GENOVA - Questo fagotto avvolto in una giacca dei vigili del fuoco che passa di mano in mano era una bambina che si chiamava Janissa. Bennardo Sanfilippo lo pesca dall’acqua nera con una mano, appoggiandosi alla ringhiera, sperando che sia una bambola. Lui è una guardia penitenziaria, stava portando un detenuto al Pronto soccorso quando ha saputo. Sta scavando a mani nude, si è buttato qui dentro per cercare sua moglie Angela, e ancora non sa che anche lei è in questo sottoscala diventato pozzo, una tomba d’acqua che ha inghiottito sei esseri umani, a cento metri dal centro di Genova. La guarda, non sa cosa fare. Comincia a cullarla, la tiene tra le braccia, «svegliati belin, svegliati ti prego». Un pompiere gliela prende con delicatezza, e intanto piange, la copre con il suo giaccone, ma non sa a chi darla, Janissa viene deposta sul marciapiede dall’altro lato della strada. Ha la faccia gonfia di chi è morto annegato, indossava una felpa rosa di Hello Kitty, tra un mese avrebbe compiuto il suo primo anno di vita.
Sono le 14.45 di un venerdì assurdo, il cielo sopra Genova è un mantello nero, questa maledetta pioggia non smette mai di cadere e si impasta alle lacrime di tutti noi che assistiamo impotenti a queste operazioni di soccorso, che fin dall’inizio appaiono vane. Tempo niente e speranza zero, solo disperazione e un lento allinearsi di corpi senza vita sul selciato coperto di fango, all’inizio non ci sono neppure le lenzuola bianche per ricoprire questi poveri resti. Alla fine ne contiamo sei, tutte donne. Sei mamme e mogli, figlie e sorelle, che tornavano a casa, che stavano con i loro bambini, che erano andate a prenderli a scuola, per proteggerli dal temporale.
Sono morte in maniera orribile, schiacciate o annegate in un androne diventato trappola, vittime di uno tsunami di città del quale in parecchi saranno chiamati a rendere conto. Il Rio Fereggiano è un torrentello dimenticato, uno dei tanti affluenti del temuto Bisagno, neppure il più grande di una città percorsa nelle fondamenta da cento diversi rigagnoli sempre pronti a tracimare, e lo scorso 29 giugno c’era stata la festa per la sua messa in sicurezza, dopo la demolizione delle vecchie case costruite nell’alveo. Certo, pioveva forte, le bocchette dell’autostrada riversavano acqua a valle. Ma era pur sempre un acquazzone, un temporale violento di quelli che non ti costringono neppure a fermare l’auto. Era altrove, alle Cinque Terre, dove ieri non è successo nulla, che ci si aspettava un’altra giornata terribile.
Fereggiano, la via della tragedia:
E invece all’altezza di largo Merlo, appena sotto il quartiere Quezzi, il torrente ha sfondato nel punto dove la copertura è più vecchia, venne fatta prima della Grande guerra. Dal fondo di via Fereggiano all’ora di pranzo hanno visto il bordo scuro dell’onda, davvero come fosse uno tsunami. Juri Djala non sapeva di averla alle spalle. Ha fermato il suo Doblò verde davanti al bar Barbosio, dicendo alla cognata Shpresa di aspettare in auto con le bimbe, questione di un minuto, vado a prendere gli attrezzi nella ditta. È un basso in piazza Galileo Ferraris, una piccola azienda edile che gestisce con il fratello Florian, il papà delle bambine. «Le ho lasciate per una stupida cassetta degli attrezzi, e quando mi sono girato non c’era più niente» dice adesso, mentre trema e si strazia la faccia con le unghie.
Il Doblò è stato scaraventato contro il muretto del primo palazzo della via, al civico 2B. Il condominio è recente, doveva essere persino elegante, con il suo giardinetto adesso ridotto a un cumulo di macerie contorte. Shpresa è riuscita a scendere, si è trascinata nell’androne tenendo Janissa in braccio, urlando a Gioia, che aveva 9 anni, di correre, correre dentro. La porta d’ingresso era spalancata, bastava fare la scala a destra, quella che porta al primo piano. Forse ci ha provato, non lo sapremo mai. La corrente le ha scaraventate in basso, otto gradini per scendere nelle cantine. Sono diventate una tomba. Angela Chiaromonte aveva quarant’anni e un figlio di 16, faceva l’infermiera in una casa di riposo. Ha sentito le notizie alla radio, si è preoccupata. Il suo Domenico studia al Cassini, il liceo scientifico del centro città. È salita sulla Punto verde per portare a casa il suo unico figlio, al sicuro. Adesso si trova a percorrere via Fereggiano in salita, va incontro a un muro di tronchi e d’acqua. La sua macchina, raccontano i testimoni, viene trascinata indietro, anche lei si incastra nel muretto del civico 2. Domenico trascina fuori la mamma, vengono travolti, finiscono nel sottoscala.
Francesco Plateroti è l’inquilino del terzo piano, appena tornato a casa dal turno della mattina al distributore di benzina che gestisce con la sua famiglia. Vede tutto. Si precipita giù impugnando l’asta metallica delle tende strappate dal vento al suo balcone. Il sottoscala è ormai un pozzo nero. Domenico annaspa, sta per cedere, si è aggrappato alla ringhiera. Il benzinaio gli porge l’asta, pianta i piedi per resistere al fiume di fango che continua a entrare dalla strada. Domenico si salva. «Mamma, la mia mamma è lì dentro» urla, continua a urlare anche una volta che i soccorritori lo distendono per terra e gli schiacciano i polmoni per fargli tirare fuori il liquame che lo sta soffocando. «Non la vedevo più, non ho potuto fare nient’altro» si dispera Plateroti, i soccorritori lo ringraziano e lui si mette le mani tra i capelli incrostati di fango. Il corpo di Angela verrà ripescato solo a tarda sera.
Dall’altra parte della strada, sotto all’insegna della pizzeria «’O sole mio» qualcuno ha finalmente trovato un telo per coprire il corpo di Serena Costa. Aveva 19 anni, con il suo scooter Honda anche lei era andata a prendere il fratellino a scuola. Viene sbalzata dalla moto all’inizio della via. Il ragazzo scappa verso valle, e si salva. Angela cammina per dieci metri tra i flutti, intontita. Dalla sua finestra, il pensionato Giovanni Maggiolo le urla di togliersi dalla strada, la implora. «Sembrava intontita, si teneva la testa tra le mani, credo che stesse gridando ». Una Punto trascinata dal fango la travolge, la schiaccia contro il muro.
È avvenuto tutto in un fazzoletto, pochi metri quadrati, neppure un isolato. Accanto alla pizzeria ci sono auto contorte e ammassate, le insegne della macelleria latino europea e di Arnuzzo gioielli ci ricordano che non siamo in una valle sperduta. Siamo appena dietro la stazione di Brignole, in una lingua d’asfalto che s’arrampica verso le alture, a due passi dallo stadio di Marassi. Davanti alla palazzina c’è la fermata dell’autobus, «fermata a richiesta Fereggiano-Galileo Ferraris ».
Oltre la porta dell’ingresso, le scale della cantina conducono a una melma acquitrinosa. Sopra la lampada al neon c’è il segno lasciato dall’onda, due metri e mezzo dal pianerottolo. Hanno appena estratto il corpo di un’altra vittima. Si chiamava Evelina Pietranera, gestiva un’edicola all’inizio del quartiere San Fruttuoso. Stava tornando a casa, forse ha visto la porta aperta, ha creduto anche lei che quello fosse il rifugio, la salvezza. I soccorritori cercavano fuori, in strada, sollevando a braccia le auto e i tronchi che ostruivano la strada. Dai balconi del civico 2B la gente urlava. «Sono lì dentro, li abbiamo visti». I sub si sono immersi increduli, non ci credevano che quell’androne potesse essere una tomba che nascondeva cinque corpi. «Sono andato giù con la maschera, non si vedeva niente » racconta Emanuele Gissi, vicecapo dei vigili del fuoco di Genova, il primo a immergersi. «Abbiamo anche pensato a una segnalazione sbagliata, ma continuavano a urlarci che erano proprio lì». Allora hanno chiamato le idrovore. I corpi erano incastrati dai mobili abbandonati nel corridoio della cantina.
Adesso c’è tutto il tempo del mondo, per ammassare le macchine distrutte in piazza Galileo Ferraris, per riempire il taccuino del rimpianto di eroi mancati come Rosario Gioia, operaio disoccupato che si è buttato in quel pozzo e per un attimo soltanto ha stretto una mano di bambina, prima che gli scivolasse via. Per ascoltare racconti come quello di Bruno Murga, che mentre solleva un tronco d’albero dalla sua Panda ridotta a un cartoccio dice che c’era da aspettarselo, il Fereggiano è un rio pazzo che non ha mai sopportato la tombinatura. L’hanno coperto negli anni Sessanta, quelli della grande speculazione, quelli dove è cresciuto il quartiere popolare di Quezzi, grandi casermoni sorti sull’asfalto che nasconde l’alveo del torrente. Ci sarà bisogno di molto tempo per capire le colpe di questa tragedia incredibile.
Ma ora le pale delle gru stanno liberando l’ingresso della palazzina al civico 2B. Sollevano la Panda della signora Angela, schiacciata da un’altra auto e dal muretto crollato. Poi stringono il Doblò, capottato su se stesso, e lo levano in aria. Dall’abitacolo sfondato cade l’ovetto di Janissa, tutti i genitori lo chiamano così, quel sedile al quale allacciano i bambini piccoli per sentirsi più sicuri. C’è attaccato un sonaglio della Chicco, e un ciucciotto azzurro. Cade anche la cartella di Gioia, si sparpaglia a terra un astuccio e un quaderno a quadretti pieno di disegni. Erano due bambine. Sono morte annegate con la loro mamma e altre persone che non conoscevano nell’androne di un palazzo signorile. È successo davvero, in un caldo venerdì di pioggia. A Genova, Italia.