L'ARRESTO DI GESU'
La tradizione colloca la cosiddetta «ultima cena» nella sera del giovedì santo, allorché Gesù si sarebbe messo a tavola coi suoi discepoli per il banchetto pasquale. In realtà quel giorno non ricorreva la Pasqua ebraica, ma la vigilia o l’antivigilia; non sappiamo se quell’anno la Pasqua capitasse di venerdì o di sabato; le informazioni che ricaviamo dalle narrazioni evangeliche sono discordanti.
In ogni caso i convitati si sarebbero riuniti in un’abitazione al limite sud-occidentale della città, molto vicini al palazzo del sommo sacerdote. Più avanti verrà esaminata l’ipotesi che qui anticipiamo - e che è stata formulata inizialmente da Reimarus, e successivamente sviluppata da Eisler e da Brandon - in base alla quale, in quella particolare circostanza, i seguaci di Gesù sarebbero stati impegnati a preparare un atto di forza nei confronti del presidio romano e delle autorità ebraiche, per trascinare in una grande rivolta messianica il popolo convenuto a Gerusalemme in occasione della festività. Con questi presupposti, possiamo facilmente immaginare come la celebre ultima cena debba essere stata un momento carico di tensione e gravido di pericoli incombenti. Giuda, a un certo punto, si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato, piantando tutti in asso. Per la seconda volta, dal momento che un gesto simile lo aveva già compiuto qualche giorno prima in occasione della cena di Betania, quando lo stesso Giuda si era allontanato per trattare coi sacerdoti la consegna di Gesù. Tutto fa pensare che ora l’uomo avrebbe raggiunto i sacerdoti del Tempio, come convenuto, per rivelare i piani della sommossa:
nella notte i congiurati si sarebbero raccolti sul Monte degli ulivi, fuori dalle mura, sul lato nord-orientale della città. In altre occasioni il Monte degli ulivi fu effettivamente utilizzato come punto strategico per i rivoltosi che volevano attaccare la torre Antonia (la sede del presidio romano, situata su uno dei quattro angoli del Tempio). Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, per esempio, ci testimonia di un certo falso profeta egiziano:
«Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatosi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che si erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al Monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l’aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco, affrontandolo con i soldati romani e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l’egiziano riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero”.
Dunque questo tentativo fu sventato in partenza e tutto fa supporre che, anche questa volta, la causa sia stata un tradimento: altrimenti, come avrebbe fatto il procuratore Felice a prevenire l’attacco?
Ma torniamo a Cristo e ai suoi seguaci; a un certo punto il gruppo si sarebbe trasferito, in piena notte, nell’orto del Gethsemani, che il nome ebraico ci indica come un frantoio situato sul Monte degli ulivi. Si trattava di un semplice ritiro di preghiera? Così vuole la narrazione evangelica, il cui senso lascia trasparire l’idea che Gesù, consapevole del proprio destino, stesse semplicemente aspettando di essere arrestato. Se non che molte cose fanno sorgere almeno il dubbio che la redazione dei nostri Vangeli sia stata caratterizzata proprio dalla necessità di estraniare la figura di Cristo e dei suoi seguaci da ogni legame con la lotta dei partigiani jahvisti. Comunque sia, la tradizione ci racconta che nel profondo silenzio di quella notte primaverile, in cui faceva sicuramente freddo, si udirono improvvisamente strani rumori e si videro delle luci che si avvicinavano. La prima cosa che viene da domandarsi è questa:
se le autorità ebraiche avessero voluto arrestare Gesù semplicemente per la sua scarsa ortodossia religiosa, e non per sventare la rivolta messianica, per quale ragione avrebbero dovuto dipendere dalla complicità di un traditore? Chissà quante altre volte il profeta si era trovato in una posizione vulnerabile in cui non c’era alcun bisogno della mobilitazione notturna di un distaccamento di soldati. Assai spesso si spiega il fatto dicendo che Gesù non poteva essere arrestato mentre predi cava alla folla, per evitare sommosse; bisognava prenderlo da parte, magari di notte, nella solitudine. E allora perché tutto quel dispiegamento di forze? La tradizione, in generale, non insiste nel precisare questo dettaglio: tutti hanno in mente l’immagine di un’accozzaglia più o meno disordinata di gente convenuta per catturare Gesù, nient’altro.
Eppure il quarto Vangelo parla di cohortem, nel testo latino, dandoci una chiara indicazione del fatto che, oltre alle guardie del Tempio, era intervenuta un’intera coorte di soldati romani la quale, in base alle nostre conoscenze, era un corpo composto da seicento uomini!
Non ne bastavano una ventina? Contro cosa era realmente mobilitata tutta questa forza? C’è poi un’altra questione:
per quale ragione Giuda avrebbe dovuto indicare il Maestro con un segno convenuto? Non si trattava certo di uno sconosciuto mai visto da quelle parti. Anzi, alcuni giorni prima era entrato in città in mezzo a un tripudio di folla acclamante al figlio di Davide, il re dei giudei; poi aveva partecipato a discussioni con i sacerdoti, in materia di teologia e di giustizia; aveva addirittura inscenato un clamoroso gesto nei confronti dei cambiavalute, nell’area
esterna del Tempio; se queste cose sono vere, possiamo dire che era diventato la personalità del momento, a Gerusalemme e nessuno avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo. In realtà il ruolo di Giuda, a ben riflettere, non dev’essere stato di indicare il personaggio con un segno convenuto, bensì di avvertire i sacerdoti sul momento in cui la sommossa stava per essere messa in atto, al fine di cogliere i rivoltosi di sorpresa e di stroncare il tentativo. Soltanto così può spiegarsi perché i sacerdoti aspettassero un segno dal traditore e perché fosse intervenuto un vero e proprio esercito.
Ciò che raccontano i Vangeli sulla drammatica notte fra il giovedì e il venerdì di Passione lascia trasparire un’evidenza: i seguaci di Cristo hanno effettuato un tentativo di resistenza armata. Lo stesso Marco, il più rigoroso degli evangelisti nell’evitare ogni riferimento alle spade, che invece troviamo negli altri testi, dice in breve:
«Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l’orecchio».
Il Vangelo secondo Matteo vuole estraniare Gesù da un tale comportamento violento e gli mette in bocca parole di duro rimprovero contro il suo focoso difensore.
Il Vangelo secondo Luca non si contenta: addirittura Gesù compì un altro miracolo, riattaccando l’orecchio al povero malcapitato. Tali differenze si presentano fin troppo chiaramente come un crescendo apologetico, motivato da quella che sarebbe stata la preoccupazione primaria degli evangelisti:
cancellare, per quanto possibile, i riferimenti che legano il movimento cristiano primitivo con la lotta messianica. Anzi, poiché di tale preoccupazione dei redattori neotestamentari
parleremo spesso, sarà bene darle un nome fin dall’inizio: la chiameremo «intento di spoliticizzazione». Nonostante ciò, tutti e quattro i Vangeli ci testimoniano il fatto che i seguaci di Cristo, nella loro riunione sul Monte degli ulivi, avessero delle armi. Eppure, stando all’immagine tradizionale, doveva trattarsi del ritiro pacifico di uomini che avevano appena terminato di partecipare al banchetto pasquale. In realtà lo stesso Luca racconta che, al termine della cena, prima di raccogliersi sulla collina fuori dalle mura della città,
Gesù si era raccomandato nei confronti di chi era sprovveduto di armi, perché se le procurasse. Il quarto Vangelo aggiunge un’importante rivelazione: l’autore del clamoroso gesto di spada è Simon Pietro, mentre Malco, servitore del sommo sacerdote Caifa, ne è la vittima. Ci si presenta dunque un’immagine di Pietro davvero sorprendente: aveva veramente un’arma e non si faceva scrupolo di usarla. In questo passo il semplice pescatore del lago di Tiberiade, divenuto discepolo del rabbì Gesù, appare come un fuorilegge che affronta con la spada sguainata le guardie mandate dai sacerdoti. Ma chi era questo Simone, l’apostolo detto Pietro? Soffermiamoci, a tale proposito, su un particolare che può offrire degli indizi più significativi sulla personalità di colui che la tradizione vuole primo nella lista dei pontefici della Chiesa. C’è un passo nel Vangelo secondo Matteo in cui Gesù si rivolge a Pietro nei seguenti termini: «Simone, figlio di Giona» Questo, però, è ciò che leggiamo nelle traduzioni moderne, che non rispettano affatto il senso di ciò che era scritto originariamente nei testi antichi.
Infatti, se un ginnasiale dovesse tradurre in greco quella breve espressione, scriverebbe sicuramente[Simon o uios Iona], mentre il testo greco del Vangelo di Matteo porta l’espressione [Simon bar Iona]. «Figlio di» è reso con bar, termine aramaico, invece che con uios, termine greco.Perché? Quante volte un personaggio della narrazione è definito «figlio di...»? Molte. E tutte le volte, puntualmente, il testo greco usa il termine uios.
Senonché, nei manoscritti antichi del Vangelo di Matteo, non compare nemmeno [Simon bar Iona], ma [Simon Bariona], con una parola intera. A questo punto sarà interessante sapere che in aramaico, la lingua parlata in Palestina al tempo di Cristo, al posto dell’ebraico dotto della Bibbia, il termine barjona significava «combattente, partigiano, latitante..» Non dunque «Simone figlio di Giona” ma «Simone il partigiano».
Abbiamo così scoperto un espediente con cui trascrittori e traduttori hanno tentato di nascondere una verità compromettente: il fatto che Simone fosse a sua volta uno zelota, chiamato col soprannome di battaglia «Cefas», che significa «macigno» o «pietra», avvezzo a portare la spada e a usarla. E’ un meccanismo di censura che non ci deve meravigliare, coerentemente con l’intento di spoliticizzazione che è stato applicato numerose altre volte; per esempio nel caso dell’altro Simone apostolo, quello che i Vangeli di Marco e Matteo definiscono cananeo. I redattori dei testi evangelici, che li hanno composti in greco, hanno voluto far credere che quel titolo significasse semplicemente «proveniente dalla terra di Canaan» o «della città di Cana»; approfittando del fatto che i destinatari dello scritto, ignari della lingua aramaica, non sapevano che qanana, nell’idioma semitico degli ebrei, significa «zelota», sinonimo dell’altro termine che già abbiamo visto: barjona. Il Vangelo secondo Luca risolve definitivamente la questione, perché nel suo elenco degli apostoli inserisce il discepolo Simone soprannominato zelota.
Sono queste dimostrazioni evidenti del fatto che alla cerchia degli apostoli di Cristo appartengono zeloti e partigiani. E non ne mancano altri.
L’apostolo Taddeo, in alcune antiche versioni del Vangelo, è definito [Ioudas zelotes]. E’ importante notare che il nome con cui conosciamo abitualmente questo personaggio è, in realtà, soltanto un titolo; dal momento che in ebraico Taddeo non è un nome proprio, ma un aggettivo che significa «coraggioso»: un altro significativo soprannome partigiano. Gli evangelisti, o i revisori dei testi, hanno cercato di snaturare le identità di queste persone, presentandole con nomi diversi da quelli più compromettenti, utilizzando i soprannomi, che però non venivano tradotti. Un caso praticamente identico è quello di Tommaso; anche questa volta abbiamo solo il soprannome, [Thomas], traslitterazione del sostantivo ebraico toma, che significa «gemello». Infatti il vero nome di questo apostolo, riconosciuto anche dall’interpretazione cattolica, è Giuda: «Giuda detto il gemello», del quale alcuni manoscritti antichi portano la compromettente variante [qanana = zelota]. I soprannomi partigiani, dei quali spesso si capisce il significato soltanto se li si analizza attraverso la lingua aramaica, sono stati presentati qualche volta come innocui nomi propri; altre volte, invece, come nel caso dei fratelli Giacomo e Giovanni apostoli, sono stati conservati a fianco del nome: boanerghes, cioè «figli del tuono». Ma anche in questo caso è interessante notare un particolare poco conosciuto: i figli del tuono, nelle versioni moderne del Vangelo, sono solo i due che abbiamo nominato, mentre antiche versioni del Vangelo di Marco affermano che anche Pietro, come tutti gli altri apostoli, era definito «figlio del tuono»; un altro elemento a favore dell’interpretazione secondo cui Simone sarebbe stato un combattente jahvista. Queste constatazioni hanno ovviamente un’importanza in sé, ma ci permettono anche di individuare uno specifico piano di censura, inteso a cancellare sistematicamente ogni riferimento all’impegno messianico dei discepoli di Gesù: esse ci offrono, quindi, un utile e inequivocabile indirizzo interpretativo. Alla luce delle considerazioni qui esposte, cominciano ad assumere determinati significati le spade, il gesto di Simone e anche l’indietreggiare e cadere per terra dei soldati intervenuti per eseguire l’arresto - di cui troviamo testimonianza nel quarto Vangelo. Spesso i redattori evangelici parlano di profezie che devono avverarsi; Gesù, per esempio, dice; «Lasciate che mi arrestino, altrimenti come potrà avverarsi la scrittura?» In effetti, tutto il racconto della Passione è gremito di riferimenti alle profezie, al punto che questa sembra essere stata una preoccupazione costante, quasi un’ossessione degli evangelisti.
Emerge in tal modo un altro piano interpretativo dei meccanismi della composizione evangelica, finalizzata a dimostrare come Gesù fosse il destinatario delle profezie bibliche riguardanti l’atteso messia. Ma a questo riguardo, vi sono numerose contraddizioni. perché, da un lato, si è cercato di cancellare ogni riferimento al movimento messianico e, dall’altro, si è voluto rafforzare il legame fra Gesù e le profezie messianiche? La contraddizione riflette molto bene il clima di tensioni politiche, sociali e religiose, in cui si trovavano coloro che scrissero i Vangeli:
da un lato essi dovevano «purgare” la figura di Cristo dal suo ruolo rivoluzionario, di combattente dell’indipendenza nei confronti del potere imperiale (non si dimentichi che il Vangelo di Marco è stato scritto a Roma, all’indomani del ritorno di Tito da una terribile guerra che aveva visto la disfatta degli ebrei);
dall’altro lato essi dovevano riscattare il fallimento messianico di Cristo (gli ebrei si aspettavano che il vero messia fosse un trionfatore, come Davide, non uno sconfitto). Un messia non-messia dunque; destinatario delle profezie messianiche, ma estraneo alla lotta messianica. I passi che descrivono l’arresto forniscono preziose indicazioni sulle persone intervenute, e sullo scopo dell’operazione medesima. Il quarto Vangelo parla di un distaccamento con il comandante (cohors ergo, et tribunus), confermando il fatto che si trattava di un grosso corpo di soldati romani.
E ciò conferma che deve essersi trattato proprio di un arresto voluto ed effettuato dai romani; i quali, naturalmente, non avrebbero certo scomodato in piena notte un’intera coorte per arrestare un pacifico predicatore, la cui unica colpa fosse stata di essere inviso ai sacerdoti del Tempio e di avere bestemmiato Jahvè, facendosi chiamare «figlio di Dio».
E’ piuttosto verosimile che i romani intervennero con tanta forza solo perché intendevano reprimere un tentativo di rivolta messianica. I tre Vangeli sinottici avevano fatto il possibile per censurare alcune caratteristiche dell’arresto; la loro «folla con spade e bastoni» sembrerebbe composta solo di guardie ebraiche e servi del sommo sacerdote, mentre l’autore del Vangelo di Luca, in un eccesso di ispirazione, fa presenziare all’arresto gli stessi sommi sacerdoti e gli anziani: il Sinedrio al completo. Nonostante il loro tentativo di denaturare l’episodio,
gli evangelisti ci hanno lasciato capire che in quel momento stava per accadere qualcosa di talmente grave che, non appena il traditore ebbe avvertito le autorità, nella notte della preparazione della Pasqua (un tempo di grande devozione, rispetto e proibizioni), un’intera coorte romana e tutte le guardie del Tempio sarebbero intervenute per catturare Gesù.
Che ne pensate? la storia è ancora lunga, ne ho scannerizzato solo un brano, però è interessante, no? dopo anni di letture su questi temi non ho più certezze, eccetto una: che la Chiesa da 2000 anni racconta tante b
Ah, il libro è quello di Donnini di cui ho postato un altro brano "in evidenza"
[Modificato da Nikki72 07/11/2006 16.58]
[Modificato da Nikki72 08/11/2006 10.18]
[Modificato da Nikki72 08/11/2006 10.18]
[Modificato da Nikki72 08/11/2006 20.58]