Gesù e gli zeloti

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Nikki72
00martedì 7 novembre 2006 16:56
L'ARRESTO DI GESU'
La tradizione colloca la cosiddetta «ultima cena» nella sera del giovedì santo, allorché Gesù si sarebbe messo a tavola coi suoi discepoli per il banchetto pasquale. In realtà quel giorno non ricorreva la Pasqua ebraica, ma la vigilia o l’antivigilia; non sappiamo se quell’anno la Pasqua capitasse di venerdì o di sabato; le informazioni che ricaviamo dalle narrazioni evangeliche sono discordanti. In ogni caso i convitati si sarebbero riuniti in un’abitazione al limite sud-occidentale della città, molto vicini al palazzo del sommo sacerdote. Più avanti verrà esaminata l’ipotesi che qui anticipiamo - e che è stata formulata inizialmente da Reimarus, e successivamente sviluppata da Eisler e da Brandon - in base alla quale, in quella particolare circostanza, i seguaci di Gesù sarebbero stati impegnati a preparare un atto di forza nei confronti del presidio romano e delle autorità ebraiche, per trascinare in una grande rivolta messianica il popolo convenuto a Gerusalemme in occasione della festività. Con questi presupposti, possiamo facilmente immaginare come la celebre ultima cena debba essere stata un momento carico di tensione e gravido di pericoli incombenti. Giuda, a un certo punto, si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato, piantando tutti in asso. Per la seconda volta, dal momento che un gesto simile lo aveva già compiuto qualche giorno prima in occasione della cena di Betania, quando lo stesso Giuda si era allontanato per trattare coi sacerdoti la consegna di Gesù. Tutto fa pensare che ora l’uomo avrebbe raggiunto i sacerdoti del Tempio, come convenuto, per rivelare i piani della sommossa: nella notte i congiurati si sarebbero raccolti sul Monte degli ulivi, fuori dalle mura, sul lato nord-orientale della città. In altre occasioni il Monte degli ulivi fu effettivamente utilizzato come punto strategico per i rivoltosi che volevano attaccare la torre Antonia (la sede del presidio romano, situata su uno dei quattro angoli del Tempio). Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, per esempio, ci testimonia di un certo falso profeta egiziano:

«Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatosi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che si erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al Monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l’aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco, affrontandolo con i soldati romani e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l’egiziano riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero”.

Dunque questo tentativo fu sventato in partenza e tutto fa supporre che, anche questa volta, la causa sia stata un tradimento: altrimenti, come avrebbe fatto il procuratore Felice a prevenire l’attacco?
Ma torniamo a Cristo e ai suoi seguaci; a un certo punto il gruppo si sarebbe trasferito, in piena notte, nell’orto del Gethsemani, che il nome ebraico ci indica come un frantoio situato sul Monte degli ulivi. Si trattava di un semplice ritiro di preghiera? Così vuole la narrazione evangelica, il cui senso lascia trasparire l’idea che Gesù, consapevole del proprio destino, stesse semplicemente aspettando di essere arrestato. Se non che molte cose fanno sorgere almeno il dubbio che la redazione dei nostri Vangeli sia stata caratterizzata proprio dalla necessità di estraniare la figura di Cristo e dei suoi seguaci da ogni legame con la lotta dei partigiani jahvisti. Comunque sia, la tradizione ci racconta che nel profondo silenzio di quella notte primaverile, in cui faceva sicuramente freddo, si udirono improvvisamente strani rumori e si videro delle luci che si avvicinavano. La prima cosa che viene da domandarsi è questa: se le autorità ebraiche avessero voluto arrestare Gesù semplicemente per la sua scarsa ortodossia religiosa, e non per sventare la rivolta messianica, per quale ragione avrebbero dovuto dipendere dalla complicità di un traditore? Chissà quante altre volte il profeta si era trovato in una posizione vulnerabile in cui non c’era alcun bisogno della mobilitazione notturna di un distaccamento di soldati. Assai spesso si spiega il fatto dicendo che Gesù non poteva essere arrestato mentre predi cava alla folla, per evitare sommosse; bisognava prenderlo da parte, magari di notte, nella solitudine. E allora perché tutto quel dispiegamento di forze? La tradizione, in generale, non insiste nel precisare questo dettaglio: tutti hanno in mente l’immagine di un’accozzaglia più o meno disordinata di gente convenuta per catturare Gesù, nient’altro. Eppure il quarto Vangelo parla di cohortem, nel testo latino, dandoci una chiara indicazione del fatto che, oltre alle guardie del Tempio, era intervenuta un’intera coorte di soldati romani la quale, in base alle nostre conoscenze, era un corpo composto da seicento uomini! Non ne bastavano una ventina? Contro cosa era realmente mobilitata tutta questa forza? C’è poi un’altra questione: per quale ragione Giuda avrebbe dovuto indicare il Maestro con un segno convenuto? Non si trattava certo di uno sconosciuto mai visto da quelle parti. Anzi, alcuni giorni prima era entrato in città in mezzo a un tripudio di folla acclamante al figlio di Davide, il re dei giudei; poi aveva partecipato a discussioni con i sacerdoti, in materia di teologia e di giustizia; aveva addirittura inscenato un clamoroso gesto nei confronti dei cambiavalute, nell’area
esterna del Tempio; se queste cose sono vere, possiamo dire che era diventato la personalità del momento, a Gerusalemme e nessuno avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo. In realtà il ruolo di Giuda, a ben riflettere, non dev’essere stato di indicare il personaggio con un segno convenuto, bensì di avvertire i sacerdoti sul momento in cui la sommossa stava per essere messa in atto, al fine di cogliere i rivoltosi di sorpresa e di stroncare il tentativo. Soltanto così può spiegarsi perché i sacerdoti aspettassero un segno dal traditore e perché fosse intervenuto un vero e proprio esercito.
Ciò che raccontano i Vangeli sulla drammatica notte fra il giovedì e il venerdì di Passione lascia trasparire un’evidenza: i seguaci di Cristo hanno effettuato un tentativo di resistenza armata. Lo stesso Marco, il più rigoroso degli evangelisti nell’evitare ogni riferimento alle spade, che invece troviamo negli altri testi, dice in breve:

«Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l’orecchio».

Il Vangelo secondo Matteo vuole estraniare Gesù da un tale comportamento violento e gli mette in bocca parole di duro rimprovero contro il suo focoso difensore.
Il Vangelo secondo Luca non si contenta: addirittura Gesù compì un altro miracolo, riattaccando l’orecchio al povero malcapitato. Tali differenze si presentano fin troppo chiaramente come un crescendo apologetico, motivato da quella che sarebbe stata la preoccupazione primaria degli evangelisti: cancellare, per quanto possibile, i riferimenti che legano il movimento cristiano primitivo con la lotta messianica. Anzi, poiché di tale preoccupazione dei redattori neotestamentari
parleremo spesso, sarà bene darle un nome fin dall’inizio: la chiameremo «intento di spoliticizzazione». Nonostante ciò, tutti e quattro i Vangeli ci testimoniano il fatto che i seguaci di Cristo, nella loro riunione sul Monte degli ulivi, avessero delle armi. Eppure, stando all’immagine tradizionale, doveva trattarsi del ritiro pacifico di uomini che avevano appena terminato di partecipare al banchetto pasquale. In realtà lo stesso Luca racconta che, al termine della cena, prima di raccogliersi sulla collina fuori dalle mura della città, Gesù si era raccomandato nei confronti di chi era sprovveduto di armi, perché se le procurasse. Il quarto Vangelo aggiunge un’importante rivelazione: l’autore del clamoroso gesto di spada è Simon Pietro, mentre Malco, servitore del sommo sacerdote Caifa, ne è la vittima. Ci si presenta dunque un’immagine di Pietro davvero sorprendente: aveva veramente un’arma e non si faceva scrupolo di usarla. In questo passo il semplice pescatore del lago di Tiberiade, divenuto discepolo del rabbì Gesù, appare come un fuorilegge che affronta con la spada sguainata le guardie mandate dai sacerdoti. Ma chi era questo Simone, l’apostolo detto Pietro? Soffermiamoci, a tale proposito, su un particolare che può offrire degli indizi più significativi sulla personalità di colui che la tradizione vuole primo nella lista dei pontefici della Chiesa. C’è un passo nel Vangelo secondo Matteo in cui Gesù si rivolge a Pietro nei seguenti termini: «Simone, figlio di Giona» Questo, però, è ciò che leggiamo nelle traduzioni moderne, che non rispettano affatto il senso di ciò che era scritto originariamente nei testi antichi. Infatti, se un ginnasiale dovesse tradurre in greco quella breve espressione, scriverebbe sicuramente[Simon o uios Iona], mentre il testo greco del Vangelo di Matteo porta l’espressione [Simon bar Iona]. «Figlio di» è reso con bar, termine aramaico, invece che con uios, termine greco.Perché? Quante volte un personaggio della narrazione è definito «figlio di...»? Molte. E tutte le volte, puntualmente, il testo greco usa il termine uios. Senonché, nei manoscritti antichi del Vangelo di Matteo, non compare nemmeno [Simon bar Iona], ma [Simon Bariona], con una parola intera. A questo punto sarà interessante sapere che in aramaico, la lingua parlata in Palestina al tempo di Cristo, al posto dell’ebraico dotto della Bibbia, il termine barjona significava «combattente, partigiano, latitante..» Non dunque «Simone figlio di Giona” ma «Simone il partigiano».
Abbiamo così scoperto un espediente con cui trascrittori e traduttori hanno tentato di nascondere una verità compromettente: il fatto che Simone fosse a sua volta uno zelota, chiamato col soprannome di battaglia «Cefas», che significa «macigno» o «pietra», avvezzo a portare la spada e a usarla. E’ un meccanismo di censura che non ci deve meravigliare, coerentemente con l’intento di spoliticizzazione che è stato applicato numerose altre volte; per esempio nel caso dell’altro Simone apostolo, quello che i Vangeli di Marco e Matteo definiscono cananeo. I redattori dei testi evangelici, che li hanno composti in greco, hanno voluto far credere che quel titolo significasse semplicemente «proveniente dalla terra di Canaan» o «della città di Cana»; approfittando del fatto che i destinatari dello scritto, ignari della lingua aramaica, non sapevano che qanana, nell’idioma semitico degli ebrei, significa «zelota», sinonimo dell’altro termine che già abbiamo visto: barjona. Il Vangelo secondo Luca risolve definitivamente la questione, perché nel suo elenco degli apostoli inserisce il discepolo Simone soprannominato zelota. Sono queste dimostrazioni evidenti del fatto che alla cerchia degli apostoli di Cristo appartengono zeloti e partigiani. E non ne mancano altri.
L’apostolo Taddeo, in alcune antiche versioni del Vangelo, è definito [Ioudas zelotes]. E’ importante notare che il nome con cui conosciamo abitualmente questo personaggio è, in realtà, soltanto un titolo; dal momento che in ebraico Taddeo non è un nome proprio, ma un aggettivo che significa «coraggioso»: un altro significativo soprannome partigiano. Gli evangelisti, o i revisori dei testi, hanno cercato di snaturare le identità di queste persone, presentandole con nomi diversi da quelli più compromettenti, utilizzando i soprannomi, che però non venivano tradotti. Un caso praticamente identico è quello di Tommaso; anche questa volta abbiamo solo il soprannome, [Thomas], traslitterazione del sostantivo ebraico toma, che significa «gemello». Infatti il vero nome di questo apostolo, riconosciuto anche dall’interpretazione cattolica, è Giuda: «Giuda detto il gemello», del quale alcuni manoscritti antichi portano la compromettente variante [qanana = zelota]. I soprannomi partigiani, dei quali spesso si capisce il significato soltanto se li si analizza attraverso la lingua aramaica, sono stati presentati qualche volta come innocui nomi propri; altre volte, invece, come nel caso dei fratelli Giacomo e Giovanni apostoli, sono stati conservati a fianco del nome: boanerghes, cioè «figli del tuono». Ma anche in questo caso è interessante notare un particolare poco conosciuto: i figli del tuono, nelle versioni moderne del Vangelo, sono solo i due che abbiamo nominato, mentre antiche versioni del Vangelo di Marco affermano che anche Pietro, come tutti gli altri apostoli, era definito «figlio del tuono»; un altro elemento a favore dell’interpretazione secondo cui Simone sarebbe stato un combattente jahvista. Queste constatazioni hanno ovviamente un’importanza in sé, ma ci permettono anche di individuare uno specifico piano di censura, inteso a cancellare sistematicamente ogni riferimento all’impegno messianico dei discepoli di Gesù: esse ci offrono, quindi, un utile e inequivocabile indirizzo interpretativo. Alla luce delle considerazioni qui esposte, cominciano ad assumere determinati significati le spade, il gesto di Simone e anche l’indietreggiare e cadere per terra dei soldati intervenuti per eseguire l’arresto - di cui troviamo testimonianza nel quarto Vangelo. Spesso i redattori evangelici parlano di profezie che devono avverarsi; Gesù, per esempio, dice; «Lasciate che mi arrestino, altrimenti come potrà avverarsi la scrittura?» In effetti, tutto il racconto della Passione è gremito di riferimenti alle profezie, al punto che questa sembra essere stata una preoccupazione costante, quasi un’ossessione degli evangelisti. Emerge in tal modo un altro piano interpretativo dei meccanismi della composizione evangelica, finalizzata a dimostrare come Gesù fosse il destinatario delle profezie bibliche riguardanti l’atteso messia. Ma a questo riguardo, vi sono numerose contraddizioni. perché, da un lato, si è cercato di cancellare ogni riferimento al movimento messianico e, dall’altro, si è voluto rafforzare il legame fra Gesù e le profezie messianiche? La contraddizione riflette molto bene il clima di tensioni politiche, sociali e religiose, in cui si trovavano coloro che scrissero i Vangeli: da un lato essi dovevano «purgare” la figura di Cristo dal suo ruolo rivoluzionario, di combattente dell’indipendenza nei confronti del potere imperiale (non si dimentichi che il Vangelo di Marco è stato scritto a Roma, all’indomani del ritorno di Tito da una terribile guerra che aveva visto la disfatta degli ebrei); dall’altro lato essi dovevano riscattare il fallimento messianico di Cristo (gli ebrei si aspettavano che il vero messia fosse un trionfatore, come Davide, non uno sconfitto). Un messia non-messia dunque; destinatario delle profezie messianiche, ma estraneo alla lotta messianica. I passi che descrivono l’arresto forniscono preziose indicazioni sulle persone intervenute, e sullo scopo dell’operazione medesima. Il quarto Vangelo parla di un distaccamento con il comandante (cohors ergo, et tribunus), confermando il fatto che si trattava di un grosso corpo di soldati romani. E ciò conferma che deve essersi trattato proprio di un arresto voluto ed effettuato dai romani; i quali, naturalmente, non avrebbero certo scomodato in piena notte un’intera coorte per arrestare un pacifico predicatore, la cui unica colpa fosse stata di essere inviso ai sacerdoti del Tempio e di avere bestemmiato Jahvè, facendosi chiamare «figlio di Dio». E’ piuttosto verosimile che i romani intervennero con tanta forza solo perché intendevano reprimere un tentativo di rivolta messianica. I tre Vangeli sinottici avevano fatto il possibile per censurare alcune caratteristiche dell’arresto; la loro «folla con spade e bastoni» sembrerebbe composta solo di guardie ebraiche e servi del sommo sacerdote, mentre l’autore del Vangelo di Luca, in un eccesso di ispirazione, fa presenziare all’arresto gli stessi sommi sacerdoti e gli anziani: il Sinedrio al completo. Nonostante il loro tentativo di denaturare l’episodio, gli evangelisti ci hanno lasciato capire che in quel momento stava per accadere qualcosa di talmente grave che, non appena il traditore ebbe avvertito le autorità, nella notte della preparazione della Pasqua (un tempo di grande devozione, rispetto e proibizioni), un’intera coorte romana e tutte le guardie del Tempio sarebbero intervenute per catturare Gesù.
[SM=x44515]

Che ne pensate? la storia è ancora lunga, ne ho scannerizzato solo un brano, però è interessante, no? dopo anni di letture su questi temi non ho più certezze, eccetto una: che la Chiesa da 2000 anni racconta tante b[SM=x44474] [SM=x44501]

Ah, il libro è quello di Donnini di cui ho postato un altro brano "in evidenza" [SM=x44450]

[Modificato da Nikki72 07/11/2006 16.58]

[Modificato da Nikki72 08/11/2006 10.18]

[Modificato da Nikki72 08/11/2006 10.18]

[Modificato da Nikki72 08/11/2006 20.58]

Nikki72
00mercoledì 8 novembre 2006 10:14
Re:
IL PROCESSO A GESU’
Ecco dunque il Sinedrio al completo, riunitosi nel profondo della notte, per esaminare l’uomo che era stato appena tratto in arresto. Confrontando le notizie fornite dai Vangeli possiamo notare che esse sono assai poco convergenti sulla data, sull’ora e sul luogo. Due degli evangelisti, secondo la tradizione, dovrebbero essere apostoli di Gesù, e come tali testimoni oculari dei fatti narrati, ma sembra che non ricordino bene neanche le cose più essenziali: per Marco e Matteo i fatti si sarebbero svolti nella notte fra il giovedì 14 del mese di Nisan (vigilia di Pasqua) e il venerdì 15 (Pasqua), nella casa del sommo sacerdote Caifa; per Luca si sarebbe trattato del mattino del venerdì 13, sempre nella casa del sommo sacerdote Caifa; per il quarto evangelista si sarebbe trattato della notte fra il giovedì 13 (antivigilia di Pasqua) e il venerdì 14 (vigilia di Pasqua), non nella casa di Caifa, ma in quella dell’ex sommo sacerdote Anna. Come possiamo notare facilmente attraverso i confronti sinottici, il quarto Vangelo si differenzia non solo per le coordinate spazio-temporali, ma anche per il fatto che la situazione descritta non configura un processo, con tanto di testimoni e di verdetto finale. Eppure la tradizione cattolica considera come autore di questo testo l’apostolo Giovanni, identificato nella persona dell’anonimo discepolo che avrebbe introdotto Simone nel cortile del Tempio. I fatti sono due: se è vero che Giovanni, apostolo prediletto da Gesù, è stato testimone delle vicende di cui parla nel suo Vangelo, allora è dimostrato che i Vangeli sinottici appartengono a una tendenza interpretativa basata su una presentazione dei fatti non fedele alla verità storica; se invece la narrazione sinottica è coerente con quanto realmente avvenuto, allora non è vero che l’autore del quarto Vangelo fosse l’apostolo prediletto, né che costui fosse un personaggio introdotto nel Tempio, noto al sommo sacerdote e che avrebbe avuto per questo motivo la possibilità di essere testimone della vicenda. In ogni caso i Vangeli sono abbastanza d’accordo nel presentare un Gesù che, sicuramente legato, era stato portato al cospetto di anziani e scribi, nonché di persone pronte ad accusarlo. Oltre alle discordanze di tempo e di luogo, che abbiamo appena visto, numerosi studiosi hanno elencato una consistente lista di obiezioni riguardanti le irregolarità del presunto processo. Giustificare tutto ciò con la scusa che gli evangelisti, non essendo stati testimoni oculari, si sarebbero lasciati scappare qualche perdonabile imprecisione, è una tesi insostenibile. Non si tratta di «imprecisioni». Questa tesi, anziché scusare, depone esattamente a favore del contrario di ciò che vorrebbe difendere: perché delle persone che non hanno assistito ai fatti ci avrebbero trasmesso dettagli che solo i testimoni oculari avrebbero potuto conoscere? E perché, pur essendo venuti a conoscenza di questi dettagli riguardo alle cose accadute nella casa di Caifa, avrebbero dimenticato gli aspetti più macroscopici: giorno, ora, luogo e, addirittura, le
più elementari consuetudini della prassi giuridica ebraica? Non solo il racconto non dà l’impressione di testimoniare un fatto realmente accaduto così come è narrato, ma lascia chiaramente intuire che chi l’ha redatto non era nemmeno un ebreo e non aveva alcuna familiarità con i costumi e le abitudini ebraiche. Lo studioso W. Fricke ha fornito un elenco di nove contestazioni di irregolarità fra le quali l’illegalità di un processo celebrato nella preparazione della festa; di notte; in località diversa dall’apposito tribunale detto Beth Din; la sentenza di morte pronunciata in quelle condizioni, in base a una confessione estorta, o comunque non regolare. A mio parere la preoccupazione fondamentale dei redattori dei Vangeli sinottici era di mostrare che la morte di Cristo era stata voluta principalmente dagli ebrei: per questo essi avrebbero letteralmente inventato un processo ebraico che, nella realtà, non è mai esistito. II racconto ci testimonia di una certa difficoltà, da parte dei sinedriti, a formulare un preciso capo d’accusa cui potesse seguire un verdetto di morte. Sarebbero stati chiamati testimoni diversi che non avrebbero raggiunto lo scopo; nemmeno le domande rivolte a Gesù avrebbero portato a qualche risultato, dal momento che l’accusato si era rifugiato nel silenzio. A un certo punto lo stesso Caifa sarebbe intervenuto, col preciso scopo di sbloccare la situazione: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio?», avrebbe chiesto al prigioniero. Caifa sapeva che il titolo attribuito all’imputato dai suoi seguaci era mashiah Jeshu bar Abbà (che in latino è reso dall’espressione Christus, filius Patri e in italiano da «Gesù Cristo, figlio del Padre (o di Dio)”. Penso che sia interessante sapere che l’espressione «Figlio di Dio» corrisponde all’aramaico bar Abbà (letteralmente “figlio del Padre»), così straordinariamente somigliante, per non dire identico, al nome Barabba. In effetti, come tutti sanno, agli ebrei non è consentito pronunciare il nome del Signore, reso per scritto dal tetragramma JHWH, e che tale tabù è talmente tassativo che nessuno conosce quale fosse anticamente la corretta pronuncia di quel nome. E’ per questo motivo che i sostitutivi erano numerosi e necessari, cosicché Dio veniva chiamato Eloah, Adonai, Abbà… In particolare, il termine «Abbà» sembra essere stato quello preferito da Gesù e dai suoi seguaci, dal momento che «Padre» ricorre nella narrazione evangelica più spesso di «Dio»: «Abbà, Padre! Tutto è possibile per te». Gli evangelisti hanno sicuramente giocato in maniera equivoca sull’espressione bar Abbà, proponendola nella forma [Barabba], così come altre volte hanno giocato sulle espressioni barjona, nazoraios, cananites o sui nomi «Tommaso», «Taddeo» ecc. Stando a quanto ci dicono i Vangeli sinottici, Gesù, alla domanda rivoltagli da Caifa, cessando finalmente il suo silenzio avrebbe risposto affermativamente: «Tu stesso lo dici, io sono il Cristo, il bar Abbà [cioè il Figlio di Dio]» - continuando con una citazione dalle Scritture. E, con questo, si sarebbe giocato la vita. Allora, recitando il copione dello scandalo, Caifa si sarebbe strappato le vesti di dosso, gridando ai presenti: «Ha bestemmiato! Non abbiamo bisogno di altre testimonianze; come si pronuncia questo Sinedrio?» E i presenti, come se si fossero completamente dimenticati che le sentenze di morte dovevano essere pronunciate almeno ventiquattro ore dopo l’interrogatorio, avrebbero risposto: «E’ reo di morte!” Le contraddizioni si sommano alle contraddizioni, perché mentre Marco e Matteo parlano di sentenza unanime, Luca testimonia l’esistenza di dissensi sul verdetto, quando parla di «Giuseppe, membro del Sinedrio, persona buona e giusta: non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri» E, in base a quanto possiamo dedurre dal quarto Vangelo, si direbbe che anche «un uomo chiamato Nicodemo, un capo dei Giudei» avesse dissentito dal verdetto, dal momento che insieme a Giuseppe partecipò al recupero della salma e alla sepoltura del giustiziato. Volendo dunque sintetizzare ciò che abbiamo visto, per quanto riguarda la versione sinottica, dobbiamo dire che i Vangeli parlano di uno strano processo improvvisato per direttissima, in condizioni di estrema urgenza e di totale irregolarità, nel quale viene contestato un reato religioso contro la legge ebraica, la bestemmia, e viene pronunciata una sentenza di morte. Nel quarto Vangelo, come abbiamo già accennato, le cose sono totalmente diverse: oltre alla diversità di luogo e di data, la situazione è completamente cambiata. Gesù non è rinchiuso nel mutismo, bensì parla e replica alle domande del sommo sacerdote. Che significa? Anche Caifa si trovava nella casa di Anna? Le cose non si spiegano molto bene, anche perché il testo aggiunge che, al termine dell’interrogatorio, «Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote», dove «intanto Simon Pietro stava là a scaldarsi”. Dobbiamo allora dedurre che, nel momento in cui Gesù fu introdotto nella casa del sommo sacerdote, Simone era già entrato nel cortile, grazie all’aiuto del discepolo noto allo stesso sommo sacerdote. Non è assolutamente possibile! Tutti i Vangeli, compreso il quarto, affermano che Simone era entrato nel cortile della casa di Caifa dopo che Gesù vi era stato portato, non prima. Ci stiamo imbattendo in una interminabile serie di contraddizioni dalle quali possiamo cominciare a trarre alcune conclusioni: si fa verosimile non solo il fatto che g1i autori di queste narrazioni non siano i testimoni oculari di ciò che scrivono, ma anche che molto di ciò che i raccontato sia totalmente falso; che sia una presentazione dei fatti finalizzata non alla cronaca storica, ma alla dimostrazione di presupposti catechistici fra i quali, ad esempio, la colpa degli ebrei nei confronti della morte di Gesù. L’azione che viene condotta nei confronti di Gesù, nella casa di Anna, non si configura affatto come un processo nel quale intervengono testimoni; si tratta di un semplice interrogatorio «riguardo ai suoi discepoli o alla sua dottrina» che non si conclude con la formulazione di alcun verdetto né, tanto meno, di una condanna a morte. Pertanto le differenze fra la cronaca sinottica e quella giovannea sono così sostanziali da far apparire le due situazioni quasi come distinte: non potrebbe addirittura trattarsi di due persone diverse, una che ora stata portata in casa di Caifa e l’altra in casa di Anna? Personalmente ritengo, come ho già ricordato, che l’ipotesi più verosimile sia quella secondo cui il processo giudaico non sarebbe stato altro che un’invenzione della tradizione sinottica; il motivo è lo stesso che ha portato i redattori evangelici a modificare le identità di vari personaggi, affinché non fosse chiaro il loro ruolo nelle vicende storiche. E’ questo intento di spoliticizzazione che ha generato il concetto di un processo eseguito dagli ebrei con una condanna a morte voluta dagli ebrei. Una condanna esclusivamente romana avrebbe indicato con troppa chiarezza il motivo del procedimento contro Gesù: il reato di sovversione contro il dominio imperiale. In questo modo, invece, Gesù appare colpevole esclusivamente di un reato religioso contro la legge ebraica: avere bestemmiato per essersi dichiarato pubblicamente bar Abbà, figlio di Dio; e l'accusa politica apparirebbe semplicemente come la scusa con cui gli ebrei avrebbero convinto i romani a giusiziare il predicatore. Sempre a sostegno dell’intento di spoliticizzazione e di responsabilizzazione dei giudei, gli evangelisti sinottici inseriscono la narrazione degli oltraggi che Gesù avrebbe subìto durante la sua ferma nelle mani dei sinedriti. L’aspirante alla carica di re dei giudei, Messia di Israele, personaggio che nella concezione esseno-zelota era secondo soltanto al Messia di Aronne, o sommo sacerdote, si trovava nelle mani dei servi e delle guardie che gli sputavano addosso e lo schernivano con calunniose percosse. Ora, l’espressione «Indovina, Cristo!” lascia capire molte cose: nel momento in cui Gesù subiva quei maltrattamenti, la nuova idea cristiana di un messaggio totalmente spoliticizzato e degiudaizzato, che non avesse niente a che fare con la salvezza politica di Israele, ma solo con quella spirituale di tutto il genere umano, non era stata ancora formulata; pertanto i giudei, nel calunniare l’accusato chiamandolo «Cristo», non potevano riferirsi ad altro che al concetto tradizionale di messia, quello di liberatore di Israele dai suoi nemici pagani. Ed è proprio perché Gesù appariva ai loro occhi come un messia fallito che essi lo schernivano pesantemente.

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[Modificato da Nikki72 08/11/2006 20.49]

texdionis
00mercoledì 8 novembre 2006 18:29
interessante non c'è dubbio [SM=x44500]

un suggerimento tecnico: forse dovresti provare a spezzare l'argomento in più post, una simile lunghezza in un solo post potrebbe scoraggiare molti
Etrusco
00mercoledì 8 novembre 2006 20:19
Re:

Scritto da: texdionis 08/11/2006 18.29
interessante non c'è dubbio [SM=x44500]

un suggerimento tecnico: forse dovresti provare a spezzare l'argomento in più post, una simile lunghezza in un solo post potrebbe scoraggiare molti



no, sarebbe sufficiente evidenziare in grassetto i passi salienti [SM=x44458]

Ottimo materiale, comunque [SM=x44515] [SM=x44485] [SM=x44462]
-Asmodeus-
00mercoledì 8 novembre 2006 20:31
Re: Re:

Scritto da: Nikki72 08/11/2006 10.14
IL PROCESSO A GESU’
[...] E’ questo intento di spoliticizzazione che ha generato il concetto di un processo eseguito dagli ebrei con una condanna a morte voluta dagli ebrei. Una condanna esclusivamente romana avrebbe indicato con troppa chiarezza il motivo del procedimento contro Gesù: il reato di sovversione contro il dominio imperiale. In questo modo, invece, Gesù appare colpevole esclusivamente di un reato religioso contro la legge ebraica: avere bestemmiato per essersi dichiarato pubblicamente bar Abbà, figlio di Dio; e l'accusa politica apparirebbe semplicemente come la scusa con cui gli ebrei avrebbero convinto i romani a giusiziare il predicatore. [...]



"Allora uno dei Dodici, quello chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti e disse: Quanto volete darmi perchè io ve lo consegni? Essi stabilirono trenta denari d'argento. Da quel momento cercava l'occasione propizia per consegnarlo."

Questo versetto di Matteo è senza dubbio la testimonianza più emblematica del tradimento di Giuda, in cui sono contenuti tutti gli elementi per un'ipotesi di ricostruzione indiziaria.
In effetti dall'evangelista possiamo trarre alcune indicazioni importanti:

- sembrerebbe che Giuda si sia recato dai sacerdoti spontaneamente
- domandò ai sacerdoti quale compenso meritasse il suo tradimento
- i sacerdoti stabilirono il prezzo, "trenta denari d'argento"
- da quel momento la macchina della congiura era stata avviata, si cercava solo l'occasione propizia per effettuare l'arresto.

Quella di Matteo è la testimonianza più dettagliata, infatti gli altri Evangelisti sono meno precisi: Marco e Luca lasciano intendere, come Matteo, che Giuda si rivolse spontaneamente ai sacerdoti, si limitano però a indicare solo l'intenzione dei notabili giudei di offrire del denaro al traditore, senza indicare l'ammontare del compenso: "si rallegrarono e promisero di dargli del denaro"; "essi ne furono contenti e convennero di dargli del denaro".
Più stringata è la testimonianza di Giovanni che, in occasione del rito della lavanda dei piedi, ricorda: "il diavolo aveva già posto in animo a Giuda Iscariota di tradirlo".
Secondo Matteo e Marco, Giuda si rivolse ai sacerdoti quando Gesù si trovava ancora a Bethania, mentre Luca e Giovanni, senza offrire elementi indicativi precisi sul momento in cui "Satana entrò in Giuda", lasciano intendere che l'incontro con il Sinedrio ebbe luogo non molto tempo dopo l'ingresso trionfale a Gerusalemme.

L'Iscariota comunque incontrò i sacerdoti e ne uscì con il preciso compito di consegnare il suo Maestro al potere costituito ebraico. Che cosa però accade nella casa dei depositari della Legge, resta un mistero: un momento oscuro che può essere immaginato in tutte le sue sfaccettature, ma destinato a non andare oltre il limite dell'illazione.
Chi non ammette l'esistenza di questo mistero concorre a privare il tradimento di Giuda proprio di quell'apparenza realistica che finì per imporsi nella versione storica. Il misterioso, che rasenta quasi il miracoloso, consiste appunto nel fatto che Giuda riuscì a farsi ricevere e a ottenere l'incarico!
Senza dubbio, all'apparenza dei fatti, la collaborazione di Giuda non sembrerebbe così determinante al fine di un intervento giuridico contro Gesù. Infatti:

- di certo Giuda aprì una porta già sfondata, perchè è indubbio che da parte dei sacerdoti vi era l'intenzione di catturare il Messia
- anche l'invito a scegliere un'occasione sicura, senza incorrere nelle eventuali reazioni popolari, certo non c'era bisogno di sentirselo dire da Giuda: possiamo immaginare che il "servizio segreto" del Sinedrio avesse modo di controllare quel predicatore in tutti i suoi spostamenti
- inutile anche la possibilità di disporre tra i discepoli di un informatore che indicasse con un bacio il soggetto da arrestare, vista la nototietà di quest'ultimo

Davanti a queste semplici constatazioni, sembrerebbe del tutto inutile l'intervento di Giuda, che si poneva come un collaboratore di cui si poteva fare a meno, in quanto il suo contributo alla vicenda - sulla base delle informazioni in nostro possesso - sembrerebbe del tutto superficiale.
Allora perchè i sacerdoti accettarono di pagare trenta denari una collaborazione inutile? forse perchè l'Iscariota disse qualcosa di fondamentale, offrendo una preziosa indicazione del tutto nuova anche per il Sinedrio. quale?
Sappiamo che i sacerdoti "si rallegrarono": segno in grado di lasciar presupporre, dietro l'incontro, l'esistenza di un contatto utile, forse determinante per aumentare il patrimonio di conoscenze possedute dai sinedriti. A questo punto i casi sono due:

- Giuda inventò un'accusa straordinaria, destinata a sorreggere con nuova forza tutta l'impalcatura della congiura ordita contro Cristo: ma in questo caso non si capisce perchè la "prova" non fu usata in occasione del processo (o forse era quella del tributo da pagare a Cesare?)
- Giuda disse ai sacerdoti ciò che essi non conoscevano e cioè che Gesù era effettivamente il Figlio di Dio, il Re dei Giudei, sorprendendo così gli interlocutori

Il secondo punto suggerisce che Giuda abbia condotto davanti al Sinedrio un'autentica apologia del suo Maestro, convincendo i depositari del culto anche attraverso un'esasperazione della missione escatologica di Cristo, che in modo poco dogmatico i sacerdoti interpretarono come una prospettiva colma di minacce per il futuro imminente.
Se osserviamo i fatti da questo punto di vista, Giuda risulta quasi strumento "politico" impegnato a valorizzare la missione di Cristo e posto così in diretto contrasto con il modello di "ebreo archetipale" al quale è stato legato. Da questo punto di vista, Giuda non risulterebbe un individuo privo di valori e solamente chiuso nella sua forsennata ricerca di beni materiali, ma un seguace di Cristo, ben consapevole della sua opera. Cristo, di stirpe davidica, Re dei Giudei, che muore come un uomo sulla croce, in un certo senso "tradiva" Giuda, il quale ne aveva sostenuto la divinità.

Insomma, analizzando le fonti il mistero si fa sempre più fitto... [SM=x44466]

[Modificato da -Asmodeus- 08/11/2006 20.40]

cuerpo de marrano
00domenica 11 febbraio 2007 17:42
Insomma potremmo rileggere e reinterpretare i 4 vangeli.
Non avevo mai riflettuto ad esempio che il campo degli ulivi fosse una collina in posizione strategica per un'eventuale azione militare di questi zeloti ribelli.
In effetti perchè i romani mandano un'intera coorte di soldati, circa 500 uomini, per arrestare solo 12 apostoli e un predicatore pacifico senza armi?
[SM=x44473]
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