e dalle sue parole. A Gesù non si arriva davvero che per la via della fede, attraverso un cammino di cui il Vangelo stesso sembra delinearci le tappe nella ben nota scena di Cesarea di Filippo (cfr Mt 16,13-20). Ai discepoli, quasi facendo una sorta di primo bilancio della sua missione, Gesù chiede che cosa la « gente » pensi di lui, ricevendone come risposta: « Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti » (Mt 16,14). Risposta sicuramente elevata, ma distante ancora — e quanto! — dalla verità. Il popolo arriva a intravedere la dimensione religiosa decisamente eccezionale di questo rabbì che parla in modo così affascinante, ma non riesce a collocarlo oltre quegli uomini di Dio che hanno scandito la storia di Israele. Gesù, in realtà, è ben altro! È appunto questo passo ulteriore di conoscenza, che riguarda il livello profondo della sua persona, quello che Egli si aspetta dai «suoi»: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Solo la fede professata da Pietro, e con lui dalla Chiesa di tutti i tempi, va al cuore, raggiungendo la profondità del mistero: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

20. Com'era arrivato Pietro a questa fede? E che cosa viene chiesto a noi, se vogliamo metterci in maniera sempre più convinta sulle sue orme? Matteo ci dà una indicazione illuminante nelle parole con cui Gesù accoglie la confessione di Pietro: « Né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli » (16,17). L'espressione « carne e sangue » evoca l'uomo e il modo comune di conoscere. Questo modo comune, nel caso di Gesù, non basta. È necessaria una grazia di « rivelazione » che viene dal Padre (cfr ibid.). Luca ci offre un'indicazione che va nella stessa direzione, quando annota che questo dialogo con i discepoli si svolse « mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare » (Lc 9,18). Ambedue le indicazioni convergono nel farci prendere coscienza del fatto che alla contemplazione piena del volto del Signore non arriviamo con le sole nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia. Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offre l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero, che ha la sua espressione culminante nella solenne proclamazione dell'evangelista Giovanni: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14).

La profondità del mistero

21. Il Verbo e la carne, la gloria divina e la sua tenda tra gli uomini! È nell'unione intima e indissociabile di queste due polarità che sta l'identità di Cristo, secondo la formulazione classica del Concilio di Calcedonia (a. 451): « una persona in due nature ». La persona è quella, e solo quella, del Verbo eterno, figlio del Padre. Le due nature, senza confusione alcuna, ma anche senza alcuna possibile separazione, sono quella divina e quella umana.10

Siamo consapevoli della limitatezza dei nostri concetti e delle nostre parole. La formula, pur sempre umana, è tuttavia attentamente calibrata nel suo contenuto dottrinale e ci consente di affacciarci, in qualche modo, sull'abisso del mistero. Sì, Gesù è vero Dio e vero uomo! Come l'apostolo Tommaso, la Chiesa è continuamente invitata da Cristo a toccare le sue piaghe, a riconoscerne cioè la piena umanità assunta da Maria, consegnata alla morte, trasfigurata dalla risurrezione: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato » (Gv 20,27). Come Tommaso la Chiesa si prostra adorante davanti al Risorto, nella pienezza del suo splendore divino, e perennemente esclama: « Mio Signore e mio Dio! » (Gv 20,28).

22. « Il Verbo si è fatto carne » (Gv 1,14). Questa folgorante presentazione giovannea del mistero di Cristo è confermata da tutto il Nuovo Testamento. In questa linea si pone anche l'apostolo Paolo quando afferma che il Figlio di Dio è « nato dalla stirpe di Davide secondo la carne » (Rm 1,3; cfr 9,5). Se oggi, col razionalismo che serpeggia in tanta parte della cultura contemporanea, è soprattutto la fede nella divinità di Cristo che fa problema, in altri contesti storici e culturali ci fu piuttosto la tendenza a sminuire o dissolvere la concretezza storica dell'umanità di Gesù. Ma per la fede della Chiesa è essenziale e irrinunciabile affermare che davvero il Verbo « si è fatto carne » ed ha assunto tutte le dimensioni dell'umano, tranne il peccato (cfr Eb 4,15). In questa prospettiva, l'Incarnazione è veramente una kenosi, uno « spogliarsi », da parte del Figlio di Dio, di quella gloria che egli possiede dall'eternità (cfr Fil 2,6-8; 1 Pt 3,18).

D'altra parte, questo abbassamento del Figlio di Dio non è fine a se stesso; tende piuttosto alla piena glorificazione di Cristo, anche nella sua umanità: « Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,9-11).

23. « Il tuo volto, Signore, io cerco » (Sal 27[26], 8). L'antico anelito del Salmista non poteva ricevere esaudimento più grande e sorprendente che nella contemplazione del volto di Cristo. In lui veramente Dio ci ha benedetti, e ha fatto « splendere il suo volto » sopra di noi (cfr Sal 67[66], 3). Al tempo stesso, Dio e uomo qual è, egli ci rivela anche il volto autentico dell'uomo, « svela pienamente l'uomo all'uomo ».11

Gesù è « l'uomo nuovo » (Ef 4,24; cfr Col 3,10) che chiama a partecipare alla sua vita divina l'umanità redenta. Nel mistero dell'Incarnazione sono poste le basi per un'antropologia che può andare oltre i propri limiti e le proprie contraddizioni, muovendosi verso Dio stesso, anzi, verso il traguardo della « divinizzazione », attraverso l'inserimento in Cristo dell'uomo redento, ammesso all'intimità della vita trinitaria. Su questa dimensione soteriologica del mistero dell'Incarnazione i Padri hanno tanto insistito: solo perché il Figlio di Dio è diventato veramente uomo, l'uomo può, in lui e attraverso di lui, divenire realmente figlio di Dio.12

Volto del Figlio

24. Questa identità divino-umana emerge con forza dai Vangeli, che ci offrono una serie di elementi grazie ai quali possiamo introdurci in quella « zona-limite » del mistero, rappresentata dall'auto-coscienza di Cristo. La Chiesa non dubita che nel loro racconto gli Evangelisti, ispirati dall'Alto, abbiano colto correttamente, nelle parole pronunciate da Gesù, la verità della sua persona e della coscienza che egli ne aveva. Non è forse questo che ci vuol dire Luca, raccogliendo le prime parole di Gesù, appena dodicenne, nel tempio di Gerusalemme? Egli appare già allora consapevole di essere in una relazione unica con Dio, quale è quella propria del « figlio ». Alla Madre, infatti, che gli fa notare l'angoscia con cui lei e Giuseppe lo hanno cercato, Gesù risponde senza esitazione: « Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? » (Lc 2,49). Non meraviglia dunque che, nella maturità, il suo linguaggio esprima decisamente la profondità del suo mistero, come è abbondantemente sottolineato sia dai Vangeli sinottici (cfr Mt 11,27; Lc 10,22), sia soprattutto dall'evangelista Giovanni. Nella sua auto-coscienza Gesù non ha alcun dubbio: « Il Padre è in me e io nel Padre » (Gv 10,38).

Per quanto sia lecito ritenere che, per la condizione umana che lo faceva crescere « in sapienza, età e grazia » (Lc 2,52), anche la coscienza umana del suo mistero progredisse fino all'espressione piena della sua umanità glorificata, non c'è dubbio che già nella sua esistenza storica Gesù avesse consapevolezza della sua identità di Figlio di Dio. Giovanni lo sottolinea fino ad affermare che fu, in definitiva, per questo, che venne respinto e condannato: cercavano infatti di ucciderlo « perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio » (Gv 5,18). Nello scenario del Getsemani e del Golgotha, la coscienza umana di Gesù sarà sottoposta alla prova più dura. Ma nemmeno il dramma della passione e morte riuscirà a intaccare la sua serena certezza di essere il Figlio del Padre celeste.

Volto dolente

25. La contemplazione del volto di Cristo ci conduce così ad accostare l'aspetto più paradossale del suo mistero, quale emerge nell'ora estrema, l'ora della Croce. Mistero nel mistero, davanti al quale l'essere umano non può che prostrarsi in adorazione.

Passa davanti al nostro sguardo l'intensità della scena dell'agonia nell'orto degli Ulivi. Gesù, oppresso dalla previsione della prova che lo attende, solo davanti a Dio, lo invoca con la sua abituale e tenera espressione di confidenza: « Abbà, Padre ». Gli chiede di allontanare da lui, se possibile, il calice della sofferenza (cfr Mc 14,36). Ma il Padre sembra non voler ascoltare la voce del Figlio. Per riportare all'uomo il volto del Padre, Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell'uomo, ma caricarsi persino del « volto » del peccato. « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » (2 Cor 5,21).

Non finiremo mai di indagare l'abisso di questo mistero. È tutta l'asprezza di questo paradosso che emerge nel grido di dolore, apparentemente disperato, che Gesù leva sulla croce: « Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mc 15,34). È possibile immaginare uno strazio più grande, un'oscurità più densa? In realtà, l'angoscioso «perché» rivolto al Padre con le parole iniziali del Salmo 22, pur conservando tutto il realismo di un indicibile dolore, si illumina con il senso dell'intera preghiera, in cui il Salmista unisce insieme, in un intreccio toccante di sentimenti, la sofferenza e la confidenza. Continua infatti il Salmo: « In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati [...] Da me non stare lontano, poiché l'angoscia è vicina e nessuno mi aiuta » (22[21], 5.12).

26. Il grido di Gesù sulla croce, carissimi Fratelli e Sorelle, non tradisce l'angoscia di un disperato, ma la preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell'amore, per la salvezza di tutti. Mentre si identifica col nostro peccato, « abbandonato » dal Padre, egli si « abbandona » nelle mani del Padre. I suoi occhi restano fissi sul Padre. Proprio per la conoscenza e l'esperienza che solo lui ha di Dio, anche in questo momento di oscurità egli vede limpidamente la gravità del peccato e soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa significhi resistere col peccato al suo amore. Prima ancora, e ben più che nel corpo, la sua passione è sofferenza atroce dell'anima. La tradizione teologica non ha evitato di chiedersi come potesse, Gesù, vivere insieme l'unione profonda col Padre, di sua natura fonte di gioia e di beatitudine, e l'agonia fino al grido dell'abbandono. La compresenza di queste due dimensioni apparentemente inconciliabili è in realtà radicata nella profondità insondabile dell'unione ipostatica.

27. Di fronte a questo mistero, accanto all'indagine teologica, un aiuto rilevante può venirci da quel grande patrimonio che è la « teologia vissuta » dei Santi. Essi ci offrono indicazioni preziose che consentono di accogliere più facilmente l'intuizione della fede, e ciò in forza delle particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o persino attraverso l'esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati terribili di prova che la tradizione mistica descrive come « notte oscura ». Non rare volte i Santi hanno vissuto qualcosa di simile all'esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio di beatitudine e di dolore. Nel Dialogo della Divina Provvidenza Dio Padre mostra a Caterina da Siena come nelle anime sante possa essere presente la gioia insieme alla sofferenza: « E l'anima se ne sta beata e dolente: dolente per i peccati del prossimo, beata per l'unione e per l'affetto della carità che ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano l'immacolato Agnello, l'Unigenito Figlio mio, il quale stando sulla croce era beato e dolente ».13 Allo stesso modo Teresa di Lisieux vive la sua agonia in comunione con quella di Gesù, verificando in se stessa proprio il paradosso di Gesù beato e angosciato: « Nostro Signore nell'orto degli Ulivi godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua agonia non era meno crudele. È un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io stessa, ne capisco qualcosa ».14 È una testimonianza illuminante! Del resto, la stessa narrazione degli Evangelisti dà fondamento a questa percezione ecclesiale della coscienza di Cristo, quando ricorda che, pur nel suo abisso di dolore, egli muore implorando il perdono per i suoi carnefici (cfr Lc 23,34) ed esprimendo al Padre il suo estremo abbandono filiale: « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (Lc 23,46).

Volto del Risorto

28. Come nel Venerdì e nel Sabato Santo, la Chiesa continua a restare in contemplazione di questo volto insanguinato, nel quale è nascosta la vita di Dio ed offerta la salvezza del mondo. Ma la sua contemplazione del volto di Cristo non può fermarsi all'immagine di lui crocifisso. Egli è il Risorto! Se così non fosse, vana sarebbe la nostra predicazione e vana la nostra fede (cfr 1 Cor 15,14). La risurrezione fu la risposta del Padre alla sua obbedienza, come ricorda la Lettera agli Ebrei: « Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono » (5, 7-9).

È a Cristo risorto che ormai la Chiesa guarda. Lo fa ponendosi sulle orme di Pietro, che versò lacrime per il suo rinnegamento, e riprese il suo cammino confessando a Cristo, con comprensibile trepidazione, il suo amore: « Tu sai che io ti amo » (Gv 21,15.17). Lo fa accompagnandosi a Paolo, che lo incontrò sulla via di Damasco e ne restò folgorato: « Per me il vivere è Cristo, e il morire un guadagno » (Fil 1,21).

A duemila anni di distanza da questi eventi, la Chiesa li rivive come se fossero accaduti oggi. Nel volto di Cristo essa, la Sposa, contempla il suo tesoro, la sua gioia. « Dulcis Iesu memoria, dans vera cordis gaudia »: quanto è dolce il ricordo di Gesù, fonte di vera gioia del cuore! Confortata da questa esperienza, la Chiesa riprende oggi il suo cammino, per annunciare Cristo al mondo, all'inizio del terzo millennio: Egli « è lo stesso ieri, oggi e sempre » (Eb 13,8).




Continua...

Bestionn
00mercoledì 15 novembre 2006 16:37
Sulla Confessione... 2° parte
III
RIPARTIRE DA CRISTO

29. « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Questa certezza, carissimi Fratelli e Sorelle, ha accompagnato la Chiesa per due millenni, ed è stata ora ravvivata nei nostri cuori dalla celebrazione del Giubileo. Da essa dobbiamo attingere un rinnovato slancio nella vita cristiana, facendone anzi la forza ispiratrice del nostro cammino. È nella consapevolezza di questa presenza tra noi del Risorto che ci poniamo oggi la domanda rivolta a Pietro a Gerusalemme, subito dopo il suo discorso di Pentecoste: « Che cosa dobbiamo fare? » (At 2,37).

Ci interroghiamo con fiducioso ottimismo, pur senza sottovalutare i problemi. Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!

Non si tratta, allora, di inventare un « nuovo programma ». Il programma c'è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio.

È necessario tuttavia che esso si traduca in orientamenti pastorali adatti alle condizioni di ciascuna comunità. Il Giubileo ci ha offerto l'opportunità straordinaria di impegnarci, per alcuni anni, in un cammino unitario di tutta la Chiesa, un cammino di catechesi articolata sul tema trinitario e accompagnata da specifici impegni pastorali finalizzati a una feconda esperienza giubilare. Ringrazio per l'adesione cordiale con cui è stata ampiamente accolta la proposta da me fatta nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente. Ora non è più un traguardo immediato che si delinea davanti a noi, ma il più grande e impegnativo orizzonte della pastorale ordinaria. Dentro le coordinate universali e irrinunciabili, è necessario che l'unico programma del Vangelo continui a calarsi, come da sempre avviene, nella storia di ciascuna realtà ecclesiale. È nelle Chiese locali che si possono stabilire quei tratti programmatici concreti — obiettivi e metodi di lavoro, formazione e valorizzazione degli operatori, ricerca dei mezzi necessari — che consentono all'annuncio di Cristo di raggiungere le persone, plasmare le comunità, incidere in profondità mediante la testimonianza dei valori evangelici nella società e nella cultura.

Esorto, perciò, vivamente i Pastori delle Chiese particolari, aiutati dalla partecipazione delle diverse componenti del Popolo di Dio, a delineare con fiducia le tappe del cammino futuro, sintonizzando le scelte di ciascuna Comunità diocesana con quelle delle Chiese limitrofe e con quelle della Chiesa universale.

Tale sintonia sarà certamente facilitata dal lavoro collegiale, ormai divenuto abituale, che viene svolto dai Vescovi nelle Conferenze episcopali e nei Sinodi. Non è forse stato questo anche il senso delle Assemblee continentali del Sinodo dei Vescovi, che hanno scandito la preparazione al Giubileo, elaborando linee significative per l'odierno annuncio del Vangelo nei molteplici contesti e nelle diverse culture? Questo ricco patrimonio di riflessione non deve essere lasciato cadere, ma reso concretamente operativo.

È dunque un'entusiasmante opera di ripresa pastorale che ci attende. Un'opera che ci coinvolge tutti. Desidero tuttavia additare, a comune edificazione ed orientamento, alcune priorità pastorali, che l'esperienza stessa del Grande Giubileo ha fatto emergere con particolare forza al mio sguardo.

La santità

30. E in primo luogo non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità. Non era forse questo il senso ultimo dell'indulgenza giubilare, quale grazia speciale offerta da Cristo perché la vita di ciascun battezzato potesse purificarsi e rinnovarsi profondamente?

Mi auguro che, tra coloro che hanno partecipato al Giubileo, siano stati tanti a godere di tale grazia, con piena coscienza del suo carattere esigente. Finito il Giubileo, ricomincia il cammino ordinario, ma additare la santità resta più che mai un'urgenza della pastorale.

Occorre allora riscoprire, in tutto il suo valore programmatico, il capitolo V della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, dedicato alla « vocazione universale alla santità ». Se i Padri conciliari diedero a questa tematica tanto risalto, non fu per conferire una sorta di tocco spirituale all'ecclesiologia, ma piuttosto per farne emergere una dinamica intrinseca e qualificante. La riscoperta della Chiesa come « mistero », ossia come popolo « adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito »,15 non poteva non comportare anche la riscoperta della sua « santità », intesa nel senso fondamentale dell'appartenenza a Colui che è per antonomasia il Santo, il « tre volte Santo » (cfr Is 6,3). Professare la Chiesa come santa significa additare il suo volto di Sposa di Cristo, per la quale egli si è donato, proprio al fine di santificarla (cfr Ef 5,25-26). Questo dono di santità, per così dire, oggettiva, è offerto a ciascun battezzato.

Ma il dono si traduce a sua volta in un compito, che deve governare l'intera esistenza cristiana: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). È un impegno che non riguarda solo alcuni cristiani: «Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità».16

31. Ricordare questa elementare verità, ponendola a fondamento della programmazione pastorale che ci vede impegnati all'inizio del nuovo millennio, potrebbe sembrare, di primo acchito, qualcosa di scarsamente operativo. Si può forse « programmare » la santità? Che cosa può significare questa parola, nella logica di un piano pastorale?

In realtà, porre la programmazione pastorale nel segno della santità è una scelta gravida di conseguenze. Significa esprimere la convinzione che, se il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l'inserimento in Cristo e l'inabitazione del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all'insegna di un'etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Chiedere a un catecumeno: « Vuoi ricevere il Battesimo? » significa al tempo stesso chiedergli: « Vuoi diventare santo? ». Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5,48).

Come il Concilio stesso ha spiegato, questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni « geni » della santità. Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita. È ora di riproporre a tutti con convinzione questa « misura alta » della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione. È però anche evidente che i percorsi della santità sono personali, ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta rivolta a tutti con le forme tradizionali di aiuto personale e di gruppo e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti riconosciuti dalla Chiesa.

La preghiera

32. Per questa pedagogia della santità c'è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell'arte della preghiera. L'Anno giubilare è stato un anno di più intensa preghiera, personale e comunitaria. Ma sappiamo bene che anche la preghiera non va data per scontata. È necessario imparare a pregare, quasi apprendendo sempre nuovamente quest'arte dalle labbra stesse del Maestro divino, come i primi discepoli: « Signore, insegnaci a pregare! » (Lc 11,1). Nella preghiera si sviluppa quel dialogo con Cristo che ci rende suoi intimi: « Rimanete in me e io in voi » (Gv 15,4). Questa reciprocità è la sostanza stessa, l'anima della vita cristiana ed è condizione di ogni autentica vita pastorale. Realizzata in noi dallo Spirito Santo, essa ci apre, attraverso Cristo ed in Cristo, alla contemplazione del volto del Padre. Imparare questa logica trinitaria della preghiera cristiana, vivendola pienamente innanzitutto nella liturgia, culmine e fonte della vita ecclesiale,17 ma anche nell'esperienza personale, è il segreto di un cristianesimo veramente vitale, che non ha motivo di temere il futuro, perché continuamente torna alle sorgenti e in esse si rigenera.

33. E non è forse un « segno dei tempi » che si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera? Anche le altre religioni, ormai ampiamente presenti nei Paesi di antica cristianizzazione, offrono le proprie risposte a questo bisogno, e lo fanno talvolta con modalità accattivanti. Noi che abbiamo la grazia di credere in Cristo, rivelatore del Padre e Salvatore del mondo, abbiamo il dovere di mostrare a quali profondità possa portare il rapporto con lui.

La grande tradizione mistica della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente, può dire molto a tal proposito. Essa mostra come la preghiera possa progredire, quale vero e proprio dialogo d'amore, fino a rendere la persona umana totalmente posseduta dall'Amato divino, vibrante al tocco dello Spirito, filialmente abbandonata nel cuore del Padre. Si fa allora l'esperienza viva della promessa di Cristo: « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui » (Gv 14,21). Si tratta di un cammino interamente sostenuto dalla grazia, che chiede tuttavia forte impegno spirituale e conosce anche dolorose purificazioni (la « notte oscura »), ma approda, in diverse forme possibili, all'indicibile gioia vissuta dai mistici come « unione sponsale ». Come dimenticare qui, tra tante luminose testimonianze, la dottrina di san Giovanni della Croce e di santa Teresa d'Avila?

Sì, carissimi Fratelli e Sorelle, le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche « scuole » di preghiera, dove l'incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero « invaghimento » del cuore. Una preghiera intensa, dunque, che tuttavia non distoglie dall'impegno nella storia: aprendo il cuore all'amore di Dio, lo apre anche all'amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio.18

34. Certo alla preghiera sono in particolare chiamati quei fedeli che hanno avuto il dono della vocazione ad una vita di speciale consacrazione: questa li rende, per sua natura, più disponibili all'esperienza contemplativa, ed è importante che essi la coltivino con generoso impegno. Ma ci si sbaglierebbe a pensare che i comuni cristiani si possano accontentare di una preghiera superficiale, incapace di riempire la loro vita. Specie di fronte alle numerose prove che il mondo d'oggi pone alla fede, essi sarebbero non solo cristiani mediocri, ma « cristiani a rischio ». Correrebbero, infatti, il rischio insidioso di veder progressivamente affievolita la loro fede, e magari finirebbero per cedere al fascino di « surrogati », accogliendo proposte religiose alternative e indulgendo persino alle forme stravaganti della superstizione.

Occorre allora che l'educazione alla preghiera diventi in qualche modo un punto qualificante di ogni programmazione pastorale. Io stesso mi sono orientato a dedicare le prossime catechesi del mercoledì alla riflessione sui Salmi, cominciando da quelli delle Lodi, con cui la preghiera pubblica della Chiesa ci invita a consacrare e orientare le nostre giornate. Quanto gioverebbe che non solo nelle comunità religiose, ma anche in quelle parrocchiali, ci si adoperasse maggiormente perché tutto il clima fosse pervaso di preghiera. Occorrerebbe valorizzare, col debito discernimento, le forme popolari, e soprattutto educare a quelle liturgiche. Una giornata della comunità cristiana, in cui si coniughino insieme i molteplici impegni pastorali e di testimonianza nel mondo con la celebrazione eucaristica e magari con la recita di Lodi e Vespri, è forse più « pensabile » di quanto ordinariamente non si creda. L'esperienza di tanti gruppi cristianamente impegnati, anche a forte componente laicale, lo dimostra.

L'Eucaristia domenicale

35. Il massimo impegno va posto dunque nella liturgia, « il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù ».19 Nel secolo XX, specie dal Concilio in poi, molto è cresciuta la comunità cristiana nel modo di celebrare i Sacramenti e soprattutto l'Eucaristia. Occorre insistere in questa direzione, dando particolare rilievo all'Eucaristia domenicale e alla stessa domenica, sentita come giorno speciale della fede, giorno del Signore risorto e del dono dello Spirito, vera Pasqua della settimana.20 Da duemila anni, il tempo cristiano è scandito dalla memoria di quel « primo giorno dopo il sabato » (Mc 16,2.9; Lc 24,1; Gv 20,1), in cui Cristo risorto portò agli Apostoli il dono della pace e dello Spirito (cfr Gv 20,19-23). La verità della risurrezione di Cristo è il dato originario su cui poggia la fede cristiana (cfr 1 Cor 15,14), evento che si colloca al centro del mistero del tempo, e prefigura l'ultimo giorno, quando Cristo ritornerà glorioso. Non sappiamo quali eventi ci riserverà il millennio che sta iniziando, ma abbiamo la certezza che esso resterà saldamente nelle mani di Cristo, il « Re dei re e Signore dei signori » (Ap 19,16), e proprio celebrando la sua Pasqua, non solo una volta all'anno, ma ogni domenica, la Chiesa continuerà ad additare ad ogni generazione « ciò che costituisce l'asse portante della storia, al quale si riconducono il mistero delle origini e quello del destino finale del mondo ».21

36. Vorrei pertanto insistere, nel solco della Dies Domini, perché la partecipazione all'Eucaristia sia veramente, per ogni battezzato, il cuore della domenica: un impegno irrinunciabile, da vivere non solo per assolvere a un precetto, ma come bisogno di una vita cristiana veramente consapevole e coerente. Stiamo entrando in un millennio che si prefigura caratterizzato da un profondo intreccio di culture e religioni anche nei Paesi di antica cristianizzazione. In molte regioni i cristiani sono, o stanno diventando, un « piccolo gregge » (Lc 12,32). Ciò li pone di fronte alla sfida di testimoniare con maggior forza, spesso in condizione di solitudine e di difficoltà, gli aspetti specifici della propria identità. Il dovere della partecipazione eucaristica ogni domenica è uno di questi. L'Eucaristia domenicale, raccogliendo settimanalmente i cristiani come famiglia di Dio intorno alla mensa della Parola e del Pane di vita, è anche l'antidoto più naturale alla dispersione. Essa è il luogo privilegiato dove la comunione è costantemente annunciata e coltivata. Proprio attraverso la partecipazione eucaristica, il giorno del Signore diventa anche il giorno della Chiesa,22 che può svolgere così in modo efficace il suo ruolo di sacramento di unità.

Il sacramento della Riconciliazione

37. Un rinnovato coraggio pastorale vengo poi a chiedere perché la quotidiana pedagogia delle comunità cristiane sappia proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della Riconciliazione. Come ricorderete, nel 1984 intervenni su questo tema con l'Esortazione post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, che raccoglieva i frutti di riflessione di un'Assemblea del Sinodo dei Vescovi dedicata a questa problematica. Invitavo allora a fare ogni sforzo per fronteggiare la crisi del « senso del peccato » che si registra nella cultura contemporanea,23 ma più ancora invitavo a far riscoprire Cristo come mysterium pietatis, colui nel quale Dio ci mostra il suo cuore compassionevole e ci riconcilia pienamente a sé. È questo volto di Cristo che occorre far riscoprire anche attraverso il sacramento della Penitenza, che è per un cristiano « la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il Battesimo ».24 Quando il menzionato Sinodo affrontò il problema, stava sotto gli occhi di tutti la crisi del Sacramento, specialmente in alcune regioni del mondo. I motivi che ne erano all'origine non sono svaniti in questo breve arco di tempo. Ma l'Anno giubilare, che è stato particolarmente caratterizzato dal ricorso alla Penitenza sacramentale, ci ha offerto un messaggio incoraggiante, da non lasciar cadere: se molti, e tra essi anche tanti giovani, si sono accostati con frutto a questo Sacramento, probabilmente è necessario che i Pastori si armino di maggior fiducia, creatività e perseveranza nel presentarlo e farlo valorizzare. Non dobbiamo arrenderci, carissimi Fratelli nel sacerdozio, di fronte a crisi temporanee! I doni del Signore — e i Sacramenti sono tra i più preziosi — vengono da Colui che ben conosce il cuore dell'uomo ed è il Signore della storia.

Il primato della grazia

38. Impegnarci con maggior fiducia, nella programmazione che ci attende, ad una pastorale che dia tutto il suo spazio alla preghiera, personale e comunitaria, significa rispettare un principio essenziale della visione cristiana della vita: il primato della grazia. C'è una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale e la stessa azione pastorale: quella di pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di programmare. Certo, Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita ad investire, nel nostro servizio alla causa del Regno, tutte le nostre risorse di intelligenza e di operatività. Ma guai a dimenticare che « senza Cristo non possiamo far nulla » (cfr Gv 15,5).

La preghiera ci fa vivere appunto in questa verità. Essa ci ricorda costantemente il primato di Cristo e, in rapporto a lui, il primato della vita interiore e della santità. Quando questo principio non è rispettato, c'è da meravigliarsi se i progetti pastorali vanno incontro al fallimento e lasciano nell'animo un avvilente senso di frustrazione? Facciamo allora l'esperienza dei discepoli nell'episodio evangelico della pesca miracolosa: « Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla » (Lc 5,5). È quello il momento della fede, della preghiera, del dialogo con Dio, per aprire il cuore all'onda della grazia e consentire alla parola di Cristo di passare attraverso di noi con tutta la sua potenza: Duc in altum! Fu Pietro, in quella pesca, a dire la parola della fede: « Sulla tua parola getterò le reti » (ibid.). Consentite al Successore di Pietro, in questo inizio di millennio, di invitare tutta la Chiesa a questo atto di fede, che s'esprime in un rinnovato impegno di preghiera.

Ascolto della Parola

39. Non c'è dubbio che questo primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della parola di Dio. Da quando il Concilio Vaticano II ha sottolineato il ruolo preminente della parola di Dio nella vita della Chiesa, certamente sono stati fatti grandi passi in avanti nell'ascolto assiduo e nella lettura attenta della Sacra Scrittura. Ad essa si è assicurato l'onore che merita nella preghiera pubblica della Chiesa. Ad essa i singoli e le comunità ricorrono ormai in larga misura, e tra gli stessi laici sono tanti che vi si dedicano anche con l'aiuto prezioso di studi teologici e biblici. Soprattutto poi è l'opera dell'evangelizzazione e della catechesi che si sta rivitalizzando proprio nell'attenzione alla parola di Dio. Occorre, carissimi Fratelli e Sorelle, consolidare e approfondire questa linea, anche mediante la diffusione nelle famiglie del libro della Bibbia. In particolare è necessario che l'ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell'antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l'esistenza.

Annuncio della Parola

40. Nutrirci della Parola, per essere « servi della Parola » nell'impegno dell'evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all'inizio del nuovo millennio. È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una « società cristiana », che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l'umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l'appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall'ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: « Guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor 9,16).

Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di « specialisti », ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del Popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani. Ciò tuttavia avverrà nel rispetto dovuto al cammino sempre diversificato di ciascuna persona e nell'attenzione per le diverse culture in cui il messaggio cristiano deve essere calato, così che gli specifici valori di ogni popolo non siano rinnegati, ma purificati e portati alla loro pienezza.

Il cristianesimo del terzo millennio dovrà rispondere sempre meglio a questa esigenza di inculturazione. Restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all'annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato. Della bellezza di questo volto pluriforme della Chiesa abbiamo particolarmente goduto nell'Anno giubilare. È forse solo un inizio, un'icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara.

La proposta di Cristo va fatta a tutti con fiducia. Ci si rivolgerà agli adulti, alle famiglie, ai giovani, ai bambini, senza mai nascondere le esigenze più radicali del messaggio evangelico, ma venendo incontro alle esigenze di ciascuno quanto a sensibilità e linguaggio, secondo l'esempio di Paolo, il quale affermava: « Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno » (1 Cor 9,22). Nel raccomandare tutto questo, penso in particolare alla pastorale giovanile. Proprio per quanto riguarda i giovani, come poc'anzi ho ricordato, il Giubileo ci ha offerto una testimonianza di generosa disponibilità. Dobbiamo saper valorizzare quella risposta consolante, investendo quell'entusiasmo come un nuovo « talento » (cfr Mt 25,15) che il Signore ci ha messo nelle mani perché lo facciamo fruttificare.

41. Ci sostenga ed orienti, in questa « missionarietà » fiduciosa, intraprendente, creativa, l'esempio fulgido dei tanti testimoni della fede che il Giubileo ci ha fatto rievocare. La Chiesa ha trovato sempre, nei suoi martiri, un seme di vita. Sanguis martyrum — semen christianorum:25 questa celebre « legge » enunciata da Tertulliano, si è dimostrata sempre vera alla prova della storia. Non sarà così anche per il secolo, per il millennio che stiamo iniziando? Eravamo forse troppo abituati a pensare ai martiri in termini un po' lontani, quasi si trattasse di una categoria del passato, legata soprattutto ai primi secoli dell'era cristiana. La memoria giubilare ci ha aperto uno scenario sorprendente, mostrandoci il nostro tempo particolarmente ricco di testimoni, che in un modo o nell'altro, hanno saputo vivere il Vangelo in situazioni di ostilità e persecuzione, spesso fino a dare la prova suprema del sangue. In loro la parola di Dio, seminata in buon terreno, ha portato il centuplo (cfr Mt 13,8.23). Con il loro esempio ci hanno additato e quasi spianato la strada del futuro. A noi non resta che metterci, con la grazia di Dio, sulle loro orme.



IV
TESTIMONI DELL'AMORE

42. « Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,35). Se abbiamo veramente contemplato il volto di Cristo, carissimi Fratelli e Sorelle, la nostra programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al « comandamento nuovo » che egli ci ha dato: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).

È l'altro grande ambito in cui occorrerà esprimere un deciso impegno programmatico, a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari: quello della comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa. La comunione è il frutto e la manifestazione di quell'amore che, sgorgando dal cuore dell'eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cfr Rm 5,5), per fare di tutti noi « un cuore solo e un'anima sola » (At 4,32). È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come « sacramento », ossia «segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano».26

Le parole del Signore, a questo proposito, sono troppo precise per poterne ridurre la portata. Tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile. È lo stesso apostolo Paolo a ricordarcelo nell'inno alla carità: se anche parlassimo le lingue degli uomini e degli angeli, e avessimo una fede « da trasportare le montagne », ma poi mancassimo della carità, tutto sarebbe « nulla » (cfr 1 Cor 13,2). La carità è davvero il « cuore » della Chiesa, come aveva ben intuito santa Teresa di Lisieux, che ho voluto proclamare Dottore della Chiesa proprio come esperta della scientia amoris: «Capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d'Amore. Capii che solo l'Amore faceva agire le membra della Chiesa [...] Capii che l'Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l'Amore era tutto».27

Una spiritualità di comunione

43. Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo.

Che cosa significa questo in concreto? Anche qui il discorso potrebbe farsi immediatamente operativo, ma sarebbe sbagliato assecondare simile impulso. Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l'uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell'altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell'unità profonda del Corpo mistico, dunque, come « uno che mi appartiene », per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c'è nell'altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un « dono per me », oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper « fare spazio » al fratello, portando « i pesi gli uni degli altri » (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita.

44. Su questa base, il nuovo secolo dovrà vederci impegnati più che mai a valorizzare e sviluppare quegli ambiti e strumenti che, secondo le grandi direttive del Concilio Vaticano II, servono ad assicurare e garantire la comunione. Come non pensare, innanzitutto, a quegli specifici servizi alla comunione che sono il ministero petrino, e, in stretta relazione con esso, la collegialità episcopale? Si tratta di realtà che hanno il loro fondamento e la loro consistenza nel disegno stesso di Cristo sulla Chiesa,28 ma proprio per questo bisognose di una continua verifica che ne assicuri l'autentica ispirazione evangelica.

Molto si è fatto dal Concilio Vaticano II in poi anche per quanto riguarda la riforma della Curia romana, l'organizzazione dei Sinodi, il funzionamento delle Conferenze episcopali. Ma certamente molto resta da fare, per esprimere al meglio le potenzialità di questi strumenti della comunione, oggi particolarmente necessari di fronte all'esigenza di rispondere con prontezza ed efficacia ai problemi che la Chiesa deve affrontare nei cambiamenti così rapidi del nostro tempo.

45. Gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa. La comunione deve qui rifulgere nei rapporti tra Vescovi, presbiteri e diaconi, tra Pastori e intero Popolo di Dio, tra clero e religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali. A tale scopo devono essere sempre meglio valorizzati gli organismi di partecipazione previsti dal Diritto canonico, come i Consigli presbiterali e pastorali. Essi, com'è noto, non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare, perché operano per via consultiva e non deliberativa;29 non per questo tuttavia perdono di significato e di rilevanza. La teologia e la spiritualità della comunione, infatti, ispirano un reciproco ed efficace ascolto tra Pastori e fedeli, tenendoli, da un lato, uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, e spingendoli, dall'altro, a convergere normalmente anche nell'opinabile verso scelte ponderate e condivise.

Occorre a questo scopo far nostra l'antica sapienza che, senza portare alcun pregiudizio al ruolo autorevole dei Pastori, sapeva incoraggiarli al più ampio ascolto di tutto il Popolo di Dio. Significativo ciò che san Benedetto ricorda all'Abate del monastero, nell'invitarlo a consultare anche i più giovani: « Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore ».30 E san Paolino di Nola esorta: «Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di Dio».31

Se dunque la saggezza giuridica, ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la spiritualità della comunione conferisce un'anima al dato istituzionale con un'indicazione di fiducia e di apertura che pienamente risponde alla dignità e responsabilità di ogni membro del Popolo di Dio.

La varietà delle vocazioni

46. Questa prospettiva di comunione è strettamente legata alla capacità della comunità cristiana di fare spazio a tutti i doni dello Spirito. L'unità della Chiesa non è uniformità, ma integrazione organica delle legittime diversità. È la realtà di molte membra congiunte in un corpo solo, l'unico Corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12,12). È necessario perciò che la Chiesa del terzo millennio stimoli tutti i battezzati e cresimati a prendere coscienza della propria attiva responsabilità nella vita ecclesiale. Accanto al ministero ordinato, altri ministeri, istituiti o semplicemente riconosciuti, possono fiorire a vantaggio di tutta la comunità, sostenendola nei suoi molteplici bisogni: dalla catechesi all'animazione liturgica, dall'educazione dei giovani alle più varie espressioni della carità.

Certamente un impegno generoso va posto — soprattutto con la preghiera insistente al padrone della messe (cfr Mt 9,38) — per la promozione delle vocazioni al sacerdozio e di quelle di speciale consacrazione. È questo un problema di grande rilevanza per la vita della Chiesa in ogni parte del mondo. In certi Paesi di antica evangelizzazione, poi, esso si è fatto addirittura drammatico a motivo del mutato contesto sociale e dell'inaridimento religioso indotto dal consumismo e dal secolarismo. È necessario ed urgente impostare una vasta e capillare pastorale delle vocazioni, che raggiunga le parrocchie, i centri educativi, le famiglie, suscitando una più attenta riflessione sui valori essenziali della vita, che trovano la loro sintesi risolutiva nella risposta che ciascuno è invitato a dare alla chiamata di Dio, specialmente quando questa sollecita la donazione totale di sé e delle proprie energie alla causa del Regno.

In questo contesto prende tutto il suo rilievo anche ogni altra vocazione, radicata in definitiva nella ricchezza della vita nuova ricevuta nel sacramento del Battesimo. In particolare, sarà da scoprire sempre meglio la vocazione che è propria dei laici, chiamati come tali a « cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio »32 ed anche a svolgere « i compiti propri nella Chiesa e nel mondo [...] con la loro azione per l'evangelizzazione e la santificazione degli uomini ».33

In questa stessa linea, grande importanza per la comunione riveste il dovere di promuovere le varie realtà aggregative, che sia nelle forme più tradizionali, sia in quelle più nuove dei movimenti ecclesiali, continuano a dare alla Chiesa una vivacità che è dono di Dio e costituisce un'autentica « primavera dello Spirito ». Occorre certo che associazioni e movimenti, tanto nella Chiesa universale quanto nelle Chiese particolari, operino nella piena sintonia ecclesiale e in obbedienza alle direttive autorevoli dei Pastori. Ma torna anche per tutti, esigente e perentorio, il monito dell'Apostolo: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,19-21).

47. Un'attenzione speciale, poi, deve essere assicurata alla pastorale della famiglia, tanto più necessaria in un momento storico come il presente, che sta registrando una crisi diffusa e radicale di questa fondamentale istituzione. Nella visione cristiana del matrimonio, la relazione tra un uomo e una donna — relazione reciproca e totale, unica e indissolubile — risponde al disegno originario di Dio, offuscato nella storia dalla « durezza del cuore », ma che Cristo è venuto a restaurare nel suo splendore originario, svelando ciò che Dio ha voluto fin « dal principio » (Mt 19,8). Nel matrimonio, elevato alla dignità di Sacramento, è espresso poi il « grande mistero » dell'amore sponsale di Cristo per la sua Chiesa (cfr Ef 5,32).

Su questo punto, la Chiesa non può cedere alle pressioni di una certa cultura, anche se diffusa e talvolta militante. Occorre piuttosto fare in modo che, attraverso un'educazione evangelica sempre più completa, le famiglie cristiane offrano un esempio convincente della possibilità di un matrimonio vissuto in modo pienamente conforme al disegno di Dio e alle vere esigenze della persona umana: di quella dei coniugi, e soprattutto di quella più fragile dei figli. Le famiglie stesse devono essere sempre più consapevoli dell'attenzione dovuta ai figli e farsi soggetti attivi di un'efficace presenza ecclesiale e sociale a tutela dei loro diritti.

L'impegno ecumenico

48. E che dire poi dell'urgenza di promuovere la comunione nel delicato ambito dell'impegno ecumenico? Purtroppo, le tristi eredità del passato ci seguono ancora oltre la soglia del nuovo millennio. La celebrazione giubilare ha registrato qualche segnale davvero profetico e commovente, ma ancora tanto cammino rimane da fare.

In realtà, facendoci fissare lo sguardo su Cristo, il Grande Giubileo ci ha fatto prendere più viva coscienza della Chiesa come mistero di unità. « Credo la Chiesa una »: ciò che esprimiamo nella professione di fede, ha il suo fondamento ultimo in Cristo, nel quale la Chiesa non è divisa (cfr 1 Cor 1,11-13). In quanto suo Corpo, nell'unità prodotta dal dono dello Spirito, essa è indivisibile. La realtà della divisione si genera sul terreno della storia, nei rapporti tra i figli della Chiesa, quale conseguenza dell'umana fragilità nell'accogliere il dono che continuamente fluisce dal Cristo-Capo nel Corpo mistico. La preghiera di Gesù nel Cenacolo — « come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola » (Gv 17,21) — è insieme rivelazione e invocazione. Essa ci rivela l'unità di Cristo col Padre quale luogo sorgivo dell'unità della Chiesa e dono perenne che in lui questa, misteriosamente, riceverà fino alla fine dei tempi. Quest'unità, che non manca di realizzarsi concretamente nella Chiesa cattolica, nonostante i limiti propri dell'umano, opera pure in varia misura nei tanti elementi di santificazione e di verità che si trovano all'interno delle altre Chiese e Comunità ecclesiali; tali elementi, come doni propri della Chiesa di Cristo, le sospingono incessantemente verso l'unità piena.34

La preghiera di Cristo ci ricorda che questo dono ha bisogno di essere accolto e sviluppato in maniera sempre più profonda. L'invocazione « ut unum sint » è, insieme, imperativo che ci obbliga, forza che ci sostiene, salutare rimprovero per le nostre pigrizie e ristrettezze di cuore. È sulla preghiera di Gesù, non sulle nostre capacità, che poggia la fiducia di poter raggiungere anche nella storia, la comunione piena e visibile di tutti i cristiani.

In questa prospettiva di rinnovato cammino post-giubilare, guardo con grande speranza alle Chiese dell'Oriente, auspicando che riprenda pienamente quello scambio di doni che ha arricchito la Chiesa del primo millennio. Il ricordo del tempo in cui la Chiesa respirava con «due polmoni» spinga i cristiani d'Oriente e d'Occidente a camminare insieme, nell'unità della fede e nel rispetto delle legittime diversità, accogliendosi e sostenendosi a vicenda come membra dell'unico Corpo di Cristo.

Con analogo impegno dev'essere coltivato il dialogo ecumenico con i fratelli e le sorelle della Comunione anglicana e delle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Il confronto teologico su punti essenziali della fede e della morale cristiana, la collaborazione nella carità e, soprattutto, il grande ecumenismo della santità, con l'aiuto di Dio non potranno nel futuro non produrre i loro frutti. Intanto proseguiamo con fiducia nel cammino, sospirando il momento in cui, con tutti i discepoli di Cristo, senza eccezione, potremo cantare insieme a voce spiegata: « Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme » (Sal 133[132],1).

Scommettere sulla carità

49. Dalla comunione intra-ecclesiale, la carità si apre per sua natura al servizio universale, proiettandoci nell'impegno di un amore operoso e concreto verso ogni essere umano. È un ambito, questo, che qualifica in modo ugualmente decisivo la vita cristiana, lo stile ecclesiale e la programmazione pastorale. Il secolo e il millennio che si avviano dovranno ancora vedere, ed anzi è auspicabile che lo vedano con forza maggiore, a quale grado di dedizione sappia arrivare la carità verso i più poveri. Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi » (Mt 25,35-36). Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell'ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo.

Certo, non va dimenticato che nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento che « con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo ».35 Ma stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c'è una sua presenza speciale, che impone alla Chiesa un'opzione preferenziale per loro. Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell'amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora nella storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita terrena venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e materiali.

50. In effetti sono tanti, nel nostro tempo, i bisogni che interpellano la sensibilità cristiana. Il nostro mondo comincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale, tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità, lasciando milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana. È possibile che, nel nostro tempo, ci sia ancora chi muore di fame? chi resta condannato all'analfabetismo? chi manca delle cure mediche più elementari? chi non ha una casa in cui ripararsi?

Lo scenario della povertà può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all'insidia della droga, all'abbandono nell'età avanzata o nella malattia, all'emarginazione o alla discriminazione sociale. Il cristiano, che si affaccia su questo scenario, deve imparare a fare il suo atto di fede in Cristo decifrandone l'appello che egli manda da questo mondo della povertà. Si tratta di continuare una tradizione di carità che ha avuto già nei due passati millenni tantissime espressioni, ma che oggi forse richiede ancora maggiore inventiva. È l'ora di una nuova « fantasia della carità », che si dispieghi non tanto e non solo nell'efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione.

Dobbiamo per questo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come « a casa loro ». Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l'annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l'odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole.

Le sfide odierne

51. E come poi tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto ecologico, che rende inospitali e nemiche dell'uomo vaste aree del pianeta? O rispetto ai problemi della pace, spesso minacciata con l'incubo di guerre catastrofiche? O di fronte al vilipendio dei diritti umani fondamentali di tante persone, specialmente dei bambini? Tante sono le urgenze, alle quali l'animo cristiano non può restare insensibile.

Un impegno speciale deve riguardare alcuni aspetti della radicalità evangelica che sono spesso meno compresi, fino a rendere impopolare l'intervento della Chiesa, ma che non possono per questo essere meno presenti nell'agenda ecclesiale della carità. Mi riferisco al dovere di impegnarsi per il rispetto della vita di ciascun essere umano dal concepimento fino al suo naturale tramonto. Allo stesso modo, il servizio all'uomo ci impone di gridare, opportunamente e importunamente, che quanti s'avvalgono delle nuove potenzialità della scienza, specie sul terreno delle biotecnologie, non possono mai disattendere le esigenze fondamentali dell'etica, appellandosi magari ad una discutibile solidarietà, che finisce per discriminare tra vita e vita, in spregio della dignità propria di ogni essere umano.

Per l'efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi, è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell'essere umano. La carità si farà allora necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all'economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell'essere umano e il futuro della civiltà.

52. Tutto questo ovviamente dovrà essere realizzato con uno stile specificamente cristiano: saranno soprattutto i laici a rendersi presenti in questi compiti in adempimento della vocazione loro propria, senza mai cedere alla tentazione di ridurre le comunità cristiane ad agenzie sociali. In particolare, il rapporto con la società civile dovrà configurarsi in modo da rispettare l'autonomia e le competenze di quest'ultima, secondo gli insegnamenti proposti dalla dottrina sociale della Chiesa.

È noto lo sforzo che il Magistero ecclesiale ha compiuto, soprattutto nel secolo XX, per leggere la realtà sociale alla luce del Vangelo ed offrire in modo sempre più puntuale ed organico il proprio contributo alla soluzione della questione sociale, divenuta ormai una questione planetaria.

Questo versante etico-sociale si propone come dimensione imprescindibile della testimonianza cristiana: si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell'Incarnazione e, in definitiva, con la stessa tensione escatologica del cristianesimo. Se quest'ultima ci rende consapevoli del carattere relativo della storia, ciò non vale a disimpegnarci in alcun modo dal dovere di costruirla. Rimane più che mai attuale, a tal proposito, l'insegnamento del Concilio Vaticano II: « Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente ».36

Un segno concreto

53. Per dare un segno di questo indirizzo di carità e di promozione umana, che si radica nelle intime esigenze del Vangelo, ho voluto che lo stesso Anno giubilare, tra i numerosi frutti di carità che già ha prodotto nel corso del suo svolgimento — penso, in particolare, all'aiuto offerto a tanti fratelli più poveri per consentir loro di prendere parte al Giubileo — lasciasse anche un'opera che costituisse, in qualche modo, il frutto e il sigillo della carità giubilare. Molti pellegrini, infatti, hanno in diversi modi versato il loro obolo e, insieme con loro, anche molti protagonisti dell'attività economica hanno offerto sostegni generosi, che sono serviti ad assicurare una conveniente realizzazione dell'evento giubilare. Saldati i conti delle spese che è stato necessario affrontare nel corso dell'anno, il denaro che si sarà potuto risparmiare dovrà essere destinato a finalità caritative. È importante infatti che da un evento religioso tanto significativo sia allontanata ogni parvenza di speculazione economica. Ciò che sopravanzerà servirà a ripetere anche in questa circostanza l'esperienza vissuta tante altre volte nel corso della storia da quando, agli inizi della Chiesa, la comunità di Gerusalemme offrì ai non cristiani lo spettacolo commovente di uno spontaneo scambio di doni, fino alla comunione dei beni, a favore dei più poveri (cfr At 2,44-45).

L'opera che verrà realizzata sarà soltanto un piccolo rivolo che confluirà nel grande fiume della carità cristiana che percorre la storia. Piccolo, ma significativo rivolo: il Giubileo ha spinto il mondo a guardare verso Roma, la Chiesa « che presiede alla carità »37 ed a recare a Pietro il proprio obolo. Ora la carità manifestata nel centro della cattolicità torna, in qualche modo, a volgersi verso il mondo attraverso questo segno, che vuole restare come frutto e memoria viva della comunione sperimentata in occasione del Giubileo.

Dialogo e missione

54. Un nuovo secolo, un nuovo millennio si aprono nella luce di Cristo. Non tutti però vedono questa luce. Noi abbiamo il compito stupendo ed esigente di esserne il « riflesso ». È il mysterium lunae così caro alla contemplazione dei Padri, i quali indicavano con tale immagine la dipendenza della Chiesa da Cristo, Sole di cui essa riflette la luce.38 Era un modo per esprimere quanto Cristo stesso dice, presentandosi come « luce del mondo » (Gv 8,12) e chiedendo insieme ai suoi discepoli di essere « la luce del mondo » (Mt 5,14).

È un compito, questo, che ci fa trepidare, se guardiamo alla debolezza che ci rende tanto spesso opachi e pieni di ombre. Ma è compito possibile, se esponendoci alla luce di Cristo, sappiamo aprirci alla grazia che ci rende uomini nuovi.

55. È in quest'ottica che si pone anche la grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora impegnati, nella linea indicata dal Concilio Vaticano II.39 Negli anni che hanno preparato il Grande Giubileo la Chiesa ha tentato, anche con incontri di notevole rilevanza simbolica, di delineare un rapporto di apertura e dialogo con esponenti di altre religioni. Il dialogo deve continuare. Nella condizione di più spiccato pluralismo culturale e religioso, quale si va prospettando nella società del nuovo millennio, tale dialogo è importante anche per mettere un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno rigato di sangue tanti periodi nella storia dell'umanità. Il nome dell'unico Dio deve diventare sempre di più, qual è, un nome di pace e un imperativo di pace.

56. Ma il dialogo non può essere fondato sull'indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il dovere di svilupparlo offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi (cfr 1 Pt 3,15). Non dobbiamo aver paura che possa costituire offesa all'altrui identità ciò che è invece annuncio gioioso di un dono che è per tutti, e che va a tutti proposto con il più grande rispetto della libertà di ciascuno: il dono della rivelazione del Dio-Amore che « ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » (Gv 3,16). Tutto questo, come è stato anche recentemente sottolineato dalla Dichiarazione Dominus Iesus, non può essere oggetto di una sorta di trattativa dialogica, quasi fosse per noi una semplice opinione: è invece per noi grazia che ci riempie di gioia, è notizia che abbiamo il dovere di annunciare.

La Chiesa, pertanto, non si può sottrarre all'attività missionaria verso i popoli, e resta compito prioritario della missio ad gentes l'annuncio che è nel Cristo, « Via, Verità e Vita » (Gv 14,6), che gli uomini trovano la salvezza. Il dialogo interreligioso « non può semplicemente sostituire l'annuncio, ma resta orientato verso l'annuncio ».40 Il dovere missionario, d'altra parte, non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all'ascolto. Sappiamo infatti che, di fronte al mistero di grazia infinitamente ricco di dimensioni e di implicazioni per la vita e la storia dell'uomo, la Chiesa stessa non finirà mai di indagare, contando sull'aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità (cfr Gv 14,17), al quale appunto compete di portarla alla « pienezza della verità » (cfr Gv 16,13).

Questo principio è alla base non solo dell'inesauribile approfondimento teologico della verità cristiana, ma anche del dialogo cristiano con le filosofie, le culture, le religioni. Non raramente lo Spirito di Dio, che « soffia dove vuole » (Gv 3,8), suscita nell'esperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori. Non è stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il Concilio Vaticano II si è impegnato a leggere i « segni dei tempi? ».41 Pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i « veri segni della presenza o del disegno di Dio »,42 la Chiesa riconosce che non ha solo dato, ma anche « ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano ».43 Questo atteggiamento di apertura e insieme di attento discernimento il Concilio lo ha inaugurato anche nei confronti delle altre religioni. Tocca a noi seguirne l'insegnamento e la traccia con grande fedeltà.

Nella luce del Concilio

57. Quanta ricchezza, carissimi Fratelli e Sorelle, negli orientamenti che il Concilio Vaticano II ci ha dato! Per questo, in preparazione al Grande Giubileo, ho chiesto alla Chiesa di interrogarsi sulla ricezione del Concilio.44 È stato fatto? Il Convegno che si è tenuto qui in Vaticano è stato un momento di questa riflessione, e mi auguro che altrettanto si sia fatto, in diversi modi, in tutte le Chiese particolari. A mano a mano che passano gli anni, quei testi non perdono il loro valore né il loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati, come testi qualificati e normativi del Magistero, all'interno della Tradizione della Chiesa. A Giubileo concluso sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre.



CONCLUSIONE

DUC IN ALTUM!

58. Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull'aiuto di Cristo. Il Figlio di Dio, che si è incarnato duemila anni or sono per amore dell'uomo, compie anche oggi la sua opera: dobbiamo avere occhi penetranti per vederla, e soprattutto un cuore grande per diventarne noi stessi strumenti. Non è stato forse per riprendere contatto con questa fonte viva della nostra speranza, che abbiamo celebrato l'Anno giubilare? Ora il Cristo contemplato e amato ci invita ancora una volta a metterci in cammino: « Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo » (Mt 28,19). Il mandato missionario ci introduce nel terzo millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire sorretti dalla speranza « che non delude » (Rm 5,5).

Il nostro passo, all'inizio di questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo. Le vie sulle quali ciascuno di noi, e ciascuna delle nostre Chiese, cammina, sono tante, ma non v'è distanza tra coloro che sono stretti insieme dall'unica comunione, la comunione che ogni giorno si alimenta alla mensa del Pane eucaristico e della Parola di vita. Ogni domenica il Cristo risorto ci ridà come un appuntamento nel Cenacolo, dove la sera del «primo giorno dopo il sabato» (Gv 20,19) si presentò ai suoi per « alitare » su di loro il dono vivificante dello Spirito e iniziarli alla grande avventura dell'evangelizzazione.

Ci accompagna in questo cammino la Vergine Santissima, alla quale, qualche mese fa, insieme con tanti Vescovi convenuti a Roma da tutte le parti del mondo, ho affidato il terzo millennio. Tante volte in questi anni l'ho presentata e invocata come « Stella della nuova evangelizzazione ». La addito ancora, come aurora luminosa e guida sicura del nostro cammino. «Donna, ecco i tuoi figli», le ripeto, riecheggiando la voce stessa di Gesù (cfr Gv 19,26), e facendomi voce, presso di lei, dell'affetto filiale di tutta la Chiesa.

59. Carissimi Fratelli e Sorelle! Il simbolo della Porta Santa si chiude alle nostre spalle, ma per lasciare più spalancata che mai la porta viva che è Cristo. Non è a un grigio quotidiano che noi torniamo, dopo l'entusiasmo giubilare. Al contrario, se autentico è stato il nostro pellegrinaggio, esso ha come sgranchito le nostre gambe per il cammino che ci attende. Dobbiamo imitare lo slancio dell'apostolo Paolo: « Proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Fil 3,13-14). Dobbiamo imitare insieme la contemplazione di Maria, che, dopo il pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme, ritornava nella casa di Nazareth meditando nel suo cuore il mistero del Figlio (cfr Lc 2,51).

Gesù risorto, che si accompagna a noi sulle nostre strade, lasciandosi riconoscere, come dai discepoli di Emmaus « nello spezzare il pane » (Lc 24,35), ci trovi vigili e pronti per riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annuncio: « Abbiamo visto il Signore! » (Gv 20,25).

È questo il frutto tanto auspicato del Giubileo dell'Anno Duemila, il Giubileo che ha riproposto al vivo ai nostri occhi il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio e Redentore dell'uomo. Mentre esso si conclude e ci apre a un futuro di speranza, salga al Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo, la lode e il ringraziamento di tutta la Chiesa.

Con questo auspicio invio a tutti dal profondo del cuore la mia Benedizione.

Dal Vaticano, il 6 gennaio, Solennità dell'Epifania del Signore, dell'anno 2001, ventitreesimo di Pontificato.


- fonte -


[SM=x44458] È una “Lettera Apostolica” del sommo Pontefice Giovanni Paolo II; sicuramente un po’ lunga ma interessante per comprendere l’origine, la storia e il fine del Sacramento della Confessione/Riconciliazione/Penitenza.
Questo Sacramento istituito da nostro Signore Gesù Cristo è indispensabile ed irrinunciabile per quanti vogliono vivere la pienezza della loro fede cristiana in comunione con tutta la Comunità nella Chiesa Cattolica.
[SM=x44515] [SM=x44461] [SM=x44462]
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