Iraq, la guerra è finita?

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fabius039
00lunedì 19 dicembre 2011 01:04
Senza tanto clamore partono gli ultimi soldati americani, ma..

Iraq: partiti ultimi soldati Usa
Il 20 marzo 2003 le forze americane erano entrate in Iraq per deporre il dittatore Saddam

18 dicembre, 20:23




Alle prime luci dell'alba, l'ultima colonna di mezzi blindati con la bandiera degli Stati Uniti e con a bordo circa 500 soldati americani ha attraversato il confine iracheno-kuwaitiano, in mezzo al deserto, chiudendo cosi' definitivamente l'operazione 'Iraqi Freedom', liberta' per l'Iraq: nove anni fa l'allora presidente George W. Bush l'aveva lanciata, affermando che gli Usa non avrebbero accettato ''altro che la vittoria''.

Senza informare i loro interlocutori iracheni, per motivi di sicurezza, gli ultimi soldati americani in Iraq si sono messi in viaggio, quasi in silenzio, che era ancora notte fonda. Sono partiti dalla Base Adder, che ora si chiamera' Base Imam Ali, nei pressi di Nassiriya; l'ultima delle 505 basi di cui gli Stati Uniti hanno potuto disporre in questi anni in cui sono arrivati ad avere in Iraq fino a un massimo di 170 mila soldati. Probabilmente, gli 'ultimi 500' arriveranno a casa ''entro le feste di fine anno'', come aveva annunciato il presidente Barack Obama, che come aveva promesso in campagna elettorale ha chiuso la guerra a cui era sempre stato contrario. E che e' costata la vita a circa 4.500 soldati americani e a centinaia di migliaia di iracheni; oltre a quasi mille miliardi di dollari. La ''decisione iniziale'' di scatenare il conflitto, ha detto Obama, ''sara' giudicata dalla storia'', ma intanto, gli iracheni si trovano ora a fare i conti con il presente, che non e' dei piu' rassicuranti. Certo, la violenza e' negli ultimi tempi andata calando. A Baghdad e negli altri centri del Paese non esplodono piu' diverse autobomba ogni giorno, ma le tensioni interconfessionali rimangono forti, anche a livello politico, e tutto puo' precipitare nuovamente, molto in fretta.

E in questo caso, a cercare di arginare la violenza ci saranno circa 900 mila uomini delle forze di sicurezza irachene il cui addestramento ed equipaggiamento e' ancora lungi dall'essere stato completato. Diversi leader tribali sunniti, in particolare nelle turbolente province di al Anbar, Salaheddine e Diyala, cercano di ottenere una forte indipendenza da Baghdad, cosi' come i leader curdi nel ricco Nord petrolifero del Paese sono sempre piu' lontani dal governo centrale a grande maggioranza sciita, che deve peraltro fare i conti anche con aspre divisioni all'interno della sua stessa maggioranza. Ancora ieri, il partito al Iraqiya, che finora ha sostenuto il premier Nuri al Maliki e che ha 89 deputati, ha sospeso la sua partecipazione ai lavori parlamentari. E nonostante il Paese abbia ripreso ad esportare circa 2,2 milioni di barili di petrolio al giorno, incassando cosi' un notevole flusso di miliardi di dollari, i servizi per la popolazione sono ancora molto scarsi, con l'elettricita' che a Baghdad e nelle maggiori citta' viene quotidianamente erogata solo per alcune ore di seguito.

Il giudizio finale spetta alla storia, ha concordato oggi il New York Times, aggiungendo pero' che sara' un giudizio ''contaminato per sempre dagli iniziali passi falsi e errori di calcolo, dall'errata intelligence sui programmi di armamento di Saddam Hussein e i suoi presunti legami con i terroristi, e da una litania di abusi americani, dallo scandalo delle torture nella prigione di Abu Ghraib, alla sparatoria che ha coinvolto i contractor della Blackwater in cui sono morti civili. Una somma di penosi fattori che ha ridotto la posizione degli USA nel mondo islamico, e il loro potere di influenzare gli eventi in tutto il mondo''. Chissa' se pensava a tutto questo il sergente Rodolfo Ruiz, che appena giunto in Kuwait ha detto ai suoi uomini: ''Ehi ragazzi, ce l'avete fatta!''. E poi, ha ordinato loro di non suonare il clacson o fare giochi con le luci abbaglianti delle loro Humevee.

ANSA
orckrist
00lunedì 19 dicembre 2011 21:59
L'altra faccia della medaglia:

Iraq. Le ombre sul ritiro Usa

di: Ferdinando Calda, f.calda@rinascita.eu



A quasi nove anni dall’invasione, le truppe statunitensi abbandonano l’Iraq. Con la cerimonia dell’ammaina bandiera all’aeroporto di Bagdad, ieri mattina il segretario alla Difesa Usa Leon Panetta ha sancito ufficialmente la conclusione dell’impegno militare statunitense nel Paese.
Spiccano due eventi paradigmatici della situazione nell’Iraq “liberato” dagli Usa: fino all’ultimo la data e la sede della cerimonia sono state tenute segrete per paura di possibili attacchi degli insorti; inoltre alla cerimonia – che teoricamente voleva rappresentare un passaggio di consegne alle forze di sicurezza irachene – non era presente un solo ministro del governo di Bagdad.
Gli ultimi 4mila soldati statunitensi ancora in Iraq lasceranno il Paese entro il 31 dicembre, così come stabilito dallo Status of Forces Agreement (Sofa), l’accordo siglato nel 2008 tra il governo di Bagdad e l’amministrazione Bush, allora a fine mandato. Negli ultimi due anni la Casa Bianca, guidata da Barack Obama, ha cercato in tutti i modi prorogare il Sofa, con l’obiettivo di mantenere nel Paese circa 5mila uomini, ufficialmente con funzioni di addestramento. Ma le trattative con il governo del premier Nouri Al Maliki sono naufragate sull’articolo 12 dell’accordo, che prevede l’immunità giuridica del personale civile e militare statunitense di fronte alla legge irachena. Una misura ritenuta indispensabile da Washington, ma che Al Maliki non è riuscito in alcun modo a far digerire al Parlamento e all’opinione pubblica.
Ad ogni modo, il ritiro dei militari statunitensi non rappresenterà la fine della presenza Usa in Iraq. A Bagdad rimarranno gli almeno 10mila funzionari della mega-ambasciata statunitense, oltre a quelli dei consolati di Bassora e Mosul, affiancati da un esercito di contractors privati destinati alla loro protezione. L’ambasciata Usa a Bagdad è la più grande ambasciata del mondo: una vera e propria città nella città, con propri generatori e pozzi d’acqua autonomi, vasta quasi quanto l’intera Città del Vaticano (42 ettari, contro i 40 dello Stato Pontificio) e sei volte di più del complesso delle Nazioni Unite a New York. Una fortezza protetta da almeno 5mila contractors, che, ovviamente, rimarranno in Iraq anche dopo il 31 dicembre.

I costi della guerra
Durante quasi nove anni di guerra, costati oltre 800 miliardi di dollari, gli Stati Uniti hanno perso quasi 4.500 soldati, mentre 32mila sono tornati in Patria feriti. Ma un prezzo ben più alto lo hanno pagato gli iracheni, civili e non. L’esercito iracheno, ricostruito dopo Saddam, ha avuto più di 16mila caduti.
Cifre che tuttavia non si avvicinano neanche al massacro di civili perpetrato in questi anni e che ancora va avanti. La stima delle vittime civili dal 2003 ad oggi varia dai 100mila ai 115mila, con un picco nel 2006, quando in un solo anno sono morte 27.850 persone.
La violenza diffusa e gli scontri settari tra sunniti e sciiti, inoltre, continuano a mietere vittime. Secondo l’Iraq body count project da gennaio a novembre 2011, 3.578 iracheni sono morti in attentati e scontri di varia natura.

A Falluja si festeggia la “libertà”
Al grido di “ora siamo liberi” e “viva la resistenza”, ieri migliaia di persone sono scese per le strade di Falluja, roccaforte dell’insorgenza anti-Usa 60 chilometri a ovest di Baghdad, per festeggiare il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq. I dimostranti sventolavano bandiere irachene e alcuni di loro mostravano le foto dei militari Usa uccisi e dei blindati statunitensi distrutti durante le due maggiori offensive lanciate contro la città dalle truppe degli Stati Uniti. Dopo essere stati respinti nell’aprile del 2004, pochi mesi dopo 15mila soldati statunitensi attaccarono la città nel centro dell’Iraq, storico feudo sunnita, scatenando una delle più aspre battaglie per l’esercito Usa dai tempi del Vietnam, che costò la vita a 140 militari statunitensi. I morti iracheni furono almeno 2mila. Alcuni di loro, tra cui molte donne e bambini, caddero vittime del famigerato fosforo bianco.
(15 Dicembre 2011)

Fonte


Si ritirano lasciando un esercito di mercen...pardon, contractor che agiranno a propria discrezione, in silenzio ed in completa impunità.
Divertente... [SM=x44465]







fabius039
00venerdì 23 dicembre 2011 00:53
Non si è ancora spento l'eco del rumore dei motori degli aerei che hanno riportato in patria gli ultimi soldati americani, che riesplode il terrorismo.
Alla luce di questi eventi occorre aggiornare il titolo della discussione, aggiungendo un punto di domanda.
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Iraq, catena di esplosioni a Bagdad
Ci sono almeno 60 morti e 160 feriti
Spiccato un ordine d'arresto per il sunnita Tareq al-Hashemi, per presunte attività terroristiche





BAGDAD - Sale a 60 vittime e 160 feriti il bilancio degli attentati avvenuti giovedì mattina a Baghdad. Lo comunica Ziad Tariq, portavoce del ministero della Salute iracheno. Le esplosioni, spiegano gli ufficiali, sono state almeno 14, causate da autobombe, ordigni piazzati su strada o attaccate a veicoli, in 11 diversi quartieri della capitale irachena. Almeno in un caso si è trattato di un attentato suicida.

La peggiore esplosione si è verificata nel quartiere di Karrada, dove un kamikaze alla guida di un'ambulanza ha avuto accesso alla zona vicina a un ufficio anti-corruzione del governo, dopo aver raccontato di dover raggiungere un vicino ospedale alle guardie che bloccavano la strada. Questo attacco ha causato la morte di 25 persone. Gli attacchi sono l'episodio più grave avvenuto dall'inizio della crisi politica tra il governo sciita e i rivali sunniti iniziata lo scorso fine settimana in seguito al ritiro degli ultimi soldati americani, che fa temere un nuovo innesco di violenze settarie nel Paese.

L'ORDINE DI ARRESTO - Intanto un ordine di arresto è stato spiccato nei confronti di uno dei due vice presidenti, il sunnita Tareq al-Hashemi, per presunte attività terroristiche: avrebbe avuto ai suoi ordini uno «squadrone della morte». Il premier Nouri al-Maliki, sciita moderato, ha ingiunto al governo autonomo del Kurdistan di consegnare Hashemi alle autorità centrali, e ha inoltre chiesto le dimissioni di uno dei suoi vice, Saleh al-Mutlak, anch'egli di confessione sciita e appartenente al cartello «Iraqiya», lo stesso del vice presidente finito nell'occhio del ciclone: la colpa di Mutlak è l'aver definito il governo di unità nazionale a guida sciita una «dittatura». «Iraqiya» dal canto suo ha intrapreso il boicottaggio dei lavori parlamentari e governativi, inducendo il primo ministro a minacciare di sostituire i membri del proprio gabinetto che fanno capo a tale partito.

Corriere della Sera
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