Joseph Ratzinger: qualche appunto...

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Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:21


LO SVILUPPO DEL CONCETTO DI FRATELLO NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO
"FRATELLO" NELLE PAROLE DI GESU'

Prima di tentare una definizione oggettiva e dogmatica riassuntiva del concetto cristiano di fraternità sembra necessario allineare, in primo luogo, molto semplicemente gli uni accanto agli altri i dati storici del Nuovo Testamento e della patristica. Essi forniranno poi i mattoni per la definizione oggettiva del concetto cristiano di fratello, cui miriamo. Se cerchiamo di passare in rassegna il corrispettivo materiale del Nuovo Testamento, vediamo per prima cosa che, almeno nella terminologia, non esiste inizialmente un concetto unitario di fratello. I primi testi adottano semplicemente la terminologia ebraica; ma accanto a ciò comincia a farsi strada, anche se in maniera titubante e un po' faticosa, un linguaggio cristiano sempre più autonomo, che alla fine nei testi più recenti del libro sacro - in Giovanni - appare già come un dato ovvio. Qui ci imbattiamo nel problema del linguaggio cristiano peculiare antico, messo in luce soprattutto da filologi olandesi, e possiamo concretamente osservarlo a proposito del concetto di fratello, che a poco a poco assume un preciso significato specificamente cristiano, significato che sarà in un primo momento ulteriormente sviluppato nella patristica, ma che sarà poi di nuovo demolito relativamente in fretta. Questo processo linguistico è di grande interesse, perché in esso diventa direttamente afferrabile e perspicuo l'evento nascosto, o comunque individuabile solo e sempre con difficoltà, della progressiva trasformazione della comunità cristiana in una chiesa autonoma, l'evento dello sviluppo e del consolidamento del cristianesimo primitivo. Cominciamo anzitutto con il concetto di fratello dello stesso Gesù. Secondo Schelkle Gesù usa il termine fratello principalmente in tre modi. Un primo gruppo di testi riprende semplicemente il linguaggio veterotestamentario e ebraico. Fratello indica qui semplicemente il correligionario ebreo. Tutte le parole di Gesù da interpretare in questo modo ricorrono nel vangelo di Matteo. "Avete inteso che fu detto agli antichi: non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna" (Mt 5,21s.). "Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (5,23s.). "Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?" (7,3; cfr. 7,4.5). "Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano" (18,15s.; cfr. il versetto 21: quante volte perdonare, e il versetto 35: il Padre celeste vi perdonerà, se perdonerete di cuore ai vostri fratelli). Almeno nel caso del grande testo di Mt 18,15s. bisogna ammettere un forte influsso del linguaggio della comunità sulla formulazione del testo matteano, e la stessa cosa va probabilmente ammessa anche nel caso degli altri testi. Ma allora questi testi non ci testimoniano direttamente la terminologia di Gesù, bensì quella della comunità giudeocristiana, quindi uno stato già relativamente consolidato di un linguaggio cristiano specifico. Ciononostante, in questo contesto il termine "fratello" può senza dubbio risalire allo stesso Gesù, come lascerebbe intendere il confronto tra Mt 18,15ss. e Lc 17,3. In tal caso la sviluppata comunità del vangelo di Matteo avrebbe semplicemente percepito nella parola di Gesù, sulla base della sua nuova situazione, qualcosa di diverso da quello che essa originariamente significava, vale a dire la nuova fratellanza comunitaria cristiana al posto dell'antica fratellanza religiosa e etnica ebraica. Questa diversa interpretazione fu possibile sulla base della analogia esistente tra le due entità: nella scia di Gesù si era formata una nuova comunità religiosa, che assomigliava strutturalmente all'antica comunità religiosa ebraica. Comunque sia, in questo primo gruppo di testi provenienti dalle labbra di Gesù non percepiamo ancora il nuovo messaggio fraterno specificamente suo, bensì percepiamo o il linguaggio di una comunità cristiana già abbastanza sviluppata, oppure parole di Gesù, nelle quali egli adotta semplicemente il linguaggio del suo ambiente ebraico. Un secondo gruppo di testi è costituito da quelle parole di Gesù in cui il Signore non adotta il linguaggio ebraico comune, bensì il concetto speciale di fratello dei rabbini, che amavano apostrofare i loro discepoli come "fratelli". Schelkle annovera qui le note parole dette da Gesù nel cenacolo a Pietro: "Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli". Sempre in questa categoria rientrano due affermazioni del Risorto. Una, tramandata da Matteo, è indirizzata alle donne a cui per prime il Risorto era apparso e a cui affida questo compito: "Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno" (Mt 28,10). La seconda, ricorrente in Giovanni, lascia già intravedere prospettive teologiche molto più profonde e supera pertanto già di molto la cornice rabbinica. In essa Gesù affida questo compito alla Maddalena: "Va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20,17b). La fratellanza dei discepoli fra di loro e con Cristo è qui strettamente collegata con la paternità di Dio e possiede di conseguenza una profondità del tutto diversa da quella comportata dal semplice rapporto maestro-discepoli, a cui il concetto rabbinico di fratello pensa. Formalmente con pieno diritto Schelkle annovera qui anche le grandiose parole di Gesù riportate in Mt 23,8, che abbiamo posto come motto all'inizio delle nostre considerazioni: "Non fatevi chiamare "rabbi", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli". Ma è anche innegabile che, oggettivamente, proprio questa frase significa il superamento del rabbinismo, la rivoluzione cristiana, la minimizzazione di tutte le distinzioni intramondane di fronte all'incontro con il solo realmente grande, con il solo realmente altro, vale a dire con Cristo. Perciò questa frase, che va formalmente ascritta al linguaggio rabbinico, lascia già trasparire, per il suo contenuto, il concetto cristiano indubbiamente nuovo di fratello. Anzi, dobbiamo domandarci se tutti i testi di questo secondo gruppo non costituiscano, in linea generale, già un importante passo in avanti sul terreno propriamente cristiano. Ripetiamolo: sotto il profilo formale si tratta di linguaggio rabbinico, quando il maestro ("rabbi") chiama i discepoli suoi fratelli. Ma per misurare la portata che questo evento doveva necessariamente avere in futuro, è importante valutare l'autocoscienza di questo maestro e la coscienza che egli aveva del significato dei suoi discepoli. Proprio a proposito di quest'ultimo punto i vangeli non ci lasciano all'oscuro: Gesù, limitando la cerchia più ristretta dei suoi al numero di dodici, scelse un numero simbolico, il cui significato è chiaro a ogni lettore della Sacra Scrittura. Egli si pose così in parallelo con Giacobbe e con i suoi dodici figli, che erano diventati i dodici capostipiti del popolo eletto Israele, e diede così ad intendere che qui cominciava a formarsi un nuovo e più reale "Israele". I Dodici, che inizialmente non si chiamano ancora "apostoli", bensì solo hoi dodeka, sono caratterizzati dal loro numero come i capostipiti spirituali di un nuovo popolo spirituale di Dio. Quando Gesù apostrofa questi suoi discepoli come "fratelli", ciò è in partenza qualcosa di diverso dal caso del rabbi che chiama così i suoi discepoli. Si tratta di una decisione in ordine al futuro. In questi Dodici, infatti, è apostrofato il nuovo popolo di Dio, che si delinea in essi come un popolo di fratelli, come una nuova grande fratellanza. Detto in altre parole: agli occhi di Gesù i Dodici non corrispondono a un gruppo di discepoli rabbinici (in modo simile a come neppure Gesù si considerò un rabbi), bensì corrispondono al popolo d'Israele e lo reiterano su un piano più elevato. In tal modo, però, essi reiterano al loro livello anche la fratellanza di Israele, di cui abbiamo parlato all'inizio delle nostre considerazioni. La riflessione sul retroterra oggettivo del linguaggio rabbinico di Gesù ci ha portato molto lontano dal semplice linguaggio. E' perciò tempo di tornare indietro per rilevare anche il terzo gruppo di testi, in cui Gesù adopera il termine fratello. Adesso si tratta finalmente di un linguaggio tipicamente cristiano. Schelkle rinvia qui soprattutto a Mc 3,31-35. Il Signore, a cui viene annunciata la visita di sua madre, dei suoi fratelli e delle sue sorelle, domanda: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". E indicando coloro che gli siedono attorno dice: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre". Il posto della parentela carnale è qui preso e superato in dignità dalla parentela spirituale. Fratelli sono per Gesù coloro che sono uniti a lui nella comune accettazione della volontà di Dio. La comune sottomissione alla volontà di Dio crea quindi l'intimissima parentela di cui qui si tratta. La differenza dall'ideologia illuministica e dalla fratellanza universale della Stoa è evidente: la fratellanza non è concepita in maniera naturalistica, come un fenomeno naturale originario, bensì poggia su una decisione spirituale, sul sì detto alla volontà di Dio. Più influenzato dalla terminologia della comunità è il secondo testo, a cui Schelkle rinvia in questo contesto. Si tratta di Mc 10,29s., ove Gesù promette a chi abbandona fratelli, sorelle, padre, madre, figli e campi per amor suo e per annunciare la buona novella una ricompensa centuplicata già in questo mondo, rispetto alle cose lasciate, anche se tra le persecuzioni. Possiamo considerare come cosa certa che la nuova e più grande parentela, che viene così prospettata al missionario, consiste nei membri delle comunità cristiane da lui servite, quindi nei correligionari. Si tratta oggettivamente della stessa concezione esaminata sopra, solo più influenzata dall'idea di una comunità cristiana già esistente. Ciò ha naturalmente come conseguenza che anche la comunanza di volontà con il Padre è già presentata in maniera più concreta, appunto come accettazione della fede cristiana. Una concezione del tutto diversa del concetto cristiano di fratello troviamo invece nella grande parabola del giudizio di Mt 25,31-46. La differenza è così grande che non è possibile far rientrare questo testo in uno dei gruppi precedenti. Il giudice del mondo dichiara qui ai radunati davanti al suo tribunale che le opere di misericordia, che furono fatte o non fatte ai bisognosi, furono fatte o rifiutate a lui stesso. E chiama questi bisognosi suoi "fratelli più piccoli" (25,40). Nulla lascia presagire che qui si intendano solo credenti, seguaci del messaggio di Gesù, come avviene in un testo simile, ma è piuttosto chiaro che ci si riferisce indistintamente a tutti i bisognosi. D'altro canto, non sembra neppure lecito concludere dal discorso dei "fratelli più piccoli" che il giudice del mondo indica tutti gli uomini e tra di essi anche i non bisognosi come suoi fratelli. Tutta una serie di testi mostra piuttosto che Cristo si sia rappresentato, in linea del tutto generale, in modo particolare nei poveri e nei piccoli, i quali (indipendentemente dalla loro qualità etica, semplicemente per la loro piccolezza e attraverso l'appello ivi insito rivolto all'amore degli altri) rendono presente il maestro. Invece di parlare dei fratelli più piccoli, tradurremmo perciò in maniera senz'altro più giusta se dicessimo: i miei fratelli, (cioè) i più piccoli. Gli elachistoi sono, in quanto tali, i fratelli del Signore, che si è fatto il più piccolo degli uomini. La fratellanza con Cristo non è perciò qui fondata, come sopra, sulla comunanza, liberamente scelta, di volontà e di convinzione, bensì sulla comunanza della bassezza e del bisogno. Questo testo è perciò tanto importante perché esprime una universalità che quanto fin qui detto non lasciava ancora presagire. Se la comunità dei discepoli fonda un nuovo Israele e, di conseguenza, una nuova comunità fraterna, possiamo per prima cosa presumere che qui si ripeterà anche la fraternità chiusa verso l'esterno di Israele. La domanda: "Chi è il mio prossimo?" riceverebbe allora una risposta sì nuova sotto il profilo del contenuto, ma che somiglierebbe strutturalmente a quella vecchia. Il prossimo non sarebbe adesso più il connazionale o il correligionario aderente a una religione sostanzialmente nazionale, bensì colui che condivide la stessa fede non politica e spirituale in Cristo. Chi ha letto la parabola del giudizio di Mt 25 capisce perché la risposta data da Gesù nella parabola del samaritano di Lc 10,30-37 è diversa. Prossimo è anzitutto il bisognoso che incontro, perché egli è semplicemente come tale, un fratello del maestro che mi diventa sempre presente nei più piccoli tra gli uomini. Viene da domandarsi: in questi testi (Mt 25,31-46 e Lc 10,30-37), che percepiamo spontaneamente come i più sublimi, non troviamo la fratellanza illimitata dell'Illuminismo, perlomeno nelle sue forme più pure quali quelle descritte nel Nathan di Lessing? Vero è che qui si verifica un'ultima cancellazione dei confini, quale quella che con la medesima radicalità troviamo soltanto nello stoicismo e nell'Illuminismo. Tuttavia, nel vangelo esiste un legame cristologico dell'idea di fratellanza, legame che crea un'atmosfera spirituale del tutto diversa rispetto all'ideologia dell'Illuminismo. Inoltre, anche astraendo da questo, rimane l'esistenza degli altri testi prima menzionati, testi che contrappongono al concetto aperto di fratellanza analizzato per ultimo un concetto più o meno chiuso. Perciò i testi sulla fratellanza, derivanti dalle labbra di Gesù, ci congedano con una questione irrisolta. Da un lato, è assodato che tutti i bisognosi sono, al di là di tutti i confini, fratelli di Gesù precisamente a motivo del loro bisogno di aiuto. Dall'altro lato, è innegabile che la futura comunità dei credenti formerà, come tale, una nuova comunità fraterna distinta dai non credenti. Una pretesa limitata si affianca perciò a una universale. Rimane irrisolta la questione del loro reciproco rapporto.


LO SVILUPPO ALL'INTERNO DEL NUOVO TESTAMENTO, SPECIALMENTE IN PAOLO

Esaminando adesso lo sviluppo del concetto di fratello nella comunità lasciata da Gesù, ci imbattiamo anzitutto di nuovo nella semplice adozione della formula nazional-religiosa ebraica. Sia Pietro che Stefano apostrofano nei loro discorsi gli ebrei come andres adelphoi (At 2,29.37; 7,2); Paolo è così apostrofato da ebrei (13,15) e li apostrofa nello stesso modo (13,26; 22,1; 22,5; 28,17; cfr. l'interessante testo di Rm 9,3, in cui la trasformazione è già chiara). Accanto a ciò gli Atti degli Apostoli, da cui desumiamo questi testi, conoscono già con ovvietà la reciproca denominazione dei cristiani come fratelli, allorché a parlare è il redattore (14,2; 28,15). Del linguaggio ebraico fanno parte, secondo Schelkle, anche quei testi della lettera di Giacomo che adoperano il termine adelphos (Gc 1,9; 2,15; 4,11). Al riguardo dobbiamo dire che con "fratello" qui si intende senza dubbio il con-cristiano, ma che in effetti la comunità di Giacomo adottò chiaramente, senza soluzione di continuità, questo linguaggio dalla madre chiesa giudaica, e che essa non era chiaramente arrivata a sganciarsi in modo completo dall'ebraismo. Di conseguenza, manca per forza di cose anche una accezione accentuatamente cristiana del concetto di fratello. La trasformazione decisamente cristiana di tale concetto è opera di Paolo, per il quale essa fu il risultato ovvio dell'autonomizzazione del cristianesimo nei confronti dell'ebraismo, autonomizzazione per cui egli si era appassionatamente sempre battuto. Anzi, la neoconiazione del concetto di fratello è, in ultima analisi, un necessario fenomeno linguistico concomitante di questa lotta per un "discernimento" storico concreto "dell'elemento cristiano". "Fratello" è per Paolo la denominazione ovvia del correligionario cristiano, in cui ci imbattiamo in molti passi; il termine pseudadelphos (falso fratello) è addirittura un neologismo paolino, in cui Paolo esprime le tristi esperienze fatte durante il suo lavoro missionario e traccia i confini della fratellanza cristiana. Invano cerchiamo anche in lui una teoria esplicita della fraternità cristiana, però egli ci fornisce a questo scopo alcune importanti nuove idee. Molto importante è qui soprattutto Rm 8,11-17.29. "Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!". Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo...". "Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli". Affine a questo testo è una affermazione della lettera agli Ebrei: "Colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da uno solo; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli" (2,11). Questi testi ancorano teologicamente in modo rigoroso il concetto cristiano di fratello. Se la fratellanza di Israele poggiava sulla particolare paternità di Dio, che si era stabilita con l'evento dell'elezione, adesso nel campo cristiano l'idea della paternità è approfondita trinitariamente: la paternità di Dio si riferisce in primo luogo a "il" Figlio, a Cristo, e attraverso di lui a noi, dal momento che il suo Spirito è in noi e dice in noi "Padre". La paternità di Dio è quindi una paternità mediata da Cristo nello Spirito: Dio è anzitutto Padre di Cristo, ma noi siamo "in Cristo" e precisamente per mezzo dello Spirito Santo. Vediamo come qui l'idea ebraica della paternità è trasformata e intensificata cristianamente: la paternità e, con essa, la fratellanza acquistano un significato molto più denso e pieno e rinviano adesso al di là dell'atto di volontà dell'elezione in direzione di una unione "ontica". Accanto all'idea di Dio-padre, quale ancoraggio dall'alto del concetto di fratello, abbiamo constatato l'esistenza, nel pensiero ebraico, della dottrina di Adamo-Noè-Abramo quale suo ancoraggio dal basso. Pure tale dottrina è ripensata in Paolo in senso cristiano, con inevitabili conseguenze, anche questa volta, per il concetto di fratello. Al posto della semplice dottrina di Adamo della Genesi (che del resto era rimasta dottrina di un solo Adamo anche nelle sue versioni gnostiche), Paolo pone in 1 Cor 15 e Rm 5 la sua dottrina dei due Adamo. Nella risurrezione Cristo diventa, attraverso la morte del primo Adamo, un nuovo e secondo Adamo, il capostipite di un'altra e migliore umanità. Perciò grazie a Cristo nasce, con la nuova umanità, anche una nuova fratellanza umana che supera e sostituisce la vecchia. La vecchia fratellanza in Adamo, infatti, è stata agli occhi di Paolo, che guarda retrospettivamente ad essa a partire dal nuovo Adamo Cristo, solo una comunione nel male e quindi una comunione per nulla desiderabile. Soltanto la nuova fratellanza, che è del resto tendenzialmente senza dubbio universale, significa una reale unità salvifica. Come si vede, la dottrina dei due Adamo include oggettivamente una decisa critica del concetto illuministico di umanità, dal momento che riconosce come valida soltanto la seconda umanità, quella dell'"ultimo uomo" (1 Cor 15,45) Cristo. La sua fratellanza non è ancora universale, ma deve e vuole diventarlo. Gli uomini non sono ancora, in linea generale, fratelli in Cristo, ma possono e devono diventarlo. Pertanto mentre la dottrina dei due Adamo ha, come conseguenza in concreto, malgrado la sua tendenza universale, una certa limitazione della fratellanza effettiva (che però non può mai concepirsi, su questa base, come fratellanza chiusa, bensì sempre e solo come fratellanza aperta), nella nuova concezione della dottrina di Abramo prevale l'impressione della soppressione dei confini. Questa dottrina, infatti, aveva affermato fino ad allora la peculiarità esclusiva d'Israele, ma appunto tale peculiarità Paolo fa saltare e dichiara figli reali di Abramo, eliminando il privilegio nazionale, tutti coloro che hanno lo spirito di fede di Abramo, cioè coloro che sono in Cristo Gesù. Naturalmente neppure qui la cancellazione dei confini è illimitata; al posto del confine nazionale subentra il confine spirituale tra fede e mancanza di fede. Importante è osservare che né Paolo né alcun altro autore neotestamentario fondò la fraternità cristiana, nel senso delle religioni misteriche, sulla rinascita. Tale fondazione è senz'altro una visuale possibile in seno al modo neotestamentario complessivo di pensare, e noi la troveremo infatti nei Padri, però il Nuovo Testamento non la formula. Possiamo vedere in ciò un caso, ma per il giudizio sul tipo neotestamentario di religione esso non è insignificante. Esso, infatti, ci dice che né Paolo né alcun'altra parte del Nuovo Testamento concepirono la nascente comunità cristiana in analogia a una comunità misterica. La comunità cristiana avanza piuttosto la pretesa di essere pubblica in una maniera del tutto diversa dalla pretesa che poteva avere una comunità misterica. Essa non si concepisce in analogia alle comunità misteriche più o meno private, bensì in analogia al popolo d'Israele, anzi in analogia all'umanità. Essa pretende di essere il vero Israele e la cellula germinale della nuova umanità. In base a questa rivendicazione va concepita la sua nuova fratellanza. Con quanto abbiamo fin qui detto è già pure chiaro che il vecchio problema dell'idea di fraternità, vale a dire la questione delle due zone del comportamento etico, si pone di nuovo anche nel caso di Paolo. Nonostante tutta la cancellazione dei confini e tutto l'universalismo, il concetto di fratellanza non è affatto universalizzato, come abbiamo visto, in maniera totale. Ogni uomo può diventare cristiano, ma solo chi lo diventa realmente è fratello. Questo fatto si ripercuote, come possiamo vedere, anche nella terminologia etica dell'Apostolo. Verso ogni uomo bisogna avere l'atteggiamento dell'agape (amore), ma solo verso il fratello, verso il con-cristiano, bisogna praticare la philadelphia (amore fraterno). L'uso di questo termine al di là della parentela carnale sembra del resto essere un uso nuovo cristiano specifico. Ma proprio questo fatto mostra molto chiaramente che i correligionari cristiani formano insieme una specie di anello interno nel campo dell'éthos, che essi sono uniti (o devono essere uniti) da uno spirito di amore fraterno che supera anche lo spirito dell'agape universale. Questa concezione si manifesta chiaramente pure in una serie di testi, specialmente in Gal 6,10: "Operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede". Molto affine a questo passo è un'affermazione che ricorre nella prima lettera di Pietro (2,17): "Onorate tutti, ma amate i vostri fratelli". La fratellanza dei cristiani, che nasce inizialmente come eliminazione dei confini della fratellanza ebraica, stabilisce con crescente chiarezza, sull'onda del progressivo consolidamento della giovane chiesa, i suoi propri confini. All'interno della fratellanza questo ha come conseguenza un ampio abbattimento di tutte le barriere che separano. I ceti sociali esistenti non vengono certo aboliti, però la lettera a Filemone (e in modo simile la 1 Tm) ci mostra come essi perdano importanza all'interno: il padrone cristiano deve riconoscere nello schiavo cristiano il suo fratello (Fm 16), e gli schiavi cristiani sono esortati a non disprezzare i loro padroni cristiani perché sono fratelli (1 Tm 6,2). Se confrontiamo questi testi con passi simili di Epitteto, il vantaggio della fratellanza limitata rispetto all'idea generale di umanità, diventa indubbiamente chiaro: essa crea un vincolo reale, mentre quest'ultima rimane un vuoto ideale. Negli scritti giovannei il processo fin qui descritto di un progressivo consolidamento del concetto cristiano di fratello arriva chiaramente a conclusione. In essi il termine "fratello" è definitivamente limitato al correligionario cristiano e, soprattutto, Giovanni richiede solo e sempre l'amore fraterno, l'amore dei cristiani fra di loro, mentre non parla mai dell'amore per gli uomini in generale. Le comunità, che adesso sono definitivamente distinte come qualcosa di diverso e di nuovo da tutti gli altri precedenti raggruppamenti, tendono evidentemente a una certa esclusività, come mostra con molta chiarezza un testo come quello di 3 Gv 5-8: "Carissimo, tu ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché forestieri. Essi hanno reso testimonianza della tua carità davanti alla [nostra] chiesa, e farai bene a provvederli nel viaggio in modo degno di Dio, perché sono partiti per amore del nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani. Noi dobbiamo perciò accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità". Questo testo ricorda alle singole comunità di fratelli la loro reciproca fraternità e le mette in guardia dal chiudersi le une verso le altre, mentre accetta la loro chiusura verso i pagani, chiusura che del resto non era senza dubbio priva di una certa giustificazione storica. In ogni caso qui percepiamo che il concetto cristiano di fratello corre un pericolo. Esso ha sì superato lo stadio critico dell'indeterminatezza, ma in compenso corre il pericolo di consolidarsi troppo e di perdere quella apertura che deve avere proprio in virtù del messaggio di Gesù.


IL CONCETTO DI FRATELLO NEI PADRI

Fino al III secolo il nome di fratello rimane frequente, anzi ovvio nella patristica. La teoria della fraternità cristiana è ulteriormente sviluppata in varie direzioni, e vengono adottati dei materiali provenienti dall'ambiente pagano sopra descritto. Così adesso il battesimo è riconosciuto come il momento preciso in cui un individuo diventa fratello. Esso comunica, nella sua qualità di rinascita, l'accoglimento nella "fraternità" cristiana, come la comunità si denomina. La chiesa è la madre in questa rinascita, in cui Dio è il padre. Il collegamento tra fratellanza e rinascita equivale - in un primo momento forse inconsciamente - a una certa assimilazione alle comunità misteriche, da cui viene poi desunta, quale ulteriore importante elemento formale, la disciplina dell'arcano. Questo comporta naturalmente una ulteriore chiusura della comunità di fratelli verso l'esterno, cosa a cui contribuì per la sua parte senza dubbio anche la situazione di persecuzione, situazione che, viceversa, favorì nella maniera più decisa l'intima unione sino a formare una fraternità veramente viva. Quale punto cardine della fraternità cristiana riconosciamo dappertutto quello che è il nucleo della disciplina cristiana dell'arcano e che, nello stesso tempo, è stato lasciato da Gesù come punto centrale del suo nuovo popolo, vale a dire il pasto eucaristico fraterno. Come la chiesa perseguitata fu e rimase simultaneamente in altissima misura una chiesa missionaria, così assistiamo, parallelamente alla chiusura del concetto di fratello or ora brevemente descritto, a un completo movimento di apertura. Ignazio di Antiochia accentua con forza la fratellanza verso i persecutori: ad imitazione del Signore ingiustamente perseguitato i cristiani devono dimostrare, con la loro bontà, la loro fratellanza proprio verso gli oppressori. Pure Tertulliano distingue espressamente le due forme della fratellanza: l'una poggia sulla comune derivazione e abbraccia tutti gli uomini, l'altra poggia sulla comune conoscenza di Dio e sullo Spirito di santità bevuto insieme. Per quanto riguarda l'idea della fratellanza universale Tertulliano dovrebbe essere stato influenzato dal pensiero stoico. Ma almeno a partire dal III secolo il termine "fratello", usato dai cristiani per denominarsi a vicenda, passa sempre più in secondo piano. Molto istruttivo per comprendere lo sviluppo interno della chiesa è vedere il duplice esito della parola. Il primo lo constatiamo quando Cipriano, parlando al singolare, non adopera più il termine "fratello" per indicare il cristiano in generale, bensì lo adopera sempre e solo per indicare i vescovi e i chierici. Quello a cui qui assistiamo non è più la vecchia fratellanza dei credenti, ma ricorda piuttosto il noto motivo mondano della fraternità reciproca dei prìncipi, che si manifesterà con molta chiarezza in seguito nella gradazione dei titoli che vescovi, presbiteri e laici si daranno a vicenda. L'altro esito è quello di una sua riduzione ascetica: sono le comunità monastiche quelle in cui il termine fratello e sorella continua adesso a vivere, dopo essersi inaridito nella grande chiesa divenuta troppo vasta. Assistiamo perciò a una riduzione del concetto di fratello alla gerarchia e agli asceti, a cui adesso si riduce la vita autenticamente ecclesiale. E' evidente che questa situazione è rimasta in vigore fin nel nostro secolo, con tutte le dannose conseguenze che essa necessariamente comporta. L'analisi storica ci conduce perciò, di per sé, nel punto in cui la riflessione oggettiva sul significato odierno e sulle odierne possibilità del concetto cristiano di fratello deve cominciare.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:23
2a - Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo (Queriniana 2003)


"IL QUALE FU CONCEPITO DI SPIRITO SANTO, E NACQUE DA MARIA VERGINE"

L'origine di Gesù è avvolta nel mistero. Nel vangelo di Giovanni, i cittadini di Gerusalemme si rivoltano sì contro la sua messianità, affermando che si sa bene "donde egli venga; mentre quando verrà il Cristo, nessuno saprà donde egli provenga" (Gv 7,27). Ma proprio il discorso seguente di Gesù ci rivela quanto precaria e insufficiente sia la loro pretesa conoscenza in merito all'origine di Gesù stesso: "... Io non son venuto da me; ma esiste veramente uno che mi ha mandato, e che voi non conoscete" (Gv 7,28). Certo, Gesù è originario di Nazareth. Ma che se ne sa della sua vera origine, quando si è ben nominata la località geografica da cui ha tratto i natali? Il vangelo di Giovanni continua a ribadire che la vera origine di Gesù è "il Padre", dal quale egli discende in maniera totalmente diversa da quella in cui ne deriva ogni inviato di Dio che l'ha preceduto. Questa provenienza di Gesù dal mistero di Dio, "che nessuno conosce", ci vien descritta dai cosiddetti racconti dell'infanzia, riportati nei vangeli di Matteo e di Luca non allo scopo di svelarne il retroscena, ma precisamente per confermarne la misteriosità. Ambedue gli evangelisti, ma specialmente Luca, ci narrano le primissime fasi della storia di Gesù impiegando quasi integralmente parole desunte dall'Antico Testamento, per presentarci così con materiale di casa tutto l'avvenimento come realizzazione della speranza d'Israele, inquadrandolo nel contesto della storia dell'alleanza stipulata da Dio con gli uomini. La parola con cui in Luca l'angelo saluta la Vergine, si riallaccia al saluto con cui il profeta Sofonia onora la Gerusalemme redenta della fine dei tempi (Sofon 3,14 ss) e riprende al contempo le parole di benedizione con cui si erano esaltate le grandi donne d'Israele (Giudici 5,24; Giuditta 13,18 s.). Così Maria viene additata come il "santo resto d'Israele", come la vera Sion, sulla quale si erano appuntate tutte le speranze pulsanti nei cuori durante le lunghe devastazioni della storia. Stando al testo di Luca, con lei sorge l'alba del nuovo Israele, anzi, non solo ricomincia a vivere il nuovo popolo, ma è lei stessa questo inizio: lei, l'intatta "Figlia di Sion", nella quale Dio pone mano al rinnovamento di tutto. Non meno denso di significato è il testo centrale della promessa: "Lo Spirito santo verrà sopra di te, e la potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra: per questo il bambino santo che da te nascerà, sarà chiamato Figlio di Dio" (Lc 1,35). Oltrepassando la storia dell'alleanza stipulata da Dio con Israele, la visuale si allarga qui all'intera creazione: nell'Antico Testamento, lo Spirito di Dio impersona la potenza creativa del Signore; è esso infatti che ai primordi si librava sulle acque, trasformando il caos in cosmo (Gen 1,2); allorché esso viene inviato, si creano gli esseri viventi (Sal 104 [103],30). Sicché, ciò che ora deve realizzarsi in Maria, è una nuova creazione: quello stesso Dio che ha evocato l'essere dal nulla, immette nell'umanità un nuovo principio vitale; il suo Verbo si fa carne. L'altra immagine addotta dal nostro testo - l'"obumbrazione tramite la potenza dell'Altissimo" - si richiama al tempio d'Israele e al santo tabernacolo eretto nel deserto, in cui la presenza di Dio si annunziava nella nube, che celava quanto rilevava la di lui maestà (Es 40,34; 3 Re 8,11). Come nella frase antecedente Maria ci era stata descritta quale nuovo Israele, quale vera "Figlia di Sion", così ci appare ora simile al tempio, sul quale si abbassa la nube entro cui Dio fa il suo ingresso nella storia. Chi si mette a disposizione di Dio, scompare con lui nella nube, nella modestia e nell'oblio, ma finendo così per partecipare alla sua gloria. La nascita di Gesù dalla Vergine, della quale si parla nel vangelo, è stata sempre e non soltanto da ieri una spina nell'occhio per gli illuminati d'ogni genere. Stando a loro, la selezione delle fonti deve minimizzare l'attestazione neotestamentaria; il richiamo al pensiero sprovvisto di senso storico degli antichi deve relegare il fatto nel regno del simbolico; e infine il suo inquadramento nella storia delle religioni deve presentarcelo come la variante d'un mito. Il mito della nascita miracolosa del bimbo redentore è in effetti diffuso in tutto il mondo. In esso si estrinseca una nostalgica aspirazione dell'umanità: l'accorato desiderio d'innocenza e di purezza che è impersonato dall'intatta Vergine: la brama di un affetto veramente materno, protettivo, solido e soffuso di bontà; e infine la speranza, che continua ad affiorare ogni qualvolta nasce una nuova creatura umana, la fiduciosa attesa e la gioia che incentra in sé ogni bambino. E' lecito considerar probabile che anche Israele abbia conosciuto miti di questo tipo; il testo d'Isaia 7,14 ("Ecco, una vergine concepirà...") si potrebbe spiegare come un richiamo ad un'aspettativa del genere, quantunque dal tenore di tale testo non si possa dedurre infallibilmente che ivi si pensi ad una vergine in senso stretto. Se il testo andasse davvero inteso come derivante da tali origini, ciò significherebbe che per questa via indiretta il Nuovo Testamento avrebbe accolto le confuse speranze riposte dall'umanità nella vergine-madre; assolutamente privo d'importanza di certo non è tale motivo primordiale della storia umana. Contemporaneamente però, risulta chiarissimo che le connessioni dirette dei racconti neotestamentari concernenti la nascita di Gesù dalla vergine Maria non si rifanno all'ambito della storia delle religioni in genere, bensì alla Bibbia vetero-testamentaria. Le leggende extra-bibliche di questo tipo sono profondamente diverse dal racconto della nascita di Gesù, sia nel loro vocabolario che nella loro morfologia concettuale; la divergenza centrale sta nel fatto che, nei testi pagani, la divinità appare quasi sempre come una potenza fecondante, generatrice, ossia sotto un aspetto più o meno sessuale, e quindi in veste di "padre" in senso fisico del bimbo redentore. Nulla di tutto ciò compare, come già abbiamo visto, nel Nuovo Testamento: la concezione di Gesù è una nuova creazione, non una generazione da parte di Dio. Pertanto, Dio non diventa suppergiù il padre biologico di Gesù; e tanto il Nuovo Testamento quanto la teologia ecclesiale non hanno per principio mai visto in questo racconto, e rispettivamente nell'avvenimento ivi narrato, l'argomento per affermare la vera divinità di Gesù, deducendone la "figliazione divina". Questa infatti non dice assolutamente che Gesù sia mezzo Dio e mezzo uomo; viceversa, per la fede, è sempre stato un dato fondamentale che Gesù è integralmente Dio e integralmente uomo. Il suo esser Dio non comporta una sottrazione al suo esser uomo: questa è stata la rotta imboccata e seguita da Ario e da Apollinare, i grandi eretici dell'antica chiesa. Contro di essi, venne difesa con ogni energia l'intatta integrità della natura umana di Gesù, proscrivendo così una volta per sempre l'assimilazione del racconto biblico al mito pagano del semidio generato dalla divinità. La figliazione divina di Gesù, com'è intesa dalla fede ecclesiale, non poggia sul fatto che Gesù non abbia alcun padre terreno; la dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata, quand'anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano. No, perché la figliazione divina di cui parla la fede, non è un fatto biologico, bensì ontologico; non è un processo avvenuto nel tempo, bensì in grembo all'eternità di Dio: Dio è sempre Padre, Figlio e Spirito; il concepimento di Gesù non comporta che nasca un nuovo Dio-figlio, ma che Dio in quanto Figlio nell'uomo-Gesù attragga a sé la creatura uomo, così da essere lui stesso uomo. Stando così le cose, non cambiano proprio nulla nemmeno le due espressioni che per altro potrebbero facilmente indurre in inganno gli sprovveduti. Infatti, nel rapporto di Luca, in stretta connessione con la promessa del concepimento miracoloso, non si dice forse che il neonato "sarà chiamato santo, Figlio di Dio" (Lc 1,35)? In sostanza, la figliazione divina e la nascita verginale non vengono forse accoppiate qui fra loro, imboccando così la via del mito? E per quanto concerne la teologia ecclesiale, non si rileva forse che essa parla sistematicamente d'una figliazione divina "fisica" di Gesù, lasciando così trapelare il suo retroscena mitico? Iniziamo la nostra critica cominciando da quest'ultima obbiezione. Non c'è dubbio: la formula che parla d'una figliazione divina "fisica" di Gesù, è quanto mai infelice ed ambigua; essa dimostra come la teologia, nell'arco di quasi duemila anni, non sia ancora del tutto riuscita a liberare il suo linguaggio concettuale dalle bucce delle sue origini ellenistiche. L'aggettivo "fisico" è qui inteso nel senso indicato dall'antico concetto di "physis", ossia di "natura", o meglio ancora di "essenza". Esso denota le proprietà inerenti all'essenza. Pertanto, l'espressione "figliazione divina" asserisce che Gesù proviene da Dio sulla linea dell'essere, e non soltanto su quella della consapevolezza; la frase implica poi al contempo anche un'opposizione all'idea della mera adozione di Gesù da parte di Dio. Ovviamente, l'essere-da-Dio che va ribadito col termine "fisico", non è da intendersi in senso generativo-biologico, ma sul piano dell'essere divino e della sua eternità. Esso intende affermare che, in Gesù, ha assunto la natura umana colui che da tutta l'eternità si trova incluso "fisicamente" (realmente, in linea entitativa) nella relazione unitario-triplice pulsante nell'amore divino. Ma che cosa dobbiamo dire, quando un emerito ricercatore come E. Schweizer, trattando il nostro assunto vien fuori con un'affermazione come la seguente: "Siccome Luca non s'interessa minimamente del problema biologico, il limite che divide dalla comprensione metafisica non vien oltrepassato nemmeno in lui"? In questo asserto, tutto quanto è falso. Il lato più sbalorditivo della faccenda è costituito dalla tacita equiparazione che qui viene istituita fra biologia e metafisica. La figliazione divina metafisica (ontologica), stando a tutte le apparenze, viene qui fraintesa come discendenza biologica, e quindi diametralmente capovolta nel suo significato. Essa è invece, come abbiamo già visto, proprio l'energica refutazione d'una concezione biologica della discendenza di Gesù da Dio. Chiunque potrà ovviamente convenire, sia pure un pò malinconicamente, che bisogna affermare in maniera tassativa che il piano della metafisica non è affatto quello della biologia. La dottrina ecclesiale propugnante la figliazione divina di Gesù non affonda le sue radici nel prolungamento della storia della nascita verginale, bensì nel prolungamento del dialogo Abba-Figlio, nonché nella relazione tra Verbo e amore, che in esso abbiamo vista instaurarsi. La sua idea dell'essere non rientra nel piano biologico, bensì nell'energico "Quello sono io" del Vangelo di Giovanni, che - come abbiamo visto - vi ha sviluppata in tutta la sua radicalità l'idea della figliazione divina: una radicalità che risulta assai più universale ed estesa di tutte le idee biologiche di uomo-dio caldeggiate dal mito. Tutto ciò, l'abbiamo già diffusamente rilevato in precedenza; qui dovevamo però richiamarlo alla memoria, perché affiora continuamente l'impressione che l'odierna avversione contro il messaggio della nascita verginale, come pure contro la perfetta ammissione della figliazione divina di Gesù, poggi su un fondamentale fraintendimento di ambedue, nonché sull'errato abbinamento in cui sembra realmente di vederli. Una questione resta tuttora aperta: quella riguardante il concetto di Figlio nella storia dell'annunciazione narrataci da Luca. La sua soluzione ci fa entrare al contempo nel vivo del problema che insorge dalle considerazioni sin qui fatte. Se il concepimento di Gesù nel seno della Vergine, avvenuto in virtù della potenza creatrice di Dio, non ha almeno direttamente nulla a che vedere con la sua figliazione divina, quale senso riveste esso allora? Che cosa significhi l'espressione "Figlio di Dio" nel testo dell'annunciazione, si può dedurre facilmente dalle nostre riflessioni precedenti: contrariamente alla semplice espressione "il Figlio", essa rientra - come già abbiamo rilevato - nella teologia dell'elezione e della speranza dell'antica Alleanza, e caratterizza Gesù come il vero erede delle promesse, come re di Israele e del mondo intero. Con ciò risulta però adesso chiaramente visibile il contesto spirituale, riallacciandosi al quale va inteso il nostro racconto: richiamandosi alla fede soffusa di speranza nutrita da Israele, la quale, come dicevamo, è difficile sia rimasta completamente immune dalle speranze pagane nelle nascite miracolose, ma ha saputo dare ad esse una configurazione totalmente nuova e un senso radicalmente diverso. L'Antico Testamento conosce una lunga serie di nascite miracolose, che vengono sistematicamente a collocarsi sui punti in cui sta per verificarsi una decisiva conversione di rotta nella storia della salvezza: Sara, madre di Isacco (Gen 18), la madre di Samuele (I Sam 1-3) e l'anonima madre di Sansone (Giudici 13) sono sterili, e ogni speranza umana di ottenere la benedizione d'un figlio si è dimostrata per esse una pura follia. Ebbene: per tutte e tre, la nascita del figlio destinato ad essere apportatore di salvezza per Israele avviene ad opera della benigna misericordia di Dio, che rende possibile l'impossibile (Gen 18,14; Lc 1,37), che solleva gli oppressi (I Sam 2,7; Lc 1,52; 1,48) e sbalza i superbi dai loro troni (Lc 1,52). Questa linea prosegue diritta sino ad Elisabetta, madre di Giovanni Battista (Lc 1,7-25,36), per raggiungere infine il suo vertice e il suo traguardo in Maria. Il senso dell'evento è sempre e dovunque lo stesso: la salvezza del mondo non proviene dall'uomo e dal potere che egli ha; l'uomo invece deve farsela accordare, accogliendola unicamente come puro dono. La nascita verginale non costituisce un capitolo di ascetica, né rientra direttamente nella dottrina concernente la figliazione divina di Gesù; essa è in primo ed ultimo luogo autentica teologia della grazia, messaggio annuncianteci come pervenga a noi la salvezza: nella candida semplicità del ricevere, sotto forma d'inesigibile dono, quell'amore che redime il mondo. Nel libro di Isaia, ci vien formulato in maniera grandiosa questo pensiero della salvezza proveniente in esclusiva dalla potenza di Dio, quando ci vien detto: "Esulta o sterile che non hai generato, fà risuonare canti di gioia tu che non conoscesti le doglie del parto, perché i figli dell'abbandonata sono più numerosi dei figli di colei che ha marito! - dice il Signore" (Is 54,1; cfr. Gal 4,27; Rom 4,17-22). In Gesù, Dio ha immesso nella sterile e disperata umanità un nuovo principio, che non è un risultato della sua tribolata vicenda, bensì un dono munificamente accordatole dall'alto. Se già ogni uomo è qualcosa d'ineffabilmente nuovo, qualcosa di ben superiore alla mera somma di cromosomi e di ben più alto del mero prodotto d'un determinato ambiente, in quanto è una creatura unica ed irreiterabile di Dio, a tanta maggior ragione Gesù è l'Essere veramente nuovo, che non sorge dal seno dell'umanità, ma nasce invece dallo Spirito di Dio. Contrariamente a tutti gli eletti esistiti prima di lui, egli non solo riceve lo Spirito di Dio, ma sussiste anche nella sua esistenza terrena unicamente in virtù dello Spirito, impersonando così la pienezza di tutti i profeti: il profeta per antonomasia. Di per sé, non dovrebbe esserci alcun bisogno di ricordare come tutte queste asserzioni rivestano un'importanza, unicamente dando per presupposto, che si sia realmente verificato l'avvenimento il cui significato esse si sforzano di mettere in luce. Esse rappresentano l'interpretazione d'un fatto; qualora il reale evento fosse tolto di mezzo, si trasformerebbero in un discorso a vuoto, che andrebbe qualificato non solo destituito di serietà ma addirittura disonesto. Sui tentativi fatti in questo senso d'altronde, per ben intenzionati che possano essere, incombe una minacciosa contraddizione che si potrebbe chiamare quasi tragica: proprio nello stesso momento in cui abbiamo scoperto la corporeità dell'uomo con tutte le fibre della nostra esistenza, riuscendo a comprendere il suo spirito ancora soltanto come incarnato, come un esser-corpo, non come un avere-corpo, si tenta ora di salvare la fede scorporandola totalmente, relegandola nella sfera del mero "sentimento", della pura interpretazione autosufficiente, che sembra sottrarsi alla critica unicamente grazie alla sua reale inconsistenza. La fede cristiana professa invece in tutta verità che Dio non è prigioniero della sua eternità e non è coartato alla sola sfera spirituale, ma può invece interferire hic et nunc nel mio mondo; e vi ha realmente interferito in Gesù, nuovo Adamo, nato da Maria vergine ad opera della potenza creatrice di Dio, il cui Spirito aleggiava sulle acque agli albori del mondo, e che ha tratto l'essere dal nulla. In questa materia, s'impone ancora un rilievo. Il significato rettamente inteso del segno divino costituito dalla nascita verginale indica, al contempo, quale sia la collocazione teologica della pietà mariana, che si può dedurre dalla fede neo-testamentaria. Tale devozione non può ovviamente poggiare su una mariologia che rappresenti una specie di riedizione in formato ridotto della cristologia: un doppione del genere non ha né ragione, né diritto di esistere. Qualora si voglia additare un trattato teologico nel quale la mariologia rientri come esatta concretizzazione, bisognerebbe mettere senz'altro avanti quello concernente la dottrina della grazia, la quale forma a sua volta tutt'uno con l'ecclesiologia e l'antropologia. Nella sua qualità di vera "Figlia di Sion", Maria è simbolo della chiesa, immagine esemplare dell'uomo credente, il quale non può pervenire alla salvezza e alla consapevolezza di sé in nessun altro modo, fuorché tramite il dono dell'amore, ossia mediante la grazia. La sentenza con cui lo scrittore Bernanos fa terminare il suo Diario d'un parroco di campagna - "Tutto è grazia" -, la sapiente massima con cui qui una vita che sembrava impastata solo di debolezza e d'inutilità, può invece riconoscersi colma di ricchezza e di sostanziosa efficienza, si è davvero concretizzata in Maria, la "piena di grazia" (Lc 1,28). Ella non è la contestazione o la messa in forse dell'esclusività della salvezza proveniente da Cristo, bensì proprio un diretto richiamo ad essa. E' una figura rappresentativa dell'umanità, la quale è tutta protesa all'aspettativa, ed abbisogna tanto più urgentemente di questo modello ispiratore, quanto più corre il pericolo di obliare l'attesa per abbandonarsi troppo fiduciosamente all'attività. L'umanità infatti è sempre tentata di immergersi nell'azione, la quale - per indispensabile che sia - non potrà mai riempire il vuoto incombente come una minaccia sull'uomo, allorché egli non trova quell'assoluto Amore che unico gli apporta il senso della vita, la salvezza, la vera linfa necessaria alla sua esistenza.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:25
2b


"DISCESE ALL'INFERNO"

Forse nessun articolo di fede suona così lontano ed ostico alla nostra coscienza odierna come questo. Accanto alla confessione della nascita di Gesù dalla Vergine Maria e dell'Ascensione del Signore, esso invita insistentemente alla "demitizzazione", che qui sembra poter esser tradotta in atto senza alcun pericolo e senza scandali. I pochi passi paralleli, nei quali la Scrittura sembra dir qualcosa sull'argomento (I Pt 3,19 s.; 4,6; Ef 4,9; Rom 10,7; Mt 12,40; Atti 2,27.31), sono di così difficile interpretazione, da poter essere facilmente volti nelle direzioni più diverse. Sicché, decidendosi una buona volta ad eliminare definitivamente l'asserto, sembra di avere ottenuto il vantaggio di essersi liberati d'una faccenda strana e difficilmente inquadrabile nel nostro pensiero, pur senza rendersi colpevoli di particolare infedeltà all'assunto complessivo. Mai così facendo, si è davvero guadagnato qualcosa? O non si è piuttosto andati fuori strada, semplicemente per non voler affrontare una zona difficile ed oscura del reale? Si può tentar di sbrigarsela dei problemi semplicemente negandoli, oppure prendendoli di petto. La prima via è certo più comoda; ma soltanto la seconda porta davvero a progredire. Pare quindi ovvio che noi, invece di accantonare il problema, siamo tenuti ad imparar a vedere come questo articolo di fede, al quale nel corso dell'anno ecclesiale è ordinata la liturgia del sabato santo, c'interessi oggi più da vicino che mai, in quanto incarna con particolare intensità l'esperienza del nostro secolo. Al venerdì santo, il nostro sguardo rimane sempre puntato sul crocifisso; il sabato santo invece è il giorno della "morte di Dio", il giorno che esprime ed anticipa l'inaudita esperienza da cui è travagliato il nostro tempo: la sensazione che Dio s'è assentato da noi, che la tomba lo ricopre, che egli non vigila e non parla più, sicché non c'è più nemmeno bisogno di contestarne l'esistenza, ma si può tranquillamente farne a meno. "Dio è morto, e siamo noi che l'abbiamo ucciso". Questa lapidaria affermazione di Nietzsche rientra testualmente nella tradizione della pietà cristiana incentrata sulla passione; ed esprime icasticamente il senso del sabato santo, cioè appunto la "discesa all'inferno". Ogni qualvolta sento nominare questo articolo, mi vengono alla mente due scene bibliche. Innanzitutto quel crudele episodio dell'Antico Testamento, in cui Elia incita i sacerdoti di Baal ad impetrare dal loro dio il fuoco per il sacrificio. Essi lo fanno, ma naturalmente non succede nulla. Allora egli li schernisce, esattamente come un illuminista sbeffeggia la persona pia, trovandola coperta di ridicolo quando non ottiene nulla con la sua preghiera. Il profeta li prende in giro, facendo loro osservare che forse non hanno pregato abbastanza forte: "Gridate più forte! Baal è certamente Dio, ma forse è occupato, o ha degli affari, o è in viaggio; può anche darsi che dorma, e quindi si sveglierà!" (I Re, 18,27). Allorché oggi si rilegge questo atroce scherno rivolto ai devoti di Baal, ci si può certamente sentire un po' sconcertati dal suo sinistro accento; si può avere la sensazione che ora noi stessi ci troviamo in una situazione del genere, sicché quella canzonatura debba ora rovesciarsi su di noi. Nessun grido sembra più capace di risvegliare Dio. Il razionalista pare tranquillamente autorizzato a dirci: pregate più forte, che forse allora il vostro Dio si sveglierà. "Discese nel regno dei morti": questa frase sembra proprio designare l'amara verità dell'ora nostra, lo sprofondamento di Dio nel mutismo, nel cupo silenzio dell'assente. Ma accanto alla storia di Elia e alla sua analogia neotestamentaria, costituita dall'episodio del Signore che dorme durante l'infuriare della tempesta sul lago (Mc 4,35-41 e paralleli), affiora qui alla memoria anche il racconto della cena di Emmaus (Lc 24,13-35). I discepoli sconvolti parlano della morte delle loro speranze. Per essi, è accaduto qualcosa che assomiglia alla morte di Dio: il punto in cui Dio sembrava aver parlato in maniera esauriente e definitiva, è stato cancellato, spazzato via. L'Inviato di Dio è morto, e quindi si è fatto attorno a loro il vuoto assoluto. Ma proprio mentre vanno parlando della morte delle loro speranze, incapaci ormai di vedere Dio, essi non avvertono nemmeno come precisamente questa speranza pulsi più viva che mai in mezzo a loro. Non notano come "Dio", o meglio ancora l'idea che s'erano fatti della sua promessa, dovesse necessariamente morire per poter rivivere più grande di prima. L'immagine che s'erano formata di Dio e nella quale avevano tentato di comprimerlo, doveva venir distrutta, perché essi, quasi montando sulle rovine della casa demolita, potessero rivedere il cielo e Quello stesso che resta sempre l'infinitamente più grande di tutto. Il poeta Eichendorff ha espresso questo pensiero alla maniera piena di sentimento, che a noi appare quasi ingenua, tipica, del suo secolo:

Tu sei colui che distrugge con mite mano
ciò che noi costruiamo sul nostro capo;
e lo fai dolcemente, per farci rivedere il cielo.
Ecco perché non me ne lamento.

Allo stesso modo, l'articolo di fede concernente la discesa agli Inferi del Signore ci rammenta come della rivelazione cristiana non faccia parte solo la parola di Dio, ma anche il silenzio di Dio. Dio non è soltanto la parola comprensibile che fluisce verso di noi; è invece anche la Causa silente e inaccessibile, incompresa e inafferrabile, che si sottrae a noi. Certo, nel cristianesimo si ha un primato del Logos, della Parola, sul silenzio: Dio ha effettivamente parlato. Ma non dobbiamo per questo dimenticare la verità del perenne nascondimento di Dio. Solo allorché l'abbiamo sperimentato come solenne Silenzio, possiamo sperare di percepire anche la sua Parola, che sgorga avvolta nel tacito mistero. La cristologia procede oltre la croce, che è il momento percettibile dell'amor divino, per tuffarsi nella morte, nel silenzio e nell'obnubilamento di Dio. Possiamo allora meravigliarci, se la chiesa, la vita stessa del singolo, vengono continuamente trascinate in quest'ora del silenzio, nel dimenticato e accantonato articolo "Discese all'inferno"? Una volta che si tenga presente questo, si risolve da sé anche il problema delle "prove scritturali" riguardanti il nostro articolo; per lo meno nel grido lanciato da Gesù al momento della sua morte: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato" (Mc 15,34)?, il mistero della discesa di Gesù agli inferi si fa a noi percettibile, come un lampo nell'oscurità della notte. Non dimentichiamo però che questa invocazione del crocifisso è la frase iniziale d'una preghiera di Israele (Sal 22[21],2), nella quale si riassumono in maniera toccante l'afflizione e la speranza di questo Popolo, eletto da Dio ed ora apparentemente da lui abbandonato nel modo più desolante. Tale preghiera, sgorgante dalla più profonda afflizione della tenebra in cui Dio s'è avvolto, termina però con un inno alla grandezza di Dio. Ora, anche questo risulta presente nel grido di morte emesso da Gesù, grido che Ernst Kasemann ha designato concisamente come una preghiera scaturente dall'inferno, come il rilancio del primo comandamento nel deserto dell'apparente assenza di Dio: "Il Figlio mantiene ancora salda la fede, anche adesso, mentre la fede sembra divenuta un non-senso e la realtà terrena palesa chiaramente l'assenza di Dio, di cui non per nulla parlano il primo ladrone e la folla schernitrice. Il suo grido non è rivolto alla vita e alla sopravvivenza, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido si contrappone alla realtà, all'intero mondo". E allora, abbiamo ancora forse bisogno di chiederci che cosa debba rappresentare la preghiera nella nostra ora di tenebra? Può forse essere qualcosa di diverso dal grido lanciato dal profondo assieme al Signore, che è "disceso all'inferno" ed ha riaffermato la vicinanza di Dio proprio nel bel mezzo dell'abbandono in cui egli ci vuol lasciare? Accingiamoci ora ad un'altra riflessione, per penetrare un pochino in questo poliedrico mistero che da un solo lato non è possibile chiarire. Prendiamo innanzitutto atto d'una constatazione esegetica. Ci si dice che, nel nostro articolo di fede, la parola "inferno" sarebbe solo una errata traduzione di Sceol (in greco Hades), con cui gli ebrei designavano lo stato oltre la morte, che veniva immaginato molto vagamente come una specie di esistenza da regno delle ombre, piú un non-essere che un essere. Pertanto, l'asserto avrebbe originariamente significato solo che Gesù era entrato nello Sceol, ossia che era morto. Ora, ciò potrà magari anche esser giusto. Ma resta pur sempre da vedere se così la faccenda si è davvero semplificata, divenendo meno misteriosa di prima. Io ritengo invece che proprio ora il problema presenti il suo vero volto: la morte e ciò che accade quando uno muore, ossia entra nel regno della morte. Di fronte a questo problema, dobbiamo tutti quanti confessare la nostra perplessità. Nessuno sa realmente che cosa succeda, perché tutti viviamo al di qua della staccionata della morte, e quindi non abbiamo alcuna esperienza diretta di questo fatto. Possiamo però forse tentar di accostarla proprio partendo ancora una volta dal grido lanciato da Gesù sulla croce, in cui abbiamo riscontrato espresso il nucleo centrale di ciò che significa la discesa di Gesù agli inferi, la sua partecipazione al destino di morte dell'uomo. In questa estrema preghiera di Gesù, come del resto anche nella scena dell'orto degli ulivi, il nucleo più profondo della sua Passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. Ora qui viene in luce, in definitiva, semplicemente l'abissale solitudine dell'uomo in genere: dell'uomo che nel suo intimo è solo, tragicamente solo. Questa solitudine, che viene sì per lo più camuffata in svariati modi, ma rimane pur sempre ugualmente la vera situazione dell'uomo, denota al contempo la più stridente contraddizione con la natura stessa dell'uomo, che non può sussistere da solo ma abbisogna invece d'una vita comunitaria. La solitudine è perciò la regione dell'angoscia, radicata nel fatto stesso che l'essere è gettato allo sbaraglio, eppur deve egualmente esistere, anche trovandosi costretto ad affrontare l'impossibile. Vediamo ora di spiegare un po' meglio questo fatto adducendo un esempio. Quando un bambino si trova obbligato ad attraversare un bosco da solo, in una notte oscura, è preso dal terrore, quand'anche gli sia stato dimostrato nella maniera più convincente che non c'è assolutamente nulla di cui egli debba temere. Al momento in cui egli si trova solo ed immerso nelle tenebre, sperimentando così radicalmente il senso della solitudine, insorge immediatamente in lui la paura, l'autentica paura dell'uomo, che non è paura di fronte a qualcosa, bensì paura e basta. La paura di fronte a qualcosa di determinato è in fondo innocua: può infatti venire scacciata togliendo di mezzo l'oggetto che la provoca. Tanto per fare un esempio, quando uno ha paura d'un cane che morde, si fa presto a rimediare all'inconveniente legando il cane alla catena. Nel caso nostro invece, c'imbattiamo in qualcosa di ben più profondo: l'uomo, allorché si trova confinato nell'estrema solitudine, non trema di fronte a qualcosa di determinato, che è suscettibile di venir eliminato; prova invece il terrore della solitudine, sente l'inquietudine e l'inerme condizione della sua stessa natura, che non sono debellabili per via razionale. Facciamo un esempio ancora: quando uno deve vegliare da solo di notte con un morto in stanza, sentirà sempre la sua posizione come un tantino disagiata e sconcertante, anche se non vuol confessarlo nemmeno a se stesso, e si trova in grado di convincersi razionalmente dell'inoggettività delle sue sensazioni. Di per sé, egli sa benissimo che il morto non può fargli assolutamente nulla, e che la sua situazione sarebbe probabilmente assai più pericolosa qualora la persona che veglia fosse ancora viva. Ciò che qui insorge è un tipo completamente diverso di paura: non è la paura di fronte a qualcosa, bensì la sinistra angoscia della solitudine in sé, affiorante dal suo restare, solo con la morte, l'inermità dell'esistenza posta davanti all'ignoto. Dobbiamo ora chiederci: e allora, come è possibile vincere tale paura, se la prova dell'assoluta inconsistenza del pericolo annaspa nel vuoto? Ebbene, ecco: il bambino si troverà completamente liberato dalla sua paura, nell'istante stesso in cui troverà una mano che stringa la sua e lo guidi, nell'attimo in cui sentirà una voce che gli parli; nel momento quindi, in cui sperimenterà la compagnia d'un uomo che gli voglia bene. E anche colui che si trova solo col morto, sentirà subito sparire l'accesso di paura non appena un altro uomo si accosti a lui, non appena senta la vicinanza di un "tu". Ora, in questo superamento della paura, si rivela simultaneamente anche la sua vera natura: come essa sia il terrore della solitudine, l'angoscia che attanaglia un essere suscettibile di vivere solo in associazione. La tipico paura dell'uomo può venir superata non tramite la ragione, bensì soltanto tramite la presenza d'un essere che gli voglia bene. Dobbiamo ora sviscerare ulteriormente il nostro assunto. Se esistesse una solitudine in cui nessuna parola d'un altro potesse più penetrare a cambiare lo stato di fatto; se si verificasse un abbandono talmente profondo, da non permettere più ad alcun "tu" di giungervi avremmo allora l'autentica e totale solitudine, quello stato spaventoso e sinistro che il teologo chiama "inferno". Che cosa significhi questa parola, lo possiamo esattamente definire prendendo le mosse da quanto abbiamo testé detto: essa denota proprio una solitudine, in cui non entra più la parola dell'amore, e che costituisce quindi l'autentica esposizione allo sbaraglio dell'esistenza. A questo proposito, a chi non viene subito in mente come poeti e filosofi del nostro tempo ribadiscano proprio l'idea che, in fondo, tutti gli incontri fra uomini s'arrestano alla superficie, sicché nessun uomo ha accesso al genuino profondo dell'altro? Stando a queste concezioni quindi, nessuno può realmente raggiungere l'intimo dell'altro; ogni incontro, per bello che sembri, si limita pertanto solo ad anestetizzare l'insanabile piaga della solitudine. Nel più profondo della nostra esistenza perciò, s'anniderebbe l'inferno, la disperazione: la terribile solitudine insomma, che è tanto ineluttabile quanto raccapricciante. Sartre ha notoriamente costruito su quest'idea tutta la sua antropologia. Ma anche un poeta in apparenza così conciliante e d'animo sollevato come Herman Hesse lascia trapelare, in fondo, gli stessi pensieri:

E' strano camminare nella nebbia!
Vivere vuol dire esser soli.
Nessun uomo conosce l'altro:
ognuno è solo!

In effetti, una cosa è certa: esiste una notte, nel cui desolato abbandono non giunge alcuna voce; esiste una porta, attraverso la quale possiamo transitare esclusivamente da soli: la porta della morte. Ogni paura imperante nel mondo è in definitiva paura di questa tremenda solitudine. Si capisce allora perché l'Antico Testamento abbia una sola parola, per indicare gli inferi e la morte: la parola Sceol. In fondo, per esso le due cose sono identiche. La morte è la solitudine per antonomasia. Ma l'orrenda solitudine in cui nemmeno l'amore riesce più a penetrare, è davvero l'"inferno". Siamo così tornati nuovamente al punto di partenza, cioè all'articolo di fede che afferma la discesa di Gesù agli inferi. Questo asserto ci conferma quindi che Cristo ha varcato la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi con la sua passione in questo abisso del nostro estremo abbandono. Là dove nessuna voce è più in grado di raggiungerci, egli è tuttora presente. Con ciò però l'inferno è vinto per sempre, o - per essere più esatti - la morte, che prima era davvero l'"inferno", ora non lo è più. Anzi, nessuno dei due è più lo stesso di prima, perché in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l'amore. Soltanto la chiusura in se stessi voluta di proposito è ora l'"inferno", oppure - per dirla con la Bibbia - la seconda morte (ad es. Apoc 20,14). Il morire invece non è più la via della paurosa e glaciale solitudine, giacché le porte dello Sceol sono state sfondate. Io penso che proprio riallacciandosi a questo fatto si possano comprendere le immagini adottate dai padri, a prima vista di sapore così mitologico, quando ci parlano di ricupero dei morti, di apertura delle porte; e si rende comprensibile anche quel testo, apparentemente così mitico, del vangelo di Matteo, in cui ci vien detto che alla morte di Gesù si sono aperti i sepolcri e sono risuscitati i corpi di molti santi (Mt 27,52). I battenti della morte si sono aperti e restano spalancati, da quando nella morte pulsa la vita, da quando vi ha preso dimora l'amore...
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:28
2c


"RISUSCITO' DA MORTE"

La professione di fede nella Risurrezione di Cristo Gesù costituisce per i cristiani l'espressione che conferma la verità di quel principio, che sembrerebbe essere solo un bel sogno: "L'amore è forte come la morte" (Cant 8,6). Nell'Antico Testamento, questa massima è incastonata in un inno esaltante la forza dell'eros. Ciò tuttavia non significa affatto che noi siamo autorizzati a relegarla sbrigativamente in un canto, quasi fosse un'enfatica esagerazione innodica. Nelle sconfinate esigenze dell'eros, infatti, nelle sue apparenti esagerazioni e smodate brame, viene in realtà alla ribalta un problema fondamentale, diremmo anzi il problema fondamentale dell'esistenza umana, in quanto vi si manifestano la natura e l'intrinseca paradossalità dell'amore: l'amore esige infinità, indistruttibilità; esso è addirittura quasi un urlo lanciato dall'uomo per reclamare l'infinito. Ma contemporaneamente si rileva come questo suo grido sia irrealizzabile, come esso aneli all'infinito ma sia incapace di ottenerlo; si constata come esso aspiri sì all'eternità, ma si trovi in realtà imprigionato in un mondo di morte, incatenato nella sua solitudine e nei suoi impulsi distruttivi. Ora, da questo si può capire che cosa significhi la "risurrezione". Essa è la superiorità effettiva dell'amore sulla morte. Essa è però al contempo anche la chiara dimostrazione dell'unica cosa capace di creare l'immortalità: il sussistere in un altro, che continua ancora ad esistere anche quando io mi sono dissolto. L'uomo è quell'essere che non vive eternamente, ma è necessariamente votato alla morte. Per lui, che non ha in sé un principio di sussistenza, umanamente parlando il sopravvivere risulterà possibile soltanto continuando ad esistere in un altro. Gli asserti della Scrittura che affermano lo stretto nesso d'interdipendenza vigente fra peccato e morte, vanno intesi appunto rifacendosi a questa realtà di fatto. Ora infatti appare chiaro che il tentativo fatto dall'uomo per giungere "ad essere come Dio", il suo conato d'autarchia mediante il quale pretenderebbe di sussistere esclusivamente per conto suo, finisce logicamente per comportare la sua morte, in quanto come essere solo a sé stante non potrà mai esistere. Allorché l'uomo, disconoscendo i suoi propri limiti, pretende di vivere unicamente per conto suo, in maniera completamente "autarchica" - e la genuina essenza del peccato sta proprio qui -, non fa che buttarsi volontariamente in braccio alla morte. L'uomo naturalmente capisce molto bene che la sua vita da sola non si regge, per cui si trova obbligato a sforzarsi di sopravvivere negli altri, cercando di restare perennemente nella sfera dei viventi in loro e tramite loro. Per conseguire tale intento, sono state tentate soprattutto due vie. In primo luogo quella di sopravvivere nei propri figli: ecco perché, nei popoli primitivi, il celibato e la mancanza di figli vengono sempre considerati come la peggiore delle maledizioni; essi equivalgono infatti ad un disperato naufragio, ad una morte senza scampo. Viceversa, il maggior numero possibile di figli offre la migliore garanzia possibile di sopravvivenza, la più vivida speranza d'immortalità, e quindi la più ambita benedizione che l'uomo possa attendersi. Una seconda via si apre davanti all'uomo, allorché egli scopre di sopravvivere nei figli soltanto in maniera assai imperfetta; egli desidera allora di lasciar superstite una parte ben più consistente di se stesso. Si rifugia quindi nell'idea della celebrità, che dovrebbe renderlo veramente immortale, portandolo a sopravvivere lungo tutti i tempi nella memoria della gente. Ma anche questo secondo tentativo, messo in opera dall'uomo per crearsi un'immortalità mediante l'essere in altri, fallisce non meno miseramente del primo: ciò che di lui permane non è il suo vero essere, bensì solo una sua eco, una sua ombra. Sicché in sostanza l'immortalità di propria fabbricazione è solo un Ade, uno Sceol: più un non-essere, che un essere. L'insufficienza di ambedue queste vie sta nel fatto che l'altro, il quale dovrebbe conservare il mio essere anche dopo che io sarò morto, in effetti non è in grado di mantenere in vita questo stesso essere, bensì solo una sua risonanza; e ancor più nel fatto che anche lo stesso soggetto al quale ho per così dire affidato la mia sopravvivenza, non sussisterà per sempre, ma finirà invece per scomparire a sua volta. Tutto questo ci porta a fare il prossimo passo avanti nel nostro assunto. Abbiamo sinora detto che l'uomo non possiede in sé alcuna forza di sussistenza, per cui può continuar ad esistere solo in qualcun altro; ma anche in questo altro egli sopravvive sempre e solo in maniera ombratile, e per di più mai nemmeno stabile e definitiva, in quanto anche l'altro è destinato a sparire dalla circolazione. Ora, se le cose stanno così, resta soltanto uno che sia veramente in grado di offrire una solida base di sussistenza: colui che "è", colui che non va soggetto al divenire e al tramontare, ma resta invece tetragono ed inconcusso pur in mezzo al divenire e al trascorrere; si tratta del Dio dei viventi, che non si limita a conservare solo un'ombra ed un'eco del mio essere, di quel Dio i cui pensieri non sono soltanto delle mere copie delle realtà esistenti. Io stesso invece sono un suo pensiero, un pensiero che mi pone in essere per così dire ancor più originariamente di quello che sono in me stesso; il suo pensiero infatti non è l'ombra derivata, bensì l'energia fontale del mio essere. In lui, io posso continuar a vivere non soltanto come ombra, ma davvero in maniera ancor più realisticamente identica a me stesso di quanto non mi riesca di vivere tentando di restarmene convulsivamente aggrappato a me stesso. Prima di tornare all'assunto della Risurrezione, cerchiamo ancora di esaminare la stessa cosa osservandola da un lato leggermente diverso. A tal fine, possiamo nuovamente riagganciarci al binomio amore-morte, argomentando così: solo quando per un soggetto il valore dell'amore supera quello della stessa vita, ossia quando uno è disposto a collocare la vita in secondo piano dietro l'amore e per far posto all'amore, solo allora - ripeto - l'amore può risultare davvero più forte e più alto della morte. Per esser superiore alla morte infatti, l'amore deve innanzitutto contare più della semplice vita. Ora, quando l'amore potesse davvero esser tale non solo in linea volitiva, ma anche in realtà, vorrebbe dire che la potenza dell'amore avrebbe avuto il sopravvento anche sulla sfera meramente biologica, assoggettandola al suo servizio. Per dirla con la terminologia di Teilhard de Chardin, qualora accadesse davvero questo, si riscontrerebbe verificata la decisiva "complessità", vale a dire attuato il ciclo complessivo: anche la sfera biologica risulterebbe compresa e inclusa nella potenza dell'amore. Allora esso verrebbe a superare anche il suo limite - la morte -, creando l'unità laddove la morte crea la separazione. Qualora la forza dell'amore per un altro fosse così intensa, da poter mantenere viva non soltanto la sua memoria, cioè l'ombra del suo "io", ma anche la sua soggettività personale, si sarebbe raggiunto un nuovo stadio di vita, il quale si lascerebbe alle spalle la zona delle mutazioni ed evoluzioni biologiche, comportando automaticamente il balzo su un piano completamente diverso, in cui l'amore non sarebbe più soggetto al "bíos", ma lo ingaggerebbe invece al suo servizio. Allora, un tale ultimo stadio di "mutazione evolutiva" non rappresenterebbe ormai più un gradino biologico, ma comporterebbe invece l'evasione dalla dispotica tirannia della vita biologica, che è al contempo signoria incontrastata della morte; esso darebbe accesso a quella sfera che la Bibbia greca chiama "zoè", ossia vita imperitura, la quale si è ormai disimpegnata completamente dalla dittatura della morte. In tal caso, lo stadio ultimo d'evoluzione di cui il mondo abbisogna per raggiungere il suo traguardo, non si troverebbe più nell'ambito della sfera biologica, ma verrebbe invece offerto dallo spirito, dalla libertà, dall'amore. Esso quindi non sarebbe più un'evoluzione, bensì una decisione e un dono insieme. Va bene, si dirà, ma tutto ciò cosa c'entra con la fede nella risurrezione di Gesù? Veniamo subito al dunque. Sinora abbiamo riesaminato il problema della possibile immortalità dell'uomo guardandolo da due lati, che attualmente si presentano come aspetti d'un unico e identico dato di fatto. Abbiamo detto che, siccome l'uomo non possiede in sé alcun principio di stabile consistenza, la sua sopravvivenza potrà realizzarsi unicamente quando egli riesca a continuar a vivere in un altro. E a proposito di questo "altro", abbiamo anche detto come soltanto l'amore, il quale accoglie l'amato in se stesso assorbendolo in sé, sia in grado di render possibile tale sussistere nell'altro. Orbene: a mio modesto modo di vedere, questi due aspetti integrantisi a vicenda si riflettono nelle due formule neo-testamentarie che ribadiscono appunto la risurrezione del Signore: "Gesù è risorto", e "Dio (Padre) ha risuscitato Gesù". Entrambe le formulazioni s'incontrano e si armonizzano nel fatto che l'amore totale portato da Gesù agli uomini, dal quale egli è stato condotto sulla croce, raggiunge lo stadio perfetto nella sua totale traslazione sul Padre, divenendo così più forte della morte, in quanto si tramuta istantaneamente in un totale assorbimento in lui. Tenendo presente questo, ci risulta possibile fare un altro passo innanzi. Possiamo ora affermare che l'amore genera sempre una specie d'immortalità; già persino nei suoi stadi pre-umani esso marcia in questa direzione, almeno come mezzo per la conservazione della specie. Tale sua capacità di dar origine ad una immortalità non è qualcosa di accessorio, qualcosa che esso adempie come una funzione qualsiasi fra tante altre; è invece proprio la sua peculiarità, la dote essenziale che manifesta la sua vera natura. Questa affermazione è convertibile, e ci viene a dire che l'immortalità proviene sempre dall'amore, mai quindi dall'autarchia di colui che si considera autosufficiente. Possiamo persino spingere la nostra audacia fino ad asserire che questo principio, inteso nel giusto senso, si applica anche a Dio stesso, così come lo vede la fede cristiana. Anche Dio infatti è un'assoluta sussistenza e consistenza tetragona ad ogni tramonto, perché è armonica coordinazione di tre persone, è un loro trasfondersi nel mutuo amore, è atto sostanziale del loro amore assoluto eppure integralmente "relativo", in quanto vive soltanto nel flusso inesauribile dei loro rapporti vicendevoli. Come già dicevamo in precedenza, veramente divina non è l'autarchia, che non conosce nessun altro all'infuori del soggetto stesso; è appunto per questo, che abbiamo individuato la rivoluzione dell'immagine cristiana del mondo e di Dio rispetto all'antichità nel fatto che il cristianesimo c'insegna a concepire l'"Assoluto" come assoluta "relatività", come "relatio subsistens". Ma torniamo al nostro assunto. L'amore genera l'immortalità, e l'immortalità scaturisce unicamente dall'amore. Questo principio che ci accingiamo ora a sviscerare, comporta poi inoltre che colui il quale ha amato per tutti, ha anche fondato l'immortalità per tutti. E' precisamente questo il senso dell'affermazione biblica, secondo cui la sua risurrezione è la nostra vita. E riallacciandosi a questo fatto, ci diviene comprensibile anche l'argomentazione, di primo acchito così estranea ed ostica al nostro sentimento, sviluppata da s. Paolo nella sua prima Lettera ai Corinti: se egli è risorto, anche noi risorgeremo, perché l'amore è più forte della morte; se invece egli non è risorto, non risorgeremo neppure noi, perché allora è chiaro che la morte ha l'ultima parola e basta (cfr. I Cor 15,16). Dato che si tratta d'un asserto d'importanza centrale, cerchiamo d'interpretarlo dandone un'altra versione ancora: o l'amore è più potente della morte, oppure non lo è. Se in lui esso è davvero divenuto forte così, lo è divenuto proprio in veste d'amore verso gli altri. Ciò per altro vuol ovviamente dire che il nostro amore soggettivo, lasciato unicamente a se stesso, non riesce a vincere la morte, ma sarebbe invece costretto per sua stessa costituzione a restare un appello inesaudito. Ciò significa a sua volta che soltanto il suo amore, il quale viene ad identificarsi con la potenza vitale ed amorosa di Dio stesso, è in grado di gettare le basi della nostra immortalità. Tuttavia, resta pur sempre assodato che la modalità della nostra immortalità verrà a dipendere dal nostro modo di amare. Su questo argomento, dovremo tornare ancora quando sarà il momento di parlare del giudizio. Dai rilievi sinora fatti, fluisce un'altra cosa ancora. Va da sé che la vita del risorto non sarà più il semplice "bìos", ossia la forma biologica della nostra vita attuale infra-storica e quindi votata alla morte, bensì la "zoè", ossia una vita nuova, diversa, stabile e definitiva; una vita che ha ormai superato la sfera mortale della vicenda biologica, sfera che qui si trova scavalcata definitivamente da una potenza superiore. Infatti, gli stessi racconti neo-testamentari della risurrezione ci fanno vedere chiaramente come la vita del Risorto non si svolga ormai più nell'ambito della vicenda biologica, ma fuori e sopra di essa. E' però altrettanto ovvio e scontato che questa nuova vita si è attestata e doveva necessariamente attestarsi nella storia, perché esiste proprio in funzione di essa, tanto è vero che la predicazione cristiana in fondo altro non è se non la trasmissione di tale testimonianza, tutta intenta a ribadire che l'amore è riuscito a sfondare la staccionata della morte, cambiando così radicalmente la situazione in cui ognuno di noi versa. Partendo da queste nozioni basilari, non risulta più poi tanto difficile trovare la giusta "ermeneutica" da adottare nell'intricata questione del come spiegare i testi biblici concernenti la risurrezione, così da mettere in chiaro in quale senso vadano esattamente intesi. Ovviamente, non possiamo qui intavolare una particolareggiata discussione sui relativi problemi insorgenti, che oggi si presentano più difficili di quanto mai non siano stati in passato, soprattutto perché vi si continuano a mescolare in un viluppo sempre più inestricabile affermazioni storiche e filosofiche - per lo più insufficientemente ponderate -; e inoltre anche perché non di rado l'esegesi si costruisce una filosofia tutta sua, la quale all'estraneo deve per forza dar l'impressione d'un'estremamente raffinata esaltazione del reperto biblico. In merito ai particolari, qui molte cose rimarranno sempre assai discutibili; tuttavia, va pur ammessa una linea fondamentale di demarcazione fra interpretazione che sappia mantenersi tale, e adattamenti spiccatamente arbitrari. In primo luogo è chiarissimo che Cristo, nella risurrezione, non ha ripreso la sua vita terrena antecedente, come ci vien detto ad es. del ragazzo di Naim e di Lazzaro. Egli è risorto invece a quella vita stabile e definitiva, che non sottostà più alle leggi chimiche e biologiche, e quindi risulta ormai sottratta all'eventualità della morte, posta anzi per sempre al riparo nell'eternità accordata dall'amore. Ecco perché gli incontri avvenuti con lui sono "apparizioni"; ecco perché colui assieme al quale ancora due giorni prima si era seduti a mensa, non viene più nemmeno riconosciuto dai suoi migliori amici, e anche una volta riconosciuto rimane estraneo ad essi, cosicché solo quando egli stesso concede la facoltà di vederlo vien davvero visto; in effetti, solo allorché egli ci apre gli occhi e il nostro cuore si lascia aprire, può risultar percettibile in mezzo al nostro mondo di morte il volto dell'eterno amore vincitore della morte, e in esso il mondo nuovo, completamente diverso dall'attuale: il mondo del futuro. Per la stessa ragione, torna tanto difficile, per non dire addirittura impossibile, anche agli stessi vangeli il descrivere gli incontri col risorto; quando ne parlano, non fanno che balbettare, e sembrano persino contraddirsi mentre ce li presentano. In realtà invece, sono sorprendentemente unanimi nella dialettica delle loro affermazioni, nel ribadire la contemporaneità del suo toccare e non toccare, del loro riconoscere e non riconoscere, nell'insistere sulla perfetta identità fra il crocifisso e il risorto, ma anche sulla radicale trasformazione avvenuta in lui. Si riconosce il Signore quasi senza riconoscerlo; lo si tocca, eppure egli è l'intangibile; egli è lo stesso, eppure è tutto diverso da prima. Come si è detto, questa dialettica è sempre la stessa: cambiano solo i mezzi stilistici con cui viene messa a fuoco. Esaminiamo ad esempio l'episodio dei discepoli di Emmaus, nel quale ci siamo già brevemente imbattuti, sviscerandolo un pochino meglio sotto questo aspetto. A tutta prima esso suscita l'impressione di aver dinnanzi una descrizione corposa e massiccia della risurrezione; dà la sensazione che non sia rimasta traccia di quell'alone misterioso e indescrivibile che troviamo invece sempre nelle esposizioni paoline. Tutto fa pensare che la tendenza alla narrazione colorita, alla concretezza leggendaria, sostenuta da un'apologetica mirante al tangibile, abbia avuto completamente il sopravvento, riportando di peso il Signore risorto nella storia terrena. Ma risulta subito in netta contraddizione con tale fatto già la di lui misteriosa comparsa, e non meno misteriosa sparizione. E ancor più contraddittoria è la circostanza che egli qui rimanga irriconoscibile ad occhi pur assuefatti alla sua presenza. Non si è più in grado di coglierlo come al tempo della sua vita terrena, sicché viene scoperto solo nell'ambito della fede; interpretando le Scritture egli infiamma il cuore dei due pellegrini, e spezzando il pane apre loro gli occhi. Qui abbiamo una chiara allusione ai due elementi basilari della liturgia cristiana primitiva, che si compone appunto di liturgia della parola (lettura e spiegazione della s. Scrittura) e di frazione eucaristica del pane. In tal modo, l'evangelista lascia capire che l'incontro col risorto viene a collocarsi su un piano completamente nuovo; utilizzando le "cifre" dei dati liturgici, egli tenta di descrivere l'indescrivibile. Ci dà così una teologia della risurrezione e al contempo una teologia della liturgia: il risorto s'incontra nella Parola e nel sacramento; l'azione liturgica è la maniera in cui egli si rende a noi percettibile, riconoscibile come il Vivente. E argomentando in modo inverso: la liturgia si fonda sul mistero pasquale; essa va intesa come un avvento del Signore fra noi, che lo porta a farsi nostro compagno di viaggio, ad infiammarci gli ottusi cuori e ad aprirci gli occhi serrati. Egli continua sempre a camminare con noi, trovandoci sempre scoraggiati ed intenti ad almanaccare; ma ha pur sempre il potere di ridarci la vista. Con tutto quanto siam venuti sin qui esponendo, abbiamo ovviamente detto soltanto una metà del dovuto; la testimonianza neo-testamentaria risulterebbe falsata, qualora volessimo arrestarci unicamente a questo. L'esperienza che si fa imbattendosi nel risorto è qualcosa di ben diverso dall'incontro con un uomo tuttora vivente in questa nostra storia; non può però certo venir fatta risalire a discorsi conviviali e a ricordi, che avrebbero finito per condensarsi nel pensiero che egli fosse ancora vivo e che la sua causa proseguisse vittoriosa. Con un'interpretazione del genere, l'evento viene sospinto nella direzione opposta e appiattito nella sfera meramente umana, e quindi privato della sua peculiarità. I resoconti lasciatici sulla risurrezione sono qualcosa di ben diverso e più sostanzioso di semplici scene liturgiche travestite: mettono invece in risalto l'avvenimento base su cui poggia ogni liturgia cristiana. Essi attestano un fatto che non è sbocciato come un sogno fantastico dal cuore dei discepoli, ma è invece capitato loro dal di fuori, imponendosi ad essi contro i loro dubbi e infondendo loro una certezza: il Signore è veramente risorto. Colui che giaceva nella tomba, non si trova più là, ma vive nuovamente e realmente in persona. Egli poi a sua volta, che ormai si era trasferito nell'altro mondo di Dio, aveva però saputo mostrarsi potente al punto, da manifestare sino alla tangibilità come fosse proprio lui stesso che ora stava loro davanti, facendo vedere come in lui la potenza dell'amore si fosse palesata più forte della potenza della morte. Orbene: solo ammettendo questo altrettanto seriamente quanto si è ammesso ciò che abbiamo detto in precedenza, ci si attiene fedelmente alla testimonianza del Nuovo Testamento; solo così si conserva ad essa il suo peso storico intramondano. Il troppo comodo tentativo di risparmiarsi da un lato la fede nel mistero della poderosa azione esercitata da Dio nel mondo, pretendendo al contempo la soddisfazione di rimanere pur sempre sul terreno del messaggio biblico, è un conato destinato ad andare a vuoto: non appaga infatti né l'onestà della ragione, né le esigenze della fede. Non è possibile avere la fede cristiana, e insieme la "religione ristretta nei limiti della mera ragione"; la scelta fra le due s'impone inderogabilmente. A chi crede però, risulterà man mano sempre più chiaramente discernibile, come lo stadio più perfetto della ragione sia proprio la professione di fede in quell'amore che ha vinto la morte.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:30
3 - Joseph Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio (Queriniana 1992)


L'UFFICIO ECCLESIASTICO E L'UNITA' DELLA CHIESA

Il tema "L'ufficio ecclesiastico e l'unità della chiesa" mette il dito su uno dei punti centrali della diversa concezione della realtà cristiana tra cristiani cattolici e riformati. Questa differenza salta subito agli occhi, non appena si confronta la definizione di chiesa della Confessio Augustana con il contemporaneo concetto cattolico di chiesa. La Confessio Augustana precisa nei termini seguenti la natura della chiesa: "Est autem ecclesia congregatio sanctorum, in qua evangelium pure docetur et rette administrantur sacramenta". La chiesa è quindi caratterizzata da due momenti: la parola e il sacramento. Vi si aggiunge poi la richiesta della purezza nel primo caso, della retta amministrazione nel secondo - ove si pone però subito il problema circa il criterio del puro e del retto, problema al quale il testo non dà risposta. Il contemporaneo concetto cattolico di chiesa accenna, nel determinare la natura della chiesa, agli stessi due elementi, ma ne aggiunge un terzo, come quando Giovanni di Ragusa - uno dei teologi del concilio di Basilea - definisce come i tre elementi su cui si costruisce la chiesa: confessio - communio - oboedientia. Alle due realtà di "parola" e "sacramento" viene qui affiancato come terzo l'ufficio ecclesiastico, e cioè come criterio che stabilisca dove sta il retto ed il puro. Il fatto che Melantone cancelli il terzo elemento, l'ufficio, quale criterio per la parola e il sacramento, e ponga per così dire autonomamente la richiesta del puro e del retto, questo segna la vera rottura, che la Riforma intraprende nel concetto di chiesa. Si deve qui notare che il pure et recte, divenuto autonomo, rappresenta una implicita polemica contro il terzo elemento omesso e ne deve essere anzi per così dire il surrogato, l'antitesi: non l'ufficio, ma la "rettitudine dell'evangelo" è il criterio che stabilisce la presenza della chiesa. Ha luogo una certa ipostatizzazione della parola, che viene ora intesa come un'entità propria, la quale dà a conoscere se stessa come indipendente e distinta dalla chiesa e si presenta quindi anche quale criterio autonomo e proprio della chiesa. E' così delineata la problematica, rimasta immutata su queste posizioni fino al presente. La teologia evangelica definisce la chiesa senza l'ufficio ed intende la parola come correttivo autonomo dell'ufficio; la teologia cattolica vede invece nell'ufficio il criterio della parola: essa non conosce una parola quasi-ipostatica, autonoma e distinta dalla chiesa, ma la parola vive nella chiesa, come la chiesa della parola - una relazione di reciproca dipendenza e rapporto. Per trovare risposta in questo dilemma, vorrei cercare anzitutto di delineare brevemente che cosa intende la Bibbia per chiesa e quale significato attribuisce all'ufficio, per poi mostrare come la coscienza cattolica di fede abbia sviluppato questi punti di partenza e come si attenga ai dati della Scrittura. E bisogna qui tener presente fin dall'inizio che la Bibbia non è un documento magisteriale confezionato, ma espressione di una storia e di un divenire: essa non dà quindi risposte definitive sulla chiesa, ci immette piuttosto in uno sviluppo, che indica certo una direzione, ma non una fine. Niente sarebbe più falso e pericoloso di assolutizzare uno stadio, di mettere sotto pressione una singola asserzione e presentarla come sola valida, per quanto essa sia solo parte di un divenire e solo in questo divenire abbia il suo significato e la sua sede. Parlare biblicamente significa immettersi nella dinamica dello sviluppo storico, che la Bibbia ci dischiude, ed accettare il tutto di questa dinamica.


1. CHE COS'E' LA CHIESA?

Per trovare nel modo più breve una risposta alla complessa questione sull'essenza della chiesa, sulla sua natura, faremo bene a partire dal nome che essa si è dato ed in cui trovò evidentemente espressa la sua autocomprensione: ekklesía. Nella traduzione greca dell'Antico Testamento questa parola ha descritto l'assemblea plenaria di Israele, quale si svolse esemplarmente attorno al Sinai, quando Israele stava in ascolto del Dio che parlava, e quale Esdra la ripeté dopo l'esilio in una specie di nuova fondazione del popolo disperso mediante la lettura della parola di Dio ora in forma scritta. L'esperienza sempre più profonda della differenza tra l'Israele storicamente vivente e la realtà ideale di ciò che questo popolo doveva essere, così come la tragedia della dispersione di Israele su tutto il volto della terra motivarono l'idea di una nuova e definitiva adunanza di Israele tramite la chiamata di Dio, idea che divenne sempre più l'espressione-tipo della speranza escatologica della salvezza. Se ora la comunità dei credenti in Cristo si qualifica con questo nome, essa vuole allora esprimere l'idea che in essa tale speranza è giunta a compimento, che in essa ha avuto inizio la convocazione finale di Israele attraverso la parola del Dio che chiama e che salva. All'interno di questa attribuzione di ecclesia si può poi stabilire una gradualità di significati, tale che il termine riunisce in sé i significati di assemblea del culto, chiesa locale, chiesa universale. Tutti e tre i significati sono certo strettamente congiunti. Essi esprimono diverse forme di realizzazione dell'unica idea di Dio. Si può così tratteggiare brevemente ed in sintesi il rapporto in questione: esiste l'unica realtà della ecclesia, del popolo di Dio, del popolo che Dio si raccoglie in questo mondo. Quest'unica chiesa di Dio esiste concretamente nelle diverse e singole comunità locali, ove si realizza a sua volta nella assemblea del culto. Si vede già così la concezione particolare di unità di chiesa, che tenne insieme la prima cristianità. Per quanto vivesse dispersa esternamente sull'intera faccia della terra abitata, sull'intera faccia della "ecumene", essa aveva ferma coscienza di essere assemblea di Dio. Ciò deriva dal fatto che i fedeli, attraverso l'unica parola del Signore e l'unico pane, il corpo del Signore, che è dato loro nella assemblea del culto, sono congiunti molto più profondamente di quanto lo possa rendere possibile ogni altra adunanza locale esterna. Essi sono inseriti in un corpo, cosicché sono appunto "uno solo". Essi sono coinvolti nella parola del Signore, attraverso la quale sono un solo spirito. Se la chiesa significa anzitutto tanto quanto popolo di Dio, questo popolo è peraltro determinato dal suo vivere del corpo di Cristo e della parola di Cristo, dal suo essere così corpo di Cristo. Constatiamo quindi che quali fattori determinanti della unità della chiesa troviamo ciò che il linguaggio della teologia descriverà in seguito come communio e fides, e quindi precisamente quei due fattori, che Melantone aveva conservato del concetto cattolico di chiesa del suo tempo. Finora non abbiamo trovato il terzo fattore, che abbiamo conosciuto come il propriamente distintivo tra cattolico e protestante, e cioè la oboedientia, la dipendenza di questo tutto dall'ufficio ecclesiastico di diritto. E questo è per il cattolico un fatto sorprendente e quasi allarmante. Ci è comunque necessario procedere con cautela e porre pazientemente le nostre domande l'una dopo l'altra. Chiarifichiamo anzitutto il problema: che cosa intende propriamente il Nuovo Testamento per "ufficio"? Esiste un qualche cosa del genere? Per dare una risposta a queste domande, bisogna tener conto attentamente di tutti i singoli elementi e dati di fatto presenti nel Nuovo Testamento, il quale non conosce in ogni caso "l'ufficio", ma una quantità di singoli "uffici" e mandati. La brevità imposta al discorso ci costringe ad una trattazione a volo d'uccello, che deve però cercare di mettere in evidenza i lineamenti essenziali del tutto.


2. ESSENZA ED ESISTENZA DELL'UFFICIO ECCLESIASTICO

a) LA FONDAZIONE NELLA MISSIONE DI CRISTO

Se vogliamo giungere realmente al profondo della questione, dobbiamo partire da Cristo stesso, dal quale soltanto può derivare un ufficio cristiano, se deve essere ufficio legittimo. Il primo fatto significativo, nel quale qui ci imbattiamo, è che Cristo, su un piano di legge di religione, non fu sacerdote, ma laico. Guardando le cose nella prospettiva dell'Israelita, egli non possedeva, giuridicamente, nessun "ufficio". E tuttavia, egli non si intese come interprete di desideri e speranze umane, quasi una bocca del popolo, un suo segreto o aperto rappresentante; egli non intese la sua missione dal basso, in una specie di senso democratico. Egli si presentò invece alla gente con il "dovere" di un incarico divino chiaramente delineato, con "potere" e "missione" dall'alto, come colui che il Padre ha mandato. Questa stessa struttura di incarico divino, che va testimoniato davanti agli uomini con potere in forza di una missione dall'alto, si prolunga al di là di Gesù nei discepoli, che egli coinvolge nel suo mandato, nel suo "dovere": "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv 20,21; cf. 17,18).


b) GLI INIZI DELL'UFFICIO ECCLESIASTICO AL TEMPO DEL GESU' STORICO

Ma guardiamo le cose un po' più precisamente. Quali dati di fatto troviamo? Anzitutto, i dodici. Il loro ufficio è semplicemente quello di essere i dodici. Nient'altro. Poiché proprio così essi sono rappresentanza ed anticipazione del nuovo Israele, messaggeri all'Israele del presente e loro giudici nel tempo finale. Questo fatto mette in luce il carattere particolare della loro chiamata: essi sono una cerchia determinata, che non si può ampliare a piacimento, che rappresenta certo da un lato la totalità del popolo di Dio, ma che non coincide affatto con la totalità dei chiamati, né le sue funzioni concidono perciò con quelle della totalità dei chiamati; ciò che è detto ai dodici e ciò che vale per loro, non vale affatto automaticamente per tutti i chiamati, tanto più che i vangeli sanno ben distinguere tra ciò che vien detto a tutti e ciò che è detto solo ai dodici. All'interno della cerchia dei dodici si può poi riconoscere un'ulteriore differenziazione. C'è anzitutto un anello più stretto dei tre: Simone, Giacomo e Giovanni, che secondo la testimonianza della lettera ai Galati fu condotto avanti nella chiesa primitiva e, dopo il venir meno di Giacomo il Maggiore, fu evidentemente completato con il fratello del Signore Giacomo. All'interno di questo gruppo incontriamo poi la posizione particolare di Simone, di cui si ha testimonianza attraverso tutti e tre i grandi gruppi di testi del Nuovo Testamento. Può bastare qui un accenno. Paolo lo ricorda in 1 Cor 15,5 come il primo testimone della risurrezione, ritrasmettendo qui una tradizione della comunità primitiva; nella lettera ai Galati si vede più volte la posizione particolare di "Cefa" tra le tre colonne. La teologia di Pietro del vangelo di Matteo è troppo nota, per dover esser qui appositamente esposta; ma anche Luca ha nel quadro dell'ultima cena una particolare parola di incarico a Pietro, ed il vangelo di Giovanni, che sembra assumere più volte una tendenza piuttosto ridimensionante nei confronti del primo apostolo, ha poi conservato nella appendice una parola di incarico per lui. Il fatto che i tre grandi gruppi di testi del Nuovo Testamento, Sinottici, Paolo e vangelo di Giovanni, pur con tutta la differenza della loro direzione teologica e della loro tendenza ecclesiale, siano concordi nel testimoniare la posizione particolare di Simon Pietro, mostra con inequivocabile certezza che non si tratta qui di una costruzione della comunità, né della tendenza di un determinato gruppo, ma che c'è alla base un incarico del Signore stesso. Diversamente non si può spiegare un tale consenso, che da un punto di vista di "politica ecclesiastica", alla luce dello stato effettivo delle cose, aveva parecchio a suo sfavore. Dovremo dire, riassumendo, che non possiamo cercare ovviamente nel tempo anteriore alla risurrezione del Signore una determinazione più precisa dell'ufficio e della sua funzione concreta nella vita della chiesa: esso ha ancora una funzione essenzialmente di segno, escatologica, ma è posto il punto di partenza dello sviluppo ulteriore.


c) CIO' CHE SI TROVA IN PAOLO

Se ci vogliamo ora concentrare in modo particolare sugli scritti paolini e cercarvi qualcosa come una teologia dell'ufficio, ci incontriamo con una duplice componente: da un lato, il forte accento con cui Paolo caratterizza la chiamata personale, immediata, da parte del Signore risorto, in forza della quale egli è detentore di potere, apostolo tanto quanto gli altri apostoli. Dall'altro lato, troviamo però il legame con il kerygma di Gesù e con la paradosis dei dodici, la linea storica perciò, che collega con il Gesù storico. Accanto all'elemento pneumatico sta quindi l'elemento storico; accanto alla libertà dello Spirito, che soffia dove vuole (Gv 3,8), il legame con la forma storica della chiesa e della sua tradizione. Si aggiunge poi come motivo ulteriore l'assunzione di ogni ufficio come servizio nella edificazione del corpo di Cristo; il servizio è il metro dell'ufficio. Ma da questa idea dinamico-pneumatica sorge d'altra parte ancora il pensiero dell'ordine e del servizio: i molti servizi singoli che esistono si devono adeguare all'autorità del servizio apostolico preposto. Se si vuole avere un quadro relativamente completo, si deve poi tener conto anche della teologia paolina della parola: l'ufficio è "servizio di riconciliazione" e in questo senso anzitutto servizio della parola. Ma la parola si fonda sulla missione ed è in ordine ad un ascolto, ad un appartenere e ad un ubbidire. La reciprocità di parola, missione, ascolto ed ubbidienza lega la parola al servizio così come il servizio è legato alla edificazione del corpo di Cristo. Non c'è quindi nessun genere di ipostatizzazione, di autonomia della parola rispetto alla chiesa, ma la parola trova il suo posto nell'arco di missione e servizio. E' forse opportuno ricordare già qui l'ulteriore sviluppo di questa teologia della parola e della missione in Giovanni, il quale prolunga all'indietro la linea fino a Cristo stesso, quando insegna a comprendere lui stesso come la parola e al tempo stesso come l'inviato, facendo quindi già convergere in lui ad unità indivisibile la parola e la missione e facendo proseguire dinamicamente nella storia questa linea della discesa di Dio: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi". Come ovunque nel vangelo di Giovanni, non sono qui più soltanto interpellati ed intesi semplicemente i dodici, ma in un'espressione del genere l'evangelista interpreta al tempo stesso che cosa ora è nella chiesa - viene cioè interpretata la presenza nella chiesa della parola inviata. Non è più il caso di specificare in questa sede come da questo punto, in un'immediata continuazione dello spunto giovanneo, Ireneo e la teologia dell'incipiente secolo II in genere abbiano sviluppato una teologia della parola, che dall'unità di parola, missione e servizio fa scaturire l'idea della successione apostolica e diventa il fondamento costante dell'autocomprensione della chiesa cattolica.


d) L'ULTERIORE SVILUPPO DELL'UFFICIO

Contemporaneamente agli scritti paolini, avviene una più accentuata precisazione della struttura ecclesiastica dell'ufficio partendo dall'ambito giudaico e giudeo-cristiano. Il tipo paolino di ordine, in cui non comparvero dapprima uffici ben delineati, conosce a partire dalla lettera ai Filippesi Episkopoi e Diakonoi (Fil 1,1); vi si affianca il tipo più giudeo-cristiano, caratterizzato dai Presbyteroi. Il confondersi dei due tipi, che ha inizio verso il finire del secolo I, segna poi la stabile forma di ufficio della prima chiesa cattolica. L'ordinazione si pone ora chiaramente in primo piano; il metro pneumatico generale "solo per l'edificazione" viene concretizzato in determinati ordinamenti di comunità, che conducono ad una chiara delimitazione del particolare incarico spettante all'ufficio. Si pone qui una domanda interlocutoria: esistono determinate funzioni, che solo i soggetti dell'ufficio possono svolgere? Vi si deve rispondere: esistono fin dall'inizio determinate vocazioni, e ciascuno può solo fare ciò a cui è chiamato. Non ci si può fare apostoli da sé, solo il Signore lo può. La teologia dell'apostolato sviluppata da Paolo, in cui egli puntualizza, da un lato, con accentuazione enorme, la sua eguaglianza di rango con i vecchi apostoli e, da un altro lato, il genere unico e particolare del suo servizio, che lo pone sullo stesso piano dei vecchi apostoli, dei quali altrimenti nessuno fa parte, costituisce certo un contributo decisivo su questo punto. In tutto questo resta chiaro che l'ufficio neotestamentario - come già detto - è determinato anzitutto in forza della parola: esso è servizio responsabile della parola. Ma il fatto che la parola trovò il suo alveo autentico nella celebrazione eucaristica fece presto confluire il servizio della parola ed il servizio della mensa, facendo risultare quella forma dell'ufficio, che rimase poi caratteristica per la chiesa cattolica. Ancora una cosa va aggiunta: l'ufficio è un servizio a favore del sacerdozio universale e, nella sua cornice, servizio di ordine; esso è però anche un servizio in funzione della libertà dello spirito.


3. L'UFFICIO E L'UNITA' DELLA CHIESA


a) IL DATO CRISTIANO ORIGINARIO

Dopo tutto questo possiamo finalmente porre la domanda: che significato ha questo ufficio, così descritto, per l'unità della chiesa? E dobbiamo ancora una volta distinguere tra comunità paoline e giudeo-cristiane. In Paolo constatiamo tre dati di fatto: fondamentale è anzitutto l'unità di tutte le comunità paoline attraverso e sotto l'apostolo. Esse tutte sottostanno all'autorità apostolica, che costituisce e garantisce la loro unità. Mediante un gran numero di contatti, visite, inviati, e non da ultimo per mezzo di lettere Paolo cerca di assumere questo servizio dell'unità e di garantire molto concretamente l'unione delle comunità. Se guardando le singole comunità dell'ambito missionario di Paolo si potrà anche essere tentati di parlare di "democrazia pneumatica" o "anarchia pneumatica" o anche semplicemente di pura "pneumatocrazia", non si deve però dimenticare che tutte queste comunità insieme sottostanno all'autorità di Paolo, il quale esercita su tutto l'ambito ellenistico-cristiano qualcosa come un "primato" e lo tiene insieme comunque molto chiaramente in una forma di unità molto concreta. Si è forse riflettuto troppo poco su questa funzione ecclesiologica delle lettere paoline, le quali non hanno semplicemente il carattere della comunicazione, ma sono anche espressione di una cura e sollecitudine per l'unità delle chiese di estrazione pagana e sono esse stesse uno strumento essenziale di tale unità. Bisogna tener presente, in secondo luogo, che Paolo, mediante il nesso con la paradosis dei vecchi apostoli, inserisce la chiesa di estrazione pagana, a lui affidata, nella più grande unità della chiesa universale, fatta di Giudei e pagani. Paolo non ha mai pensato ad una autonomia della chiesa di origine pagana, né ad un'autonomia del suo proprio servizio: egli "trasmette" ciò che ha "ricevuto" (1 Cor 15,1-3; 11,23), ed esprime in questo la sua ubbidienza all'unità della chiesa universale. Va ricordata infine una terza componente: il legame a Gerusalemme, che traspare nella colletta. Questa non ha infatti esclusivamente senso caritativo, ma va intesa, non per ultimo, quale riconoscimento di Gerusalemme nella sua qualità di luogo di origine e di centro della cristianità. Ancora più stretta è l'unità delle comunità giudeo-cristiane per il loro orientamento ancora più diretto alla comunità di Gerusalemme con il vescovo Giacomo a capo. Troviamo tra i due gruppi, in una particolare situazione pendolare, la figura di Pietro, il quale compare tanto in contesti giudeo-cristiani quanto in situazioni delle chiese di origine pagana: lo troviamo, da un lato, in Gerusalemme come membro del "gruppo di colonne" e detentore responsabile della tradizione di Gerusalemme; lo incontriamo, dall'altro lato, ad Antiochia, al centro del cristianesimo di estrazione pagana, e troviamo le sue tracce anche in Corinto ed infine a Roma. Questo ha per così dire il suo preludio nel racconto della conversione di Cornelio; il racconto del concilio apostolico, infine (Atti 15,6-29), pone Pietro al centro tra i due gruppi di cristiani e risponde così con precisione al dato di fatto messo in luce: mentre Paolo si sa chiaramente inviato ai pagani e cerca di tenere insieme e di unificare sotto la sua autorità apostolica l'enorme campo missionario della chiesa di origine pagana, mentre Giacomo compie il suo servizio tra i giudeo-cristiani, troviamo Pietro nelle due sfere quale loro punto di congiunzione. Ci troviamo qui senza dubbio di fronte ad un dato di fatto di importanza determinante: a differenza di Paolo e Giacomo, Pietro non appartiene direttamente a nessuno dei due grandi gruppi nel primo cristianesimo, ma è presente in ambedue. Qui sta l'elemento originale e caratteristico della sua posizione. A testimonianza di questa interpretazione del primo cristianesimo dobbiamo tornare qui ancora una volta alle parole del primato in Mt 16,17 ss., che non contengono soltanto il ricordo di un incarico del Signore, ma rappresentano anche una testimonianza circa la forma e l'autocomprensione della chiesa nascente. Va vista come una delle conclusioni più sicure del metodo di storia delle forme quella secondo cui gli evangelisti non ebbero intenzioni archivistico-storicizzanti di nessun genere, ma trasmisero soltanto quei discorsi e quei fatti del Signore, a cui si attribuiva valore per la chiesa presente. Se è giunta quindi a noi la parola di incarico a Pietro, è questa allora una prova che nello spazio, in cui fu redatto il vangelo di Matteo, tale parola era intesa come valida al presente, che non la si intendeva quindi soltanto come resoconto su qualcosa che era stato un tempo ed era ormai passato, ma come parola di valore e validità attuale. Già in forza di questo motivo devono cadere tutte le spiegazioni, che fanno spegnere l'ufficio di Pietro con la sua morte o ancora prima; il vangelo di Matteo - scritto dopo la morte di Pietro - prova la sopravvivenza attuale di ciò che era stato istituito in un tempo precedente. Se cerchiamo ora di sintetizzare queste conclusioni piuttosto diffuse sul dato cristiano originario, ne risulta che vi troviamo senz'altro elementi molto disparati, che si affiancano ancora senza chiarezza ed equilibrio, ma in cui si delinea assai bene una serie di dati di fatto, che si possono forse riassumere in tre asserzioni:

1. La parola non è senza l'ufficio; essa è legata ai testimoni, al potere ed alla missione. Non esiste una parola, che sussista per sé in forma ipostatizzata.

2. Ufficio ed unità sono strettamente congiunti, nel senso che al di fuori del contesto apostolico non può esistere chiesa e l'unità della chiesa è invece legata all'unità con il potere apostolico.

3. All'interno della diversità degli uffici compare, da un lato, l'incarico di Paolo per la missione ai pagani, da un altro lato, il significato dato come ovvio di Gerusalemme per la cristianità di origine giudaica: come elemento congiungente tra i due, l'incarico specifico del primo testimone Pietro, incarico che si rifà ad una istituzione del Signore.


b) L'ESPLICAZIONE CATTOLICA DELLA FORMA DELL'UFFICIO

Con il passaggio della responsabilità apostolica a figure come quelle di Tito e Timoteo sopravviene alla fine del tempo apostolico una chiara cristallizzazione dell'ufficio episcopale. All'inizio del secolo II si raggiunge così definitivamente la struttura completa di questo ufficio, che si può descrivere a grandi linee nel modo seguente: con il sopravvenire dell'ufficio giudeo-cristiano dei presbiteri, il binomio cristiano-ellenistico di vescovi e diaconi diventa il triplice ufficio di vescovo-presbitero-diacono, ove però l'equilibrio e la delimitazione tra "vescovo" e "presbitero" richiese un certo periodo di tempo e non si sviluppò in modo uguale in tutti i settori del cristianesimo in edificazione. L'identità, che si sentì originariamente tra le due istituzioni (Atti 20,17.28), fu chiaramente disgiunta in Oriente prima che in Occidente? Accanto a questa strutturazione verticale, che ritorna fondamentalmente in ogni comunità, c'è poi quella orizzontale, la quale consiste nel fatto che il singolo vescovo ha il suo episcopato solo in quanto si trova in comunione con gli altri vescovi. Nessuno dei singoli vescovi è infatti successore di un singolo determinato apostolo: è invece la totalità dei vescovi, il loro collegium, che continua il collegium degli apostoli. Il singolo vescovo si trova quindi nella successione apostolica sempre solo attraverso la sua appartenenza a questo collegium. In questo modo è essenziale per i vescovi il loro essere insieme, che include necessariamente l'essere insieme e il comunicare insieme di tutte le comunità cattoliche. Diventa così al tempo stesso visibile la forma concreta dell'unità della chiesa e la sua intera costruzione: la chiesa è anzitutto una, perché comunica nella parola e nel pane, cioè nel corpo e nel logos del Signore. Come commensalità eucaristica, ogni singola comunità realizza in sé tutto l'essere-chiesa della chiesa, sempre però soltanto a condizione che essa sia in comunione con tutte le altre comunità, una comunione che è poi a sua volta impossibile senza l'unità della parola creduta e testimoniata. La rete di comunioni, che la chiesa così forma, ha i suoi punti fissi nei vescovi; ad essi, quale continuazione post-apostolica del collegium apostolorum, spetta la responsabilità per la purezza della parola e per la rettitudine della comunione. Questa forma di ufficio dell'antica chiesa, in cui si trova chiaramente espressa la concezione "cattolica" della realtà cristiana, ha subito nel corso dei tempi, in Oriente ed in Occidente, modificazioni diverse. Mentre in Oriente si pose sempre più chiaramente in primo piano l'autonomia delle singole comunità - l'elemento verticale - e fu messo in ombra l'intrecciarsi delle singole chiese nel tutto della collegialità episcopale, in Occidente si formò una tale preponderanza della "monarchia" papale, che l'autonomia delle singole ecclesie fu quasi del tutto dimenticata; esse (non da ultimo a motivo dell'unità della liturgia di Roma) furono per così dire inserite nella chiesa della città di Roma: in un modo del tutto diverso che in Oriente, ne risultò ugualmente un predominio dell'elemento verticale attraverso la centralizzazione del tutto sull'unico vescovo di Roma, cosicché non ci fu quasi più spazio per la struttura orizzontale. Ma la forma "cattolica" dell'ufficio, sopra descritta, riuscì tuttavia in pratica a conservarsi. Infatti, il primato del vescovo di Roma, anche dopo il 1870, non significa una monarchia e quindi una eliminazione dell'elemento episcopale (e perciò collegiale), ma va compreso rettamente unicamente e soltanto nel quadro dell'ecclesiologia eucaristica descritta. Senza che ci soffermiamo più da vicino su questo punto, possiamo affermare: esso significa obiettivamente la capacità e il diritto di decidere in termini vincolanti all'interno della "rete di comunione", dove sia testimoniata rettamente la parola del Signore e dove stia quindi la vera communio. Secondo la concezione cattolica, un tale ufficio non è quindi soltanto legittimo e giustificato nella chiesa, ma presuppone che il Signore stesso, con la duplice struttura di incarico apostolico e di incarico particolare a Pietro, abbia istituito il duplice ufficio di testimone e di primo testimone, un duplice ufficio che si prolunga nella duplice struttura di episcopato e primato. Il suo senso è chiaramente delineato nella posizione di Pietro tra la chiesa dei Giudei (Giacomo) e la chiesa dei Gentili (Paolo); il senso di essere l'elemento e il nesso di unità nella e sulla diversità legittima delle sfere culturali e spirituali nella chiesa. Non è il caso di tacere che con questi dati si pongono anche metri critici per l'effettiva forma del primato.


c) IL RISULTATO

E' chiaro che non tutti i particolari dell'esplicazione cattolica delle forme dell'ufficio si possono ricondurre alla Scrittura. Ma dovrebbe essere divenuto altrettanto chiaro che la struttura di fondo del nesso reciproco del testimone con la parola e della parola con il testimone, così come la determinazione di questa struttura nel duplice ufficio di testimone e primo testimone, risponde alla struttura biblica di fondo, nella quale non esiste una parola svincolata. Siamo così di nuovo riportati al nostro punto di partenza, che consisteva appunto nella contrapposizione di due concetti di chiesa, di cui l'uno - quello protestante - definisce la chiesa senza l'ufficio e pone la parola come criterio autonomo della chiesa, mentre l'altro - il cattolico - è caratterizzato dal nesso reciproco di ufficio e parola. Ora, dovrebbe essere divenuto chiaro che l'idea protestante dell'autonomia della parola rispetto alla chiesa non esiste affatto nella Scrittura (appunto in questa "parola", di cui si parla). In questo senso, è chiara ed inequivocabile la risposta della Scrittura alla domanda da cui abbiamo preso le mosse. Certo il cattolico non potrà prendere questo dato di fatto come motivo di autocompiacenza e tranquillità. Due cose gli si possono infatti obiettare alla luce del nostro risultato. Anzitutto, abbiamo visto che nel rapporto tra testimone e parola si tratta di una relazione reciproca. Non solo la parola è legata al testimone, ma il testimone è testimone se e nella misura in cui si sa legato per parte sua alla parola. La protesta di Lutero non sarebbe probabilmente sorta, se la seconda parte di questa relazione reciproca fosse stata realizzata con altrettanta chiarezza ed univocità quanto la prima. In verità dobbiamo ammettere che fino ad oggi si è fatto e si fa di tutto per garantire con tutti i mezzi la prima parte del nesso - quella della parola al testimone -, ma che non esiste affatto una garanzia ed una sollecitudine altrettanto concreta per soddisfare alla seconda parte del rapporto totale - il legame del testimone, per parte sua, alla parola esistente. Sarebbe questo un compito fondamentale e determinante, se il concetto cattolico di chiesa vuole essere credibile anche nei fatti (e non solo in teoria): il compito di garantire di nuovo chiaramente il carattere di istanza della parola stessa e non soltanto quello del testimone, cioè dell'ufficio. Non ci può infatti essere dubbio che un'autonomizzazione ed un isolamento del legame della parola al testimone, ove si trascuri il contemporaneo legame del testimone stesso alla parola, non sarebbe un'eresia minore dell'aver resa autonoma la parola, che fu la reazione storica (da definirsi quasi necessaria) contro la preponderanza dell'ufficio rispetto alla parola nella chiesa del tardo medioevo. A questo dato di fatto se ne aggiunge un secondo, più teoretico, che risulta pure da quanto abbiamo detto finora, che cioè delle tre componenti "sacramento-parola-ufficio" la terza non è dello stesso genere delle prime due: le prime due fondano l'unità, la terza la testimonia. Si potrebbe dire in termini scolastici: le prime due sono causa, l'ufficio è condizione dell'unità, è il modo in cui le due colonne dell'essere della chiesa - parola e sacramento - esistono concretamente; l'ufficio non ha quindi la loro stessa dignità, è posto a loro servizio, non a loro dominio. Nel breve schizzo del dato biblico, che abbiamo tentato qui, si è così confermata fondamentalmente la concezione cattolica della chiesa, per la quale chiesa ed ufficio sono inseparabili così come lo sono chiesa e parola, e la chiesa esiste nel senso pieno soltanto là dove non è rotta l'unità con i testimoni legittimi. Per la concezione cattolica, di cui abbiamo approfondito la legittimità biblica, la chiesa non è data diversamente che nella comunità di coloro che comunicano tra di loro nel corpo e nella parola del Signore - e questa comunità fatta di comunione, così come la comunione della parola, non può esistere diversamente che nell'unità con i testimoni. Siamo giunti però con questo ai confini di queste affermazioni, che fanno ora dire necessariamente come una tale concezione di chiesa non possa e non debba implicare una negazione della presenza di Cristo e della realtà cristiana nei cristiani separati. Se si può dire da un lato in forma accentuata (riassumendo quanto detto fin qui) che la chiesa è la comunità in quanto comunione sotto la presidenza del vescovo di Roma, il quale detiene l'ufficio di primo testimone istituito dal Signore, che essa come tale è visibile ed unica, dotata di confini chiaramente delineabili, da un altro lato, la teologia cattolica deve anche dire con molta più chiarezza che non finora che con la effettiva presenza della parola al di fuori dei suoi confini c'è anche la "chiesa" in una qualche forma, e che i confini dell'azione dello Spirito santo non si identificano con quelli della chiesa visibile. Da un lato, lo Spirito, la grazia, alla cui piena signoria è ordinata la chiesa, può infatti mancare anche a uomini che vivono nella chiesa; da un altro lato, può invece agire efficacemente in uomini che vivono al di fuori della chiesa. Sarebbe pazzesco e falso, come disse giustamente Congar, identificare semplicemente l'opera dello Spirito santo con il lavoro dell'apparato ecclesiastico. Ciò significa che anche per la fede cattolica l'unità della chiesa è ancora in cammino, che essa giungerà a compimento pieno soltanto nell'eschaton, così come la grazia si compie soltanto nella visione, per quanto in essa sia ora già realmente iniziata la comunione con Dio. Il cattolico si sa così congiunto in una sola speranza con i suoi fratelli cristiani separati: nella speranza dell'unico regno di Dio, in cui non ci saranno più divisioni, perché Dio sarà allora tutto in tutte le cose (1 Cor 15,28).
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:31
4 - La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali (Paoline 1987)


IL LIBRO DI DIO PER L'UOMO

1. IL LIBRO DEI LIBRI

Tutte le introduzioni alla Bibbia incominciano con la spiegazione del nome: "Bibbia" deriva dal greco e significa originariamente "i libri". Con tale appellativo a cominciare dal terzo secolo dopo Cristo autori cristiani, come Clemente Alessandrino e Origene, presero a indicare i libri sacri degli Ebrei e dei Cristiani; successivamente il termine si latinizzò e diede origine nel Medio Evo al sostantivo femminile Bibbia, come a dire "il libro per eccellenza". Tale appellativo non ricorre però mai nella Bibbia, dove invece si trovano espressioni come "Sacre Scritture", "Antico" e "Nuovo Testamento", termini che pure sono diventati abituali e correnti per designare l’insieme della Bibbia. Si tratta infatti non di un libro solo, ma di una raccolta di libri, la quale secondo il canone (o la "norma") della Chiesa Cattolica enumera 46 libri scritti prima di Cristo (detti perciò "Antico Testamento") e 27 scritti dopo Cristo, chiamati "Nuovo Testamento". Che di tutti i libri del mondo la Bibbia sia il più diffuso, il più letto, il più tradotto, il più studiato, il più ricco di ispirazione per la cultura umana è un fatto incontestabile, ma non è il luogo di analizzarlo qui. Basti soltanto notare che una pagina di essa, e precisamente il salmo 8, è stata depositata, per iniziativa di Paolo VI, sulle lande polverose della luna dai primi astronauti che vi sbarcarono dalla terra, il 21 luglio del 1969. Qui interessa invece la Bibbia come il libro sacro, sul quale si fonda, insieme con l’insegnamento della Chiesa, la fede cristiana. Altri popoli, altre culture e religioni hanno i loro libri sacri; basti pensare ai Veda per la tradizione indù, al Tipitaka per i buddhisti, al Corano per i Musulmani. Questi ultimi per vero riconoscono in parte le Scritture degli Ebrei e dei Cristiani, ma le ritengono falsificate dai loro possessori, ragione per cui il Corano le soppianterebbe tutte. Riguardo agli Ebrei, è evidente che della Bibbia essi riconoscono soltanto quei libri che i cristiani chiamano Antico Testamento e che essi dividono in 3 parti, cioè Legge (Torah) comprendente i 5 libri del Pentateuco; Profeti, e questi ripartiti in anteriori (cioè i libri storici: Giosuè, Giudici, Samuele, Re) e posteriori (cioè Isaia, Geremia, Ezechiele e i 12 profeti minori); Scritti sacri (Salmi, Giobbe, Proverbi, Rut, Cantico dei Cantici, Qohèlet, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra e Neemia, Cronache). Si noti quindi che gli Ebrei non considerano sacri i libri di Tobia, Giuditta, I e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc. L’esclusione di questi libri da parte degli Ebrei avvenne definitivamente verso la fine del I secolo dopo Cristo. La Chiesa, ossia le prime comunità cristiane, seguivano già a quel tempo l’elenco più antico in uso presso gli Ebrei di lingua greca e da essi passato alla comunità apostolica. Si deve notare tuttavia che alcuni dottori della Chiesa antica, fino al secolo V, per ragione delle controversie con gli Ebrei, avanzarono dubbi circa l’opportunità di includere tali libri nell’elenco dei libri sacri della fede cristiana. Analoghe incertezze si verificarono anche per alcuni scritti del Nuovo Testamento, come l’Apocalisse, la lettera agli Ebrei, la lettera di Giacomo, la seconda e terza lettera di Giovanni, la seconda di Pietro e quella di Giuda. E' il cosiddetto problema del canone (dal greco kànon, norma), ossia dell’elenco ufficiale e normativo dei libri sacri, sul quale i contrasti non furono mai drammatici in seno alla Chiesa, poiché si giunse progressivamente e spontaneamente a un consenso. Il Concilio di Ippona, cioè l’assemblea plenaria dei Vescovi della provincia d’Africa nel 393, presente S. Agostino, stabilì un canone identico, per il numero dei libri, a quello che il papa Innocenzo I nel 405 inviava ad Esuperio Vescovo di Tolosa. Quando dunque il 4 aprile 1546 sotto Paolo III il Concilio di Trento definì solennemente il canone con il celebre "decreto sulle Scritture canoniche", non fece che ratificare la tradizione comune della Chiesa. Si deve notare tuttavia che per i libri dell’Antico Testamento i Protestanti decisero di seguire il canone degli Ebrei; per questo le edizioni protestanti della Bibbia non contengono, o meglio mettono a parte i libri di Tobia, Giuditta, Sapienza, Siracide, Baruc e i due dei Maccabei. Non sarà inutile sapere che i Protestanti sogliono chiamare apocrifi tali libri, mentre nel linguaggio cattolico è invalso presso qualche studioso l’uso di designarli come deuterocanonici, per indicare che vi furono dubbi sulla loro autenticità, distinguendoli così dai protocanonici, sui quali non vi fu mai alcun dubbio. Altri libri di carattere sacro sorsero in vari circoli religiosi ebrei e cristiani negli ultimi due secoli dell’età antica e nei primi secoli del Cristianesimo. Anche per essi vi furono discussioni e incertezze, finché si giunse progressivamente e per consenso unanime e spontaneo a espungerli dal canone della Bibbia. Questi libri (come il Proto-Vangelo di Giacomo, il Vangelo di Tommaso, ecc.) vengono chiamati apocrifi, cioè di origine occulta, dai Cattolici, e pseudoepigrafici, cioè dal titolo falso, dai Protestanti. Essi sono interessanti per conoscere le idee religiose degli ambienti in cui sono nati, ma non furono mai riconosciuti come canonici; non appartengono quindi alla Bibbia e non possono affiancarsi ad essa. Oltre che in libri, la Bibbia appare divisa, nell’ambito di ogni singolo libro, in capitoli e versetti. Ciò serve praticamente per la consultazione e per l’indicazione esatta dei passi nelle citazioni; così trovando per es. Gn 20,15, chiunque sa che si tratta del libro della Genesi, capitolo 20, versetto 15. Ma giova sapere che tale numerazione non è primitiva e talvolta non corrisponde a ciò che sarebbe richiesto dal senso e dal contenuto del passo. Fu Stefano Langton, professore all’Università di Parigi e poi Cardinale, che verso il 1214 divise in capitoli la Bibbia latina detta Volgata. Quanto ai versetti, il primo a numerarli in margine fu Sante Pagnini, di Lucca, nel 1528; per il Nuovo Testamento divenne normativa la divisione introdotta dall’editore umanista Roberto Stefano nel 1555.


2. MOLTI LIBRI UN SOLO DISEGNO

Alla molteplicità dei libri s’accompagna nella Bibbia la varietà dei libri stessi e del loro carattere letterario. Non può infatti la Bibbia venire paragonata a un catechismo e tanto meno a una trattazione sistematica, anche se alcune parti della Bibbia possono rivestire tali caratteri. Molti libri, molti autori, vissuti in un arco di circa 13 secoli, hanno contribuito a scrivere la Bibbia quale è giunta tra le nostre mani. Le vicende attraverso cui i singoli testi sono passate possono sembrare incredibili, certo sono appassionanti: si pensi alla commozione del re Giosia e di tutta Gerusalemme quando nel 622 a.C., durante lavori di riparazione al Tempio, venne alla luce il manoscritto di un testo sacro, che gli studiosi identificano globalmente con il nucleo dell’attuale Deuteronomio, il quale era stato praticamente emarginato e abbandonato sotto il regno del non esemplare Manasse, predecessore di Giosia (cf 2Re, 22-23). Ma già il successore del pio re Giosia, l’astuto e calcolatore Ioiakim, bruciò il testo delle profezie di Geremia in faccia a Iudi, servo del re: "E avveniva che come Iudi aveva letto tre colonne o quattro, il re le stracciava con il temperino dello scriba e le faceva gettare nel fuoco che era nel braciere, finché fu consumato l’intero volume sul fuoco che era nel braciere" (Gr 36,23). Al che Geremia reagì dettando nuovamente il libro che era stato distrutto. Questi episodi, e altri analoghi e diversi se ne potrebbero raccontare, indicano a sufficienza che i libri della Bibbia sono stati scritti da autori che hanno condiviso l’esperienza umana e spirituale del popolo ebraico nel corso della sua lunga storia. Non fa meraviglia quindi che in essa si trovino, affiancati e intersecati, i libri e gli stili più diversi. La prima pagina della Genesi ha il tono solenne di un poema sulle origini, l’ultimo capitolo dell’Apocalisse ha la forma di una visione su un aldilà che si dischiude, radioso e fresco di vita, oltre le soglie della realtà cosmica e storica. E in mezzo racconti, storie, preghiere, leggi, poesie, annali, profezie, leggende, canti d’amore, inni, lamentazioni, brani d’archivio, lettere, professioni di fede, proverbi, discorsi e così via. Ma quale è il tema di tutta questa sinfonia, quale l’oggetto di cui trattano e a cui si riferiscono gli scritti molteplici e diversi che sono confluiti nella Bibbia? E' il disegno di Dio verso gli uomini, il dono della salvezza messianica, la storia in cui questa salvezza viene resa sensibile e manifesta. Dopo aver delineato come in una grande tela di fondo l’evento della creazione e la situazione dell’umanità davanti a Dio (i primi 11 capitoli della Genesi) l’attenzione della Bibbia si concentra sulla chiamata di Abramo (verso il 1800 a.C.) e sulla promessa-benedizione-alleanza preannunciata alla sua discendenza e attuata in Gesù Cristo morto e risorto agli inizi della nostra èra. In Gesù sono vinti il peccato e la morte, e grazie alla fede in lui suggellata dal battesimo sorge una nuova comunità soprannazionale, la Chiesa, la quale è chiamata a essere "sacramento, cioè segno e strumento di un’unione intima con Dio e dell’unità di tutto il genere umano" (Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 1). Tale è il filo d’oro che attraversa tutta la Bibbia e ne costituisce l’unità e la ragione d’essere. Nessuno può negare la straordinaria ricchezza di cultura, di arte e di cognizioni umane depositata nella Bibbia: vi si trovano preziose notizie sulla storia antica, pagine di altissima poesia, narrazioni condotte con arte semplice ed efficace, analisi insuperabili del cuore e delle passioni umane, modelli di saggezza convalidati dai secoli; ma la Bibbia è soprattutto il libro in cui è documentato il disegno dì Dio verso gli uomini e suo contenuto è il messaggio della salvezza indirizzato da Dio all’umanità. Come scrisse S. Agostino: "Ci sono pervenute lettere da quella città verso cui siamo pellegrini: sono le Sacre Scritture" (Sermone 9,1 sul salmo 90). E' quindi legittimo, anzi doveroso per un cristiano interrogarsi sul contenuto di tale messaggio.


3. DI CHE COSA PARLA LA BIBBIA

In ogni pagina della Bibbia il grande protagonista è Dio. "Da lui, per mezzo di lui, e per lui sono tutte le cose: a lui la gloria nei secoli" (Rm 11,36). Questa esclamazione di S. Paolo si può scrivere sul frontale della Bibbia. Tutto nella Bibbia parte da Dio e ritorna a Dio, E non si tratta del Dio astratto dei filosofi, ma di un Dio vivo e vero, che ama gli uomini e presenta lineamenti simili a quelli di una persona, fino al punto di venire descritto con tratti antropomorfici, come quando si legge della collera di Dio, dei suoi occhi, dei suoi piedi, delle sue mani. Non ci si deve meravigliare ma sforzare di comprendere e di tradurre. La Bibbia insegna che Dio è indicibile, inafferrabile, supera la presa dell’intelletto umano quanto la volta del cielo dista dalle mani dell’uomo, e tuttavia parla continuamente di Dio, servendosi di molte immagini e superandole tutte. Qualcuno ha parlato qui di un diamante dalle mille sfaccettature. C’è il Dio sovrano e maestoso della Genesi che "dice" e le cose balzano all’essere. C’è il Dio che modella Adamo, il Dio che chiama Abramo, il Dio che ispira Giuseppe, il Dio che si rivela a Mosè, il Dio che annienta il faraone, il Dio che guida le schiere d’Israele, il Dio tremendo del Sinai, il Dio separato del Levitico, il Dio che comanda del Deuteronomio, il Dio familiare di Tobia, il Dio di giustizia di Amos, il Dio d’amore di Osea, il Dio santo e redentore di Isaia, il Dio intimo di Geremia, il Dio sposo di Ezechiele, il Dio misterioso di Giobbe, il Dio amante della vita dei Sapienziali, il Dio Padre dei Vangeli, di Paolo e di Giovanni, il Dio eterno dell’Apocalisse. In un momento fondamentale della storia d’Israele questo Dio rivela il suo nome a Mosè dicendo "Io sono", ragione per cui Mosè dirà: "Colui che è (in ebraico Jahvé) mi ha mandato a voi" (Es 3, 14-15). Ma questo nome arcano non verrà mai usato, per riverenza, dagli Israeliti, i quali si asterranno sempre dal pronunciare in qualsiasi modo il sacro tetragramma, ossia le 4 lettere del nome JHWH, e al posto di esse diranno semplicemente “il Signore” o "l’Eterno". In alcune pagine, per esempio nei Salmi, gli attributi di Dio si accastellano; si veda per esempio l’inizio del Salmo 18, chiamato con ragione il "Te Deum" di Davide:

"Ti esalto, Jahvé, mia forza,
Jahvé mia roccia, mia fortezza, mio scampo;
mio Dio, mia rupe di rifugio,
mio scudo, potenza di mia salvezza,
degno di ogni lode".

Se è vero che per ogni uomo il senso della vita è la ricerca del suo principio e del suo fine, in termini cristiani, "la ricerca di Dio", allora la Bibbia è il libro più ricco per rispondere a questa sete inestinguibile dell’uomo. Di fronte a Dio nella Bibbia sta l’uomo, creatura di Dio e in dialogo con lui. Il primo capitolo della Bibbia parla della benedizione e del destino dell’uomo e della donna: "Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela" (Gn 1,28), mentre l’ultima pagina si conclude come in un’invocazione appassionata: "Vieni, vieni presto!". Insieme a Dio la Bibbia parla quindi costantemente dell’uomo, dell’uomo totale, con i suoi alti e bassi, le sue generosità e le sue cadute. A chi domandasse se la Bibbia parli dell’uomo in maniera pessimistica o ottimistica si dovrebbe rispondere che ne parla con realismo e fine psicologia, descrivendolo senza veli né falsi pudori, con la sua grandezza e la miseria insita nella proclività al male che lo segna fin dalle origini. Dovunque la Bibbia presenta uomini e donne alle prese con i medesimi enigmi e le stesse miserie di tutti. Il peccato segna dolorosamente la condizione umana: la Bibbia non lo nasconde e fa appello alla responsabilità, perché l’uomo può dominare l’inclinazione al male (Gn 4,7) e Dio è vicino a tutte le creature (cf At 17,27). Descrivendo il male però la Bibbia lo mostra sempre nello specchio della santità divina, per provocarne il timore e la condanna. Tutto ciò che l’uomo ha di più profondo trova eco nella S. Scrittura. Essa gli offre le parole per lamentarsi e invocare, per esprimere la gioia ma anche la tristezza, la delusione e la disperazione. Fine costante della Bibbia nei confronti dell’uomo è di condurlo a Dio, di portarlo ad arrendersi a lui, gettandosi tra le sue braccia, con la fede di Abramo. Si direbbe che tutta l’avventura umana secondo la Bibbia si risolve nell’attesa che l’uomo si decida per Dio. Di fatto si assiste nella Bibbia quasi ad ogni pagina all’appello di Dio verso l’uomo e alla resistenza dell’uomo verso Dio. A volte si ha quasi l’impressione che l’uomo sia conteso tra due forze, Dio e Satana, contrapposti in un’ostilità che percorre i secoli. Ma di questa lotta perenne la Bibbia conosce, annuncia e garantisce la vittoria, il cui epilogo avverrà nel famoso "giorno del Signore" di cui parla l’Antico e il Nuovo Testamento. In realtà però il momento della vittoria è situato nella morte-risurrezione di Gesù Cristo; grazie a lui ogni uomo può diventare vincitore. Si tocca così il terzo grande tema della Bibbia; Gesù di Nazaret, Messia mediatore di salvezza tra Dio e l’uomo. E' nota la grande affermazione di S. Paolo: "Quando giunse la pienezza del tempo, Dio inviò il Figlio suo, nato da una donna… affinché ricevessimo l’adozione a figli" (Ga 4,4). Questa affermazione spezza la storia in due parti, quella prima di Cristo, intesa come preparazione e attesa, e quella dopo Cristo, che è compimento e attuazione definitiva. Perciò la Bibbia si divide in Antico e Nuovo Testamento. E' qui che la Bibbia cristiana si differenzia da quella degli Ebrei; essi non accettano evidentemente, il Nuovo Testamento che tratta del compimento messianico di Cristo, e inoltre considerano quello che noi chiamiamo Antico Testamento non già secondo una direttrice storico-profetica che approda al Messia ma secondo una circolarità che pone al centro di tutto la Torah, la Legge, ossia il Pentateuco, interpretando gli scritti storici, profetici e didattici in funzione di essa. Per i Cristiani invece l’Antico Testamento è tutto un corale profetico, come una foresta le cui punte additano il Cristo. E questo già fin dalle origini quando, dopo la caduta originale, Dio "risollevò gli uomini alla speranza della salvezza". L’affermazione è tratta dalla "Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina rivelazione" promulgata dal Concilio Vaticano II. La pagina è degna di essere riportata qui perché raccoglie in sintesi la convergenza di tutta la Bibbia a Gesù Cristo, venuto nella pienezza dei tempi e ora atteso nella sua manifestazione gloriosa alla fine della storia. Ecco le affermazioni del Concilio: "Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura... La profonda verità poi, sia di Dio, sia della salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione. Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé, e inoltre, volendo aprire la via della soprannaturale salvezza, fin da principio manifestò se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione li risollevò nella speranza della salvezza... A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo, che dopo i Patriarchi ammaestrò per mezzo di Mosè, affinché lo riconoscessero come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stessero in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via al Vangelo. Dopo avere Iddio, a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei profeti, "alla fine nei giorni nostri ha parlato a noi per mezzo del Figlio". Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio. Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna" (nn. 2.3.4.). Gesù perciò, secondo la Bibbia, è il compimento delle promesse così spesso ripetute e via via illuminate nel corso dei secoli. E' il Messia che viene e inaugura, che pone se stesso come fondamento (cf 1Co 3,11), come prima "pietra vivente" (1Pt 2,4), e affida alla Chiesa il compito di continuare l’edificio. Proprio perché, secondo l’espressione di S. Agostino, "il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico e l’Antico Testamento diventa chiaro nel Nuovo" (Quest. sull’Ept. 2,73) la Chiesa non soltanto non respinge l’Antico Testamento come pretendevano alcuni eretici nei primi secoli del Cristianesimo, ma lo studia, lo analizza e lo percorre da una pagina all’altra alla ricerca delle parole, dei fatti, delle immagini, delle esperienze che preparano e preannunciano ciò che dovrà realizzarsi in Cristo e nella sua Chiesa.


4. COME PARLA LA BIBBIA

E' certezza sicura della Chiesa che nella Bibbia Dio parla agli uomini. Per questo ogni lettura biblica nel corso di una liturgia termina con l’affermazione "Parola di Dio". Vedremo in seguito la ragione e le modalità di questa certezza cristiana. Ora ci interroghiamo sul modo in cui la Bibbia parla agli uomini. Si può partire da un’indicazione autorevole della Costituzione Dei Verbum già citata. Nel paragrafo 12 si legge: "Poiché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana, l’interprete della S. Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi si deve tener conto tra l’altro anche dei "generi letterari". La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in varia maniera storici o profetici o poetici o con altri modi di dire. E’ necessario dunque che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo intese esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso". Si deve riconoscere che mai nel passato il magistero della Chiesa si era espresso così esplicitamente e diffusamente sulla varietà degli uomini che Dio ha ispirato a scrivere, sul contesto storico e culturale in cui vissero e da cui furono condizionati, nonché sui tanti generi letterari da essi adoperati. Nella molteplicità e diversità sorprendente di uomini e di scrittori - dal ruvido Amos, pastore di mandrie a Tecoa, al nobile Isaia, da Geremia, squisito nella sua sensitività, a Paolo di Tarso, appassionato e rubesto nella parola, per non dire dei molti, e sono la maggior parte, rimasti per noi sconosciuti - ogni scrittore conserva la sua personalità, il suo stile, e manifesta i condizionamenti del tempo e della cultura in cui vive. Per comprendere gli autori biblici è quindi necessario conoscere il contesto in cui ogni autore è inserito. E non si tratta soltanto del contesto scientifico, per cui parlando delle origini o della struttura fisica del mondo o della storia e della geografia ciascun autore si esprime secondo le conoscenze della sua epoca. C’è anche il contesto morale e religioso: ogni età ha un suo livello morale. C’è nella storia, anche e soprattutto dell’Antico Testamento, un’elevazione lenta e progressiva della coscienza. La coscienza religiosa di Abramo e dei Patriarchi non è ancora quella di Mosè, e questa è ancora lontana da quella degli Israeliti dopo l’esilio, e ancora più da quella cristiana. Chi non sta attento a collocare una pagina biblica nel contesto storico in cui è sorta corre il rischio di scandalizzarsi inutilmente. Non deve far meraviglia, per esempio, se la soglia della vita eterna non è varcata nella maggior parte dell’Antico Testamento: è un orizzonte che si schiude poco a poco e brillerà soltanto alla fine dell’Antico Testamento e poi pienamente nel Nuovo. C’è poi il contesto letterario, che è semitico e sotto molti aspetti differenziato rispetto alla mentalità occidentale. Il semita ignora l’astrazione, non usa le definizioni concettuali, ama proporre le idee a mezzo di suggestioni e di immagini, senza curarsi della loro coerenza, accumulando tratti e simboli significativi. E c’è un ritmo semitico, vi sono procedimenti, come il parallelismo e la ripetizione, modi di scrivere che l’educazione letteraria occidentale ha abbandonato: l’autore, per esempio, può usare fonti diverse, fonderle, cucirle insieme, senza giustificarsi davanti al lettore. Quanti generi letterari si trovano nella Bibbia? Vi sono prosa e poesia, libri storici e saghe, raccolte di leggi e canti liturgici, visioni e discorsi, e così via. E’ quindi evidente che prima di leggere l’uno o l’altro libro si deve sapere davanti a quale genere letterario ci si trova, a rischio di gravi controsensi. E in uno stesso genere letterario vi sono ancora differenze. Si prenda la storia, per esempio. Si sarà notato che la costituzione Dei Verbum parla sapientemente di "testi in varia maniera storici", avvertendo così che c’è la storia epica della Genesi, di alcune parti dell’Esodo e del libro di Giosuè, c’è la storia politica dei libri dei Re, la storia aneddotica di Rut, di Elia, di Eliseo. E poi, quante anomalie in questa storia: scarsezza di date, omissioni vistose, epoche intere passate sotto silenzio, e invece particolari spesso insignificanti per noi: inventario di un bottino, numero delle concubine, prezzo della vendita di un campo... E ancora, in un medesimo libro si possono trovare, come in uno zibaldone, i generi letterari più diversi, come nel Pentateuco e nei profeti. Per citare soltanto un esempio: nei primi 6 capitoli di Isaia vengono di seguito: un invito al pentimento e alla conversione, una minaccia di castigo imminente, un oracolo di pace messianica, un’invettiva contro le donne avide di piaceri, una canzone allegorica, una protesta contro le ingiustizie sociali, l’apparizione sconvolgente di Dio al profeta: il tutto senza connessione, senza snodo di eventi; come può orientarsi un lettore che non sia prevenuto?


5. LA BIBBIA PAROLA DI DIO ALL'UOMO

Libro multiforme ma unitario, libro che svela il disegno divino sulla storia, libro riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa come norma della sua fede: tutte queste affermazioni convergono e culminano nell’assioma, indiscusso per i cristiani, che la Bibbia contiene la rivelazione e la parola di Dio agli uomini. Che cosa significa questo? Vi sono due concetti da chiarire a questo riguardo, e, cioè, la rivelazione e l’ispirazione della S. Scrittura. Vediamo anzitutto la rivelazione. Dicendo rivelazione s’intende lo svelamento del "mistero" divino che consiste nella sua "volontà di chiamare gli uomini a sé e renderli partecipi della sua natura divina per mezzo di Gesù Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo" (Dei Verbum). Questa rivelazione si è effettuata, secondo le dichiarazioni del Concilio Vaticano II, "con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e il mistero in esse contenuto. Questa rivelazione risplende a noi in Cristo il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione... Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna" (Dei Verbum 2.4). E' legittimo domandarsi a questo punto: da dove la Chiesa attinge questa certezza? Quali ragioni la autorizzano a ritenere che nelle parole e negli avvenimenti della Bibbia si esprime la rivelazione di Dio agli uomini? La Chiesa lo crede sulla testimonianza di Gesù per ciò che riguarda i libri dell’Antico Testamento. Gesù infatti riferì esplicitamente a sé tutto il contenuto delle Sacre Scritture. Dei quattro evangelisti Luca in particolare addita nella "spiegazione delle Scritture" uno degli insegnamenti maggiori di Gesù dopo la risurrezione (cf Lc 24,27.32.44-46); ma che già durante la sua vita Gesù abbia considerato te Scritture sacre degli Ebrei come depositarie della parola di Dio e afferenti a lui, è sufficiente aprire il Vangelo per rendersene conto (cf Lc 4,17-21; Mc 9,12; Gv 5,39, ecc.). Per il Nuovo Testamento vale la testimonianza degli Apostoli e della comunità primitiva, la quale vide nei Vangeli e negli scritti apostolici l’eco fedele delle parole e degli insegnamenti divini di Gesù. Analogo discorso si può fare per l’ispirazione. Essa consiste nel fatto che gli autori dei Libri Sacri scrissero sotto una speciale direzione e guida dello Spirito Santo, come strumenti mossi da Dio, ma conservando intatta la libertà, la coscienza e la peculiarità di uomini del proprio tempo. Ecco come ne parla il Concilio Vaticano II: "Le verità... che nei libri della S. Scrittura sono contenute ed espresse, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti per ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la composizione dei Libri Sacri Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero, come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte. Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, è da ritenersi anche, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, in ordine alla nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere" (Dei Verbum, 11). Due testi celebri illustrano questa fede apostolica; uno deriva da San Paolo, l’altro da S. Pietro: "Ogni scrittura è ispirata da Dio, e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare nella giustizia, affinché l’uomo di Dio sia ben formato, perfettamente attrezzato per ogni opera buona" (2Tm 3,16); e "Sospinti dallo Spirito Santo gli uomini parlarono da parte di Dio" (2Pt 1,21). Diretta conseguenza di questa singolare "condiscendenza" divina di esprimersi con lingue umane, per mezzo del parlare dell’uomo ("come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo", Dei Verbum, 13) è la inerranza o meglio la verità e la solidità di ciò che "Dio ha voluto racchiudere nella Sacra Scrittura in ordine alla nostra salvezza". Questa solenne dichiarazione del Concilio Vaticano II è stata frutto di lunghissime ricerche e di analisi estenuanti. Ma giunse finalmente come una ventata liberatrice. Essa significa praticamente che la Bibbia è portatrice di un messaggio che sta al di là delle concezioni scientifiche, dei modelli culturali, del modo di scrivere la storia che seguivano gli antichi. Il suo insegnamento, anche se impartito attraverso uomini di un determinato tempo che furono assunti ad essere strumenti di Dio, trascende ogni condizionamento storico e risuona attuale per ogni uomo, in ordine alla sua salvezza. Per questo la Chiesa raccomanda così caldamente la lettura della Bibbia, soprattutto del Nuovo Testamento.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:33
5a - Marcel Simon/André Benoit, Giudaismo e cristianesimo. Una storia antica (Laterza 2005)


GESU' E LA NASCITA DEL CRISTIANESIMO

1. FONTI E CRONOLOGIA

Il cristianesimo trae le sue origini dalla personalità, dall'attività e dalla predicazione di Gesù, designato ben presto dai discepoli come il Cristo, cioè il Messia (greco Christós, ebraico Mashiah, l'Unto). La nostra fonte, quasi unica, su questo momento capitale della storia religiosa dell'umanità, sono i quattro Vangeli detti canonici, perché sono stati incorporati dalla Chiesa nel canone delle Scritture rivelate. Gli studiosi non sono d'accordo né sulle loro rispettive date, né sui legami di dipendenza reciproca, né sul loro valore storico. I primi tre, Matteo, Marco e Luca sono chiamati sinottici perché presentano precise somiglianze, troppo precise per essere fortuite. Quello di Marco, che figura al secondo posto nel Nuovo Testamento, è il più antico e costituisce, unitamente a una raccolta di Lóghia o detti di Gesù, una delle due fonti principali utilizzate dagli altri due Vangeli. Il quarto Vangelo, quello di Giovanni, ha una spiccata originalità, sia nella sostanza e nella presentazione degli avvenimenti sia nell'ispirazione generale e nell'interpretazione della figura del Cristo. Numerosi aramaismi, una conoscenza approfondita dei metodi dell'argomentazione rabbinica, precise affinità di pensiero con i documenti del Mar Morto, escludono la possibilità di fare di questo Vangelo - come si fa talvolta - il prodotto di un cristianesimo già notevolmente ellenizzato, per quanto l'influenza dell'ellenismo sia ugualmente chiara. Non si può giudicare secondario questo Vangelo. Su alcuni punti le sue informazioni sono addirittura più chiare di quelle dei sinottici. Possiamo datare la sua redazione d'intorno al 100. La tradizionale attribuzione all'apostolo Giovanni, "il discepolo prediletto", resta controversa. Nessuno dei sinottici sembra posteriore all'85-90, né anteriore al 70, a parte forse il Vangelo di Marco. Si intravedono comunque nei testi come sono giunti a noi tracce di redazioni più antiche. I Vangeli sono scritti religiosi e non documenti storici in senso stretto. Il loro fine è quello di dimostrare, di edificare, oltre che di raccontare. Elaborati in seno alla Chiesa nascente, essi ne riflettono le preoccupazioni e ne alimentano le esigenze spirituali. E' spesso difficile distinguere ciò che è autentico da ciò che non lo è: elementi leggendari sono uniti a elementi storici; tendenze apologetiche hanno alterato la realtà dei fatti. Ma per quanto l'apporto comunitario e l'influenza dell'ambiente possano essere ritenuti importanti nella loro elaborazione, nulla tuttavia autorizza a uno scetticismo radicale o a pensare - come alcuni critici - che questi scritti, così preziosi per comprendere la mentalità dei primi cristiani, non siano di alcuna utilità per conoscere la personalità e il messaggio del Cristo. Senza dubbio essi debbono essere maneggiati con prudenza: permangono molti punti interrogativi e molte zone d'ombra. Ma è proprio dalla realtà storica che essi sono nati. Tra i Vangeli e gli avvenimenti di cui essi parlano o gli insegnamenti che trasmettono, ci fu una tradizione orale che risale al gruppo dei primi discepoli e che, passando di bocca in bocca, di comunità in comunità, ha potuto deformare alcuni dati, ma certo non inventarli del tutto. La tesi detta mitologica, che rifiuta la storicità di Gesù, non resiste ad un esame critico. Sulla cronologia della vita di Gesù le nostre informazioni sono scarse e presentano, da un Vangelo all'altro, divergenze difficilmente conciliabili. La sua nascita, che segna l'inizio dell'era cristiana, è certamente anteriore a quest'ultima di qualche anno, se seguiamo i primi due sinottici, che la pongono sotto Erode il Grande, morto nel 4 a.C. Luca invece la mette in rapporto a un censimento di tutta la popolazione dell'Impero. Se intendiamo con questo il censimento limitato alla Palestina, di cui parla Flavio Giuseppe, la sua nascita si daterebbe al 6-7 d.C. Analoga incertezza sussiste sulla data della morte. Gesù morì sotto Ponzio Pilato, che fu governatore di Giudea dal 26 al 36 d.C. Cominciò a predicare quando aveva circa trent'anni, dopo che Giovanni lo battezzò. Luca fa cominciare il ministero del Battista nel quindicesimo anno del regno di Tiberio (28-29 d.C.). Secondo Marco, l'attività pubblica di Gesù sarebbe durata soltanto poco più di un anno, secondo Giovanni invece almeno tre anni. E' forse meglio evitare una precisazione ad ogni costo. Sarà sufficiente stabilire che Gesù, nato verso la fine del regno di Erode, è stato crocifisso intorno all'anno 30.


2. LA CARRIERA DI GESU'

L'incontro di Gesù con Giovanni Battista è per noi un punto fermo. Esso è stato il fattore decisivo nell'orientamento dell'attività di Gesù. Giovanni, appassionata figura di profeta e asceta, capo di una setta dissidente dagli ambienti ufficiali, predicava, sulle rive del Giordano, un messaggio di pentimento e un battesimo di purificazione in vista del Regno imminente. Egli non avrebbe rivendicato per se stesso la dignità messianica, ma avrebbe riconosciuto il Messia nella persona di Gesù. Altri testi evangelici lasciano intendere tuttavia che questa convinzione non fu immediata. I suoi discepoli per altro, dopo che egli fu giustiziato per ordine di Erode Antipa, continuarono per qualche tempo a formare una setta distinta, rivale della Chiesa nascente: alcuni studiosi hanno creduto, a torto, di poterne individuare i lontani discendenti nella comunità religiosa dei Mandei, tuttora esistente in bassa Mesopotamia. Qualunque fosse l'opinione di Giovanni Battista su Gesù, è sicuro che quest'ultimo prese coscienza della sua vocazione quando fu battezzato da colui che è stato riconosciuto dalla tradizione ecclesiastica come il Precursore. La predicazione di Gesù si svolse all'inizio nella parte settentrionale della Palestina, la Galilea, di dove egli era originario, e in particolare sulle rive del lago di Tiberiade. Qui egli reclutò i suoi primi discepoli e qui il suo messaggio ebbe maggiore risonanza, soprattutto tra gli strati più bassi della popolazione. I sinottici pongono alla fine della sua attività un unico periodo di predicazione a Gerusalemme. Secondo Giovanni invece egli si sarebbe recato più volte nella città santa. Presentato spesso sotto la forma allegorica delle parabole, accompagnato da guarigioni miracolose e da altri prodigi, il suo messaggio suscitò subito l'adesione entusiastica ma spesso effimera di alcuni, la diffidenza e l'ostilità di altri, in particolare dei due partiti o sette che a Gerusalemme lottavano per il primato: Gesù scandalizzava i Farisei per le libertà che si prendeva nei confronti della Legge; inquietava i Sadducei, nemici di tutto ciò che potesse turbare l'ordine costituito, perché annunciava l'instaurazione del Regno, il che, nella concezione della maggior parte dei giudei, implicava l'idea di uno sconvolgimento politico. Un ingresso trionfale a Gerusalemme e un intervento nel Tempio, dal quale Gesù pretese che fossero esclusi tutti i piccoli commerci che erano sorti in rapporto al culto, riversarono su di lui l'animosità dei capi. Tutt'e due questi episodi sembra fossero interpretati dai testimoni, seguaci o avversari, come affermazioni di una prerogativa messianica. Essi si svolsero, probabilmente uno di seguito all'altro, in prossimità della festa di Pasqua, e preludevano alla Passione. Dopo aver celebrato con i suoi discepoli un ultimo pasto - che nei sinottici appare come un pasto pasquale, mentre in Giovanni precede la data del rito - Gesù, tradito da uno dei suoi discepoli, Giuda, fu arrestato. I Vangeli dicono che egli comparve successivamente davanti al Sinedrio e al cospetto di Pilato. E' impossibile ricostruire con esattezza lo svolgersi degli avvenimenti. Sembra tuttavia sicuro che Gesù fu vittima di una coalizione della classe dirigente giudaica - sacerdozio in particolare - e dell'autorità romana; è anche certo che fu Pilato e non il Sinedrio - che in quel tempo non aveva, a quanto pare, il diritto di infliggere pene capitali - a emanare la sentenza di morte. Gesù fu condannato come agitatore politico e, immediatamente prima di Pasqua, subì la crocifissione, tipico supplizio romano, e non già la lapidazione.


3. IL MESSAGGIO DI GESU': IL REGNO

"Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino; pentitevi e credete al Vangelo": è questo, riassunto da Marco (1,15), il messaggio di Gesù. Esso esprime, come quello di Giovanni Battista, quell'attesa escatologica che sembra avere animato, con pochissime eccezioni, tutta la religiosità giudaica dell'epoca. Matteo parla di Regno dei cieli, ma le due espressioni esprimono lo stesso concetto. La seconda, che ha dei paralleli nella letteratura rabbinica, rivela la preoccupazione, tipicamente giudaica, di usare circonlocuzioni nel parlare di Dio. Ambedue equivalgono all'affermazione che la sovranità divina sull'umanità e l'universo si realizzerà in modo strepitoso con l'eliminazione di tutte le potenze avverse, demoniache o umane, e si instaurerà nella sua pienezza. Il problema è determinare in quale momento Gesù collocava questo avvenimento capitale che avrebbe inaugurato i tempi ultimi. Esso è stato ampiamente discusso e risolto in maniere molto diverse, senza per altro che una soluzione si sia imposta sulle altre. Anche in questo caso i testi sono di difficile interpretazione e spesso in reciproco disaccordo; inoltre non si riesce sempre a capire se essi esprimano l'insegnamento stesso di Gesù o le idee professate successivamente dalla Chiesa primitiva, al momento della redazione dei nostri Vangeli. Alcuni testi affermano che il Regno si realizzerà nel futuro - un futuro generalmente sentito come molto vicino (Marco 9,1; 13,30) - e che si instaurerà con la rapidità di un baleno, in un momento che solo Dio conosce (Marco 13,32). Altri invece lasciano intendere che le parole e gli atti di Gesù rappresentino già una sorta di anticipazione del Regno e segnino l'inizio di un processo che culminerà, dopo una serie di cataclismi, nel futuro. Questa idea di una evoluzione progressiva appare in particolare nelle parabole che paragonano il Regno alla semenza che cresce e germina senza che si sappia come (Marco 4,26-29), al grano di senape (Marco 4,30-32), al lievito che fa crescere la pasta (Matteo 13,33). E' possibile che queste diverse concezioni del Regno corrispondano a fasi successive del ministero di Gesù. Forse egli credette all'inizio che il Regno si sarebbe instaurato nella sua pienezza durante la sua vita e per mezzo suo, arrivando poi a pensare che sarebbe trascorso un certo tempo tra la fine del suo ministero e l'avvento del Regno. Ci si deve allora domandare se egli credesse che il suo ruolo si sarebbe limitato al presente o che si sarebbe esteso al futuro messianico. In altri termini, la credenza nella Parusia, o seconda venuta, del Cristo, è nata nella Chiesa primitiva a causa dell'apparente insuccesso, dal punto di vista del messianismo tradizionale, del suo ministero, oppure Gesù stesso fu l'artefice dell'idea di questo sdoppiamento della sua azione? La seconda ipotesi si basa su testi (Marco 8,38 e 14,62) che esprimono con grande probabilità l'autentico pensiero di Gesù e che mettono in luce quella che possiamo chiamare la sua coscienza messianica, intimamente legata alla sua concezione del Regno.


4. GESU' MESSIA

Il fatto che Gesù sia stato riconosciuto dai suoi discepoli come il Messia, è provato ampiamente dalla sola denominazione di Cristo, divenuto come un secondo nome proprio del Maestro. E' significativo che in Marco il termine Messia - accompagnato talvolta dall'espressione "figlio di Dio", che deve essere qui intesa come termine onorifico piuttosto che alla lettera - non sia mai usato da Gesù per indicare se stesso. Sono gli altri che lo chiamano così: Pietro sotto forma affermativa (Marco 8,29), il sommo sacerdote, durante il processo, sotto forma di interrogazione (Marco 14,61). In tutti e due i casi Gesù accetta questa qualifica. Anche se egli, non si attribuì mai il titolo di Messia, non è necessario spiegare questo fatto negandogli ogni coscienza messianica, o fare ricorso, come certi critici, alla teoria di un segreto con il quale egli avrebbe voluto nascondere la sua qualità di Messia. Senza dubbio egli, tenendo conto delle implicazioni politiche di quel termine, voleva evitare ogni equivoco sulle sue intenzioni, e prendere le distanze dalle forme nazionaliste del messianismo. In effetti Gesù ha definito la propria figura con altri tratti che quelli del Messia tradizionale. Egli ha concepito il suo ruolo in conformità con il personaggio biblico del Servo Sofferente (Isaia 40-55), pieno di umiltà, sottomesso totalmente alla volontà divina in una vita di devozione e sacrificio. Nulla autorizza a rifiutare come non autentici i versetti in cui egli parla delle prove che lo attendono. Tutto il suo ministero diventa incomprensibile se ci si rifiuta di ammettere che egli intravide e accettò l'idea dell'eventualità delle sue sofferenze, dell'umiliazione e anche della morte. Recandosi a Gerusalemme, senza forse scartare del tutto la possibilità di un intervento vittorioso di Dio, egli aveva accettato i rischi della sua decisione. Per quanto sia importante la figura del Servo per spiegare quella di Gesù, egli fa ricorso abitualmente ad un'altra figura per definirsi: quella del Figlio dell'Uomo. Abbiamo già notato (pp. 27-8) la sua origine e le sue caratteristiche. Essa è fondamentale nella predicazione di Gesù come i Vangeli ce l'hanno tramandata. Mentre la figura del Servo rappresenta, nella Chiesa nascente, uno dei principali punti d'appoggio della cristologia, il termine di Figlio dell'Uomo designa esplicitamente Gesù una sola volta al di fuori dei Vangeli (Atti 7,56). L'uso che ne fanno i Vangeli è più caratteristico. E' chiaro che si tratta per essi di una autodesignazione di Gesù: "il Figlio dell'Uomo" e "io" si alternano talvolta, come termini intercambiabili, in alcuni passi paralleli dei sinottici. L'espressione si applica tanto alla vita presente e mortificata; e alla Passione di Gesù (Marco 10,45; Matteo 8,20; Luca 22,48), quanto alla sua esaltazione futura (Marco 8,38; Matteo 19,28). Gesù ha evidentemente tratto questo titolo dalla letteratura apocalittica, Daniele e forse Enoch; esso è meno preciso, meno suscettibile di equivoci e più ricco di mistero di quello di "Messia", e anche più ricco di significato teologico, malgrado le apparenze, di quello di "figlio di Dio" nell'accezione giudaica (se non in quella che a esso ha attribuito la speculazione cristiana successiva). Il termine Figlio dell'Uomo infatti, pur essendo in origine un semitismo sinonimo di uomo, designa, nel suo uso specifico, fissato dall'apocalittica giudaica e precisato da Gesù, tutt'altra cosa che la semplice umanità: vi è un solo Figlio dell'Uomo, che si sente legato da un vincolo di filiazione particolare al Padre Celeste. Dal Figlio dell'Uomo evangelico al Figlio di Dio come è stato definito dalla teologia trinitaria, il passaggio era naturale.


5. GESU' E LA LEGGE GIUDAICA

La coscienza messianica di Figlio dell'Uomo conferisce a Gesù un'autorità senza precedenti in Israele. Essa gli ispira un insegnamento che, strettamente legato per certi aspetti a quello dei rabbini, presenta tuttavia una originalità profonda; fu in definitiva questa originalità a provare l'ostilità dei dirigenti giudaici, tanto farisei che sadducei. Anche se tale insegnamento culmina nella buona novella - il Vangelo - del Regno, non si limita tuttavia esclusivamente ad essa, ma precisa nello stesso tempo le condizioni di accesso al Regno, opponendosi così all'insegnamento rabbinico tradizionale o, su alcuni punti, alla Legge stessa. Certo la posizione di Gesù non è caratterizzata da un antinomismo sistematico: "Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti. Io non sono venuto ad abolire, ma a completare" (Matteo 5,17). In qualsiasi modo si possa intendere questa affermazione - e interpretazioni opposte sono state avanzate - il contesto indica chiaramente che per Gesù la Legge resta la regola di condotta fondamentale. Egli non si astiene però dall'interpretarla in un modo spesso giudicato rivoluzionario e quindi scandaloso dai suoi uditori, o dall'ammorbidirla o rafforzarla a seconda dei casi. Gesù attenua, talvolta in pratica fino ad abrogarle, le osservanze rituali (Marco 2,23-28 e parall.; 3,1-6 e parall.; 7,1-23 e parall.), ma rende più severe le prescrizioni morali, fino a contraddire talvolta la lettera del testo sacro ("Discorso della Montagna", Matteo 5-7). Egli stabilisce così una precisa gerarchia tra i comandamenti. Sulla linea dei profeti, interiorizza e personalizza l'etica giudaica. Al di là delle azioni, scruta e giudica l'intenzione da cui sono nate, e bada più alla purezza del cuore che all'osservanza, del tutto esteriore, di un legalismo formalista. Chi vuole accedere al Regno deve superare in giustizia gli scribi e i Farisei (Matteo 5,20), di cui denuncia con veemenza la casistica. E' d'obbligo quindi farsi suoi discepoli, senza compromessi né riserve, in una pratica senza errori della legge fondamentale d'amore per Dio e per il prossimo: "Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste" (Matteo 5,48). Il suo messaggio si rivolge in primo luogo ai diseredati, ai peccatori. Più di altri essi hanno bisogno delle sue parole che promettono la misericordia infinita e la grazia salvatrice di Dio. Essi sono inoltre più vicini al Regno che i ricchi e i "giusti". E' tra essi, tra i contadini delle campagne di Galilea, tra cui la religiosità farisaica era poco penetrata, che questa predicazione nemica di ogni conformismo suscita maggiori risonanze. Ma in presenza di un pubblico sempre esposto alla febbre messianica, fu indispensabile per lui resistere alla tentazione zelota e tracciare con cura una linea di demarcazione tra religione e politica, affermando che anche verso il potere romano instaurato da Dio, esiste un dovere di lealismo (Marco 12,17 e parall.).


6. GESU' E I GENTILI

E' necessario domandarsi se la predicazione di Gesù si rivolgesse soltanto ai giudei o anche ai Gentili. Non è facile su questo punto trarre dai Vangeli dati univoci. Per quanto riguarda i sinottici, l'universalismo cristiano è affermato chiaramente soltanto nel finale di Marco (16,15-16), ritenuto apocrifo dalla maggior parte dei critici, e negli ultimi versetti di Matteo (28,19-20), la cui autenticità è ugualmente discussa. Diversi testi indicano invece che Gesù ha deliberatamente limitato la sua azione a Israele, rivolgendosi ai pagani soltanto in casi eccezionali (Marco 7,24-30; Matteo 8,5-13) e ricordando di essere stato inviato soltanto per le pecore smarrite della casa d'Israele (Matteo 15,24). Le sue consegne ai dodici apostoli sono tassative: "Non andate presso i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani. Andate piuttosto dalle pecore perdute della casa d'Israele" (Matteo 10,6). E' anche vero però che queste dichiarazioni sono riferite soltanto da Matteo, e che restringono forse la prospettiva nella quale si collocava Gesù, il quale non provava, di fronte a pagani e Samaritani, né disprezzo né odio; addirittura talvolta egli li proponeva come esempio, a titolo individuale, ai suoi ascoltatori giudei. E' evidente tuttavia che l'elezione di Israele è per lui un fatto incontestabile. Essa ha come conseguenza, in rapporto al Regno, una altrettanto sicura priorità: "prima al giudeo, poi al greco" - così lo stesso Paolo, pur nel suo indubitabile universalismo, vedrà la predicazione evangelica (Romani 1,16). Forse bisognerebbe tener conto, per una valutazione esatta della concezione di Gesù su questo punto, dei diversi momenti secondo i quali - a suo avviso - si sarebbe sviluppato il piano divino. Anche se, nella sua attività terrena, non si è affatto occupato dei pagani, in compenso egli sembra aver loro accordato un posto nell'ultima fase dell'instaurazione del Regno (Marco 13,10; Matteo 8,11). Vedendo in Israele moltiplicarsi gli ostacoli sul suo cammino, egli arrivò forse a pensare che i Gentili si sarebbero uniti, o anche sostituiti ai giudei nel futuro messianico: "Molti verranno dall'Oriente e dall'Occidente e si siederanno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori" (Matteo 8,11-12).


7. GESU' E LA CHIESA

L'instaurazione del Regno implica la fondazione di una società purificata, santificata, di un nuovo Israele. La Chiesa cristiana ha ben presto rivendicato questo titolo. Questa concezione, più volte espressa in san Paolo, era presente nel pensiero di Gesù? Alcuni esegeti, considerando che Gesù fu il profeta escatologico di un avvenimento che ancora non si è verificato, pensano che la Chiesa, nata da un errore, rappresenti un adattamento dei discepoli a circostanze che il maestro non aveva previsto: secondo una formula celebre, Gesù ha annunziato il Regno, ma quel che è venuto è stata la Chiesa. Le cose non sono però così semplici. Se ammettiamo che Gesù pensasse che con la sua predicazione e la sua azione i tempi messianici fossero per lo meno inaugurati, l'opposizione Regno-Chiesa viene a perdere molta forza. Lo stesso termine Chiesa ricorre soltanto due volte nei Vangeli, una volta nel senso di comunità locale (Matteo 18,17), l'altra nell'accezione più ampia, nel famoso versetto relativo a Pietro, fondamento della Chiesa, sul quale il cattolicesimo basa il dogma del primato di Roma (Matteo 16,18). La sua autenticità è stata più volte messa in dubbio. Dopo la scoperta dei manoscritti del Mar Morto, in cui si esprime per bocca del Maestro di Giustizia, con termini simili, un'idea analoga, l'atteggiamento dei critici è però cambiato. In effetti un movimento di riforma del giudaismo non si concepisce - anche nell'attesa del Regno imminente - al di fuori del quadro di un gruppo organizzato. Non vi è inoltre motivo di mettere in dubbio 1'istituzione, da parte di Gesù, del collegio dei Dodici - chiamati apostoli soltanto una volta da Matteo (10,2) e un'altra da Marco (6,30 ) - che rappresenta sia un simbolo delle dodici tribù tradizionali, sia una sorta di ossatura del nuovo Israele. Compagni di Gesù mentr'egli era in vita, i Dodici hanno naturalmente preso il suo posto dopo la sua morte, attendendone il prossimo ritorno, alla testa del piccolo gruppo dei suoi fedeli. Nulla lascia intendere che Gesù abbia battezzato coloro che accettavano il suo messaggio. Negli stessi Vangeli - in particolare, nei già ricordati finali di Matteo e Marco - è il Cristo risuscitato che ordina ai discepoli di battezzare. Il secondo dei riti fondamentali, dei sacramenti, della Chiesa nascente, la Cena o Eucaristia, risale invece sicuramente a un atto del Cristo. Nessuna spiegazione soddisfacente è stata data del fatto che il quarto Vangelo, proprio quello in cui la mistica sacramentaria appare più sviluppata, ometta nel racconto dell'ultima cena l'istituzionee dell'Eucaristia. I sinottici, con qualche piccola diversità nei dettagli, ne parlano in termini così chiari da non lasciare ombra di dubbio sulla realtà del fatto. Se poi san Paolo ne riferisce, in un testo anteriore a tutti i nostri Vangeli (I Corinzi 11,23-27), facendo appello a una rivelazione particolare del Cristo, nulla autorizza a pensare che egli stesso abbia potuto creare un rito che, derivato nella sua struttura dalla liturgia domestica giudaica, sembra che avesse un senso specifico già nella prima comunità di Gerusalemme. Celebrato da Gesù, questo rito esprime, al culmine di una carriera destinata ad essere brutalmente troncata, la convinzione che la sua opera dovrà essere continuata, con l'appoggio della sua presenza invisibile, dal gruppo dei fedeli, fino al banchetto messianico, quando egli berrà di nuovo con loro il frutto della vigna, nel Regno di Dio (Marco 14,25 e parall.): rito escatologico, l'Eucaristia è nello stesso tempo un rito ecclesiastico; si può dire che, in un certo senso, essa fondi la Chiesa.


8. LA COMUNITA' PRIMITIVA

Il ministero di Gesù non è però che l'episodio preliminare della storia della religione cristiana. Questa religione inizia con quella che talvolta si chiama la fede di Pasqua, la fede nella risurrezione del Messia crocifisso. Confermata agli occhi dei primi discepoli dalle apparizioni del Risorto (I Corinzi 15,4-8), la risurrezione era inoltre attestata, secondo i Vangeli, dal fatto che la tomba fu trovata vuota il mattino del giorno di Pasqua. Qualsiasi cosa pensi della realtà oggettiva di questi fatti, lo storico moderno deve constatare che accadde qualcosa che condizionò tutta la successiva evoluzione del cristianesimo. Scoraggiati, disperati per la morte del maestro, i discepoli ritrovano una fiducia incrollabile e predicano il gioioso messaggio della sua resurrezione e del suo prossimo ritorno. A poco a poco essi si persuadono - riferendo a Gesù, come certamente egli stesso aveva fatto, un certo numero di passi biblici, e in particolare quelli relativi al Servo Sofferente - che la sua passione e morte, così sconcertanti per un giudeo abituato alle prospettive messianiche tradizionali, erano conformi al disegno divino e rappresentavano l'indispensabile preludio alla sua elevazione "alla destra di Dio" e al suo ritorno in gloria. Intorno al piccolo gruppo le adesioni si moltiplicano: la tradizione cristiana ha fissato alla Pentecoste, che avrebbe visto la conversione di ben tremila giudei tra quelli giunti da ogni paese a Gerusalemme per la festa, il giorno della nascita della Chiesa. I primi cristiani non hanno intenzione di separarsi dal giudaismo, di cui osservano con scrupolo le prescrizioni. Essi si limitano a dare un nome al Messia anonimo atteso dalla speranza giudaica, e a sviluppare lo schema tradizionale dell'opera messianica. La Chiesa nascente non è altro, in questo stadio iniziale, che una tra le tante sette giudaiche: i suoi riti e le sue particolari credenze non sono sufficienti a collocarla al di fuori della religione ancestrale. Sorvegliata dall'autorità religiosa, in particolare dal sacerdozio sadduceo, infastidita e talvolta anche molestata, essa conduce tuttavia un'esistenza relativamente tranquilla, e non subisce nessuna vera e propria persecuzione.


9. STEFANO E GLI ELLENISTI

La prima grave crisi nei rapporti tra il gruppo cristiano e l'autorità giudaica si verifica con l'entrata in scena di quelli che gli Atti degli Apostoli - la nostra fonte essenziale per questo periodo - chiamano "Ellenisti". Si tratta di un piccolo nucleo di giudei della Diaspora, la cui lingua abituale era il greco, stabilitisi a Gerusalemme e giunti ad abbracciare il cristianesimo in circostanze che non ci sono note. Sembra comunque che già prima di aderire al messaggio di Gesù essi avessero professato - riguardo alle istituzioni rituali del giudaismo - delle concezioni molto lontane dalle norme ufficiali e anche da quelle della Chiesa nascente. I discorsi che gli Atti attribuiscono al capo di questo gruppo, santo Stefano, rivelano abbastanza fedelmente la posizione degli Ellenisti. Essa si caratterizza per una condanna radicale del Tempio di Gerusalemme, considerato come un luogo d'idolatria, contrario all'autentica Legge di Mosè. A quanto pare, Stefano e il suo gruppo attribuivano a Gesù la missione di spiritualizzare il culto con l'eliminazione di questo falso santuario, riportando così il giudaismo alla sua primitiva purezza. Un simile messaggio, proclamato nella stessa città santa, non poteva non provocare una violenta reazione nella casta sacerdotale e nell'opinione giudaica. Stefano - primo martire cristiano - morì lapidato, e una persecuzione si abbatté sulla comunità di Gerusalemme. Dalle indicazioni, alquanto imbarazzate, degli Atti, appare tuttavia che questa persecuzione non colpì affatto la Chiesa nel suo complesso, ma soltanto il gruppo degli Ellenisti. In causa non era dunque ancora la fede in Gesù Messia, ma quella concezione molto particolare di un giudaismo riformato com'era inteso da Stefano e dai suoi seguaci. Questi ultimi, brutalmente privati del loro capo, si dispersero in Palestina e nelle regioni vicine. In questo momento nacque la missione cristiana. Gli Ellenisti, staccando il cristianesimo dal culto di Gerusalemme, avevano creato le condizioni di un allargamento universalistico. Gli Atti (11,19) precisano tuttavia che essi annunciavano la parola soltanto ai giudei, a parte qualcuno che si rivolgeva anche ai pagani. Il messaggio della purificazione radicale del giudaismo riguardava infatti principalmente i giudei. Diffuso tra i pagani esso non rappresentava ancora che un invito a convertirsi a un giudaismo che Gesù aveva rinnovato. Tuttavia era stato compiuto un passo verso l'emancipazione. Quest'ultima si realizzerà con san Paolo.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:34
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SAN PAOLO E L'UNIVERSALISMO CRISTIANO

1. LE FONTI

Tra tutti i personaggi della storia cristiana primitiva, san Paolo è il meglio conosciuto. Su di lui e la sua opera ci informano gli Atti degli Apostoli, che gli dedicano quindici capitoli su ventotto, e le sue stesse epistole. Gli Atti sono della stessa mano del terzo Vangelo, quello di Luca, e si presentano come una storia dell'epoca apostolica, che corrisponde alla prima generazione cristiana; furono redatti forse d'intorno al 90. L'opera utilizza, a parte la tradizione orale, alcune fonti contemporanee agli avvenimenti. Essa va letta tuttavia con occhio critico. L'autore, che non è un testimone oculare, ci dà un'immagine spesso idealizzata della cristianità primitiva, in cui le opposizioni si stemperano fino a dissolversi. Il confronto con le epistole di san Paolo pone in luce alcune contraddizioni che non è facile risolvere. I critici non sono d'accordo sull'autenticità delle quattordici lettere attribuite a Paolo e inserite nel Nuovo Testamento. L'Epistola agli Ebrei, che si presenta anonima, e che la tradizione ecclesiastica attribuisce a Paolo con molta esitazione, non è certamente sua. La grande maggioranza degli esegeti pensa altrettanto delle tre epistole dette pastorali (I e II a Timoteo, e quella a Tito), che sono nella linea di san Paolo, deutero-paoline, ma non di sua mano. Alcuni negano autenticità anche all'Epistola agli Efesini. Pochi rifiutano quella dell'Epistola ai Colossesi e della Seconda ai Tessalonicesi. Un largo consenso attribuisce invece all'Apostolo la Prima ai Tessalonicesi, e quasi nessuno contesta la paternità delle quattro epistole maggiori: ai Romani, I e II ai Corinzi, ai Galati, e del breve scritto a Filemone. Ma anche le epistole giunteci a torto sotto il suo nome, presentano, in diversa misura, il segno della sua personalità. Esse, utilizzate con una certa prudenza, possono gettare un po' di luce su quello che comunemente si chiama il paolinismo. Sono tutte scritti di circostanza, indirizzati a una comunità particolare e destinati a risolvere i problemi particolari del momento, prima di divenire patrimonio comune della cristianità. Anche se Paolo è il padre della teologia cristiana, non vi è certo nei suoi scritti un'esposizione dottrinale completa, articolata sistematicamente. Egli non è né un Aristotele, né un san Tommaso d'Aquino. Di tutti i libri del Nuovo Testamento, soltanto le epistole paoline autentiche appartengono sicuramente al periodo apostolico: sono i più antichi scritti del cristianesimo. Cronologicamente si collocano tra il 50 circa (I ai Tessalonicesi) e il 60-62 (epistole dette della cattività: agli Efesini (?), ai Filippesi, ai Colossesi, a Filemone). In rapporto a questi testi, le epistole canoniche attribuite ad altri personaggi della prima generazione cristiana, Giacomo, Pietro, Giovanni, Giuda - la cui autenticità è contestata - non rappresentano in ogni caso che delle fonti secondarie. Nella loro preziosità per lo storico, le epistole paoline pongono tuttavia più problemi di quanti ne risolvano: sono testimonianze spontanee e di prima mano, ma anche passionali e parziali. Dovendo scegliere tra gli Atti e le Epistole, lo storico sarà propenso a preferire queste ultime, ricordandosi però che la verità non è necessariamente sempre dalla stessa parte: a volte può non trovarsi né dall'una né dall'altra parte. In mancanza di certezza, dovrà accontentarsi di probabilità. Lo storico dovrà inoltre premunirsi contro un possibile errore di prospettiva, dovuto al carattere estremamente unilaterale della nostra documentazione. Lo spazio che gli Atti dedicano a Paolo e quello che occupa nel Nuovo Testamento il corpus paolino autorizzano a pensare che l'Apostolo abbia svolto effettivamente un ruolo capitale nella genesi e nella diffusione del cristianesimo. Ma se i suoi emuli avessero lasciato degli scritti tali da porsi in antitesi alle sue lettere, gli avvenimenti sarebbero stati interpretati con una prospettiva diversa. Si può certo pensare che intorno a Paolo non vi fosse alcuna personalità dalla statura paragonabile alla sua, ma sarebbe rischioso ammettere che egli sia stato l'unico artefice della prima espansione cristiana, e che abbia modellato a sua immagine la Chiesa nel suo complesso. I conflitti di cui le sue epistole ci trasmettono l'eco, e l'evoluzione stessa della cristianità primitiva nel periodo seguente, provano che nulla di ciò accadde. Vi furono, nella Chiesa primitiva, altre interpretazioni del cristianesimo oltre a quella data da san Paolo.


2. LA CARRIERA DI PAOLO

Paolo nacque, probabilmente agli inizi del I secolo, a Tarso in Cilicia, dunque nella Diaspora di lingua greca. Suo padre era cittadino romano. Egli stesso aggiunge al suo nome ebraico, Saul, il cognome romano con il quale noi lo designiamo. Ancor giovane, venne a studiare a Gerusalemme: "ai piedi di Gamaliele" - uno dei più illustri dottori dell'epoca - precisano gli Atti. Si ritrova nel suo pensiero l'impronta sia delle categorie greche che di metodi e concetti rabbinici. Prima della conversione era un giudeo fiero del suo popolo e un fariseo esemplare (Filippesi 3, 5) nemico accanito della Chiesa nascente (Galati 1, 13-14). Gli Atti gli attribuiscono un ruolo importante nella persecuzione successiva al martirio di Stefano. Egli svolgeva una missione anticristiana, forse ufficiale, al di fuori della Palestina, quando il Cristo gli apparve, sulla strada per Damasco. Questa visione fece del persecutore un discepolo, del fariseo scrupoloso l'Apostolo dei Gentili (forse d'intorno al 36). Gli Atti ci riferiscono i particolari dei suoi tre viaggi missionari. Il primo lo conduce, con Barnaba, da Antiochia a Cipro, poi attraverso l'Asia Minore, dove i due predicatori fondano Chiese in diverse città importanti. Nel corso del secondo viaggio, successivo a una visita a Gerusalemme (cfr. p. 66), Paolo visita le sue comunità asiatiche, attraversa la Frigia e la Galazia e si imbarca per la Macedonia. Fonda Chiese a Filippi e Tessalonica, raggiunge la Grecia vera e propria, subisce uno smacco ad Atene ma ottiene un notevole successo a Corinto. La popolazione di questa città era composita, e quindi più aperta alle influenze orientali che non la vecchia città dell'Attica. A Corinto si ferma per diciotto mesi; questo periodo coincide in parte con il proconsolato di Gallione, ricordato negli Atti e datato da una iscrizione di Delfi (51-52). Dopo una breve visita ad Efeso e a Gerusalemme, Paolo riparte da Antiochia per il suo terzo viaggio, che lo conduce in Asia Minore, in Grecia e in Macedonia. Da qui raggiunge di nuovo la costa asiatica, poi Tiro e Gerusalemme. In questa città viene arrestato, in circostanze poco chiare, su iniziativa dei giudei, e consegnato al procuratore Felice che, imbarazzato dalla faccenda, tira le cose in lungo. Due anni dopo un nuovo governatore, Festo, deferisce Paolo, su sua richiesta, al tribunale dell'imperatore. Una traversata molto movimentata lo conduce via Sidone, Creta e Malta, fino a Pozzuoli. Accolto poi dai cristiani della capitale, trascorre due anni a Roma in libertà vigilata. Il racconto degli Atti si arresta qui bruscamente, lasciandoci all'oscuro sulla fine dell'Apostolo. Egli morì martire a Roma - ignoriamo il capo d'accusa - verso il 62-64, probabilmente prima della persecuzione di Nerone. Questo apostolato, condotto per più di vent'anni attraverso difficoltà, prove e pericoli di ogni sorta (II Corinzi 11,23-28), con una energia e una passione di cui le epistole ci trasmettono l'eco, era per Paolo il frutto della volontà divina: Dio stesso lo aveva predestinato, fin dal seno materno, a convertire i Gentili. Durante la sua attività egli si scontrò non soltanto con l'animosità dei giudei e di una parte dei pagani, ma anche con la diffidenza e talvolta con l'ostilità aperta di alcuni cristiani scandalizzati da certi tratti del suo Vangelo, che egli proclamava di aver ricevuto dallo Spirito, dalla rivelazione diretta e personale del Cristo (I Corinzi 2,6-16; Galati; 1,11-12).


3. LA DOTTRINA DI PAOLO

All'origine della teologia di Paolo c'è un'esperienza mistica. Ma c'è anche, in misura prevalente, una lunga e dolorosa riflessione sull'impossibilità, per gli uomini, di salvarsi con i mezzi propri. I pagani, insensibili alla voce della coscienza e alla rivelazione naturale che si esprime per mezzo della creazione, si sono gettati nell'idolatria, fonte di ogni perversione morale (Romani 1,20-32). L'umanità e l'intero creato sono così asserviti agli elementi del Kosmos (Galati 4,3), potenze demoniache più o meno identificate agli astri. Solo fra tutti i popoli, Israele si è sottratto all'empietà, perché ha ricevuto in deposito la rivelazione scritta, la Legge. Tuttavia anche i giudei sono peccatori, a causa della caduta di Adamo, antenato comune di tutta la razza umana, e anche perché la Legge stessa "è sopraggiunta perché fosse abbondante l'offesa" e conosciuto il peccato (Romani 5,20 e 7,7). In definitiva essa è fonte di dannazione più che di salvezza (Galati 3,10). Paolo, il cui pensiero tradisce su questo punto qualche esitazione, persiste tuttavia nell'affermarne l'origine divina (Romani 8,7; ma cfr. Galati 3,19-20). La Legge testimonia l'influenza universale del male, e ne deriva, piuttosto che esserne il rimedio: "essere sotto la Legge" equivale praticamente a "essere asservito agli elementi del Kosmos" (Galati 4,3 sgg.). Sia pagano o giudeo l'uomo è ugualmente inerme e privo di meriti propri. La salvezza può venirgli soltanto da un dono gratuito della misericordia divina, che lo libera dal peccato, dalla morte che ne è la conseguenza, dalla "maledizione della Legge" e, insieme a tutto il creato, dalla tirannia delle potenze demoniache. Questa redenzione cosmica si è ormai attuata, con la venuta del Cristo. Il Cristo, essere celeste, Figlio di Dio, fatto uomo nella persona di Gesù, ha caricato su di sé, vittima innocente per l'espiazione, i peccati della razza umana. Il suo sacrificio, manifestazione della giustizia e dell'amore divino, ha riconciliato l'umanità e l'universo con Dio. Crocifisso dalle potenze malefiche, egli, per mezzo della croce, ha trionfato su di esse e sulla stessa morte: egli è risorto, per riprendere presso il Padre un posto ancora più elevato che prima dell'incarnazione. Così il dramma del Calvario, tanto sconvolgente per i primi discepoli, risponde per san Paolo a una necessità assoluta: è una svolta nella storia del mondo, la realizzazione del disegno provvidenziale. Di tutta l'attività del Cristo, Paolo evidenzia soltanto quest'ultimo episodio, che diventa il nucleo stesso della sua predicazione (I Corinzi 1,23). La redenzione si compirà però pienamente soltanto alla fine dei tempi, alla Parusia, quando gli eletti entreranno, con la resurrezione, in quel "corpo spirituale" che è già quello del Cristo glorificato (I Corinzi 15). Ma i fedeli, salvati dalla grazia divina e dalla fede, prendono parte già da ora alla vita eterna, nella misura in cui vivono "nel Cristo", in comunione mistica con lui, attraverso l'unione alla Chiesa, che è il suo corpo (Colossesi 1,18-24). Questo riscatto compiuto dal Cristo ha messo fine al regno, del tutto provvisorio, della Legge. La fede che, con i Patriarchi, preesisteva alla Legge, è, anche per i giudei, l'unica via di salvezza (Romani 10,4; Galati 3,24). La redenzione libera l'uomo da tutti i legami che gli impediscono di vivere con Dio, e la Legge è uno di questi legami. Il cristiano morto per la Legge è anche morto al peccato. Ma il peccato stesso resta vivo, come una potenza quasi personificata: l'esistenza del cristiano è una perenne lotta dello "spirito", principio di ogni bene, contro la "carne", principio di ogni male. Là dove lo spirito trionfa la condotta dei fedeli sarà naturalmente conforme alla legge morale, espressione della volontà divina, di cui Paolo ricorda in tutte le sue lettere gli imperativi essenziali. Quanto alle osservanze rituali, esse sono condannate nettamente. Dal momento che rifiuta di comprendere e accettare il Cristo, Israele è momentaneamente abbandonato da Dio. L'eredità è passata al nuovo Israele, unione universale dei credenti, appartenenti per il momento soprattutto alla Gentilità, in attesa che i giudei vi si uniscano, alla fine dei tempi. La Bibbia, che trasmette le promesse divine, mantiene, interpretata alla luce del Cristo, tutto il suo valore di testimonianza. Ma più che il patrimonio di un solo popolo, essa è la carta dell'universalismo cristiano, per il quale non c'è "né greco, né giudeo, né circonciso, né incirconciso, né barbaro, né scita, né schiavo, né libero, ma soltanto il Cristo che è tutto in tutti" (Colossesi 3,11).


4. IL PROBLEMA DELLE OSSERVANZE

I gerosolimitani non erano certo ostili per principio alla missione tra i pagani: lo stesso giudaismo, come abbiamo visto, la praticava. Non sembra tuttavia che all'inizio fossero verso di essa molto propensi. L'iniziativa di Paolo, che predicava tra i Gentili un cristianesimo del tutto privo di osservanze rituali, poneva loro un grave problema. Paolo ci dice che, giunto a Gerusalemme tre anni dopo la sua conversione, per un breve soggiorno durante il quale non vide che Pietro e Giacomo, vi ritornò quattordici anni dopo. Malgrado gli intrighi dei "falsi fratelli", egli rifiutò qualsiasi, anche minima, concessione giudaizzante. In effetti i "notabili", Giacomo, Pietro e Giovanni, non gliene imposero alcuna e riconobbero solennemente il suo apostolato tra i pagani, riservando per sé la missione in Israele (Galati 2,7-10). Ma la questione risorse ben presto, in occasione di una visita di Pietro ad Antiochia. Per non paralizzare la vita di una comunità mista e per rendere possibile, in particolare, la celebrazione dell'eucaristia, generalmente associata a un pasto fraterno, i giudei convertiti trovavano naturale, sull'esempio di Paolo, sottrarsi alle leggi alimentari. Anche Pietro all'inizio del suo soggiorno fece lo stesso. Ma dopo l'arrivo di alcuni emissari di Giacomo, egli si ravvide e si tenne in disparte, "per paura dei circoncisi", trascinando con sé gli altri cristiani israeliti, Barnaba compreso. Paolo reagì con vigore: "Io mi opposi a lui apertamente, perché aveva sbagliato" (Galati 2,11 sgg.). Gli Atti ci danno una versione notevolmente diversa dell'accaduto. Alcuni cristiani anonimi, giunti dalla Giudea ad Antiochia e, a quanto pare, senza mandato ufficiale, pretendevano di obbligare i pagani convertiti a farsi circoncidere, cioè a diventare giudei nello stesso tempo che cristiani. Paolo, Barnaba e altri si recarono allora a Gerusalemme per riferire l'accaduto ai Dodici. Malgrado l'opposizione degli intransigenti, che volevano imporre ai Gentili l'osservanza integrale della Legge, Pietro difese, senza la minima riserva, il punto di vista di Paolo, vantandosi di averlo personalmente messo in pratica, e si richiamò al titolo di Apostolo dei Gentili che Paolo non aveva mai cessato di rivendicare (Atti 15). Giacomo propose però una soluzione di compromesso, che fu adottata dall'assemblea e consolidata in quello che si chiama comunemente il decreto apostolico (Atti 15,28-29): ai pagani convertiti bisogna imporre soltanto un minimo di osservanze rituali: "astenersi dalle carni immolate agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla fornicazione"; quest'ultimo termine designava con ogni probabilità non la lussuria, ma i matrimoni tra gradi di parentela proibiti dalla Legge giudaica. Se, come sembra, il testo degli Atti e quello di Paolo si riferiscono allo stesso episodio, vi sono tra i due delle contraddizioni insanabili. Gli Atti, chiaramente, minimizzano il dissidio e attribuiscono ai protagonisti un'identità di vedute che viene smentita dall'Epistola ai Galati. E' evidente che Paolo, il quale - a suo stesso dire - non aveva subito alcuna imposizione da parte dei gerosolimitani, non avrebbe potuto accettare per i suoi convertiti non giudei anche quel minimo di osservanze rituali codificato dal decreto, senza rinnegare contemporaneamente se stesso. E' probabile dunque che si tratti di una decisione presa in sua assenza, in rapporto all'incidente di Antiochia; non è possibile però fissare con esattezza l'ordine di successione dei due fatti: il decreto può essere la causa del voltafaccia di Pietro, come la conseguenza dell'incidente; in questo caso suo scopo sarebbe stato quello, di evitarne il ripetersi. Paolo in ogni caso, ne fu informato ufficialmente da Giacomo - a quanto risulta dagli Atti stessi (21,25) -, soltanto alla fine della sua carriera. Lungi dal rappresentare il trionfo delle sue idee, il decreto, affermando la perennità e la portata universale di una parte, sia pur modesta, dell'osservanza giudaica, ne rappresenta il disconoscimento.


5. PAOLINISMO E GIUDEO-CRISTIANESIMO

I divieti del decreto riproducono, in forma esplicita, la parte propriamente rituale dei comandamenti detti noachici, cioè rivelati a Noè, che i rabbini imponevano ai "timorati di Dio" (vedi p. 36). E' certo che nell'intenzione dei gerosolimitani il decreto equivaleva all'assimilazione dei pagani convertiti ai mezzi-proseliti. Si faceva così del cristianesimo una sorta di giudaismo mitigato. Definendo un minimo di prescrizioni esigibili da tutti, esso per lo meno precisava nello stesso tempo un massimo che nessuno poteva obbligare i cristiani di origine pagana a superare. Da questo punto di vista, il decreto stesso proclamava, a suo modo, l'autonomia del cristianesimo. Sembra tuttavia che alcuni dei Dodici non si siano limitati a ciò. Rimasti legati, come la maggior parte dei fedeli di provenienza giudaica, all'osservanza integrale, essi cercarono d'imporla anche ai neofiti di altra provenienza. Una missione propriamente giudeo-cristiana si sviluppò a poco a poco non soltanto nelle regioni che Paolo non aveva evangelizzato, e delle quali gli Atti non parlano, ma anche nelle zone a lui riservate, e sulle sue stesse tracce. Paolo, in effetti, denuncia con vigore l'azione di questi missionari che, procedendo sulla sua scia, modificano il suo insegnamento e predicano un altro Vangelo e un altro Gesù (Galati 1,6-7; II Corinzi 11,4). Il discorso di I Corinzi 8 sugli idolotiti (carni immolate agli idoli) rappresenta una malcelata polemica contro il decreto. E nelle Chiese di Galazia si pretende dai pagani convertiti l'accettazione non solo delle prescrizioni alimentari fondamentali, ma della totalità della Legge e in particolare della circoncisione (Galati 4,10; 5,2 sgg.). Paolo non denuncia per nome gli iniziatori di questo movimento. Ma è significativo che vi fosse a Corinto un partito di Cefa, cioè di Pietro (I Corinzi 1,12). E le lettere di raccomandazione che alcuni dei rappresentanti di questo partito esibivano per autenticare il loro apostolato (II Corinzi 3,1) dovevano necessariamente provenire da un'autorità incontestata, da qualcuno dei Dodici, forse Pietro, o - con maggiore probabilità - Giacomo, fratello del Signore, tutti e due designati come le "colonne" (Galati 2,9), ai quali si riferisce probabilmente anche l'ironica definizione di "super-apostoli" (II Corinzi 11,5; 12,11). Non siamo sufficientemente informati sull'atteggiamento di Pietro dopo l'incidente di Antiochia (le due epistole comprese nel Nuovo Testamento sotto il suo nome sono di dubbia autenticità). Forse, dopo le esitazioni iniziali, egli si allineò sulla tendenza moderata espressa nel decreto apostolico. Ignoriamo ugualmente che cosa avvenne di lui dopo il suo periodo gerosolimitano. Una tradizione antica, che sembra abbastanza sicura, lo fa morire a Roma, vittima della persecuzione neroniana del 64. Ma gli scavi recentemente compiuti sotto la basilica di San Pietro, non hanno fornito la conferma clamorosa che alcuni si attendevano. Quanto a Giacomo, vero e proprio capo della comunità palestinese dopo la partenza di Pietro e morto martire a Gerusalemme nel 62 per motivi del tutto oscuri, la tradizione lo presenta come un legalista intransigente. I giudeo-cristiani si sono, con qualche ragione, richiamati al suo patronato. Definiamo giudeo-cristiano quel ramo della Chiesa antica che, reclutato essenzialmente, ma non unicamente, in Israele, pretendeva di unire la fede in Gesù Messia a un'osservanza rigorosa della Legge giudaica. Storicamente i suoi seguaci sono i discendenti della prima comunità di Gerusalemme, emigrata in parte nella città transgiordana di Pella in seguito agli avvenimenti del 66-70, dopo il martirio del suo capo. Direttamente colpiti dalle catastrofi palestinesi, essi furono ben presto ridotti al rango di una setta eretica: la Chiesa si evolveva e diveniva sempre più Chiesa dei Gentili. Fino all'inizio del V secolo essi condurranno, sotto il nome di Ebioniti o Nazarei, un'esistenza oscura. Finiranno poi per scomparire, assorbiti in parte dalla grande Chiesa, in parte dalla Sinagoga. Essi si distinguevano dagli altri cristiani non soltanto per il loro ritualismo, ma anche per alcuni aspetti dottrinali; era per esempio tipica di alcuni di essi una cristologia molto arcaica, che non riconosceva la divinità del Cristo. Il prestigio di Paolo nella Chiesa antica fu considerevole. Ne è prova l'inserimento delle sue epistole nel canone scritturistico: da qui deriva il ruolo fondamentale svolto dal suo pensiero nei successivi sviluppi della teologia cristiana. La sua influenza sulle prime generazioni era stata senza dubbio più modesta. Essa si esercitò direttamente in un settore geografico molto limitato, essenzialmente Asia Minore e Grecia, e fu, anche durante la sua vita, contrastata con energia e talvolta con efficacia. Considerando l'insieme della cristianità nascente, non sembra infatti che le idee di Paolo si siano imposte incontestabilmente. Se l'autore degli Atti ha registrato il decreto, presentandolo come il prodotto di una decisione unanime dei gerosolimitani e di Paolo, ciò vuol dire che al suo tempo esso era applicato dovunque. Sappiamo infatti da diverse testimonianze che il decreto restò in vigore per molto tempo, anche nelle regioni che non furono toccate falla prima ondata missionaria. La fine del I e l'inizio del II secolo sono caratterizzati da un cristianesimo moralizzante e da un nuovo legalismo, espresso in particolare dai cosiddetti Padri Apostolici. I grandi temi paolini sono assenti nelle loro opere. Si insiste sulla nozione di merito e sulle "opere" e si raccomanda una osservanza molto vicina, nello spirito e nella forma, a quella giudaica. Un identico atteggiamento è presente, nello stesso Nuovo Testamento, nell'epistola attribuita a Giacomo. Tra il cristianesimo di forma paolina, che ha completamente rotto i ponti con il giudaismo, e il giudeo-cristianesimo, che tenta una sintesi delle due religioni, la corrente maggiore della Chiesa, nella linea del decreto apostolico, rappresenta una posizione intermedia. Nel corso del II secolo essa condurrà a quello che talvolta viene chiamato proto-cattolicesimo (Fruh-katholizismus).
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:36
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ELEMENTI GIUDAICI ED ELEMENTI GRECI NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

1. IL PROBLEMA

Nato dal giudaismo, il cristianesimo si è impiantato e sviluppato in ambiente greco-romano. Fenomeno originale, esso ha ugualmente sentito l'influenza dell'ambiente nel quale si è sviluppato. Uno dei problemi maggiori della storia delle origini cristiane è appunto quello di precisare il peso degli elementi giudaici e degli elementi ellenistici nella sua genesi ed evoluzione. La ricerca ha conosciuto e conosce ancora, in questo settore, esitazioni e incertezze. Gli studi sono stati a lungo dominati dagli a priori confessionali e da una certa concezione dell'ortodossia che faceva dell'originalità assoluta il criterio di verità. Non c'era posto, nella storia cristiana, per influenze e apporti esterni. Nella lotta tra verità ed errore il cristianesimo si presentava come completamente diverso da tutto ciò che lo circondava e non paragonabile nemmeno con ciò che poteva somigliargli. Stabilire un paragone che potesse chiarire certe affinità dovute all'influenza dell'ambiente, significava misconoscere l'essenza della rivelazione; lo storico cristiano si sentiva quindi spesso tenuto a "sottrarre il Vangelo ad accostamenti compromettenti" (M.J. Lagrange). Senza contestare l'esistenza e la legittimità dello sforzo di sintesi tentato da alcuni Padri della Chiesa, tra la rivelazione biblica e il pensiero greco, diversi studiosi cattolici hanno cercato almeno di negare qualsiasi influenza della religiosità pagana sugli scritti neo-testamentari. Alcuni protestanti liberali invece, credendo di trovare in un cristianesimo senza dogmi la purezza e la semplicità del messaggio evangelico primitivo, consideravano come una deviazione tutto il sistema dottrinale della Chiesa antica e tutto ciò che, anche nel Nuovo Testamento, sembrava portare il segno della speculazione filosofica greca. Si contrapponeva allora al "Discorso della montagna", con il suo contenuto etico, il credo di Nicea, così carico di metafisica: "Il primo appartiene al mondo dei contadini siriaci, il secondo al mondo dei filosofi greci". I primi tentativi di illuminare il cristianesimo nascente attraverso il suo contesto pagano sono nati sia da questa tendenza, sia dall'iniziativa di studiosi non confessionali, inclini talvolta a vedere nel cristianesimo un semplice sottoprodotto della religiosità ellenistica. Essi, a torto o a ragione, sono sembrati nel primo caso dei nemici del cattolicesimo, nel secondo, dei nemici del cristianesimo in generale. Per arrivare a una visione più serena e nello stesso tempo più realistica, è necessario che la storia si liberi sia dalla tutela della teologia e dell'apologetica sia da quella delle diverse ideologie antireligiose. Si pensi, a questo proposito, al tentativo degli storici marxisti per spiegare il cristianesimo. Per questi studiosi ogni religione è rigorosamente determinata dalle condizioni sociali ed economiche del gruppo nel quale essa si sviluppa. In particolare il cristianesimo sarebbe, all'inizio, l'espressione del proletariato. Il fermento rivoluzionario implicito nel cristianesimo sarebbe stato soffocato dal fatto che esso predicava la rassegnazione e non la lotta violenta, e prometteva ai diseredati la ricompensa della loro miseria presente in un Regno futuro. Il cristianesimo avrebbe dunque avuto anche un aspetto reazionario. Quest'ultima caratteristica si sarebbe andata sempre più accentuando con l'assimilazione di elementi intellettuali modellati sulla cultura delle classi dirigenti e soprattutto con l'alleanza con l'autorità imperiale al tempo di Costantino.


2. CRISTIANESIMO ED ELLENISMO

Gli storici del cristianesimo sono oggi generalmente d'accordo, siano essi credenti o no, nell'affermare da una parte la specificità del fatto religioso che, malgrado interferenze spesso importanti, non si lascia ridurre all'infrastruttura economica, sociale o politica di un ambiente determinato, dall'altra la necessaria autonomia della loro disciplina da ogni costruzione teologica o filosofica. Anche quegli studiosi che sono più legati a posizioni confessionali riconoscono che il cristianesimo, in quanto fenomeno storico, non si è sviluppato in una campana di vetro. La possibilità di influenze provenienti dall'ambiente non possono essere dunque scartate a priori. E' necessario anzi cercare di valutarle nella loro giusta misura e di precisare i punti di contatto. Posto di fronte alla cultura greco-romana, il cristianesimo si è sforzato di assimilarne certi valori, adattandoli e ripensandoli. Già gli Apologisti del II secolo e, con maggiore ampiezza e in modo più sistematico, i grandi alessandrini, Clemente e Origene, e poi i Padri della fine del IV secolo, Agostino in Occidente e i Cappadoci in Oriente, Basilio, Gregorio di Nissa, Gregorio il Nazianzo, hanno tentato di realizzare una sintesi tra il cristianesimo e la cultura classica. Le controversie dottrinali del III e del IV secolo e le conseguenti formulazioni dell'ortodossia ecclesiastica fanno largo uso del vocabolario e dei concetti della filosofia greca. È questo un fatto universalmente riconosciuto. Il problema è quello di determinare quando ebbe inizio questo processo.


3. IL PAOLINISMO

Le ricerche al riguardo sono concentrate soprattutto sul pensiero di san Paolo. La scuola comparatista, detta religionsgeschichtliche Schule, che si è sviluppata in Germania all'inizio del secolo (Reitzenstein, Bousset, ecc.), le cui posizioni erano rappresentate in Francia da Loisy e Guignebert, si è applicata a mettere in luce le analogie esistenti tra il paolinismo e alcuni aspetti della religiosità pagana dell'epoca. Secondo questi studiosi tali analogie erano troppo precise per essere fortuite: dovevano quindi essere spiegate con l'influenza dell'ambiente ellenistico sul cristianesimo nascente. I punti di paragone e le possibili fonti di influenza non dovevano essere ricercate nella filosofia greca classica, in quell'epoca ormai in declino, e con la quale i cristiani della prima generazione non avevano avuto, a quanto pare, alcun contatto, se non sotto una forma volgarizzata in cui la morale occupava un posto maggiore della metafisica (diatriba cinico-stoica), quanto nel pensiero specificamente religioso: culti misterici, ermetismo, gnosi pagane.


a) LA CRONOLOGIA

Alla scuola comparatista si rivolge innanzi tutto una obiezione preliminare. La grande diffusione dei culti misterici nell'Impero (II-III secolo) e la redazione degli scritti ermetici così come ci sono giunti, sono posteriori all'entrata in scena del cristianesimo, e la stessa esistenza di sistemi gnostici anteriori alla gnosi cristiana o cristianizzante del II secolo, resta ipotetica. Influenze sul cristianesimo nascente sarebbero dunque così escluse dalla cronologia. Alcuni hanno quindi pensato di individuarle in senso inverso. In realtà l'impronta del cristianesimo sugli scritti ermetici appare certa, ma ciò non esclude che le dottrine ermetiche abbiano delle radici precristiane. I culti misterici inoltre hanno origini ben più antiche del cristianesimo. Essi avevano già cominciato a diffondersi nel bacino del Mediterraneo, in particolare nella parte orientale, quando la missione cristiana era ancora agli inizi. Anche per ciò che riguarda l'Occidente, la prima diffusione del culto di Mitra, per esempio, è immediatamente successiva alle campagne romane contro Mitridate e contro i pirati di Cilicia (verso il 67 a.C.). Si discute ancora se la setta dei Mandei, ancor oggi rappresentata in Mesopotamia, della quale possediamo gli scritti, e alla quale alcuni studiosi hanno attribuito un ruolo importante nelle origini cristiane, sia anteriore al cristianesimo o no. Ma l'esistenza di varie forme di pre- o proto-gnosticismo, contemporanee almeno agli inizi del cristianesimo, è sempre più generalmente ammessa. Quando inoltre si ritrova in san Paolo una concezione di cui né la predicazione di Gesù né gli insegnamenti della Sinagoga presentano l'equivalente o forniscono la possibile fonte, è metodologicamente legittimo cercarne le radici nell'ambiente ellenistico pagano.


b) L'AMBIENTE DI TARSO

La città natale dell'Apostolo, Tarso in Cilicia, in cui egli trascorse almeno una parte della sua giovinezza, era un importante centro religioso e intellettuale. Vi si celebrava in particolare il culto dell'imperatore, venerato come Signore (Kyrios) e Salvatore (Soter), e quello di una divinità agreste, Sandan, assimilata dai greci a Eracle, che aveva alcune caratteristiche tipiche delle divinità misteriche. Certamente Paolo non praticò né l'uno né l'altro di questi culti. Non è però assurdo supporre che egli assistette alle cerimonie pubbliche di questi culti apprendendone la terminologia e i concetti fondamentali. Si deve anche immaginare che per attrarre i pagani al Vangelo - e ciò vale anche per gli altri missionari - egli utilizzasse termini che fossero loro familiari. Si spiegano così certe analogie precise di vocabolario tra il paganesimo dell'epoca e le epistole di Paolo, in cui termini come gnosis, mysterion, sophia, Kyrios, Soter, svolgono un ruolo importante. Ma questa comunanza terminologica tradisce dei punti di contatto più profondi.


c) PAOLO E LA GNOSI

Paolo polemizza talvolta con le eresie di tipo gnostico che hanno contaminato alcuni membri delle sue comunità (I Corinzi 15, sulla negazione della resurrezione e l'affermazione di una sopravvivenza puramente spirituale; Colossesi 2, sul culto giudaizzante degli angeli e degli "elementi" del Cosmo, cioè degli astri). Ma il suo stesso pensiero presenta tratti chiaramente derivati dallo gnosticismo. L'universo, asservito alle potenze demoniache (I Corinzi 2,8), che sono precisamente gli "elementi" (Galati 4,3 e 9), appare come un recinto in cui si affrontano i padroni del momento e Dio, che deve ricondurlo all'ordine iniziale, interrotto da una caduta che coinvolge l'intero creato. Questa prospettiva è dualistica, e si esprime nell'opposizione, estranea al giudaismo tradizionale, di spirito e carne (I Corinzi 2,14 sgg.; 15,44). Il fine del cristiano è quello di sottrarsi al dominio del male, di spogliarsi dell'uomo carnale per essere puramente spirituale (pneumatikos). E' necessario a questo scopo che egli acquisisca la conoscenza o gnosi di salvezza, rivelata dal Cristo (II Corinzi 4,6). Ma mentre gli gnostici distinguono in generale il Dio supremo e redentore dal Creatore o Demiurgo, ridotto al rango di Dio subalterno, di potenza malefica, Paolo non pensa nemmeno lontanamente a mettere in dubbio l'identità del Dio supremo, unico, e del Creatore. Il suo Dio è quello della Bibbia. L'influenza del male sul mondo è la conseguenza della caduta dell'uomo, non è implicita nell'atto della creazione né è nata dalla caduta nella materia dell'elemento divino. Il dualismo di Paolo è così soltanto contingente: le sue conseguenze, già virtualmente cancellate dalla morte e resurrezione del Cristo, saranno totalmente eliminate alla fine dei tempi. Non si tratta dunque, in questa prospettiva, di strappare l'uomo a un mondo che per sua stessa natura è cattivo, ma di condurre il mondo stesso, opera di un Creatore buono, alla totale sottomissione a Dio e contemporaneamente alla sua originaria perfezione, per mezzo di una sorta di seconda creazione, che è anche redenzione (I Corinzi 5,17). Il rigore del monoteismo giudaico e l'ottimismo fondamentale della Bibbia assegnano limiti precisi al dualismo di Paolo.


d) LA GNOSI E IL QUARTO VANGELO

Ciò che abbiamo detto di Paolo è valido anche per il quarto Vangelo, in cui il Cristo è presentato con dei tratti che per molti aspetti richiamano lo gnosticismo: basti pensare a quella così caratteristica opposizione tra vita e morte, tra luce e tenebre. Sebbene "il mondo" non abbia riconosciuto "la luce", che è il Cristo Logos, è dalla luce che il mondo è stato creato (Giovanni 1,10). Non si tratta dunque di eliminare un mondo che è per il momento avvolto nelle tenebre e assoggettato alla morte, ma di ricuperarlo totalmente: è per questo che "il Verbo si è fatto carne" (Giovanni 1,14). Mentre nei sistemi gnostici l'incarnazione di un essere celeste e spirituale, attratto dal mondo materiale, segna in generale l'origine della degradazione universale e costituisce propriamente la caduta, nel quarto Vangelo essa è l'origine del riscatto. Così l'opposizione gnostica tra spirito e carne viene superata, perché la carne stessa, ricettacolo e simbolo del male, è come spiritualizzata dall'incarnazione del Verbo.


e) MISTERI PAGANI E MISTERO CRISTIANO

Strumento della liberazione sarà per i cristiani, secondo Paolo, l'unione mistica con il Cristo più che una conoscenza salvifica. Per questo aspetto il pensiero di Paolo è più vicino alle religioni misteriche che a una qualsiasi forma di gnosi. Il fedele, morto e risuscitato con il Cristo nel battesimo, partecipa per mezzo di questa unione sacramentale al destino del Salvatore. Gli effetti del battesimo sono rafforzati dalla partecipazione all'eucaristia. Il fedele, integrato al corpo del Cristo, che è la Chiesa, è virtualmente sottratto alle potenze del male e conquista, se saprà evitare una ricaduta, la certezza della resurrezione e di un'immortalità felice. Così pure divenendo misticamente partecipe, per mezzo di alcuni riti di cui purtroppo ignoriamo i particolari, del destino del suo dio, il fedele di Osiris o di Attis si assicura la salvezza per l'eternità. E' difficile, nel trattare la concezione paolina della salvezza mediante l'assimilazione del fedele al Cristo, non tener conto delle influenze dei culti misterici, più o meno consapevolmente subite da Paolo. Ma anche in questo caso le differenze sono molto chiare. I misteri pagani, con la sola eccezione del mithraismo - che non possiede l'idea di un dio che muore e risuscita, come Attis o Osiris, anche se possiede quella di un dio salvatore - non attribuiscono all'opera di salvezza del loro dio una dimensione cosmica, né un valore propriamente di redenzione: non è per riscattare l'umanità e il mondo che le divinità di queste religioni subiscono la morte. Esse muoiono vittime della fatalità o delle potenze malefiche, e non nel quadro di un piano divino che fa della loro morte la condizione e lo strumento del riscatto universale. La loro morte e la loro resurrezione non fanno altro che ripetere il ciclo immutabile della vegetazione, che muore in autunno per rinascere in primavera. E' a titolo individuale che il fedele è associato al loro destino: l'idea paolina della Chiesa corpo del Cristo non sembra avere equivalenti nel mondo pagano. Infine la figura centrale del mistero cristiano non è, come nei misteri pagani, una figura mitica, la cui esistenza terrena, come l'immaginano i fedeli, si collochi alle lontane origini dell'umanità. E' un personaggio storico, di una storia recentissima, che "ha sofferto sotto Ponzio Pilato".


f) IMPORTANZA E LIMITI DELLE INFLUENZE ELLENISTICHE IN PAOLO

Se l'originalità del cristianesimo di Paolo in rapporto a quello di Gerusalemme e allo stesso messaggio di Gesù, si spiega in larga misura con l'influenza dell'ambiente ellenistico, questa influenza è tuttavia limitata dall'esistenza storica di Gesù, dalla tradizione biblica a cui Paolo è strettamente legato, e anche dal fatto che l'Apostolo, sia prima che dopo la conversione, vedeva nel paganesimo un'opera del demonio e rifiutava ogni compromesso con esso. Si ha talvolta la sensazione che Paolo, segnato dal suo atavismo giudaico, si sforzi più o meno consapevolmente di conciliare ciò che è difficilmente conciliabile. Le esitazioni del suo pensiero riguardo, per esempio, alla vita futura potrebbero spiegarsi bene così. Come ex-fariseo egli professava la resurrezione dei corpi, che un greco difficilmente avrebbe ammesso, alla fine dei tempi. La resurrezione del Cristo, elemento essenziale della sua predicazione, rinforzò in lui questa concezione tradizionale: la resurrezione di Cristo garantisce quella dei fedeli (I Corinzi 15,12 sgg.). Ma egli tende anche talvolta verso l'idea di una immortalità, immediatamente successiva alla morte del corpo, come la concepiva la filosofia spiritualistica greca (II Corinzi 5,8; Filippesi 1,23). E' tuttavia difficile per lui immaginare una sopravvivenza del tutto spirituale: da ciò deriva la sua concezione del "corpo spirituale" (I Corinzi 15,44 sgg.) e la sua tacita assimilazione di resurrezione corporea e immortalità, perché negare l'una avrebbe significato per lui negare anche l'altra.


4. CRISTIANESIMO E GIUDAISMO

Nel campo delle origini cristiane non bisogna mai porre in maniera troppo netta il dilemma: giudaico o greco? Non è infatti possibile contrapporre i due termini. Lo stesso giudaismo, malgrado il suo rifiuto di ogni sincretismo, non poté restare completamente chiuso alle influenze esterne. E' proprio in gran parte attraverso il giudaismo ellenizzato della Diaspora che queste influenze raggiunsero san Paolo e, più in generale, il cristianesimo nascente.


a) IL GIUDAISMO ELLENISTICO

Paolo conosceva probabilmente l'ebraico e l'aramaico. Ma fu il greco, anche se ci appare così pieno di semitismi, la sua lingua materna; ed è nella traduzione dei Settanta che egli legge e cita - talvolta a memoria - la Bibbia. Certamente egli non conobbe Filone. Esistono tuttavia tra i due affinità di pensiero dovute al fatto che essi vivevano in ambienti intellettuali simili e attingevano alle stesse fonti. E' difficile credere che Filone presentasse sistematicamente il giudaismo in termini di mistero ellenistico. Si trovano per altro nelle sue opere elementi attinti, secondo ogni apparenza, alle religioni misteriche. Per Paolo come per Filone, la letteratura giudaica sapienziale, canonica o non (Sapienza di Salomone, Proverbi, Ecclesiaste, Siracide), rappresenta uno dei più importanti anelli di congiunzione con il pensiero greco. Il cristianesimo per altro, nel momento in cui cominciò a rivolgersi ai Gentili, si collocò in qualche modo nel solco del giudaismo alessandrino. Attinse a questo il metodo dell'esegesi allegorica, anch'esso di origine pagana, che viene applicato all'Antico Testamento, e che la Lettera di Aristea e, con maggiore ampiezza, Filone avevano già praticato.


b) L'ESEGESI ALLEGORICA

L'allegoria serviva ai giudei alessandrini per rinforzare l'autorità della Legge. Al contrario, per i cristiani essa serviva a dimostrare che la Legge, dopo la venuta del Cristo, non poteva avere altro che un valore simbolico. Se essi, come l'Epistola di Barnaba e i giudei ellenizzati, vedono volentieri nei riti o negli episodi biblici l'espressione di verità metafisiche o morali, vi cercano anche e soprattutto l'annuncio delle realtà cristiane: il sacrificio di Isacco, per esempio, prefigura quello di Cristo. Alla dimensione verticale dell'allegoria giudaica si aggiunge e spesso si sostituisce una dimensione orizzontale e storica; all'allegoria si unisce una tipologia: la Legge rituale è sia "l'immagine e l'ombra delle cose celesti" sia "l'ombra dei beni futuri" (Ebrei 8,5 e 10,1).


c) FILONE E IL NUOVO TESTAMENTO

Il pensiero di Filone presenta affinità troppo precise, con certi scritti del Nuovo Testamento, per essere fortuite: basti pensare al prologo del quarto Vangelo e alla sua dottrina del Logos, o in maniera ancora più evidente, all'Epistola agli Ebrei, che potrebbe essere certo opera di un "filoniano convertito al cristianesimo". Anche il Logos di Giovanni presenta tratti e caratteristiche simili a quello di Filone, con la differenza fondamentale che per Giovanni il Logos si è fatto carne; l'incarnazione del Verbo è infatti impensabile nella teologia di Filone. L'originalità essenziale del cristianesimo di fronte a tutte le sfumature del giudaismo consiste proprio nell'identificazione, nella persona di Gesù, del Logos e del Messia. Resta sempre comunque il fatto che il cristianesimo non avrebbe mai potuto spiegare Gesù come Logos se questa parola e questo concetto non fossero stati divulgati da Filone nel giudaismo alessandrino. Il pensiero di Filone poté influenzare però soltanto un cristianesimo che stava già ellenizzandosi. Le influenze giudeo-alessandrine rappresentano quindi un fenomeno non immediato. Pur avendo contribuito in modo notevole a modellare la teologia della Chiesa nascente, esse non si ritrovano nella genesi del cristianesimo né nelle forme più arcaiche della cristologia. Prima di riconoscere in lui il Logos fatto uomo, i primi cristiani hanno interpretato la figura di Gesù in termini prettamente biblici: Profeta, Messia, Servo Sofferente, Figlio dell'Uomo. E' dalla Palestina che sono venuti i primi apporti e le prime influenze.


d) IL GIUDAISMO PALESTINESE

L'opposizione tra il giudaismo della Diaspora e quello palestinese è stata spesso esagerata. Non esiste un solco profondo tra queste due metà del mondo giudaico. Il problema deve essere molto più sfumato di quanto talvolta si è creduto. La tradizione di pensiero alessandrina non è rappresentativa della Diaspora nel suo complesso, nella quale la Terra Santa mantiene un grande prestigio ed esercita una notevole influenza. Studi recenti hanno messo in luce precise affinità tra san Paolo e il giudaismo rabbinico, quello delle scuole palestinesi. Così pure, se quest'ultimo è certamente molto meno ellenizzato di quello d'Alessandria, non è tuttavia completamente chiuso alle suggestioni della cultura greco-romana. Il greco era utilizzato in Palestina anche dai rabbini: l'uso di questa lingua portava spesso, come conseguenza, influenze più profonde. Esse non furono però così importanti come ad Alessandria: è il giudaismo palestinese in definitiva, considerato nei suoi tratti specifici, che ci fornisce il maggior numero di elementi utili a illuminare le origini del cristianesimo. E' necessario dunque inquadrarlo in tutta la sua complessità.


e) SADDUCEI E FARISEI

Sebbene gli Atti (6,7) ricordino la conversione di numerosi sacerdoti, non sembra che la Chiesa nascente debba molto ai Sadducei, avversari principali di Gesù, e il cui spirito e le cui tendenze appaiono diametralmente opposte a quelle dei primi discepoli. Il problema dei Farisei è più delicato. Sempre secondo gli Atti (15,5), la Chiesa primitiva trovò tra i Farisei dei seguaci intransigenti, che pretendevano dai pagani convertiti un'osservanza integrale della Legge, al contrario di quanto predicava san Paolo. Il loro ruolo fu forse considerevole nello sviluppo del giudeo-cristianesimo classico, rappresentato alla prima generazione da Giacomo, fratello del Signore. Fu tuttavia con un giudaismo identificato, dopo il 70, con il fariseismo, che la Chiesa nascente ruppe i ponti, e fu intorno al fariseismo che si organizzò la resistenza giudaica al cristianesimo. L'intervento di san Paolo e l'interpretazione particolare che egli propose del messaggio cristiano, ebbero un'importanza decisiva nell'irrigidimento giudaico. Ma il conflitto era già in germe all'inizio stesso dello sviluppo della Chiesa, e nella predicazione di Gesù. Se tra quest'ultima e l'insegnamento rabbinico si possono notare affinità precise su diversi punti, è anche vero che i Vangeli rivelano dei contrasti di fondo: troviamo in essi molto più che una semplice trasposizione, anticipata nella vita del Maestro, delle polemiche della seconda generazione cristiana con la Sinagoga. Gesù rivendicava un'autorità eccezionale che lo portò a negare l'insegnamento tradizionale degli "antichi" e addirittura a correggere la stessa Legge di Mosè. In effetti, se si considerano le credenze fondamentali e le aspirazioni della Chiesa nascente, è dalla parte degli ambienti apocalittici, che ispirano tra l'altro alcuni Apocrifi e Pseudoepigrafi dell'Antico Testamento, che notiamo le affinità più nette.


f) GESU' E GLI ZELOTI

Alcuni studiosi hanno creduto di poter individuare un legame tra il cristianesimo nascente e il nazionalismo zelota. Gesù e i suoi discepoli avrebbero predicato un messianismo politico ostile a Roma e tendente a instaurare, in una Palestina liberata dagli idolatri, la regalità del Cristo. Proprio per aver partecipato attivamente alla rivolta giudaica la Chiesa di Gerusalemme avrebbe perduto, dopo il 70, ogni influenza sulla giovane cristianità. Questi studiosi sono costretti a respingere la testimonianza di Egesippo, secondo il quale i primi discepoli avrebbero lasciato Gerusalemme per trasferirsi nella città transgiordana di Pella, già all'inizio delle ostilità, separando così la propria responsabilità da quella degli insorti. Essi danno invece stranamente credito ad alcuni passi, estremamente sospetti, di una versione slava di Flavio Giuseppe, che fanno di Gesù un agitatore politico. L'eclissi della Chiesa madre dopo il 70 trova una spiegazione sufficiente nel suo isolamento geografico e nel fatto che essa restò legata al ritualismo giudaico, ripudiato in seguito da Paolo a causa dei fedeli di origine pagana. Se Gesù fu effettivamente giustiziato, come uno zelota, per messianismo politico, ciò avvenne a causa di un'interpretazione errata, voluta o non, del significato del suo messaggio, le cui implicazioni rivoluzionarie nei confronti dell'ordine romano erano di tutt'altra natura dell'appello degli Zeloti alla violenza. Gesù visse per altro in un ambiente profondamente permeato dalle idee degli Zeloti e dovette prendere posizione di fronte a esse, sconfessandole.


5. QUMRAN E IL CRISTIANESIMO

In definitiva è soprattutto in rapporto a tendenze e raggruppamenti marginali che si pone il problema delle influenze subite dal cristianesimo nascente. Questo problema è stato completamente rinnovato dalla scoperta dei manoscritti del Mar Morto. Le appassionate polemiche suscitate da questi testi si sono gradualmente placate e, in un'atmosfera divenuta sempre più serena, le iniziali divergenze si sono progressivamente ridotte. Un accordo quasi unanime esiste oggi sui punti essenziali.


a) STATO DELLA QUESTIONE

I documenti del Mar Morto - sia che si tratti della redazione stessa degli scritti o dei manoscritti che ce li hanno tramandati - non possono essere posteriori alla guerra giudaica, nel corso della quale il monastero di Qumran fu distrutto e definitivamente abbandonato: è questo un tipico esempio di quanto l'archeologia possa aiutare lo storico. La comunità da cui essi provengono è quella degli Esseni. Nessuna delle altre identificazioni proposte è pienamente soddisfacente. Tutte sollevano infatti obiezioni non facilmente eliminabili. In particolare non resiste all'esame la tesi zelota che ha conosciuto una certa eco grazie a studiosi di notevole valore. Essa però, insistendo sul bellicoso spirito di rivincita antiromana che anima alcuni scritti, ha contribuito a sottolineare le contraddizioni esistenti con quel quadro idillico di un essenismo pacifista disegnato da Filone e Giuseppe. Si possono prospettare varie ipotesi: che questi autori abbiano sbagliato oppure che ci abbiano ingannato, o che l'essenismo fosse diviso su questo punto fondamentale, o ancora - il che è certamente più probabile - che esso si sia evoluto, allineandosi, nella sua totalità o in parte, all'inizio della insurrezione del 66, a quel messianismo aggressivo di cui gli Zeloti, animatori della rivolta, erano i rappresentanti tipici. La difficoltà non è dunque irriducibile. Su tutti gli altri punti infatti le convergenze tra i manoscritti del Mar Morto e le altre notizie di autori antichi sugli Esseni, sono talmente precise che non lasciano adito a dubbi. Tutt'al più si potrà vedere nella comunità di Qumran, come fanno alcuni studiosi, una delle varie ramificazioni dell'essenismo o - cosa di gran lunga meno probabile - un ambiente molto vicino all'essenismo. Essendo la cronologia dei documenti e della storia della setta fissata con sufficiente precisione, almeno per quanto riguarda il terminus ante quem (66-70), si pone necessariamente il problema dei rapporti con la Chiesa primitiva. Qumran esiste ancora al momento in cui il cristianesimo entra in scena. L'essenismo è forse in questo momento al suo apogeo. E' dunque legittimo porsi il problema di possibili interferenze. Già Renan, sospettando alcune precise affinità sulla base dei documenti di cui allora si disponeva, poteva affermare: "Il cristianesimo è un essenismo che ha avuto grande successo". Dopo la scoperta dei manoscritti c'è stato almeno uno studioso che nella comunità di Qumran ha visto una comunità cristiana. Una tesi del genere non è sostenibile. Ma essa rappresenta l'interpretazione errata di somiglianze notevoli, su diversi punti, tra quel tipo di giudaismo che ci hanno rivelato i manoscritti del Mar Morto e il cristianesimo primitivo.


b) IL MAESTRO DI GIUSTIZIA E IL CRISTO

Somiglianze esistono, prima di tutto, tra il misterioso Maestro di Giustizia e il Cristo, tanto che i sostenitori della tesi cristiana pensano che si trattasse di un'unica persona. Esse sono evidenti nella coscienza che i due personaggi hanno della loro vocazione, fondata sugli stessi testi della Scrittura, e in particolare sui passi di Isaia relativi al Servo Sofferente; nel parallelismo dei loro drammatici destini, segnati dall'ostilità del sacerdozio ufficiale e suggellati dal martirio (come sembra probabile anche per il Maestro di Giustizia); nella venerazione da cui sono circondati, anche dopo la morte, da parte dei rispettivi discepoli. In alcuni inni (hodayoth) che furono probabilmente scritti da lui stesso, il Maestro ci appare come un capo di Chiesa, esattamente come Gesù. Ma a queste somiglianze si accompagnano differenze altrettanto nette, più volte sottolineate: il Maestro di Qumran proviene dal sacerdozio di Gerusalemme, è un asceta esigente, che impartisce al piccolo gruppo dei suoi eletti, gelosamente ripiegato su se stesso, un insegnamento esoterico; Gesù è il profeta popolare di Galilea, che predica alle folle, ricerca la compagnia dei peccatori e dei reietti per poterli attrarre a sé, interpreta e ammorbidisce i precetti mosaici. Non è possibile identificare le due figure, né presentare Gesù come un semplice calco, senza realtà storica, del Maestro di Giustizia. Su vari punti inoltre la predicazione di Gesù si distacca volutamente e con chiarezza dalla dottrina essenica. Si deve tuttavia notare che molte delle critiche rivolte da Gesù alla setta di Qumran colpiscono nello stesso tempo il giudaismo ufficiale. In senso inverso alcuni dei tratti comuni all'essenismo e alla Chiesa primitiva si ritrovano in altri settori del giudaismo dell'epoca: basti pensare alle credenze escatologiche e all'attesa della fine dei tempi. E' necessario a questo proposito formulare un principio metodologico: non si potrà individuare una diretta influenza dell'essenismo sul cristianesimo nascente se essa non riguarderà elementi originali e specifici, caratteristici unicamente dei due gruppi. Elementi di questo tipo sono per altro così numerosi e precisi da non lasciare adito a dubbi. Sembra che la Chiesa abbia attinto all'essenismo un certo numero di termini e di concetti, di strutture comunitarie e di schemi teologici. Le affinità sono più o meno nette in rapporto ai vari ambienti che compongono la Chiesa e ai vari scritti del cristianesimo primitivo.


c) LA SETTA DI QUMRAN E IL CRISTIANESIMO NASCENTE

Ci si deve domandare in quali condizioni, per quali canali queste influenze hanno potuto esercitarsi. Nulla autorizza a pensare che tutte le personalità di rilievo del cristianesimo primitivo abbiano soggiornato a Qumran o siano state in contatto diretto con il monastero degli Esseni. Ciò è possibile soltanto per alcuni dei protagonisti della più antica storia cristiana. Ma questa stessa ipotesi non spiega nulla perché proprio tutti i settori della Chiesa nascente presentano, in grado diverso, affinità con l'essenismo. Si può pensare al ruolo decisivo di Giovanni Battista, la cui importanza alla base della predicazione di Gesù è così solidamente attestata. Il messaggio di Giovanni, predicato sul Giordano a pochi chilometri a nord di Qumran, non è privo di analogie con quello degli Esseni: la vicinanza geografica potrebbe in questo caso aver favorito precisi contatti. Non è nemmeno escluso che Giovanni Battista, proveniente da ambienti sacerdotali, proprio come la dissidenza essenica, abbia frequentato la comunità di Qumran prima di fondare una setta autonoma. Egli sarebbe in questo modo uno degli anelli che legano essenismo e cristianesimo. Se ammettiamo che durante la vita di Gesù e nell'epoca apostolica si verificarono contatti individuali tra i rappresentanti dei due gruppi, si può ugualmente pensare che transfughi dall'essenismo, soprattutto dopo il 70, siano venuti a rafforzare i ranghi della Chiesa nascente portandovi l'apporto ideologico e spirituale del loro ambiente d'origine. Ma si deve anche tenere largamente conto di quella letteratura paracanonica, intertestamentaria che, accanto a scritti specificamente qumraniti come il Manuale di Disciplina o le hodayoth, era in onore nella setta essenica, e la cui influenza è altrettanto profonda nel cristianesimo primitivo. Le somiglianze tra i due movimenti deriverebbero allora da una fonte comune. Ma dal momento che è estremamente probabile che una parte almeno di questa letteratura degli apocrifi e pseudoepigrafi sia stata elaborata nell'essenismo stesso, è senz'altro giusto vedere in essa un altro dei canali, e uno dei più importanti, attraverso i quali la setta influenzò il cristianesimo nascente. Né va dimenticato, infine, che l'essenismo non si riduce alla sola comunità di Qumran. C'erano filiali in Palestina, e forse anche nelle regioni della periferia; anche queste hanno potuto giocare un ruolo nello stabilire contatti col cristianesimo nascente.


d) LE AFFINITA': RITI E ISTITUZIONI

Nei testi di Qumran si parla spesso di una particolare Alleanza tra Dio e il gruppo; questa Alleanza, anche se non sostituisce quella del Sinai, è pur sempre una novità, legata alla persona e all'opera del Maestro di Giustizia. A buon diritto quest'ultimo può parlare di "mia alleanza" (Inni 5,23); e nel Documento di Damasco la setta viene definita "Nuova Alleanza al paese di Damasco". Nello stesso modo Paolo proclama l'avvento di una nuova alleanza, suggellata dal sangue di Cristo (I Corinzi 11, 25); il termine Nuova Alleanza rende più fedelmente il greco kainè diathéke che il nostro "Nuovo Testamento". Il regime di comunità dei beni in vigore nella più antica cristianità di Gerusalemme (Atti 4,32-37) assomiglia molto a quello di Qumran. E forse non è nemmeno una coincidenza il fatto che gli Esseni e, sulla scorta di Gesù stesso, i primi cristiani, praticassero la guarigione dei malati e l'esorcismo per mezzo dell'imposizione delle mani: un'usanza per la quale non abbiamo paralleli in altri ambienti giudaici dell'epoca. Alcuni studiosi pensano che Gesù abbia celebrato l'ultima Cena in conformità col calendario essenico, differente dal calendario ufficiale di Gerusalemme. Questa ipotesi affascinante - che non è riuscita a imporsi - spiegherebbe la contraddizione tra i sinottici, che vedono in essa un pasto pasquale, e il quarto Vangelo che nega ad essa questo carattere. Così pure è difficile trovare nell'ambito dell'essenismo un antecedente del battesimo cristiano. Quest'ultimo è conferito una sola volta. Le abluzioni rituali degli Esseni si ripetono invece quotidianamente. Esse facevano senza dubbio parte di un rituale di ammissione alla setta, ma non avevano necessariamente per questo un carattere specifico: la prima abluzione si inserirebbe nel rituale essenico come la prima comunione in quello cristiano. Tuttavia, unico da una parte, reiterato dall'altra, il rito battesimale è in tutti e due i casi un rito di pentimento, legato a una "conversione". Tra la Cena cristiana e i pasti sacri degli Esseni le affinità sono a prima vista più nette. Gli elementi, pane e vino, sono identici. Essi sono per altro gli stessi sui quali è pronunciata la benedizione nel culto domestico giudaico. Non è dunque il rito stesso che sottolinea la parentela tra essenismo e cristianesimo, quanto piuttosto il significato particolare che esso assume nell'una e nell'altra parte. A Qumran non si tratta di un semplice pasto comunitario, di una trasposizione del pasto familiare giudaico. Il carattere strettamente cultuale, sacramentale, del rito, è sottolineato dal fatto che il refettorio appare come un recinto sacro, dalla presenza indispensabile di un sacerdote, il celebrante, e dal fatto che vi sono ammessi soltanto gli iniziati, membri della setta. Se si paragona il Manuale di Disciplina (6,3-5) che codifica il pasto essenico, con un passo della Regola annessa (2,11-22), che descrive il banchetto messianico, che unisce gli eletti intorno al grande sacerdote escatologico - designato in alcuni testi come il Messia di Aaron - e al Messia d'Israele, capo politico, risulta evidente che il primo dei due riti è quasi un'anticipazione del secondo, così come l'organizzazione essenica prefigura quella del Regno avvenire. Si pensa allora al significato che, già nei testi del Nuovo Testamento, riveste l'eucaristia: i Vangeli mettono in rapporto l'ultima Cena con quella che Gesù celebrerà con i suoi discepoli dopo l'instaurazione del Regno (Matteo 26,29; Marco 14,25; Luca 22,16-18); Paolo inoltre vede nell'eucaristia sia il ricordo della morte di Gesù che l'annuncio del suo ritorno (I Corinzi 11,26).


e) LE AFFINITA': CREDENZE

E' ora il momento di parlare delle credenze dell'essenismo e della Chiesa nascente. I due gruppi vivono nell'attesa dei tempi ultimi. E' possibile che gli Esseni abbiano atteso, come i cristiani, il ritorno glorioso del loro Maestro, identificato con il grande sacerdote messianico; è possibile ugualmente che il Maestro di Giustizia sia morto di morte violenta, ma le condizioni dei manoscritti e il loro modo di esprimersi, spesso velato, non permettono di raggiungere, su questi punti, una certezza assoluta. Per altro, se non è escluso che gli Esseni abbiano in qualche modo conferito valore sacrificale alla loro cena, nulla però autorizza a credere che essi mettessero il pane e il vino in rapporto con la carne e il sangue del loro maestro. Accanto a somiglianze notevoli, vediamo così l'elemento specifico introdotto dal cristianesimo. Su molti punti l'insegnamento della Chiesa nascente si incontra con quello degli Esseni. Queste convergenze sono più o meno evidenti in rapporto ai testi che si prendono in esame o ai settori cui si guarda. Le epistole di Paolo presentano diversi paralleli, verbali o di pensiero, con i documenti di Qumran. I "vasi di argilla" della II Corinzi 4,7 corrispondono esattamente alle "creature d'argilla" spesso menzionate nelle hodayoth (1,21; 3,24; ecc.). L'Epistola agli Efesini presenta affinità particolarmente precise, nella fraseologia e nell'ideologia, con la letteratura essenica. E non senza sorpresa si è visto, su un frammento di Qumran, Melchisedec, investito degli attributi del Figlio dell'Uomo escatologico, essere l'oggetto di speculazioni che evocano e chiariscono quelle dell'Epistola agli Ebrei, la cui cristologia sacerdotale si inserisce nel solco del messianismo essenico. Ma sono soprattutto gli scritti giovannei, e in particolare il quarto Vangelo, che offrono le più sorprendenti somiglianze con i testi essenici. Essi presentano lo stesso dualismo cosmico, che oppone le potenze del bene e quelle del male, la verità e l'errore, la luce e le tenebre; in Giovanni come nei testi essenici il dono dello Spirito Santo, o Spirito di Verità, è un fatto escatologico.


6. GIUDAICO E GRECO

Di queste somiglianze potrebbero addursi molti esempi. Sembra che nessun settore della Chiesa nascente sia stato completamente immune dalle influenze dell'essenismo; non è tuttavia giusto considerare il cristianesimo come il sottoprodotto dell'essenismo: ciò significherebbe misconoscere l'apporto positivo, originale, determinante, sia da parte di Paolo che, all'inizio, di Gesù stesso. Ma se l'essenismo non risolve tutti i problemi posti dalla storia delle origini cristiane, li illumina però di una luce nuova ed estremamente preziosa. Esso dispensa inoltre dal ricercare nell'ellenismo, per molti punti, elementi di spiegazione che si ritrovano in definitiva nel giudaismo stesso. Si deve tuttavia notare, a questo proposito, che quelle influenze esseniche che hanno così profondamente segnato il cristianesimo nascente, presuppongono esse stesse, in partenza, degli apporti esterni accolti nel giudaismo: basti pensare al dualismo, comune agli scritti di Qumran e al quarto Vangelo, che, estraneo nel suo principio alla tradizione di pensiero giudaica, testimonia chiaramente una influenza del mazdeismo. D'altra parte, anche prendendo in esame soltanto il cristianesimo, sarebbe senz'altro arbitrario porre troppo rigorosamente il problema: giudaico o greco? In effetti gli apporti di queste due culture si fondono. Le scoperte recenti hanno rivelato tutta l'importanza della prima, ridimensionando nello stesso tempo gli apporti della seconda a proporzioni più modeste di quanto aveva creduto la scuola comparatista; questi apporti non vanno però giudicati nulli. Né Giovanni né Paolo, debitori di due culture per altro strettamente legate, si lasciano ridurre completamente all'una o all'altra. La mistica cristocentrica di Paolo, per esempio, non ha alcun parallelo nel giudaismo. Se non si vuol vedere in essa una creazione del tutto originale dell'Apostolo, bisognerà cercare precedenti o analogie nella religione ellenistica. E se l'apporto giudaico, e più precisamente essenico, si manifesta vigorosamente nelle origini palestinesi della Chiesa e nello stadio iniziale - decisivo - dello sviluppo del cristianesimo, esso è però ovviamente molto meno percettibile fuori della Palestina e nella successiva evoluzione della Chiesa antica, per lo meno nel mondo greco-romano (nell'Oriente semitico le condizioni sono infatti notevolmente diverse). Il problema è dunque quello di valutare nella loro giusta misura e reciprocamente, le varie influenze convergenti, sia nel giudaismo prima di Cristo - in Filone, per esempio, o a Qumran -, sia nella Chiesa nascente, che hanno contribuito a dare un volto al cristianesimo antico. Soltanto in questo modo si può sperare, in particolare, di gettare un po' di luce sulla questione, così controversa, del ruolo esatto svolto da Paolo nella genesi e nello sviluppo del cristianesimo, e dei rapporti tra il suo pensiero e il messaggio di Gesù.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:36
6a - David Donnini, Cristo. Una vicenda storica da riscoprire (Massari 1994)


IL BACIO DI GIUDA

La tradizione colloca la cosiddetta "ultima cena" nella sera del giovedì santo, allorché Gesù si sarebbe messo a tavola coi suoi discepoli per il banchetto pasquale. In realtà quel giorno non ricorreva la Pasqua ebraica, ma la vigilia o l'antivigilia; non sappiamo se quell'anno la Pasqua capitasse di venerdì o di sabato; le informazioni che ricaviamo dalle narrazioni evangeliche sono discordanti. In ogni caso i convitati si sarebbero riuniti in un'abitazione al limite sud-occidentale della città, molto vicini al palazzo del sommo sacerdote. Più avanti verrà esaminata l'ipotesi che qui anticipiamo - e che è stata formulata inizialmente da Reimarus, e successivamente sviluppata da Eisler e da Brandon - in base alla quale, in quella particolare circostanza, i seguaci di Gesù sarebbero stati impegnati a preparare un atto di forza nei confronti del presidio romano e delle autorità ebraiche, per trascinare in una grande rivolta messianica il popolo convenuto a Gerusalemme in occasione della festività. Con questi presupposti, possiamo facilmente immaginare come la celebre ultima cena debba essere stata un momento carico di tensione e gravido di pericoli incombenti. Giuda, a un certo punto, si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato, piantando tutti in asso. Per la seconda volta, dal momento che un gesto simile lo aveva già compiuto qualche giorno prima in occasione della cena di Betania, quando lo stesso Giuda si era allontanato per trattare coi sacerdoti la consegna di Gesù. Tutto fa pensare che ora l'uomo avrebbe raggiunto i sacerdoti del Tempio, come convenuto, per rivelare i piani della sommossa: nella notte i congiurati si sarebbero raccolti sul Monte degli ulivi, fuori dalle mura, sul lato nord-orientale della città. In altre occasioni il Monte degli ulivi fu effettivamente utilizzato come punto strategico per i rivoltosi che volevano attaccare la torre Antonia (la sede del presidio romano, situata su uno dei quattro angoli del Tempio). Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, per esempio, ci testimonia di un certo falso profeta egiziano:

"Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatosi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che si erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al Monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l'aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco, affrontandolo con i soldati romani, e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l'egiziano riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero" (La guerra giudaica II, 13).

Dunque questo tentativo fu sventato in partenza e tutto fa supporre che, anche questa volta, la causa sia stata un tradimento: altrimenti, come avrebbe fatto il procuratore Felice a prevenire l'attacco? Ma torniamo a Cristo e ai suoi seguaci; a un certo punto il gruppo si sarebbe trasferito, in piena notte, nell'orto del Gethsemani, che il nome ebraico ci indica come un frantoio situato sul Monte degli ulivi. Si trattava di un semplice ritiro di preghiera? Così vuole la narrazione evangelica, il cui senso lascia trasparire l'idea che Gesù, consapevole del proprio destino, stesse semplicemente aspettando di essere arrestato. Se non che molte cose fanno sorgere almeno il dubbio che la redazione dei nostri Vangeli sia stata caratterizzata proprio dalla necessità di estraniare la figura di Cristo e dei suoi seguaci da ogni legame con la lotta dei partigiani jahvisti. Comunque sia, la tradizione ci racconta che nel profondo silenzio di quella notte primaverile, in cui faceva sicuramente freddo, si udirono improvvisamente strani rumori e si videro delle luci che si avvicinavano. La prima cosa che viene da domandarsi è questa: se le autorità ebraiche avessero voluto arrestare Gesù semplicemente per la sua scarsa ortodossia religiosa, e non per sventare la rivolta messianica, per quale ragione avrebbero dovuto dipendere dalla complicità di un traditore? Chissà quante altre volte il profeta si era trovato in una posizione vulnerabile in cui non c'era alcun bisogno della mobilitazione notturna di un distaccamento di soldati. Assai spesso si spiega il fatto dicendo che Gesù non poteva essere arrestato mentre predicava alla folla, per evitare sommosse; bisognava prenderlo da parte, magari di notte, nella solitudine. E allora perché tutto quel dispiegamento di forze? La tradizione, in generale, non insiste nel precisare questo dettaglio: tutti hanno in mente l'immagine di un'accozzaglia più o meno disordinata di gente convenuta per catturare Gesù, nient'altro. Eppure il quarto Vangelo parla di cohortem, nel testo latino, dandoci una chiara indicazione del fatto che, oltre alle guardie del Tempio, era intervenuta un'intera coorte di soldati romani la quale, in base alle nostre conoscenze, era un corpo composto da seicento uomini! Non ne bastavano una ventina? Contro che cosa era realmente mobilitata tutta questa forza? C'è poi un'altra questione: per quale ragione Giuda avrebbe dovuto indicare il Maestro con un segno convenuto? Non si trattava certo di uno sconosciuto mai visto da quelle parti. Anzi, alcuni giorni prima era entrato in città in mezzo a un tripudio di folla acclamante al figlio di Davide, il re dei giudei; poi aveva partecipato a discussioni con i sacerdoti, in materia di teologia e di giustizia; aveva addirittura inscenato un clamoroso gesto nei confronti dei cambiavalute, nell'area più esterna del Tempio; se queste cose sono vere, possiamo dire che era diventato la personalità del momento, a Gerusalemme, e nessuno avrebbe avuto difficoltà a riconoscerlo. In realtà il ruolo di Giuda, a ben riflettere, non dev'essere stato di indicare il personaggio con un segno convenuto, bensì di avvertire i sacerdoti sul momento in cui la sommossa stava per essere messa in atto, al fine di cogliere i rivoltosi di sorpresa e di stroncare il tentativo. Soltanto così può spiegarsi perché i sacerdoti aspettassero un segno dal traditore e perché fosse intervenuto un vero e proprio esercito.


LO SCONTRO ARMATO

Ciò che raccontano i Vangeli sulla drammatica notte fra il giovedì e il venerdì di Passione lascia trasparire un'evidenza: i seguaci di Cristo hanno effettuato un tentativo di resistenza armata. Lo stesso Marco, il più rigoroso degli evangelisti nell'evitare ogni riferimento alle spade, che invece troviamo negli altri testi, dice in breve:

"Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l'orecchio".

Il Vangelo secondo Matteo vuole estraniare Gesù da un tale comportamento violento e gli mette in bocca parole di duro rimprovero contro il suo focoso difensore. Il Vangelo secondo Luca non si contenta: addirittura Gesù compì un altro miracolo, riattaccando l'orecchio al povero malcapitato. Tali differenze si presentano fin troppo chiaramente come un crescendo apologetico, motivato da quella che sarebbe stata la preoccupazione primaria degli evangelisti: cancellare, per quanto possibile, i riferimenti che legano il movimento cristiano primitivo con la lotta messianica. Anzi, poiché di tale preoccupazione dei redattori neotestamentari parleremo spesso, sarà bene darle un nome fin dall'inizio: la chiameremo "intento di spoliticizzazione". Nonostante ciò, tutti e quattro i Vangeli ci testimoniano il fatto che i seguaci di Cristo, nella loro riunione sul Monte degli ulivi, avessero delle armi. Eppure, stando all'immagine tradizionale, doveva trattarsi del ritiro pacifico di uomini che avevano appena terminato di partecipare al banchetto pasquale. In realtà lo stesso Luca racconta che, al termine della cena, prima di raccogliersi sulla collina fuori dalle mura della città, Gesù si era raccomandato nei confronti di chi era sprovveduto di armi, perché se le procurasse. Il quarto Vangelo aggiunge un'importante rivelazione: l'autore del clamoroso gesto di spada è Simon Pietro, mentre Malco, servitore del sommo sacerdote Caifa, ne è la vittima. Ci si presenta dunque un'immagine di Pietro davvero sorprendente: aveva veramente un'arma e non si faceva scrupolo di usarla. In questo passo il semplice pescatore del lago di Tiberiade, divenuto discepolo del rabbi Gesù, appare come un fuorilegge che affronta con la spada sguainata le guardie mandate dai sacerdoti. Ma chi era questo Simone, l'apostolo detto Pietro?

Soffermiamoci, a tale proposito, su un particolare che può offrire degli indizi più significativi sulla personalità di colui che la tradizione vuole primo nella lista dei pontefici della Chiesa. C'è un passo nel Vangelo secondo Matteo in cui Gesù si rivolge a Pietro nei seguenti termini: "Simone, figlio di Giona". Questo, però, è ciò che leggiamo nelle traduzioni moderne, che non rispettano affatto il senso di ciò che era scritto originariamente nei testi antichi. Infatti, se un ginnasiale dovesse tradurre in greco quella breve espressione, scriverebbe sicuramente Simon o uios Iona, mentre il testo greco del Vangelo di Matteo porta l'espressione Simon bar Iona. "Figlio di" è reso con bar, termine aramaico, invece che con uios, termine greco. Perché? Quante volte un personaggio della narrazione è definito "figlio di..."? Molte. E tutte le volte, puntualmente, il testo greco usa il termine uios. Senonché, nei manoscritti antichi del Vangelo di Matteo, non compare nemmeno Simon bar Iona ma Simon Bariona, con una parola intera. A questo punto sarà interessante sapere che in aramaico, la lingua parlata in Palestina al tempo di Cristo, al posto dell'ebraico dotto della Bibbia, il termine barjona significava "combattente, partigiano, latitante...". Non dunque "Simone figlio di Giona", ma "Simone il partigiano". Abbiamo così scoperto un espediente con cui trascrittori e traduttori hanno tentato di nascondere una verità compromettente: il fatto che Simone fosse a sua volta uno zelota, chiamato col soprannome di battaglia "Cefas", che significa "macigno" o "pietra", avvezzo a portare la spada e a usarla. E' un meccanismo di censura che non ci deve meravigliare, coerentemente con l'intento di spoliticizzazione che è stato applicato numerose altre volte; per esempio nel caso dell'altro Simone apostolo, duello che i Vangeli di Marco e Matteo definiscono cananeo. I redattori dei testi evangelici, che li hanno composti in greco, hanno voluto far credere che quel titolo significasse semplicemente "proveniente dalla terra di Canaan" o "della città di Cana"; approfittando del fatto che i destinatari dello scritto, ignari della lingua aramaica, non sapevano che qanana, nell'idioma semitico degli ebrei, significa "zelota", sinonimo dell'altro termine che già abbiamo visto: barjona. II Vangelo secondo Luca risolve definitivamente la questione, perché nel suo elenco degli apostoli inserisce il discepolo Simone soprannominato zelota. Sono queste dimostrazioni evidenti del fatto che alla cerchia degli apostoli di Cristo appartengono zeloti e partigiani. E non ne mancano altri. L'apostolo Taddeo, in alcune antiche versioni del Vangelo, è definito Ioudas zelotes. E' importante notare che il nome con cui conosciamo abitualmente questo personaggio è, in realtà, soltanto un titolo; dal momento che in ebraico Taddeo non è un nome proprio, ma un aggettivo che significa "coraggioso": un altro significativo soprannome partigiano. Gli evangelisti, o i revisori dei testi, hanno cercato di snaturare le identità di queste persone, presentandole con nomi diversi da quelli più compromettenti, utilizzando i soprannomi, che però non venivano tradotti. Un caso praticamente identico è quello di Tommaso; anche questa volta abbiamo solo il soprannome, Thomas, traslitterazione in lettere greche del sostantivo ebraico tòma, che significa "gemello". Infatti il vero nome di questo apostolo, riconosciuto anche dall'interpretazione cattolica, è Giuda: "Giuda detto il gemello", del quale alcuni manoscritti antichi portano la compromettente variante qanana = zelota. I soprannomi partigiani, dei quali spesso si capisce il significato soltanto se li si analizza attraverso la lingua aramaica, sono stati presentati qualche volta come innocui nomi propri; altre volte, invece, come nel caso dei fratelli Giacomo e Giovanni apostoli, sono stati conservati a fianco del nome: boanerghes, cioè "figli del tuono". Ma anche in questo caso è interessante notare un particolare poco conosciuto: i figli del tuono, nelle versioni moderne del Vangelo, sono solo i due che abbiamo nominato, mentre antiche versioni del Vangelo di Marco affermano che anche Pietro, come tutti gli altri apostoli, era definito "figlio del tuono"; un altro elemento a favore dell'interpretazione secondo cui Simone sarebbe stato un combattente jahvista. Queste constatazioni hanno ovviamente un'importanza in sé, ma ci permettono anche di individuare uno specifico piano di censura, inteso a cancellare sistematicamente ogni riferimento all'impegno messianico dei discepoli di Gesù: esse ci offrono, quindi, un utile e inequivocabile indirizzo interpretativo.


L'ARRESTO

Alla luce delle considerazioni qui esposte, cominciano ad assumere determinati significati le spade, il gesto di Simone e anche l'indietreggiare e cadere per terra dei soldati intervenuti per eseguire l'arresto - di cui troviamo testimonianza nel quarto Vangelo. Spesso i redattori evangelici parlano di profezie che devono avverarsi: Gesù, per esempio, dice: "Lasciate che mi arrestino, altrimenti come potrà avverarsi la scrittura?" In effetti, tutto il racconto della Passione è gremito di riferimenti alle profezie, al punto che questa sembra essere stata una preoccupazione costante, quasi un'ossessione degli evangelisti. Emerge in tal modo un altro piano interpretativo dei meccanismi della composizione evangelica, finalizzata a dimostrare come Gesù fosse il destinatario delle profezie bibliche riguardanti l'atteso messia. Ma a questo riguardo, vi sono numerose contraddizioni: perché, da un lato, si è cercato di cancellare ogni riferimento al movimento messianico e, dall'altro, si è voluto rafforzare il legame fra Gesù e le profezie messianiche? La contraddizione riflette molto bene il clima di tensioni politiche, sociali e religiose, in cui si trovavano coloro che scrissero i Vangeli: da un lato essi dovevano "purgare" la figura di Cristo dal suo ruolo rivoluzionario, di combattente dell'indipendenza nei confronti del potere imperiale (non si dimentichi che il Vangelo di Marco è stato scritto a Roma, all'indomani del ritorno di Tito da una terribile guerra che aveva visto la disfatta degli ebrei); dall'altro lato essi dovevano riscattare il fallimento messianico di Cristo (gli ebrei si aspettavano che il vero messia fosse un trionfatore, come Davide, non uno sconfitto). Un messia non-messia dunque; destinatario delle profezie messianiche, ma estraneo alla lotta messianica. I passi che descrivono l'arresto forniscono preziose indicazioni sulle persone intervenute, e sullo scopo dell'operazione medesima. Il quarto Vangelo parla di un distaccamento con il comandante (cohors ergo, et tribunus), confermando il fatto che si trattava di un grosso corpo di soldati romani. E ciò conferma che deve essersi trattato proprio di un arresto voluto ed effettuato dai romani; i quali, naturalmente, non avrebbero certo scomodato in piena notte un'intera coorte per arrestare un pacifico predicatore, la cui unica colpa fosse stata di essere inviso ai sacerdoti del Tempio e di avere bestemmiato Jahvé, facendosi chiamare "figlio di Dio". E' piuttosto verosimile che i romani intervennero con tanta forza solo perché intendevano reprimere un tentativo di rivolta messianica. I tre Vangeli sinottici avevano fatto il possibile per censurare alcune caratteristiche dell'arresto; la loro "folla con spade e bastoni" sembrerebbe composta solo di guardie ebraiche e servi del sommo sacerdote, mentre l'autore del Vangelo di Luca, in un eccesso di ispirazione, fa presenziare all'arresto gli stessi sommi sacerdoti e gli anziani: il Sinedrio al completo. Nonostante il loro tentativo di denaturare l'episodio, gli evangelisti ci hanno lasciato capire che in quel momento sta va per accadere qualcosa di talmente grave che, non appena il traditore ebbe avvertito le autorità, nella notte della preparazione della Pasqua (un tempo di grande devozione, rispetto e proibizioni), un'intera coorte romana e tutte le guardie del Tempio sarebbero intervenute per catturare Gesù.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:37
6b


MORTE ED EVENTI SOPRANNATURALI

Una larga schiera di artisti ha cercato di rappresentare sul grande schermo la storia del figlio di Dio che è venuto a riscattare i peccati degli uomini col proprio sacrificio sulla croce. Innumerevoli volte la scenografia delle tre croci sul monte è stata allestita davanti alle cineprese. Innumerevoli volte attori acconciati da cittadini della Palestina o da legionari di Roma hanno recitato il noto copione del Golgota. Molti registi lo hanno fatto per celebrare il mistero della fede pasquale e offrire ai credenti l'immagine visiva della passione e morte di Cristo, come è narrata dal Vangelo. Spesso con stili e ottiche diametralmente opposte: da un lato, per es., c'è l'opulenta garbatezza delle scenografie di Zeffirelli, con la gradevole suggestione dei colori e degli ambienti curati fino ai minimi dettagli, che rappresentano senza dubbio uno dei livelli più alti nella capacità di soddisfare le aspettative dello spettatore; dall'altro, troviamo invece la ruvida essenzialità delle scenografie di Pasolini, col suo scarno bianco e nero e con gli attori-non-attori, che rappresentano il punto più alto come tentativo di scavare il pathos della tragedia dal silenzio inanimato delle immagini fotografiche. Personalmente ho un debole per la deposizione pasoliniana, per l'intensità poetica che essa raggiunge, anche se il celebre quadro della passione appare trasferito nel paesaggio della campagna meridionale italiana del primo Novecento, piuttosto che in quello della piccola provincia imperiale di Palestina. La pena romana della crocifissione era stata definita dallo stesso Cicerone crudelissimum teterrimumque supplicium. Ai malcapitati toccava una delle peggiori agonie, la quale aggiungeva all'intensità delle sofferenze la pena della durata: un interminabile patimento che poteva prolungarsi anche per quattro o cinque giorni. Spesso, per evitare che qualcuno durante la notte sottraesse i condannati al loro supplizio, veniva praticato il cosiddetto crurifragium o rottura delle gambe, accelerando in tal modo il sopraggiungere della morte. Il Cristo di cui parlano i Vangeli sinottici, processato dal Sinedrio durante la notte, riprocessato dai romani all'alba, visionato da Erode, flagellato e schernito, crocifisso alle nove, in agonia a mezzogiorno, muore alle tre e viene deposto verso le sei del pomeriggio; confermando così il decorso superaccellerato di un procedimento giudiziario che avrebbe richiesto qualche giorno; a meno che non si sia trattato di una esecuzione sommaria, senza processi né altre strutture procedurali. Tito, per esempio, durante l'assedio di Gerusalemme, faceva effettuare almeno cinquecento esecuzioni al giorno. Ma allora c'era la guerra: zeloti e altri combattenti venivano catturati e crocifissi seduta stante. Almeno così dicono le fonti storiche; sarà stato tecnicamente possibile? Nella circostanza della morte di Cristo una serie di prodigi e cataclismi accompagna la solennità del momento: terremoti, rocce che si spezzano, santi che risuscitano e appaiono in Gerusalemme. Ancor più importante di questi eventi, comunque, è ciò che si verifica nel Tempio: il velo che separa la zona proibita dalle parti di accesso pubblico si squarcia nel mezzo dall'alto verso il basso. Come se il Sancta Sanctorum e ciò che in esso vi è conservato cessassero la loro funzione. E' abbastanza chiaro il senso simbolico di questo particolare. Gli evangelisti, paladini di una fede che aveva cominciato a separarsi dalla matrice giudaica che l'aveva generata, rappresentarono così l'idea della cessazione della vecchia alleanza: Israele, il gregge di Dio, non sarebbe stato più la famiglia semitica degli ebrei circoncisi, ma si sarebbe aperto a coloro che, indipendentemente dalla loro origine etnica, avessero creduto al nuovo Euanghelion (da qui la distinzione fra il "Vecchio" e il "Nuovo Testamento"). A ribadire questo concetto ci pensa lo stesso centurione: il soldato, infatti, è la prima persona in assoluto cui va il merito di avere riconosciuto il Salvatore dopo la sua morte. Avviene così che il primo membro acquistato dalla comunità dei credenti sia un carnefice romano, non un ebreo. II quarto Vangelo non conosce questi particolari: il centurione si preoccupa di eseguire il crurifragium sui due ribelli crocifissi insieme al Cristo e, notando che il condannato più importante è già morto, si limita a trafiggergli il petto con la lancia, quasi a voler confermare l'avvenuto decesso. In realtà il particolare è stato inserito nel racconto al semplice scopo di far avverare due profezie. Alcune donne, che facevano parte del seguito, stavano a osservare; sono le tre donne che, presenti alla crocifissione, alla morte, alla deposizione, alla sepoltura e alla scoperta del sepolcro vuoto, sono diventate un'immagine classica nell'iconografia cristiana: le tre Marie della passione. C'è però un "ma" che offusca la bellezza di questa pia immagine: gli evangelisti, infatti, non sono affatto d'accordo sull'identità di quelle tre donne. E' una questione sulla quale raramente viene richiamata l'attenzione, perchè consente di far luce su alcuni dei meccanismi con cui le identità dei personaggi sono state contraffatte; ne discuteremo più ampiamente nel capitolo dedicato allo studio della famiglia di Cristo.


L'INTERVENTO DI GIUSEPPE DI ARIMATEA

E' giunta la sera del venerdì e, secondo la tradizione ebraica, il calar del sole indica già l'inizio del giorno successivo: lo Shabbat, in cui è proibito attendere a molti compiti, specialmente le pratiche funebri. Se poi è vero quanto sostiene il quarto Vangelo, e cioè che quel sabato era un giorno particolarmente solenne - la Pasqua ebraica - una duplice ragione spingeva ad affrettarsi per eseguire la deposizione. Tutti e quattro i Vangeli parlano, a questo punto, di un interessante ed enigmatico personaggio. Contraddicendo l'idea precedentemente espressa, che il verdetto dei sinedriti sarebbe stato unanime, i Vangeli parlano di un autorevole membro del Sinedrio, Giuseppe, del villaggio di Arimatea, il quale era diventato discepolo di Gesù, condivideva la speranza di restaurazione messianica della setta dei Galilei (aspettava il regno di Dio), e si era dissociato dalle decisioni che il Sinedrio aveva preso nei confronti del sedicente messia. Emerge dalle acque del mistero la punta d'iceberg di un vero e proprio complotto in grande stile; uno dei discepoli, quello che compare sempre in veste anonima, era introdotto nell'ambiente del Tempio, al punto che, in quella movimentata notte in cui Cristo fu arrestato, potè far entrare Simone nel cortile della casa del sommo sacerdote; fra le donne del seguito di Cristo, una di quelle che Luca, a differenza degli altri evangelisti, nomina nel terzetto delle Marie della passione, era addirittura Giovanna, la moglie di Chuza, intendente del palazzo di Erode. Che ci faceva una delle più autorevoli donne dell'aristocrazia gerosolimitana in quel gruppo che la tradizione vorrebbe composto di am ha aretz [popolani incolti], seguaci di un predicatore galileo? Adesso scopriamo che anche fra i sinedriti c'erano simpatizzanti, o qualcosa di più. Non solo Giuseppe si mostra favorevole alla setta dei Galilei, ma anche Nicodemo, "un capo dei Giudei", e il sinedrita Gamaliele. Questi indizi ci lasciano intendere che la speranza dell'imminente avvento del Malkut Elohim, il Regno di Dio, non era condivisa soltanto dai monaci in ritiro ascetico fra le rocce di Qumran, o dagli impazienti e bellicosi zeloti. Tutte le componenti della società ebraica erano state toccate da questa convinzione e alcuni offrivano il loro appoggio alla causa. In realtà, l'aspirante Messia che non vide il successo della sua impresa, non apparteneva affatto a un'umile famiglia di artigiani galilei, come vorrebbe quella tradizione che si è occupata di censurare severamente le identità reali dei personaggi, ma a una famiglia altolocata, contenente "dottori" e capi del popolo, che rivendicava una discendenza regale e che fornì a Israele il maggior numero delle guide famose nella lotta messianica: dal vecchio Ezechia della città di Gamala, che Erode stesso aveva fatto uccidere, a quel Menahem che era riuscito veramente a indossare in Gerusalemme, sebbene per poche ore, la veste regale dell'atteso salvatore. Restano comunque numerose ombre sull'episodio di cui è protagonista Giuseppe di Arimatea. Come avrebbe potuto costui prendersi cura del corpo del giustiziato, senza che questo comportasse gravi conseguenze per la propria reputazione? W. Fricke, sostiene che se il Cristo fosse stato veramente condannato dal Sinedrio per blasfemia, Giuseppe non avrebbe mai potuto prendersi cura della salma e concederle una sepoltura onorevole, e il buon senso ci conferma che Fricke non può avere altro che ragione.


DEPOSIZIONE E SEPOLTURA

Siamo giunti all'ultima scena del misterioso dramma della passione: nella luce crepuscolare che segue il tramonto, le tre Marie assistono sconsolate alla penosa operazione di recupero della salma. Il patibulum deve essere rimosso dallo stipes, deposto al suolo col corpo del condannato ancora inchiodato; questo deve essere liberato dal legno e raccolto in un panno funebre. A compiere l'operazione non sono i compagni o i parenti del condannato o, come sarebbe più comune, i soldati che normalmente gettano le salme nelle fosse comuni, ma due autorevoli sinedriti, Giuseppe e Nicodemo. Si noti il fatto straordinario e significativo che essi avrebbero provveduto personalmente a comprare il lenzuolo e la mistura degli oli aromatici (cento libbre!), avrebbero procurato una tomba nuova, che Giuseppe si era fatto scavare in un giardino da quelle parti, forse un elegante loculo nel cimitero degli aristocratici e dei facoltosi, e avrebbero svolto le operazioni di inumazione. Evidentemente quella salma meritava che si spendesse un vero capitale per darle una sepoltura onorevole che, a quanto pare, le spettava secondo un diritto riconosciuto dallo stesso Pilato. E' proprio l'eccezionalità di questo fatto che ci impone di credere, se non altro, che molti, e non solo un gruppuscolo di ex pescatori analfabeti provenienti dal lago di Tiberiade, attribuissero a quell'uomo la dignità messianica. Notiamo un'altra fra le numerose contraddizioni esistenti nelle narrazioni evangeliche: i sinottici sostengono che la salma era stata inserita nel sepolcro senza che fosse stata eseguita l'unzione, rimandata al giorno successivo al sabato, mentre il quarto Vangelo afferma che, prima della sepoltura, la salma era stata accuratamente avvolta "in bende, insieme con oli aromatici, com'era usanza seppellire per i giudei".
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:38
6c


LA SOCIETA' PALESTINESE AL TEMPO DI CRISTO

Autunno del 63 a. C.: Pompeo marcia su Gerusalemme, entra nel Tempio, penetra anche nel Sancta Sanctorum, l'area sacra consentita solo al sommo sacerdote. Con questa grave profanazione inizia l'epoca della presenza romana in terra di Palestina. Una dominazione che dopo quelle assira, babilonese, persiana e greca, sarà l'ultima; infatti l'opposizione spinta degli ebrei più intransigenti alla sovranità imperiale porterà alla disfatta totale, alla distruzione della nazione e del Tempio (come temeva il sommo sacerdote Caifa), con l'esilio forzato di tutti gli ebrei in terre ostili e straniere. Sarà Tito, il figlio dell'imperatore Vespasiano, a espugnare Gerusalemme e a profanare ancora una volta il Sancta Sanctorum. Questa volta in modo ancora più grave, effettuando un vero e proprio saccheggio. La storia di Cristo si svolge fra queste due parentesi ed è strettamente imparentata con quella del dominio romano, non per semplice contemporaneità, ma per una relazione di natura molto più essenziale. Il Vangelo nomina praticamente tutte le sètte e le componenti della società giudaica, al tempo del dominio romano, tacendone sistematicamente una soltanto: gli esseni. Sono invece nominati i samaritani, la cui rivalità coi giudei risaliva all'antica scissione, avvenuta quasi dieci secoli prima, fra il regno di Giuda con capitale Gerusalemme, e il regno di Israele con capitale Sichem prima e Samaria poi. I samaritani non riconoscevano l'autorità del Tempio di Gerusalemme, bensì quella del Tempio che essi avevano eretto sul monte Garizim. La Samaria, come regione geografica, divideva la Giudea dalla provincia più settentrionale, la Galilea, alquanto diversa nei caratteri etnici e culturali. Intorno alla Galilea, circa 100-150 chilometri a nord di Gerusalemme, sulle rive occidentali del lago di Tiberiade (Kinneret), convergevano influenze molto varie; la regione aveva contatti maggiori e più abituali con le religioni straniere. Sulla riva orientale del lago di Tiberiade si stendeva la Gaulanitide (Golan), sempre abitata in prevalenza da ebrei, fra i quali i più accaniti sostenitori dell'ideale messianico. Il Golan può considerarsi la patria delle idee estreme di stampo esseno-zelotico che hanno infiammato la Palestina di sommosse e rivolte contro il dominio romano; fino alla fatidica guerra finale, avvenuta negli anni dal 66 al 70 d.C. Era di Gamala - una cittadina del Golan situata sopra un ripido bastione di roccia, quasi a picco sul lago - un certo Ezechia, un rabbi di altolocata famiglia, dalle idee molto chiare e decise nei confronti dei romani e del loro più servile sostenitore: Erode. Quest'ultimo, non ancora nominato re e animato da ambizioni di potere, con le sue pattuglie armate andava a caccia dei ribelli che infestavano il nord della Palestina e fu ben lieto di catturare il "capobrigante" Ezechia e di giustiziarlo sommariamente insieme ai seguaci; correva, probabilmente, l'anno 44 a.C. L'episodio è di fondamentale importanza. Tutta la storia dello zelotismo, infatti, sembra aver ricevuto la propria impronta dall'odio profondo tra la famiglia dei discendenti di Ezechia e quella degli Erodiani; possiamo addirittura supporre, senza timore di allontanarci troppo dal vero, che la ragione di fondo della lotta zelotica si configurasse come una questione dinastica: i discendenti di Ezechia si consideravano "figli di Davide" e - che lo fossero o no - rivendicavano un sedicente legittimo diritto al trono di Gerusalemme e al ruolo messianico. Furono questa convinzione e questa ambizione, unitamente all'odio nei confronti della dinastia erodiana, che animarono Giuda, il figlio di Ezechia, e successivamente i figli di Giuda (cioè Simone, Giacomo e Menahem), nella loro lotta ad oltranza per la cacciata dei romani, la ricostruzione del "Regno di Dio", e la conquista del trono di Davide. I figli di Giuda - ai quali azzarderei l'ipotesi di aggiungere anche il cosiddetto Teuda o Taddeo, nominato insieme a Giuda negli Atti degli Apostoli - fecero tutti, immancabilmente, la stessa fine del padre e del nonno: sacrificarono la propria vita a una causa messianica che non poté mai giungere al successo. Il fatto interessante, come abbiamo ampiamente detto nel testo, è che i componenti di tale famiglia, insieme ai seguaci e compagni di lotta, erano definiti nello stesso identico modo dei componenti la setta cristiana: i Galilei, sebbene la loro provenienza non fosse affatto la Galilea. E' per questa, e per una serie di altre convergenze, che ci è sembrato di poter identificare il Cristo giustiziato da Pilato, in un membro della famiglia di Ezechia e di Giuda. La fede di costoro, e di tutti i seguaci rigorosi dell'ideale messianico, può essere chiamata Jahvismo, e consiste nel connubio fra ardore religioso e politico. Gli Jahvisti interpretavano alla lettera lo spirito delle antiche profezie di Isaia e di Michea, ed erano convinti che lo stesso Jahvè preparasse per Israele una liberazione definitiva e per il monoteismo mosaico uno splendido trionfo su tutti i popoli della terra: il "Regno di Jahvè" o, per dirla con parole nostre, il "Regno di Dio". Tutte le altre religioni, in special modo quelle politeistiche che rappresentavano gli dei sotto spoglie antropomorfiche, erano considerate espressioni di barbarie spirituale e i popoli che le seguivano ignoranti e blasfemi. Liberare la Palestina non era questione semplicemente politica, né la lotta zelotica si può paragonare a quella dei patrioti del Risorgimento; la liberazione politica di Israele era il presupposto essenziale per realizzare l'ambizione naturale della fede giudaica: la costruzione di un sistema teocratico fondato sul monoteismo mosaico e sulle sue leggi morali. In Giudea, nella regione ad occidente del Mar Morto, dove il primo messia guerrigliero di Jahvè, Davide, aveva edificato la capitale e aveva espresso il desiderio che fosse costruito il Tempio, erano presenti e forti alcune componenti politiche come i sadducei, i farisei e gli erodiani. I sadducei, il cui nome deriva da Sadoc, costituivano la ricca casta dei sacerdoti del Tempio. Proprietari di ingenti ricchezze, ingigantivano sempre più il proprio potere finanziario grazie al culto nel Tempio e alla pratica dei sacrifici, che vedeva affluire ogni anno milioni di fedeli da ogni parte della Palestina e del bacino mediterraneo. I sadducei erano conservatori in senso politico quanto spirituale. La loro religiosità si concentrava nella liturgia e nell'interpretazione strettamente letterale della sola Torah; non accettavano nessuna speculazione filosofica, non ammettevano l'esistenza di un'anima che sopravvivesse al corpo, interpretavano la fortuna economica come un chiaro segno della preferenza accordata da Jahvè ai suoi fedeli nel culto e nell'osservanza della legge. Di fatto i sadducei colludevano col potere dei dominatori ricavando così la garanzia che i loro privilegi economici e sociali non sarebbero stati toccati; anzi, svolgevano il compito assai gradito ai romani di imbonire il popolo con la continuità delle pratiche cultuali, che contribuiva a dare la parvenza di una sopravvissuta sovranità della cultura e delle tradizioni giudaiche anche in epoca di sottomissione. Se il tempio era il cuore del partito dei sadducei, la sinagoga lo era per il partito dei farisei. Inizialmente costoro avevano rappresentato le componenti che mal tolleravano qualunque tipo di presenza straniera e le condizioni di sottomissione; ma col tempo erano passati a più miti propositi e avevano concentrato la propria attenzione non tanto sull'anelito di liberazione politica e sociale, quanto sulla preoccupazione ossessiva e costante di preservare la conoscenza e l'osservanza della legge. Li possiamo definire dei "formalisti" per eccellenza. La sinagoga, similmente alla chiesa dei cristiani di oggi, era il luogo di ritrovo cultuale in tutti i centri abitati della provincia, in cui non si effettuavano sacrifici, ma si svolgeva la lettura e l'interpretazione delle Sacre scritture da parte dei rabbì, nonché il canto collettivo dei salmi. Il partito farisaico aveva una sua ostilità nei confronti del dominio romano, e nelle frange più radicali denotava anche una decisa insofferenza unita alla speranza o alla convinzione che i tempi del riscatto messianico fossero vicini; ciononostante i farisei non hanno mai avuto l'energia né la motivazione reale per intraprendere una lotta concreta a favore dell'ideale messianico, a riguardo del quale alcuni di loro si dichiaravano astrattamente simpatizzanti. Nei confronti di entrambi i partiti che abbiamo appena nominato il Vangelo che oggi possiamo leggere abbonda di epiteti pesanti e ingiuriosi, per bocca di Giovanni Battista e dello stesso Gesù. Un fatto che, se analizzato storicamente colloca immediatamente il movimento cristiano primitivo accanto alle posizioni degli esseni e degli zeloti. Infatti l'opposizione ideologica e religiosa alla casta sadducea e al partito farisaico era propria della natura stessa del pensiero esseno e di quello zelotico. Se Cristo e il Battista fossero stati estranei ai movimenti messianici e avessero inteso predicare soltanto una spiritualità pacifista e universale che non avesse niente a che vedere con lo Jahvismo politico, non avrebbero avuto sulle labbra le stesse parole e gli stessi toni dell'opposizione esseno-zelotica verso i partiti sadduceo e fariseo; non vi sarebbe stato il silenzio del Vangelo sugli esseni o sugli zeloti, ma sarebbero stati anch'essi nel mirino delle invettive di Gesù, per il fatto di aver dimenticato che il Regno di Dio era da costruire nell'anima e non nella politica. Alcuni autori identificano in Giuda figlio di Ezechia, detto "il Galileo", il fondatore della setta degli zeloti, della quale non è facile chiarire se sia la stessa cosa che altrove si definisce come la setta dei sicari, o se queste rappresentino due cose diverse, contemporanee o in successione. Tutto e il contrario di tutto è stato scritto su questo enigmatico periodo storico. Ma ogni onesto cercatore di verità deve tener presente che una pesante condizione ha influenzato le ricerche ad esso relative: praticamente tutti gli studiosi e gli accademici hanno agito e scritto sotto la sponsorizzazione di istituzioni che, come la Chiesa romana, hanno un proprio particolare interesse negli sviluppi della questione. E' un dato di fatto, a questo proposito, che la preoccupazione primaria della Chiesa, riguardo alle scoperte effettuate a Khirbet Qumran, sia stata sempre e soltanto quella di difendere un presupposto pregiudiziale: per quanto interessante possa essere la setta degli esseni, Gesù Cristo può anche averla conosciuta, ma non può e non deve avere avuto niente a che fare coi monaci del deserto né, tantomeno, è loro debitore di qualcosa. Tornando a Giuda il Galileo dobbiamo dire che egli è il protagonista principale di quella "rivolta del censimento" che, nel 6/7 d.C., sconvolse la Palestina e dette filo da torcere ai romani. La conclusione fu tragica: Giuda stesso morì e più di duemila dei suoi seguaci furono crocifissi; si racconta che scarseggiasse il legno per issare i patiboli. E' in questo momento storico che Luca ha collocato la nascita di Gesù, anche se gli studiosi cattolici hanno fatto ricorso a ogni genere di pretesto per dissociare la nascita di Gesù dalla rivolta del censimento e per anticiparla a una data compatibile con le informazioni del Vangelo secondo Matteo. Tutto il periodo che va dalla rivolta del censimento fino alla disastrosa guerra degli anni 66-70 è caratterizzato dalla costellazione di episodi e di personaggi della lotta jahvistica antiromana e dall'emergere di posizioni sempre più precise, a questo riguardo, in seno alla popolazione palestinese: l'area conservatrice collusa coi romani che aveva il suo fulcro nella casta dei sacerdoti sadducei e nella famiglia erodiana; l'area moderata e disposta al compromesso che aveva il proprio rappresentante tipico nel fariseo medio; l'area rivoluzionaria che aveva i suoi rappresentanti nelle sètte di tipo esseno-zelotico. L'interpretazione cattolica inserisce in questo quadro un elemento che, per quanto meraviglioso possa apparire, è tuttavia assolutamente fantastico: un isolato rabbì (ma come faceva un rabbì ad avere i connotati del Gesù che tutti conosciamo, per esempio il celibato?), appoggiato tuttalpiù da un'altra figura ricca di connotazioni mitologiche, Giovanni detto il Battista, avrebbe raccolto intorno a sé dodici apostoli, numerosi discepoli e innumerevoli simpatizzanti, creando un movimento del tutto estraneo e avulso dalle posizioni che finora abbiamo esaminato; un movimento che non avrebbe avuto assolutamente niente a che vedere né con la reazione filoromana, né con l'opportunismo farisaico, né con l'ascetismo esseno, né con l'ardore zelotico. In verità qualcosa di più reale manca all'elenco delle posizioni classiche che gli uomini potevano avere assunto nel contesto storico di cui sopra: la posizione di coloro che, senza voler colludere coi romani, né schierarsi con l'immobilismo di comodo dei farisei, né aspettare o voler anticipare i giorni della riscossa, percepivano la scarsa probabilità di successo del progetto messianico, o addirittura la sua molto verosimile pericolosità, e avevano maturato la necessità di una grande revisione concettuale dell'ideale stesso. Mi sto riferendo a uomini come il tarsiota Shaul (San Paolo) che, insoddisfatto di essere semplicemente un persecutore degli "scellerati" intransigenti messianisti (= cristiani), aveva prudentemente cominciato a reinterpretare il messianismo e a predicarlo non come promessa di una salvazione privata di Israele in quanto nazione prediletta del Signore, ma come promessa di una salvazione universale del genere umano dal male, dall'egoismo e dalla miseria spirituale che, naturalmente, avevano la loro matrice principale nel paganesimo dei romani, ma anche nell'ipocrisia liturgico-rituale della religiosità ebraica.


SUL MOVIMENTO DEGLI ESSENI

Gli esseni coltivavano una spiritualità e una dottrina che, come erano indiscutibilmente legate alla tradizione mosaica, erano anche chiaramente impregnate di influenze iranico-caldee e indo-buddistiche. Non possiamo dimenticare che la Palestina era stata provincia dell'Impero persiano per quasi due secoli. Gli esseni definivano se stessi "figli della luce", in contrapposizione ai cosiddetti "figli delle tenebre", con una terminologia derivata dall'insegnamento di Zarathustra. Tutta la concezione essena era pervasa dal dualismo cosmico della religione avestica: il cosmo intero è il teatro della lotta tra le forze del bene e quelle del male, fino al giorno della vittoria finale del bene che, nella concezione essena, coincide col giorno in cui Jahvè concederà ai suoi figli prediletti il trionfo su tutti i popoli del mondo. L'escatologia della religione iraniana diventò escatologia ebraica: alla salvezza spirituale si affiancò la salvezza politica di Israele. I due aspetti finirono per diventare una cosa sola. Gli esseni erano, dunque, eredi di un insegnamento esoterico che aveva le sue radici nell'esilio babilonese, erano i depositari di una tipica cultura da iniziati: magia, occultismo, astrologia, sistemi di guarigione; seguivano il calendario solare, diverso da quello lunare in uso presso il Tempio di Gerusalemme; conoscevano le tecniche dell'iniziazione orientale; sapevano come conseguire quello stato di trance profonda che gli yogi indiani chiamano samadhi e che conferisce la conoscenza delle verità spirituali. Noi abbiamo la certezza che gli ebrei del I secolo conoscessero la disciplina degli yogi indiani. Ne troviamo conferma in un passo della Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, allorché lo storico riporta il grande discorso pronunciato da Eleazar a Masada, nel 73 d.C.:

"Noi, che riceviamo nelle nostre case un'educazione informata a questi princìpi, dovremmo dare esempio agli altri con l'esser sempre pronti a morire; comunque, se volessimo ricevere una conferma attingendola dagli stranieri, guardiamo agli indiani che seguono i dettami della filosofia. Costoro infatti, ed è gente di prim'ordine, sopportano a malincuore il periodo della vita come un debito da pagare alla natura, e non vedono l'ora di liberare le anime dai corpi... E allora, non proviamo vergogna ed essere inferiori agli indiani nei pensieri di fronte alla morte e di offendere turpemente con la nostra vigliaccheria le patrie leggi, che destano l'invidia di tutto il mondo".

A queste parole si aggiunge ancora una descrizione del rito funebre indiano della cremazione dei defunti. E alcuni vividi particolari fanno pensare che Eleazar sia stato testimone oculare delle usanze indù, durante un suo ipotetico viaggio in Oriente. Naturalmente si tratta di un'ipotesi fantasiosa, ma a noi basta mostrare che il contatto della cultura ebraica con le culture orientali è confermato da un più che esplicito riferimento. Il quartier generale degli esseni era situato sulle rive nord-occidentali del mar Morto, a Kirbeth Qumran, dove oggi migliaia di turisti si recano ad ammirare, nella cornice assolata del deserto palestinese, i resti di quella che era una vasta comunità monastica. Qui, nel non lontano 1947, furono trovate una serie di grotte, contenenti dei manoscritti, databili nel periodo compreso fra il II sec. a.C. e il I sec. d.C, che sono considerati da molti studiosi documenti degli esseni. Sono noti come Manoscritti del mar Morto o i Rotoli di Qumran. Nella striscia pianeggiante che separa le grotte dal mare vivevano poche migliaia di ebrei ritiratisi in questo incredibile ambiente desertico: essi conducevano una vita severa, dediti solamente al lavoro e allo studio. Sulle prime scarpate, a poca distanza dal mare, si possono vedere gli ingressi delle grotte, che non servivano come abitazioni, ma come magazzini, nei quali erano ordinatamente sistemate numerose giare di terracotta contenenti i manoscritti. Infatti gli esseni non dimoravano nelle grotte, ma nella pianura sottostante, dove erano sistemati in tende e capanne. Ciononostante, nella pianura troviamo anche degli edifici in muratura, che non erano abitazioni, ma locali di uso pubblico in cui si trovavano le sale per le assemblee, le sale per i riti religiosi, le mense comunitarie, le sale di studio e di lavoro per gli scribi, che ricopiavano antiche scritture o componevano quelle tipiche degli esseni. Tutte queste costruzioni sono state evidenziate dagli scavi effettuati negli anni '50 e '60, scavi che si stanno ancora svolgendo e che non escludono nuove e interessanti scoperte. C'era dunque un grande insediamento, ospitante da tre a quattromila persone, con edifici, sistemi di raccolta per l'acqua, vasche, accampamenti di tende, grotte artificiali: una vera e propria città monastica. Prima di queste scoperte, gli esseni erano comunque conosciuti poiché di essi troviamo menzione in alcuni scritti antichi: ne parlano Filone Alessandrino, Giuseppe Flavio, Plinio il Vecchio, Ippolito Romano e Solino. Allora la conoscenza degli esseni si può classificare in due momenti: la conoscenza "pre-Qumran", ovverossia la conoscenza che prima del 1947 potevamo avere grazie agli autori ora menzionati; e la conoscenza "post-Qumran", derivante cioè dall'esame degli insediamenti ritrovati sulle rive del Mar Morto. Il confronto dei due momenti porta a considerazioni interessanti, poiché le due immagini che ne scaturiscono non sono del tutto coincidenti; al punto che alcuni autori mettono in dubbio il fatto che gli insediamenti di Qumran si riferiscano a quegli esseni di cui parlano Filone e Giuseppe. Ma che sappiamo di questi due autori? Filone e Giuseppe sono due storici ebrei ellenisti, vissuti dal 13 a.C. al 45 d.C. (Filone) e dal 37 d.C. al primo decennio del II secolo(Giuseppe). "Ellenisti" significa che i due dotti avevano ricevuto, oltre all'educazione ebraica, un'educazione classica, conoscevano il greco e lo usavano correntemente come lingua scritta; non soffrivano, come molti ebrei del loro tempo, di xenofobia, ma erano molto aperti alla cultura del mondo pagano, nei confronti della quale non manifestavano disprezzo ma il desiderio di integrarla con la cultura giudaica. Un nipote di Filone, Tiberio Alessandro, fu addirittura procuratore romano della Giudea. Personalità di questo tipo non potevano ovviamente condividere una concezione messianica che proponesse l'imposizione forzata del monoteismo jahvistico a tutti i popoli del mondo (a parte l'impossibilità materiale di concretizzare un simile progetto). Filone è vissuto ad Alessandria d'Egitto, mentre Giuseppe, che è stato comandante di truppe ebraiche nella guerra del 66-70, dopo la distruzione di Gerusalemme è vissuto a Roma, dove ha composto per il pubblico romano le opere La guerra giudaica e le Antichità giudaiche. Per quanto riguarda gli esseni, sia Filone che Giuseppe li descrivono in maniera parziale e idealizzata. Dai loro scritti non emerge assolutamente la fondamentale attesa messianica degli esseni, i quali sono descritti come se si fossero occupati solo di lavoro, di studio, di ascetismo, di santità; estranei a qualunque interesse per la situazione e per i destini politici della nazione ebraica. Siamo però autorizzati a credere che i due autori, volendo comporre delle apologie della civiltà ebraica, per controbilanciare l'odio che molti pagani nutrivano nei confronti degli ebrei, si siano guardati bene dal descrivere la concezione messianica degli esseni. Esaminando più da vicino alcuni brani dell'opera di Filone (Quod omnis probus sit liber) e de La guerra giudaica di Giuseppe Flavio possiamo affermare innanzitutto che la confraternita degli esseni aveva i caratteri di un circolo iniziatico alla stregua degli ashram indiani o dei monasteri buddisti, dove un lungo tirocinio personale precede l'ammissione degli aspiranti nella confraternita; in secondo luogo essi possono essere definiti pionieri di un esperimento di tipo "comunistico". Infatti più volte, sia Filone che Giuseppe, insistono nel dire che presso gli esseni non esisteva la proprietà privata e che tutte le attività avevano un carattere comunitario. Una confraternita di questo tipo trasmetteva senza dubbio un insegnamento di tipo pubblico, in forma più semplice (exoterico), insieme a un insegnamento riservato a una cerchia ristretta di iniziati, in forma più complessa (esoterico). La base dell'insegnamento esoterico esseno aveva sicuramente radici comuni con quelle della dottrina pitagorica, del mitraismo persiano, del buddismo indiano. Ma resta il fatto che la conoscenza degli esseni che possiamo ricavare dagli scritti di Filone e di Giuseppe (quella che abbiamo definito conoscenza pre-Qumran) è abbastanza superficiale, ma soprattutto non pienamente aderente alla realtà della comunità stessa e dei suoi fini. Ciò si deve, come abbiamo detto, al desiderio che avevano i due autori di offrire ai pagani una visione accettabile della cultura e della civiltà ebraica. In realtà ci sono buone ragioni per immaginare che esistesse una qualche relazione o affinità tra lo zelotismo e l'essenato. Si vedano, al proposito, le osservazioni fatte dallo studioso G. Vitucci sulla descrizione degli esseni data da Giuseppe:

"Nella setta della Nuova Alleanza, la cui esistenza ci è stata da poco rilevata dai manoscritti del Mar Morto, è da riconoscere una comunità di tipo essenico i cui adepti rappresentano un precedente immediato delle comunità zelotiche. A differenza degli Esseni, questi Neozeloti erano animati da spiriti bellicosi ed ebbero parte nella rivolta di Ezechia dei 47 a.C. Le prescrizioni contenute nella "regola" della setta, conservataci anch'essa dai suddetti manoscritti, presentano numerose corrispondenze con l'ampia informazione sugli Esseni che Giuseppe fornisce nei capitoli successivi".

La conoscenza post-Qumran si fonda essenzialmente sulla scoperta del sito archeologico, avvenuta per caso nelle aride scarpate sovrastanti lo Wadi Qumran. Una serie di ingressi a grotte artificiali e all'interno delle grotte, sistemate in bell'ordine, molte giare di terracotta, contenenti dei rotoli di cartapecora, ormai rigidi e che si sarebbero potuti polverizzare al primo tentativo di srotolarli. Erano lì da quasi duemila anni, intonsi e sconosciuti al genere umano. Numerosi studiosi si sono dedicati al lavoro di decifrazione dei manoscritti, che sono risultati composti in ebraico antico, secondo la tipica grafia che va da destra a sinistra, nella quale vengono indicati soltanto i suoni consonantici. Due studiosi - E.L. Sukenik e J.C. Trever - giunsero per primi, indipendentemente, a stabilire la datazione dei manoscritti per il periodo dal II secolo a.C. al I secolo d.C. Molti dei manoscritti sono stati ormai tradotti e pubblicati. Anche gli scavi archeologici, effettuati nella pianura sottostante le grotte, hanno portato a interessanti scoperte. Sono state trovate numerose cisterne per il fabbisogno idrico della comunità, ma il fatto sorprendente è l'architettura di alcune di queste cisterne: non si tratta infatti di semplici serbatoi di raccolta, ma di vere e proprie vasche adibite ad usi particolari. Le vasche dell'insediamento di Qumran erano adibite a riti di purificazione dal duplice uso: sia una pratica igienica (lo stesso Giuseppe Flavio ci parla di una purificazione prima di ogni pasto comunitario), sia una comunione mistica con quello che gli esseni chiamavano "angelo dell'acqua". La stessa cerimonia di iniziazione e di ingresso nella confraternita veniva effettuata mediante un rito di immersione nell'acqua. Un costume esseno che è alle origini del battesimo cristiano. L'analisi di alcuni brani dei manoscritti, in particolare la cosiddetta "Regola della comunità" ci dimostra in maniera evidente la derivazione avestica delle concezioni essene. L'angelo della luce e quello della tenebra, spiriti del bene e del male, sono esattamente quelli che Zarathustra chiamava Ahura Mazda e Angra Mainyu. E, come Zarathustra aveva predetto, anche per gli esseni il bene dovrà trionfare sul male in maniera definitiva. Essi attendevano, infatti, "il giorno stabilito per la visita" in cui tutti i malvagi sarebbero stati sterminati e con loro lo spirito maligno che li dirige. Ma per gli esseni tale escatologia si calava profondamente nella realtà storico-politica della nazione ebraica, considerata depositaria di una funzione redentrice mondiale: il tempo della visita corrisponde alla venuta "dei Messia di Aronne e di Israele". Infatti, come i documenti dimostrano, l'attesa degli esseni si rivolge non a uno, ma a due Messia: uno con una funzione politica, il Messia di Israele, liberatore messianico e futuro re; l'altro, con una funzione religiosa, il Messia di Aronne, maestro spirituale e futuro sommo sacerdote. Ciò che gli esseni definivano "il giorno stabilito per la visita" rappresentava l'appuntamento che la nazione ebraica aveva col proprio destino, quando avrebbe rovesciato i nemici, eliminando la loro supremazia e riconquistando la propria libertà: allora solo Jahvè sarebbe stato sovrano dei suoi figli. Questi concetti si trovano espressi in modo particolare nel cosiddetto "Rotolo della guerra", un altro dei numerosi manoscritti qumraniani, che mette in chiara luce le finalità ultime del movimento esseno:

"E questo è il libro della regola della guerra. L'inizio si avrà allorché i figli della luce porranno mano all'attacco contro il partito dei figli delle tenebre, contro l'esercito di Belial, contro la milizia di Edom, di Moab, dei figli di Ammon, contro gli Amaleciti e il popolo di Filistea, contro le milizie dei Kittim di Assur, ai quali andranno in aiuto coloro che agiscono empiamente verso il patto".

"I figli di Levi, i figli di Giuda e i figli di Beniamin, gli esuli del deserto, combatteranno contro di essi... contro tutte le loro milizie, allorché gli esuli dei figli della luce ritorneranno dal deserto dei popoli per accamparsi nel deserto di Gerusalemme. E dopo la guerra se ne andranno di là, contro tutte le milizie dei Kittim in Egitto".

Molto si è discusso fra gli studiosi sul significato del termine kittim, che oggi viene interpretato da molti con riferimento ai romani. La comunità qumraniana si preparava dunque a sferrare un attacco militare contro le forze degli invasori romani e i figli della luce sarebbero ritornati dal loro esilio volontario sulle rive desertiche del Mar Morto per cingere d'assedio Gerusalemme. Non solo, ma una volta liberata la città santa degli ebrei, la guerra sarebbe continuata, perché anche l'Egitto sarebbe stato coinvolto nel terribile conflitto.

"E nel suo tempo stabilito uscirà con grande collera per combattere i re del settentrione, e la sua ira sarà diretta a distruggere e a spezzare il potere di Belial. Questo sarà il tempo della salvezza per il popolo di Dio e il suo tempo determinato della dominazione per tutti gli uomini del suo partito, e l'annientamento eterno per tutto il partito di Belial. Vi sarà una costernazione grande tra i figli di Jafet, Assur cadrà e nessuno l'aiuterà, scomparirà la dominazione dei Kittim facendo soccombere l'empietà senza lasciare traccia, e non rimarrà alcun rifugio per tutti i figli delle tenebre. Verità e giustizia risplenderanno per tutti i confini del mondo, illuminando senza posa fino a quando saranno finiti tutti i tempi stabiliti per le tenebre. E al tempo stabilito per Dio, la sua eminente maestà risplenderà per tutti i tempi determinati in eterno per la pace e la benedizione, la gloria, la gioia, e giorni lunghi per tutti i figli della luce. Nel giorno in cui i Kittim cadranno vi sarà un combattimento e una strage grande al cospetto del Dio di Israele; giacché questo è il giorno, da lui determinato da molto tempo per la guerra di sterminio dei figli delle tenebre nel quale saranno impegnati in una grande strage" ("Regola della guerra", cit., pp. 4-10). Un altro importante aspetto che vogliamo ricavare dall'esame di alcuni passi dei manoscritti è il costume tipicamente esseno del pasto comunitario:

"In ogni luogo in cui saranno dieci uomini del consiglio della comunità, tra di essi non mancherà un sacerdote: si siederanno davanti a lui, ognuno secondo il proprio grado, e così [nello stesso ordine] sarà domandato il loro consiglio in ogni cosa. E allorché disporranno la tavola per mangiare o il vino dolce per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce...".

"E quando si raduneranno alla mensa comune oppure a bere il vino dolce, allorché la mensa comune sarà pronta e il vino dolce da bere sarà versato, nessuno stenda la sua mano sulla primizia del pane e del vino dolce prima del sacerdote, giacché egli benedirà la primizia del pane e del vino dolce e stenderà per primo la sua mano sul pane. Dopo, il Messia di Israele stenderà le sue mani sul pane e poi benediranno tutti quelli dell'assemblea della comunità, ognuno secondo la sua dignità. In conformità di questo statuto essi si comporteranno in ogni refezione, allorché converseranno insieme almeno dieci uomini ...".

Grande è l'importanza di questi due passi. Innanzitutto perché ci consentono di connettere i qumraniani con gli esseni di cui parla Giuseppe Flavio ne La guerra giudaica (II, pp. 130-1): anche Giuseppe ci informa che i commensali non potevano toccare cibo prima che il sacerdote avesse eseguito una benedizione. Ma ancor più sono importanti perché mostrano l'origine essena del rito eucaristico cristiano. Il primo dei due passi ci dice che tale rito doveva essere eseguito da un sacerdote quando fossero riuniti a mangiare insieme almeno dieci uomini. Il secondo si riferisce invece a un banchetto messianico in cui era presente tutta l'assemblea al completo; in tal caso era il sommo sacerdote, il Messia di Aronne, che aveva la dignità più elevata, ad eseguire per primo la benedizione del pane e del vino; in secondo luogo toccava al Messia di Israele, l'Unto di Jahvè, e quindi a tutti gli altri. Si comprende così il significato di quella che nella narrazione evangelica è l'ultima cena di Gesù coi suoi discepoli: in essa Gesù ricopre esattamente il ruolo del sommo sacerdote nel banchetto messianico: prende il pane, lo benedice ringraziando il Signore, lo spezza e lo distribuisce ai suoi discepoli. Lo stesso nome del rito cristiano, "eucarestia", denuncia la concezione originale: "ringraziamento", "grazie". In realtà la concezione cristiana affianca a questi significati del rito eucaristico anche quello di ripetizione del sacrificio della morte di Cristo sulla croce, nel quale gli accidenti del pane e del vino vengono trasformati in carne e sangue di Cristo. Ma queste sono delle aggiunte teologiche effettuate da Paolo di Tarso. Dunque, il battesimo e la comunione dei cristiani sono delle modifiche di riti originariamente esseni, alterati non solo nelle loro modalità esteriori, ma anche nei loro significati. I Vangeli portano numerose tracce di concezioni e linguaggi esseni, sopravvissuti a quelle operazioni di "censura" che hanno cercato di dissociare il cristianesimo dalla sua matrice originaria. Possiamo affermare ora che le scoperte effettuate sulle rive del Mar Morto hanno permesso di identificare i qumraniani o negli esseni di cui parlano Filone e Giuseppe, o in una comunità di tipo essenico, che condivideva con gli esseni la stragrande maggioranza delle concezioni e dei costumi, e con una spiccata connotazione di tipo zelotico. Non posso averne la certezza definitiva, ma personalmente ritengo che gli esseni e gli zeloti siano la stessa cosa. Penso che da un certo momento in poi ciò sia vero o, comunque, che una parte della comunità essena abbia formato la comunità degli zeloti intorno alla figura di Ezechia, di Giuda il Galileo e dei suoi figli e nipoti. E' proprio da questa famiglia di intransigenti partigiani dell'ideale messianico che possono essere scaturiti i protagonisti principali delle vicende che sono alla base della narrazione evangelica.


ANCORA SULL'IDEOLOGIA ESSENO-ZELOTICA

L'espressione "esseno-zelotico", qui frequentemente usata, è in realtà qualcosa di poco comune nella letteratura storica e religiosa che si occupa delle origini cristiane. Si parla spesso di "esseni" e di "zeloti", dando per scontato che i due nomi indichino movimenti diversi, ma a una caratterizzazione chiara e definitiva di essi e della distanza che li separa siamo ben lungi dall'essere arrivati. Il nome "esseni" ci giunge - come si è già detto - dagli scritti degli ebrei ellenizzati Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio, i quali hanno testimoniato dell'esistenza di questo gruppo rappresentandolo sostanzialmente come un ordine monastico dedito all'ascetismo, al lavoro e allo studio dei testi sacri. Dalle opere dei suddetti autori emerge l'immagine di una confraternita di virtuosi dalla quale è stata praticamente omessa ogni analisi che riguardi la genesi del gruppo e i suoi fini ultimi. Gli esseni appaiono come individui interessati al semplice fatto di praticare il mestiere di santi, ma tale rappresentazione parziale non può essere altro che il frutto delle tendenze e delle propensioni di autori che si erano posti a cavallo fra il mondo giudaico e quello ellenico-romano, ed erano interessati a smorzare tutti gli aspetti della cultura ebraica che fossero conflittuali con la cultura pagana. Armati di questa consapevolezza interpretativa possiamo sempre ricavare dagli scritti di Filone e Giuseppe una gran mole d'informazioni preziose, riguardanti la struttura della setta, i rapporti di gerarchia, le usanze, i riti, le concezioni. Abbiamo già visto quale importanza abbiano, ad esempio, le descrizioni dei riti di accesso alla confraternita, da cui apprendiamo che il battesimo per immersione nell'acqua, prima d'essere il gesto che Giovanni aveva praticato sui suoi seguaci e sullo stesso Gesù, era un costume tipico degli esseni. E poi apprendiamo l'uso del pasto comunitario preceduto da un gesto liturgico nel quale il sommo sacerdote, o chi per lui, eseguiva una preghiera di ringraziamento accompagnata dalla distribuzione del pane, scoprendo così che il rito eucaristico della chiesa cattolica non è stato inventato nel corso della famosa ultima cena, ma era una consuetudine essena. Colui che non si muove culturalmente per pregiudizi e dogmi che devono essere comunque salvati riconosce in questi fatti degli innegabili collegamenti fra la tradizione essena e quella cristiana i quali, se non dimostrano che il cristianesimo delle origini fosse una cosa sola con l'essenato, indicano comunque che il cristianesimo si collocava nella stessa area dei movimenti del dissenso di tipo esseno-zelotico. Gli scritti di Filone e di Giuseppe ci offrono anche un'immagine degli esseni che molti hanno associato al cosiddetto "comunismo primitivo": regola sociale degli esseni era la comunanza totale dei beni e l'abolizione del concetto di proprietà, secondo il principio che ciascuno dovesse contribuire col proprio lavoro al benessere collettivo e dovesse ricevere dalla collettività il necessario alla soddisfazione dei propri bisogni strettamente essenziali. Le abitazioni, gli strumenti, il cibo e persino gli stessi vestiti erano considerati un patrimonio collettivo, al quale tutti potevano accedere, ma che nessuno poteva considerare come un possesso personale. Anche gli adepti che non risiedevano nella sede comunitaria, ma nei villaggi, come normali cittadini, consideravano la casa come un'appendice della struttura monastica centrale aperta a tutti i confratelli che ne avessero bisogno. Se tutto ci appare carico di un irresistibile fascino e avvolge gli esseni in un alone di misteriosa meraviglia, ciò suscita tuttavia nel lettore moderno provvisto di spirito analitico e critico alcune perplessità: come poteva esistere e da quali impulsi poteva aver avuto origine un movimento di tale natura e di tali proporzioni? Insomma, quali saranno state le dinamiche culturali, sociali, politiche e storiche, volontariamente ignorate da Filone e da Giuseppe, che avranno dato origine al movimento? Ad un esame critico di tali problemi ci si avvicina quando si prendono in considerazione altre fonti di conoscenza sul movimento esseno, delle quali in parte si è detto: il materiale archeologico e letterario che i ritrovamenti effettuati sulle rive nord-occidentali del mar Morto ci hanno fornito. I Rotoli del Mar Morto dimostrano significative convergenze sostanziali con gli scritti di Filone e di Giuseppe (comprese molte delle cose che abbiamo detto in precedenza sui riti battesimale ed eucaristico, nonché sulla concezione comunitaria ecc.), tali da convincere che la setta degli esseni fosse proprio la comunità monastica che occupava gli insediamenti di Khirbet Qumran. Essi ci arricchiscono, tuttavia, di nuove interessanti conoscenze che rispondono appropriatamente alle perplessità suscitate dalla lettura degli scritti di Filone e di Giuseppe. Gli elementi di dissenso rispetto alla casta sacerdotale che occupava il Tempio di Gerusalemme sono espliciti, l'odio nei confronti del dominio romano è palese, l'escatologia messianica è finalmente chiarita nel ruolo fondamentale che essa ha alla base dell'esistenza stessa della setta e dei suoi scopi, la radicale demitizzazione di un presunto pacifismo di principio della setta è operata chiaramente dalla stesura del cosiddetto "Rotolo della Guerra", nel quale si evidenzia piuttosto fin dove può portare il lungo e paziente contenimento di un fanatico odio di razza e di religione: vale a dire alle note apocalittiche di un annuncio di annientamento e distruzione totale e definitiva dei pagani e degli stessi ebrei tolleranti, ovverosia dei "figli delle tenebre". Eppure molti, specialmente coloro che amano guardare gli esseni solo dall'angolazione della loro spiritualità di tipo esoterico, sono scandalizzati all'idea che essi possano avere avuto qualcosa a che vedere con la lotta concreta per la liberazione politica di Israele, giungendo fino a sostenere che lo scritto qumraniano, noto come "Rotolo della Guerra", vera apoteosi dello spirito bellicoso, sia da interpretare in senso assolutamente simbolico. Se l'amore e la non-violenza erano le regole di vita tra confratelli, i "figli della luce", l'odio e la vendetta erano i sentimenti normali, giusti e doverosi, nei confronti dei nemici. Ciò contribuirebbe a risolvere anche un aspetto volutamente trascurato degli scritti evangelici: la contraddizione fra i contenuti pacifisti e perdonativi che scaturiscono da certi discorsi di Gesù ("porgi l'altra guancia...", "perdona il fratello...") e i contenuti aggressivi e castigativi di altri discorsi ("sono venuto a portare una spada...", "sarete sprofondati agli inferi..."). Sono soltanto l'escatologia esseno-zelotica e il concetto di lotta messianica che possono fornire una spiegazione a questo apparentemente inspiegabile duplice atteggiamento di Gesù Cristo negli scritti evangelici, sistematicamente ignorato dall'interpretazione cattolica o sbrigativamente risolto con giustificazioni semplicistiche e inconsistenti. Le testimonianze storiche e archeologiche offrono elementi per credere che, almeno da un certo punto in poi, esseni e zeloti non siano stati due movimenti antagonistici nel pensiero e nell'azione, ma che fossero affiancati nella lotta concreta contro il dominio romano - come nella drammatica vicenda dell'assedio della rocca di Masada (durata tre anni e conclusasi col suicidio collettivo di tutti i suoi occupanti).
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:39
7a - John Riches, La Bibbia. Una breve introduzione (Laterza 2002)


COME FU SCRITTA LA BIBBIA

Questo è un titolo oltremodo ottimistico per un breve capitolo in una brevissima introduzione. Ma non possiamo comunque fare a meno di dire qualcosa sui processi attraverso cui i libri che troviamo nelle nostre bibbie arrivarono a essere fissati. In che modo assunsero la forma in cui si presentano attualmente? Questo capitolo sarà molto selettivo e prenderà in considerazione solo pochi esempi, che possono valere per tutto il ricco materiale che la Bibbia contiene. Prima di tutto, facciamo qualche osservazione generale, a cominciare dall'arco temporale in cui i testi furono scritti. Per l'Antico Testamento, i brani più remoti si ritiene risalgano all'undicesimo-decimo secolo a.C. (il cantico di Giudici 5), mentre il blocco più recente (il libro di Daniele) proviene dall'epoca dei Maccabei nel secondo secolo a.C. Per il Nuovo Testamento l'arco temporale è molto più breve. Le più antiche delle lettere di Paolo datano al 50 circa d.C.; la maggior parte dei testi rimanenti ricadono sicuramente entro il primo secolo. La data più alta avanzata con seri argomenti per qualcuno dei libri del Nuovo Testamento è intorno alla metà del secondo secolo per la seconda lettera di Pietro, anche se potrebbe benissimo risalire al primo quarto dello stesso secolo. Questo ci fa capire subito che i testi biblici furono prodotti lungo un arco di tempo in cui le condizioni di vita degli scrittori - politiche, culturali, economiche e ambientali - variarono enormemente. Ci sono testi che rispecchiano un'esistenza nomadica, testi che provengono da un contesto di monarchia consolidata e di culto nel Tempio, testi risalenti all'esilio, testi nati in epoca di dura oppressione da parte di governanti stranieri, testi composti in ambiente di corte, testi rilasciati da predicatori carismatici itineranti, testi scritti da persone che si danno arie da sofisticati scrittori ellenistici. E' un arco temporale durante il quale furono scritte le opere di Omero, Platone, Aristotele, Tucidide, Sofocle, Cesare, Cicerone e Catullo. E' un periodo che vede la nascita e la caduta dell'impero assiro (dal dodicesimo al settimo secolo a.C.) e dell'impero persiano (dal sesto al quarto secolo), le campagne di Alessandro Magno (336-326), la nascita di Roma e il suo dominio del Mediterraneo (dal quarto secolo alla fondazione del Principato nel 27 a.C.), la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.), e l'estensione del governo romano fino a parti della Scozia (84 d.C.).


ORALITA' E SCRITTURA

Una cosa che questi testi, così largamente distribuiti nel tempo, hanno in comune è la loro localizzazione in una cultura che apprezzava molto la scrittura, anche se la sua pratica era ancora in gran parte riservata a specialisti. Il periodo di composizione dei più antichi testi biblici coincide più o meno con quello del passaggio dalla scrittura cuneiforme all'uso di un alfabeto. Nella scrittura cuneiforme, le parole sono rappresentate da segni a forma di cuneo incisi su tavolette di argilla mediante uno strumento di canna o di metallo. Negli alfabeti più antichi, che hanno origine con i fenici, le consonanti sono scritte con inchiostro su papiro o altro acconcio materiale, il quale era insieme più flessibile e più trasportabile. Soprattutto, consentiva di produrre testi molto più lunghi. I testi nel nuovo alfabeto potevano essere scritti su rotoli, per lo più di pelle, che potevano accogliere anche tutti i 66 capitoli di Isaia. Il successivo sviluppo del codice (corrispondente grosso modo al nostro attuale formato di libro) rese ancora più agevole la consultazione e il trasporto. Un codice avrebbe permesso di raccogliere tutti e quattro i vangeli sotto un'unica copertina, dando luogo a un volume di due volte e mezza la lunghezza del libro che avete in mano. Il suo impiego come mezzo per testi letterari, adottato pionieristicamente dai primi cristiani, risale al primo secolo d.C. Divenne di uso corrente a partire dal quarto secolo circa. Lo sviluppo di nuove tecniche per la registrazione del linguaggio fu uno dei tratti tecnologici più notevoli di questo periodo, paragonabile per importanza allo sviluppo della stampa a caratteri mobili del sedicesimo secolo, che rese possibile la rapida diffusione delle idee della Riforma. Durante il periodo biblico, tuttavia, la cultura rimase in grandissima misura di carattere orale. Il che vuol dire che i testi scritti venivano comunicati per lo più attraverso la loro lettura ad alta voce; in altre parole, la più gran parte delle persone aveva accesso ai testi ascoltandoli, non leggendoli. Inoltre, la maggioranza dei testi giunti a noi in forma scritta - legali, profetici, proverbiali, poetici o narrativi che siano - dovevano essersi formati originariamente in forma orale e solo successivamente furono messi per iscritto. Così, per esempio, gli oracoli profetici erano pronunciati dal profeta a voce, venivano memorizzati dai suoi discepoli, e poi più tardi venivano riportati per iscritto. Fra il momento in cui gli oracoli originari furono pronunciati, quello della loro successiva messa per iscritto, quello della loro raccolta con altro materiale simile, e quello della loro pubblicazione finale in forma di libro profetico, possono essere passati anche parecchi secoli, come nel caso del libro di Isaia. Pure quando si tratta di testi prodotti da una singola persona, come nel caso delle epistole paoline, spesso furono dettati a uno scriba, anche se magari alla fine Paolo aggiungeva di suo pugno il proprio saluto: "Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, ora, di mia mano" (Galati 6,11). Per tutto il periodo della composizione della Bibbia dunque, oralità e scrittura sono strettamente connessi fra loro. Questo fatto risalta con chiarezza dai diversi gradi di letterarietà che caratterizzano i vari testi: alcuni di essi provengono manifestamente da circoli in cui si coltivava a un buon livello l'arte della composizione di testi scritti, mentre altri rivelano una molto maggiore prossimità alla recitazione orale di racconti e discorsi. Per averne un esempio evidente, basta guardare ai vangeli: quello di Marco, generalmente riconosciuto come il più antico dei quattro, è il meno letterario di tutti, caratterizzato com'è da rozzezza dello stile greco e da una maggiore vicinanza del suo contenuto alla tradizione orale di episodi e detti di Gesù; Luca, al contrario, proclama con tutta chiarezza di scrivere alla maniera di uno storico greco che ha vagliato accuratamente le sue fonti e redige un affidabile racconto letterario (Luca 1,1-4). Il suo è uno stile di notevole livello letterario, riecheggiando il carattere peculiare della traduzione greca delle scritture ebraiche.


IL MONDO LETTERARIO DELLA BIBBIA

Quale fu in concreto il processo di composizione dei testi biblici entro questo contesto generale di scrittura e oralità? Bisogna ricordare prima di tutto che gli autori biblici affrontavano il loro compito di scrittori in maniera molto diversa rispetto a quella, poniamo, di un narratore moderno. Il narratore moderno in larga misura ha il controllo del suo materiale e crea un'opera letteraria grazie alla sua immaginazione ed esperienza, ricamando a proprio piacimento su allusioni e tradizioni letterarie. Gli antichi scrittori di testi religiosi, al contrario, erano molto più vincolati dai depositi del passato, orali o scritti che fossero. Essi erano allo stesso tempo compilatori e compositori di testi. Basta già la lettura di un paio di capitoli del libro della Genesi per cominciare a rendersi conto di quanto diverso sia il mondo letterario in cui entriamo. Nel primo capitolo veniamo a sapere che Dio creò il mondo in sei giorni e si riposò il settimo giorno. Il racconto parte con una descrizione del caos e delle tenebre e si snoda poi attraverso la creazione dei corpi celesti, della terra e dei mari, delle piante e degli animali, fino a raggiungere il punto culminante nella creazione dell'uomo e della donna. "Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò" (Genesi 1,27). Il brano sottolinea la bontà del creato, la sua dignità in sé e per sé, prima che l'uomo e la donna compaiano infine sulla scena. Ciò non vuol dire che sia negato il forte senso del dominio dell'uomo sul mondo creato che è espresso nel versetto 28, un dominio che comunque ha dei limiti. In Genesi 1 tanto l'uomo quanto gli animali sono rigorosamente vegetariani. (Solo dopo il diluvio, in Genesi 9,3-4, viene consentito agli esseri umani di diventare carnivori.) Il racconto termina con Dio che si ferma dal suo lavoro, contempla tutto quello che ha fatto, "e vide che era molto buono". Fin qui non c'è nulla di particolare che ci faccia capire in quale diverso mondo letterario stiamo entrando. Ma in Genesi 2,4 la vicenda della creazione viene ripresa nuovamente, e in una forma abbastanza differente. In primo luogo, il racconto è qui strutturato in maniera diversa: è infatti assente la scansione della creazione in sei giorni, utilizzata nel capitolo 1. Poi, è molto diversa la successione degli avvenimenti: dopo una breve narrazione della creazione dei cieli e della terra (molto lontana dall'enfasi con cui è presentata la loro creazione nel capitolo 1, dove passano quattro giorni prima che vengano creati tutti gli esseri animati), ci viene fornito il quadro di una terra vuota di qualsiasi vegetazione, "perché il SIGNORE Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo" (2,5). Dio fa sì che salga l'umido e la terra sia irrigata, e poi, come sua prima azione, crea l'uomo/Adamo (il termine ebraico "Adam" vale insieme per "essere umano" e come nome proprio di persona). Ma, benché il termine sia generico, Adamo è un maschio ed è solo. Il resto del racconto si articola poi intorno all'assistenza e al sostegno che Dio gli assicura. Prima di tutto, Dio crea per l'uomo un giardino, con piante e alberi destinati al suo nutrimento, a parte l'albero della conoscenza del bene e del male. Poi crea gli animali, perché tengano compagnia ad Adamo. Ma anche questi non bastano. Così alla fine Dio fa cadere Adamo nel sonno e dal suo costato crea una donna, e Adamo è contento, almeno per il momento. Il racconto termina con l'uomo e la donna insieme, felicemente ignari della loro nudità. Le differenze fra questi due racconti sono impressionanti. Il secondo, quello di Genesi 2, raffigura Dio in termini apertamente umani, pone l'essere umano al centro del creato, e, con il suo episodio della creazione della donna dalla costola di Adamo, simboleggia vividamente la subordinazione della donna all'uomo. Come uno scultore, Dio modella l'uomo dalla polvere; come una specie di Frankenstein, fa cadere l'uomo nel sonno e prende da lui una costola per trasformarla in una donna. Quanto diverso dal più sobrio e solenne racconto dell'azione di Dio nel capitolo 1: "E Dio disse, "Sia la luce"; e la luce fu" (1,3 ), un motivo che percorre tutto il capitolo. E poi, il capitolo 2 fa ruotare tutto lo scopo della creazione intorno ai bisogni dell'uomo (in senso stretto!). Ogni cosa è fatta in vista dell'uomo, e senza l'uomo nulla sarebbe stato portato all'esistenza; nel capitolo 1 l'essere umano rappresenta certo la gloriosa corona del creato, ma rimane pur sempre una parte dell'intero processo. Infine, il racconto della creazione dell'uomo del capitolo 2 è spudoratamente orientato verso il maschio: la creazione dell'uomo è posta prima di ogni altra cosa, e ogni altra cosa successiva dipende da lui. La creazione della donna arriva solo alla fine, come ultima risorsa, che va rapidamente in malora. Una differenza finale, che purtroppo si perde nelle traduzioni: nel capitolo 1 si fa riferimento a Dio con il termine ebraico elohim, che è in realtà una forma plurale. Nel capitolo 2, lo si chiama invece anche YHWH (da leggersi probabilmente Yahweh, ma non ci sono state tramandate le vocali originali). Da quanto detto, si capisce che abbiamo qui due versioni della medesima storia, le quali impiegano una diversa terminologia per un personaggio che è nientedimeno che Dio stesso, e contengono una notevole misura di incoerenza sull'ordine della creazione, sulla relazione degli uomini e delle donne con essa, e anche sulla questione del rapporto fra l'uomo e la donna. Fenomeni simili si ripetono continuamente in tutti i primi cinque libri della Bibbia. Così, per esempio, ci sono racconti diversi, e in qualche modo contraddittori, del diluvio (si confronti Genesi 7,2-3 con 6,19; 7,8.9.15), della migrazione di Abramo (Genesi 12,1-4a e 12,4b-5), del patto di Dio con Abramo (Genesi 15 e 17), della manna e delle quaglie nel deserto (Esodo 16,2-3.6-35a; Numeri 11,4-34), dei Dieci Comandamenti (Esodo 20,1-17; 34,10-28; Deuteronomio 5,6-18), e delle norme alimentari che vietano di mangiare certi animali (Levitico 11 e Deuteronomio 14). Oltre alle differenze nella narrazione, ci sono altri esempi di differenze nella terminologia. In alcuni luoghi la montagna del patto è Sinai (per esempio Esodo 19,1; 24,16); in altri è Horeb (Deuteronomio 4,10; 5,2). Alcune narrazioni preferiscono certe parole ebraiche - per esempio in riferimento alla morte, alle piaghe, all'assemblea del popolo -, che ricorrono raramente, o non ricorrono mai, in narrazioni parallele. Il che vuol dire che esistono versioni parallele di racconti, e queste versioni parallele possono essere raccolte in gruppi sulla base di un uso largamente coerente di certi termini. A che ci serve mettere in evidenza tutto questo? Gli studiosi concordano sul fatto che le narrazioni sono tratte da quattro diverse fonti scritte, le quali furono messe insieme nel corso del tempo per formare i primi cinque libri della Bibbia come un'opera composita. Le fonti sono chiamate J, la fonte jahwista (dalla traslitterazione tedesca dell'ebraico YHWH); E, la fonte elohista; P, la fonte sacerdotale (dall'iniziale del tedesco Priestercodex); e D, la fonte deuteronomista. Si pensa che in un primo tempo furono cuciti insieme J e E, e poi, in una fase successiva, nel quadro narrativo del combinato J+E, fu inserito P; infine, fu aggiunto D come quinto libro, probabilmente nello stesso periodo in cui veniva incorporato P, con qualche adattamento per conciliarlo con il passaggio di consegne da Mosè a Giosuè di cui parla il Deuteronomio. Il materiale più antico risale all'undicesimo secolo a.C. La compilazione finale va collocata nel quinto secolo, e potrebbe includere revisioni dei testi inclusi nella raccolta, che riflettono generalmente le concezioni di P. Così il Pentateuco (ovvero la Torah, che è il nome con cui è noto agli ebrei) comprende materiale formatosi nell'arco di sei secoli di storia umana, messo insieme per offrire un quadro globale della creazione del mondo e delle imprese di Dio nei confronti dei suoi popoli, e in specie del popolo d'Israele. Non sono solo i libri dell'Antico Testamento ad avere origine in una varietà di tradizioni orali e scritte. La stessa cosa vale anche per i vangeli. I vangeli sono quattro narrazioni della vita, morte e risurrezione di Gesù, con interessanti differenze di prospettiva e di dettaglio, ma allo stesso tempo anche con un notevole accordo. Nel caso dei primi tre - Matteo, Marco e Luca - gli elementi di accordo sono davvero rilevanti. Non soltanto concordano nella successione in cui sono ordinati molti avvenimenti e in molti dettagli degli stessi avvenimenti. Ancora più importante è il fatto che, all'interno di singole sezioni, concordano nella struttura letteraria generale del racconto nonché nella struttura della frase, nella scelta delle parole, e nelle forme grammaticali. Queste concordanze linguistiche sono così impressionanti che quasi costringono a concludere che c'è fra loro una dipendenza letteraria di questo o quel tipo. Il che vuol dire che qualcuno di loro ha copiato qualcun altro. L'opinione più condivisa, anche se nient'affatto indiscussa, è che Marco fu il primo a scrivere, e che Matteo e Luca utilizzarono entrambi Marco e in più un'altra fonte costituita principalmente da detti attribuiti a Gesù e che viene indicata come fonte Q (dall'iniziale del tedesco Quelle = fonte). Questa ricostruzione permette poi allo storico del cristianesimo primitivo di individuare diverse prospettive teologiche associate con i diversi vangeli e anche con la fonte Q. Ma la storia non finisce qui. Che possiamo dire a proposito del primo dei vangeli, Marco? Da dove egli prese il suo materiale? Dietro Marco devono esserci le tradizioni orali, che egli raccolse e dispose in un certo ordine. Similmente, il materiale riconosciuto come proveniente da Q (nella gran parte i detti che Matteo e Luca hanno in comune) potrebbe essere stato esso pure in forma orale e non in forma scritta. Gli studiosi hanno cercato di ricostruire in qualche modo la storia delle tradizioni orali che stanno dietro i vangeli, ma i risultati non sono stati molto incoraggianti. Il periodo di trasmissione è breve: meno di 40 anni intercorrono fra la morte di Gesù e la stesura del vangelo di Marco. Ciò significa che ci fu poco tempo perché le tradizioni orali assumessero una forma fissa, anche se è probabile che esistesse una estesa narrazione orale degli ultimi giorni di Gesù, che veniva usata probabilmente nel culto cristiano e che costituì la base delle varie narrazioni della morte di Gesù (i racconti della Passione) nei vangeli. Ma anche così, è difficile capire quali elementi del vangelo di Marco (o magari dell'ipotetica fonte Q) provengano dalla tradizione e quali dallo stesso Marco. Quello che comunque possiamo dire con una certa sicurezza è che, prima di essere messi per iscritto, le storie e i detti di Gesù circolarono in varie forme orali. I vangeli, come la Bibbia ebraica, hanno le loro radici in una cultura orale. Ma se sotto questo aspetto assomigliano alla Bibbia ebraica, bisogna dire che nel caso dei vangeli ci fu un'impressionante corsa alla scrittura. Quattro importanti esposizioni letterarie della vita, morte e resurrezione di Gesù nell'arco di una quarantina d'anni è un'impresa notevole. E' una chiara indicazione della crescente importanza della produzione libraria a tutti i livelli della società nel mondo mediterraneo del primo secolo. Ed è anche indicativo del desiderio dei primi cristiani di essere parte di quella società, nonostante la loro credenza in una fine imminente e drammatica del mondo quale lo conoscevano. Come si vede, dunque, molti dei libri della Bibbia non sono opera di un singolo autore, scritta nel giro di pochi anni; sono piuttosto compilazioni, che riflettono tradizioni comuni che possono risalire anche a molti secoli addietro. Anche nel caso del Nuovo Testamento, dove indubbiamente c'è una netta preponderanza di opere scritte da un singolo autore, i vangeli sono tuttavia in un senso importante produzioni comuni, in quanto conservano le tradizioni dei primi cristiani. Ma nonostante abbiano profonde radici in una cultura e una tradizione orali, gli scritti della Bibbia sono anche, ovviamente, opere letterarie. In primo luogo, usano forme e convenzioni letterarie. La Bibbia ne contiene una grande varietà. La Bibbia ebraica è divisa tradizionalmente in tre parti: la Torah, i Profeti e gli Scritti. La Torah (o Pentateuco) comprende i primi cinque libri e contiene un miscuglio di testi narrativi e legali. In alcune sezioni domina la parte narrativa (Genesi, Esodo e Numeri); in altre è dominante il materiale legale (Levitico e Deuteronomio). Il Deuteronomio è presentato come il testamento finale di Mosè al popolo, prima della propria morte e dell'ingresso del popolo nella Terra Promessa sotto la guida di Giosuè. La parte dei Profeti contiene libri profetici con oracoli sia narrativi sia profetici, preceduti dalle storie di Giosuè, dei Giudici, di Samuele e Re. Questi libri contengono capolavori di arte narrativa, ma insieme costruiscono un affresco della storia del popolo con una prospettiva decisamente teologica. La parte degli Scritti contiene un miscuglio di salmi, di materiale proverbiale e di libri a carattere più storico. Il Nuovo Testamento aggiunge a questi un certo numero di altri generi letterari: i vangeli, che come genere hanno una notevole somiglianza con le contemporanee biografie o "Vite"; le lettere, che vanno dalla semplice breve comunicazione personale (Filemone) all'elaborato trattato di 16 capitoli della lettera di Paolo ai Romani; gli "atti", un genere che registrava le imprese di personaggi importanti e che avrebbe avuto molto seguito nella letteratura cristiana; e un'apocalisse (o rivelazione), un tipico genere che godette di notevole popolarità nel giudaismo del primo secolo d.C. Gli autori e compilatori della Bibbia, dunque, fecero uso di una varietà di generi letterari in cui inquadrare le loro opere. Molti di essi potrebbero aver avuto origine nella cultura popolare, orale, ma quando furono immessi nella tradizione della scrittura e della compilazione biblica, divennero influenti e determinarono il modo in cui i libri sarebbero stati scritti. Così il genere "vangelo" che, come variante peculiare del contemporaneo genere Vita, può essere ascritto a Marco, fu immediatamente emulato dagli altri evangelisti canonici e da molti altri le cui opere non furono incluse nel canone. La Bibbia proseguì le tradizioni e i generi letterari precedenti e insieme ne creò di nuovi.


ALLUSIONI LETTERARIE NELLA BIBBIA

La consapevolezza di lavorare all'interno di una tradizione letteraria è riflessa nel modo in cui gli scrittori biblici fanno riferimento all'indietro, a precedenti libri della Bibbia. E' naturale che nel raccontare la vita e le gesta di una grande figura della storia del loro popolo gli scrittori facessero dei confronti. Anche se, come dice il Deuteronomio, "non è più sorto in Israele un profeta come Mosè - lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia - per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a fare..." (Deuteronomio 34,10-11), questo non impedì agli scrittori successivi di tentare almeno di fare confronti. Così, quando Giosuè, al quale Mosè aveva affidato il compito di guidare il popolo nella Terra Promessa, arriva con l'Arca dell'Alleanza al Giordano, le allusioni all'attraversamento del Mar Rosso, sono chiare. In entrambi i casi il popolo si accampa davanti alle acque e poi si muove al mattino. In entrambi i casi si ha una miracolosa divisione delle acque, che si arrestano formando un muro (Esodo 14,21-22), "si fermano come un solo argine" (Giosuè 3,13.16). Ma in tutto questo Giosuè fa come Mosè gli ha detto, e tutti del popolo "lo temettero come avevano temuto Mosè in tutti i giorni della sua vita" (4,14). Analoghi punti di confronto possono essere rilevati fra la storia della vocazione di Gedeone in Giudici 6 e quella della vocazione di Mosè in Esodo 3. II libro dei Giudici fa un chiaro richiamo a Esodo 3,7-10.13. Fra le due storie ci sono somiglianze di linguaggio: "io sarò con te" (Giudici 6,16, cfr. Esodo 3,12); ci sono somiglianze strutturali: l'oppressione di Israele, la chiamata del liberatore, la distruzione delle divinità straniere, una guerra santa. Questi punti di contatto sono ulteriormente sviluppati in successivi racconti che ripropongono gli stessi episodi. E' un processo, questo, che non si limita agli scritti dell'Antico Testamento, ma è andato avanti quando le medesime storie sono state nuovamente raccontate nella letteratura extra-biblica ebraica e greca e nel Nuovo Testamento. I racconti dell'infanzia di Gesù riportati da Matteo contengono citazioni e allusioni più indirette alla storia della nascita di Mosè. Questi rapidi esempi mostrano che siamo in presenza di una tradizione religiosa vivente, dove la tradizione dei testi è in dialogo con se stessa. Quello che è fissato come rivelazione in un libro viene assunto e interpretato in scritti successivi. La portata di questo tipo di intreccio letterario è certamente molto più ampia di quanto possa essere qui illustrato. La figura di Mosè percorre le narrazioni bibliche, fungendo da modello per il modo in cui le storie vengono raccontate, ed è usata come metro su cui sono giudicati i personaggi successivi. Così pure la storia dell'Esodo, con le peregrinazioni nel deserto e la conquista della Terra, ritornerà continuamente per modellare materiali legali, profetici e liturgici. I grandi avvenimenti del passato raccontati nella Sacra Scrittura toccano inevitabilmente il modo in cui il presente viene vissuto e il futuro viene sognato. Il tema dell'ingresso nella Terra dopo le peregrinazioni nel deserto riemergerà nelle profezie di Isaia per incoraggiare i giudei in esilio a sperare nel ritorno, a guardare alla gloriosa restaurazione di Israele, quando tutte le nazioni si accalcheranno per rendere omaggio a Sion, alla gloria restaurata del Tempio e della nazione (vedi Isaia 40,1-11; 60,1-14). Le stesse visioni modellavano le credenze dei giudei al tempo della nascita di Cristo. I membri della setta di Qumran, gli autori dei rotoli del Mar Morto, scelsero di ritirarsi nel deserto per prepararsi all'avvento della restaurazione finale di Israele e del rinnovamento del Tempio. Il vangelo di Marco si apre con Giovanni Battista che proclama "la via del Signore"; egli, naturalmente, si riferiva al battesimo di penitenza da lui somministrato, che era tuttavia destinato a preparare la via per Gesù, colui più potente che sarebbe venuto dopo di lui a battezzare con lo Spirito Santo e il fuoco. E' interessante riflettere sui contesti molto diversi in cui questi testi furono elaborati. Quello di Isaia proviene dal periodo dell'esilio di Israele in Babilonia: ai giudei che sono stati strappati dalle loro case e che conducono una vita da sradicati esso promette il ritorno alla Terra e alla gloria precedente; anzi, la loro gloria sarà maggiore: tutte le nazioni affluiranno a riconoscere la gloria del Signore. I membri della setta di Qumran, viceversa, vivevano in un esilio interno nella Terra, dove vedevano le forze di occupazione romane e anche i sacerdoti del Tempio dominati dallo spirito delle tenebre. Il loro mondo è stato di nuovo rovesciato da forze straniere, che li hanno privati dell'indipendenza e hanno minato le loro tradizioni religiose; in più, essi hanno anche perduto la fiducia nei leader religiosi della nazione. Restano aggrappati alla speranza profetica di un ritorno ai momenti fondanti della storia giudaica; ma non pensano a un ritorno fisico dall'esilio, bensì al rovesciamento delle forze di occupazione e alla restaurazione e al rinnovamento del Tempio e del suo sacerdozio. Nel vangelo di Marco, il senso di queste antiche profezie viene ulteriormente allargato. Scrivendo per una comunità perseguitata di cristiani gentili (cioè provenienti dal paganesimo) a Roma, Marco non è per nulla interessato al rinnovamento o alla restaurazione di Israele e del Tempio di Gerusalemme. Per lui la "via del Signore" porta dal deserto - passando attraverso il ministero di predicazione di Gesù, le sue guarigioni e i suoi esorcismi - a Gerusalemme, dove Gesù sarà crocifisso e il velo del Tempio verrà strappato. Ai discepoli Viene poi detto di ritornare in Galilea, da dove si disperderanno per predicare il vangelo a tutte le nazioni. I problemi affrontati dalla comunità dei gentili di Marco, le crudeli torture e le pubbliche esecuzioni, non sono più proprie di una nazione particolare. E pertanto la loro scelta di conversione non può più essere concepita in termini di restaurazione nazionale. Per Marco, la soluzione di questi problemi sta nel fatto che Gesù ha imprigionato Satana e nella sua chiamata a tutti a stare con lui (3,14) e a predicare la buona novella a tutte le nazioni (13,10).


UNA TRADIZIONE ORALE E LETTERARIA VIVENTE

In questo capitolo ho cercato di dare un'idea del modo in cui i libri biblici furono composti. In particolare ho insistito sul fatto che la loro genesi si colloca in un periodo in cui la letteratura scritta cominciava a nascere ma che era tuttavia ancora sotto molti aspetti una cultura orale. Questo tratto connota la Bibbia come una collezione di testi che hanno profonde radici nelle tradizioni orali di ebrei e cristiani. Si tratta di testi che furono messi per iscritto solo gradualmente e attraverso un processo che a sua volta conobbe varie fasi. I libri quali noi li abbiamo ora possono aver incorporato o possono essere stati basati su altre raccolte di testi e documenti. Le tradizioni orali, una volta messe per iscritto, hanno influenzato la creazione di altre opere letterarie, o l'elaborazione di nuove tradizioni orali che poi sono passate nella forma scritta. Le più antiche opere della Bibbia esercitarono la loro influenza sulla scrittura successiva e allo stesso tempo furono rielaborate e magari anche profondamente trasformate da una successiva riscrittura. La tradizione, sia orale sia scritta, è una tradizione dinamica e talvolta contraddittoria. Certamente non parla con un'unica voce, ma le diverse voci parlano la stessa lingua: trascelgono frasi e motivi, condividono un comune patrimonio di immagini e idee che rilanciano in modi a volte sorprendentemente differenti. E' uno scambio vivace e a vasto raggio, con racconti e ampie storie, dibattiti intorno a leggi e regolamenti, proverbi e detti, lettere e visioni. Questi testi contengono un ricco vocabolario attraverso il quale persone in situazioni diverse e in tempi diversi possono cercare di comprendere le loro esperienze di benessere o di sofferenza e oppressione. Questi testi forniscono una ricca sorgente di sapienza grazie alla quale ciascuno può cercare di orientare la propria esistenza, di rafforzare la nazione e di vivere in armonia col prossimo. Possono anche dare corpo a dei sogni. I grandi eventi del passato, di liberazione dalla schiavitù e di eroica resistenza nel deserto, possono essere ricreati nel futuro. Possono emergere nuovi mondi che rispecchino il passato e le sue glorie in modi assolutamente imprevedibili. Questo processo di riappropriazione e rielaborazione dei testi che si compie all'interno degli scritti biblici prosegue, come vedremo, nella storia successiva della loro ricezione dentro le comunità ebraiche e cristiane.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:40
7b


LA BIBBIA NEL MONDO DEI CREDENTI

Una volta inseriti nel canone, i testi cambiano. Diventano testi sacri. I credenti delle comunità che ne riconoscono il nuovo status li considerano come messi a parte, testi speciali che non possono essere trattati alla stregua di qualsiasi altro testo. Le aspettative nei loro confronti sono pertanto piuttosto diverse da quelle che i lettori hanno rispetto ad altri testi. Proprio perché sacri, è impensabile che i testi canonici possano essere in conflitto con il più profondo senso del sacro posseduto dai credenti. Ogni seria dissonanza fra l'esperienza della comunità e il mondo riflesso nel testo sacro esige di essere risolta. O il mondo del testo dev'essere elaborato in maniera tale da risultare conforme all'esperienza della comunità, o è la comunità che deve cambiare per conformarsi a quanto dichiarato nel testo. Si accende, dunque, una potente dialettica. I credenti leggono i testi alla luce della loro esperienza; e, allo stesso tempo, guardano ai testi per dare senso alla loro esperienza e costruirla. E' facile quindi aspettarsi che le diverse comunità di credenti leggano lo stesso testo in maniere molto diverse. Nella loro lettura troveremo un riflesso sia delle loro diverse credenze sia delle loro storie diverse. In questo non c'è grande differenza da quello che accade con i testi classici, non sacri; è l'intensità delle reazioni che è diversa. Se - poniamo - Shakespeare e Goethe arrivano a essere qualificati come classici da una rispettabile società borghese, ci saranno di quelli che vorranno eliminare dai loro scritti certi aspetti considerati scioccanti, o anche solo disdicevoli, da quella società. Le antologie di Goethe ometteranno parti della sua più sboccata poesia d'amore; e ci sarà un qualche Bowdler che appronterà le sue versioni purgate di Shakespeare. Il confronto è istruttivo: i conflitti fra alcune opere letterarie ed estetiche e il gusto e le sensibilità correnti provocano per lo più uno scandalo soltanto temporaneo; raramente creano fratture durature dentro una comunità, anzi a volte portano a mutamenti nella sensibilità della gente. E' largamente ammesso che gli scrittori e gli artisti possono aiutare la gente comune a familiarizzarsi con le altezze e le profondità dell'esperienza che la società benpensante semplicemente ignora o rimuove. Analoghi mutamenti di sensibilità si verificano anche, come vedremo, nelle comunità religiose. A volte tali mutamenti incontrano una resistenza molto maggiore per affermarsi, in quanto le comunità combattono per difendere modi di vedere il mondo che sono consacrati dalle letture tradizionali della scrittura. Prendiamo in esame un testo particolare, che ha avuto profonde risonanze sia nella tradizione giudaica sia in quella cristiana, e vediamo qualcuno dei modi in cui esso ha formato le diversissime esperienze di queste due famiglie di comunità e ne è stato a sua volta formato.


L'AKEDAH

L'Akedah - cioè l'episodio di Isacco che viene legato ('aqad = legare) da Abramo in vista del sacrificio, raccontato da Genesi 22 - tocca un nervo delicato delle sensibilità giudaica e cristiana. E' una storia di strana violenza e tenerezza, di un padre che riceve dal suo Dio l'ordine di sacrificare "il suo unico figlio". Solo all'ultimo momento Abramo e Isacco vengono salvati dall'imminente orrore con l'intervento di un angelo. La vicenda è raccontata con tutto il vigore, la sobrietà e il realismo della narrativa biblica nei suoi momenti migliori. Lasciati i servi ai piedi del monte, Abramo e Isacco iniziano il cammino: "Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme" (Genesi 22,6). L'ultima proposizione ("proseguirono tutt'e due insieme"), ripetuta due versetti dopo, e il breve dialogo successivo sottolineano il forte legame fra i due; ma l'obbedienza di Abramo a Dio li spinge a salire sul monte del sacrificio. Qui Abramo allunga la mano armata di coltello per uccidere il figlio. Solo in quel momento interviene l'angelo. Ma dalla tragedia sfiorata viene fuori la benedizione divina e la promessa di una nuova nazione che sorgerà dal padre e dal figlio. Il fascio di emozioni ed esperienze racchiuso in questo breve racconto, così incisivo nella sua formulazione, è molto denso, come dimostra la ricchezza delle sue successive letture. Una delle prime interpretazioni dell'episodio è quella che si trova nel libro dei Giubilei, che è costituito in gran parte da una riproposizione della storia d'Israele che viene narrata a Mosè dall'"angelo della presenza". Grazie a questo artificio, l'autore ha la possibilità di integrare la storia con dettagli relativi ai retroscena celesti, che mancano nel racconto biblico. Così, ci viene detto ora perché mai Dio mise alla prova Abramo (Genesi 22,1). Circolavano in cielo dicerie che mettevano in dubbio la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo. Questo aveva spinto Satana, qui chiamato col nome di Principe Mastema, a lanciare una sfida a proposito della genuinità dell'amore per Dio da parte di Abramo, sostenendo che questi amava di più il suo figlio Isacco. L'angelo afferma che Dio sapeva bene che l'amore di Abramo era genuino, avendolo messo alla prova già molte volte, ma ciononostante accetta di apprestare una prova finale. Questo tema dell'ultima prova attraverserà tutte le discussioni giudaiche sulla vicenda. Il motivo della prova di Abramo è presente già in Genesi, ma in Giubilei riscontriamo un sottile ma significativo slittamento di accento. In Giubilei la prova non è per Dio un mezzo per scoprire se Abramo lo ama e gli obbedisce; questo, Dio (e il lettore) lo sa fin dall'inizio, e nel momento cruciale Dio interviene proprio sulla base di questa conoscenza. In Genesi, invece, è solo dopo che Abramo ha impugnato il coltello che Dio, per il tramite dell'angelo, dice: "Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio" (Genesi 22,12). In Giubilei lo scopo dell'azione di Dio è di dimostrare a Mastema la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo, come si capisce bene dalle parole finali che Dio rivolge ad Abramo: "E io ho reso noto a tutti che tu sei fedele a me in ogni cosa che io ti dico". Questo diventa un messaggio per i giudei, i quali pure hanno dovuto subire di recente un'analoga prova satanica. Lo scopo della prova di Abramo e, per estensione, delle prove che gli stessi giudei si trovavano ad affrontare era di rendere nota la fedeltà di Israele a Dio, così che "tutte le nazioni possano essere benedette per mezzo di lui" (Giubilei 18,16). L'introduzione di Satana sulla scena aggiunge un'ulteriore dimensione alla vicenda, oltre al fatto di essere una prova dell'obbedienza di Abramo messa in atto da Dio. Con la presenza di Satana si vedono all'opera nel mondo potenze oscure che cercano di fuorviare la gente e pretendono che anche i più giusti fra gli uomini siano loro vittime. In una qualche maniera oscura, parte almeno della responsabilità della sofferenza umana ricade su Satana, mentre Dio e i suoi angeli sono lì pronti a sostenere e a proteggere il fedele. Nella vicenda specifica, essi sono presenti a far sì che Isacco non riceva alcun danno (almeno alcun danno fisico). Ma come si accorda questo con le esperienze dei giudei nel corso delle epoche di persecuzione e martirio, che avevano portato molti di loro alla morte? La consapevolezza di questi problemi è evidente nello scrittore giudaico del primo secolo d.C., Filone Alessandrino. La comunità giudaica di Alessandria all'epoca di Filone si stava dando da fare per ottenere che si ponesse fine alla discriminazione e alla persecuzione nei suoi confronti. Nel suo trattato De Abrahamo, Filone risponde prima di tutto a quelli che dicevano che la prova sostenuta da Abramo non era poi di gran peso se messa a paragone con quella di tanti pagani che avevano di propria volontà immolato i propri figli per la conservazione della loro città o dei loro popoli. Ma - afferma Filone - per Abramo, per il quale il sacrificio umano era un abominio, l'immolazione del suo figlio fu una prova ben più terribile, dal momento che per i principi pagani questa era invece quasi secondo natura (De Abrahamo, 177-199). Filone, però, non si ferma qui, ma approfitta della vicenda di Isacco per fare pure una riflessione sulla sofferenza e l'afflizione umana, e lo fa mettendo in evidenza il significato allegorico della storia. Il nome di Isacco significa risata. Abramo sacrifica la risata, o piuttosto "la buona emozione del comprendere, ossia la gioia", in nome del suo senso del dovere nei confronti di Dio. Il che è giusto, perché una vita di pura gioia e felicità è esclusiva di Dio. Ciononostante, Dio vuole permettere ai suoi fedeli di partecipare in qualche misura di una simile gioia, anche se essa sarà mescolata con il dispiacere (De Abrahamo, 200-207). Viene alla mente quella battuta giudaica che dice: Perché i giudei non possono ubriacarsi? Perché quando uno beve dimentica le preoccupazioni. Ma che dire delle grandi sofferenze sopportate in tante occasioni dagli stessi giudei? La terribile persecuzione inflitta loro al tempo di Antioco Epifane (175 a.C.) produsse propri episodi e relativi racconti sulla fedeltà dei giudei a Dio in condizioni di crudelissima tortura. Uno di questi (in 2 Maccabei 7) parla di una madre che assiste di persona al raccapricciante martirio dei suoi sette figli - e li incoraggia - prima di essere lei pure uccisa. In una successiva versione rabbinica dell'episodio, la vicenda viene trasposta dal suo contesto originale al tempo di Antioco Epifane nella situazione del II secolo d.C., quando i giudei furono perseguitati sotto l'imperatore romano Adriano. Il racconto è pieno della pena per tanta sofferenza ma anche di orgoglio per i martiri della fede. "La madre piangeva e diceva [ai suoi figli]: Figli miei, non siate angustiati, poiché per questo foste creati - per santificare nel mondo il Nome del Santissimo, che benedetto egli sia. Andate a dite al Padre Abramo: Non si gonfi il tuo cuore di orgoglio! Tu costruisti un altare, ma io ho costruito sette altari e su quelli ho immolato i miei sette figli. Cosa conta di più? La tua fu una prova; la mia è stata un fatto compiuto" (Yalkut, Deuteronomio 26,938). Una risposta ancora più angosciata alla vicenda di Isacco si trova nei riferimenti medievali, che rispecchiano la situazione delle persecuzioni dei giudei al tempo delle crociate. Le cronache giudaiche del tempo registrano il fatto che in molti casi, quando i crociati attaccavano, i giudei, piuttosto che rischiare di doversi piegare a una conversione forzata sotto tortura, si immolavano l'un l'altro in sacrificio, facendo attenzione a che il coltello non avesse difetti - come richiesto dal rituale del sacrificio, pena l'invalidità del sacrificio stesso - e recitando le appropriate formule sacrificali. La poesia sinagogale del tempo paragona simili sacrifici all'Akedah di Isacco:

O Signore, Onnipotente, che abiti nei cieli!
Un tempo, per una Akedah gli Ariel gridarono davanti a Te,
Ma ora quanti sono massacrati e bruciati!
Perché non hanno elevato un grido per il sangue di bambini?

Prima che il patriarca nella sua fretta potesse sacrificare il suo unico figlio,
Si udì dal cielo: Non stendere la tua mano per distruggere!
Ma quanti figli e figlie di Giuda sono assassinati -
E ancora Egli non si affretta a salvare coloro che sono massacrati o dati alle fiamme.
(R. Eliezer bar Joel ha-Levi, Fragment from a Threnody, in Spiegel, pp. 20-21)

O ancora:

Un tempo potevamo contare sul merito dell'Akedah,
Protetti per la salvezza di età in età -
Ora un'Akedah segue l'altra, non si contano più.
(R. David Meshullam, Selihot, 49, 66b, in Spiegel, p. 21)

Ma la più interessante interpretazione della vicenda dell'Akedah in questo periodo viene dalla penna di Rabbi Ephraim ben Jacob di Bonn, nel cui poema leggiamo che Abramo non soltanto portò in effetti a compimento l'uccisione rituale del figlio, ma anche che, quando Dio immediatamente dopo riportò in vita Isacco, egli tentò di ripetere il sacrificio.

Egli [Abramo] si affrettò, lo [Isacco] puntò sulle ginocchia,
Fece forza sulle due braccia,
Con mano ferma lo immolò secondo il rito,
Compì il sacrificio nella maniera giusta.

Cadde sopra di lui la rugiada di resurrezione, ed egli tornò in vita
[Il padre] lo prese [allora] per ucciderlo di nuovo.
Ne è testimone la scrittura! Il fatto è ben fondato:
E il Signore chiamò Abramo, anche una seconda volta dal cielo.
(Spiegel, pp. 148-149)

E' da notare come il poeta affermi che il suo riferimento al tentativo di Abramo di sacrificare il figlio una seconda volta trova sostegno nella scrittura. Nel racconto del libro della Genesi, è vero, l'angelo chiama Abramo due volte, la prima per fermare il sacrificio, la seconda per comunicare ad Abramo la promessa che egli sarà padre di una grande nazione. Rabbi Ephraim fornisce invece una versione molto diversa delle due chiamate. Abramo evidentemente non ascolta, o ignora, la prima. Nel suo commento profondamente simpatetico a questo poema, Spiegel spiega efficacemente la frase "il fatto è ben fondato": "Se non lo è nella Scrittura, lo è nell'esperienza dei giudei del Medioevo" (p. 138). Le terribili esperienze di persecuzione dei giudei nel Medioevo devono trovare una eco nei loro testi sacri. L'interpretazione cristiana dell'Akedah è filtrata, al contrario, attraverso il fatto centrale della crocifissione di Gesù. Ma è interessante osservare come, nonostante le evidenti somiglianze fra le due vicende, nei racconti evangelici ci sono pochi veri e propri riferimenti letterari alla Akedah. In Gesù che prega Dio nel giardino del Getsemani prima della crocifissione, possiamo avvertire lontani echi delle domande di Isacco al padre e delle successive tradizioni circa la sua volontaria accettazione dei disegni del padre. Naturalmente il contesto è diverso: nel caso di Gesù non c'è un padre umano come mediatore dei disegni di Dio; non c'è intenerimento da parte del Padre celeste; non si tratta di una semplice prova per il padre della vittima. Anzi, è la vittima stessa che deve lottare per accettare liberamente la ferma volontà del Padre celeste (un motivo che in effetti è presente in alcune versioni dell'Akedah). E' troppo vedere qualcuno di questi punti riflesso nel modo in cui i vangeli raccontano la preghiera di Gesù nel Getsemani? Matteo e Luca in qualche modo inciampano nel secco "tutto è possibile a te" di Marco, che era un tradizionale riconoscimento di onnipotenza. Matteo, messo di fronte all'enormità del fatto che Dio uccida il proprio figlio, sembra chiedersi se non ci sia una qualche superiore necessità che controlla l'azione. Luca sembra più interessato alla questione dell'unità o costanza della volontà divina: come può il Figlio di Dio pregare Dio perché cambi i suoi disegni? Giovanni omette completamente l'episodio della preghiera di Gesù nel Getsemani e lo sostituisce con un'analoga scena di angoscia immediatamente prima dell'Ultima Cena (12,27). Ne fa una scena più pubblica, alla quale assistono non soltanto giudei ma anche greci. L'accettazione della sua missione da parte di Gesù glorificherà il nome di Dio, esattamente come aveva fatto in precedenza l'obbedienza di Abramo. Questa accettazione è riecheggiata in quello che Gesù dice a Pietro al momento del suo arresto (18,11); qui non rimane altro che la netta affermazione di Gesù della sua completa accettazione della volontà del Padre: non aveva detto in precedenza "mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Giovanni 4,34)? In tutto ciò, non c'è alcun ondeggiamento nella volontà del Padre. Solo in un punto l'enfasi sulla inflessibilità della volontà del Padre viene precisata, ed è nel vivace ritratto che gli evangelisti fanno degli attori umani che cospirano per portare ad effetto la morte di Gesù. Il racconto di Marco dell'arresto di Gesù è introdotto dalle parole dello stesso Gesù: "Basta, è venuta l'ora: ecco, il Figlio dell'uomo viene consegnato (paradìdotai) nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce (paradisùs) è vicino" (Marco 14,41-42). In effetti c'è qui una certa ambiguità nell'uso del verbo greco paradìdomi, che vuol dire sia semplicemente "consegnare" sia anche "tradire". Si riferisce solo al tradimento di Giuda alla banda spedita dai capi dei sacerdoti, o non suggerisce forse anche il disegno divino dietro gli eventi che ora travolgono Gesù, con la consegna di lui nelle mani dei suoi distruttori? (La stessa parola greca si ritrova in Isaia 53,6: "Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti"; letteralmente: il Signore lo consegnò ai peccati di noi tutti). Probabilmente l'ambiguità è intenzionale; ma nel quadro successivo è l'azione violenta della plebaglia che compie l'arresto ad essere sottolineata con quattro occorrenze del verbo "prendere" e due riferimenti a "spade e bastoni" della gente accorsa a prenderlo. Gesù viene catturato per essere ucciso secondo i piani dei capi dei sacerdoti e degli scribi, i quali, dopo un affrettato processo, "lo legano" e lo "consegnano" a Pilato. E' allettante vedere qui un'inversione dei temi del racconto di Genesi. In Genesi, Abramo prende Isacco, lo lega e lo immola in obbedienza al comando di Dio. Qui invece sono i peccatori che prendono Gesù, lo legano e lo consegnano al tiranno straniero per l'esecuzione. In entrambi i casi, tuttavia, come la scena del Getsemani rende chiaro, è Dio che vuole questi eventi. Nel caso dell'Akedah, la prova del sacrificio di Isacco rappresenta l'atto finale di un dramma fra Dio e il patriarca in cui la volontà di Abramo viene saggiata ed egli viene preparato a essere il padre di una moltitudine di nazioni, secondo la promessa di Dio (Genesi 17,4); Abramo dev'essere il tipo del monoteismo etico, della radicale obbedienza alla volontà di Dio. Abramo diventa il tipo del giudeo fedele, e anzi, al di là di qualsiasi confine etnico, il tipo di ogni persona giusta. Nell'altro caso, Gesù, che è stato proclamato "figlio prediletto" (Marco 1,11) di Dio, è prescelto come strumento della volontà di Dio nel conflitto con la malvagità umana. Il sacrificio di Gesù non è tanto una dimostrazione di obbedienza (benché sia anche questo) quanto il punto di scontro fra l'agente divino e le forze della distruzione e della morte nel mondo. È il punto di svolta dal mondo di morte alla nuova età della vita, che è anticipata nella resurrezione di Gesù. Le successive ripetute narrazioni cristiane della Passione di Gesù ricalcano questo modello di allusione indiretta e di variazioni. Nel racconto giovanneo della Passione, Gesù "portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio" (19,17). Questo contrasta con il racconto dei vangeli sinottici, secondo il quale i soldati costringono Simone di Cirene a portare la croce fino al Golgota. Nel vangelo di Giovanni, dunque, Gesù, al pari di Isacco, porta con sé sul cammino lo strumento della sua morte. E' intrigante notare come questo elemento venga rispecchiato a sua volta nelle riscritture rabbiniche della vicenda di Isacco, in cui si dice che Isacco porta la legna come uno che porta la sua croce. La successiva esegesi cristiana mise in risalto questo motivo e lo collegò all'esperienza cristiana della sofferenza. La disponibilità cristiana a sopportare la sofferenza è vista come in continuità con la fede di Abramo: "Giustamente anche noi, che possediamo la stessa fede di Abramo e prendiamo su di noi la croce così come Isacco portò la legna, Lo seguiamo" (Ireneo, Contro le eresie, IV 5,4). La devozione successiva ha elaborato questo motivo nelle "stazioni" della Via Crucis che si allineano lungo i muri delle chiese cattoliche e raffigurano Gesù che cade tre volte sotto il peso della croce. Nell'interpretazione cristiana, tuttavia, la storia di Isacco non sempre viene messa direttamente in relazione con la morte di Cristo. Nella sua acquaforte intitolata "Il sacrificio di Isacco", Rembrandt raffigura l'angelo che non solo chiama Abramo ma interviene attivamente a trattenerlo, mettendogli intorno il suo braccio. La storia si trasforma così, nel dipinto, in una rappresentazione della protezione divina, simboleggiata dalla tenera cura dell'angelo custode; siamo ben lontani dai rabbi medievali che leggono la stessa vicenda attraverso le loro esperienze di persecuzione e genocidio. Il filosofo danese Kierkegaard, al contrario, torna a celebrare in Abramo l'uomo di fede. Egli definisce la disponibilità di Abramo a sacrificare il suo figlio come "la sospensione teologica dell'etico". Nella fede religiosa le leggi e le norme etiche normali sono sospese, in quanto uomini e donne abbracciano scopi e obiettivi di livello superiore. Il vero "cavaliere della fede" è uno che si muove al di là del mondo dell'etica ed entra in un mondo che è governato da comandi e promesse di provenienza divina. La grandezza di Abramo sta nel perseverare della sua fiducia e fede in Dio contro tutte le apparenze: non era solo una fede nella vita ultraterrena, in una risoluzione finale delle cose, ma una fede nel qui e ora, la sicurezza che le promesse di Dio si sarebbero realizzate anche di fronte alla manifesta impossibilità che Sara potesse concepire un figlio alla sua età, e poi, dopo la nascita di Isacco, di fronte al comando di Dio di sacrificarlo. Gli scritti di Kierkegaard esprimono una protesta profonda, e personalmente costosa, contro la banalizzazione borghese del cristianesimo. La sospensione da lui affermata degli standard etici "normali" rimane pericolosa e inquietante e mette in evidenza qualcosa della stranezza e della natura provocatoria del racconto originale, con la sua testimonianza a una fede prodigiosa. Se Abramo non avesse avuto fede, dice Kierkegaard, avrebbe potuto sacrificare eroicamente se stesso invece di Isacco. "Sarebbe stato ammirato nel mondo e il suo nome non sarebbe stato dimenticato; ma una cosa è essere ammirati e un'altra essere una stella che guida, che salva chi è angosciato" (Kierkegaard, pp. 42-43).


LA PERENNE VITALITA' DEI TESTI BIBLICI

La storia della ricezione dei testi biblici fornisce un fondo quasi inesauribile di dimostrazioni della vitalità di questi antichi scritti. Essi sono stati letti dalle più diverse comunità di fede in circostanze largamente differenti e hanno generato letture di notevole divergenza come pure di notevole convergenza. Non è facile fornire spiegazioni di questo tipo di fecondità. La ragione va ricercata in parte nella diversità dei contesti in cui simili testi vengono letti; non sorprende che la vicenda di Isacco che viene preparato per essere sacrificato susciti echi diversi in gente che si trova esposta agli attacchi di soldati dediti a scorrerie e in gente che, poniamo, deve affrontare i rigori della vita in un villaggio di montagna della cattolica Austria. C'è anche un'importante differenza nel contesto letterario della storia di Isacco, quale è letta dai giudei e dai cristiani. Per i cristiani, con la forte concentrazione sulla croce di Gesù negli scritti del Nuovo Testamento, è inevitabile che i temi dell'Akedah vengano ricondotti nel quadro della loro lettura della Passione. Isacco diviene il "tipo di colui che doveva venire" (Epistola di Barnaba 7,3) e i vari motivi della storia vengono assunti e usati, a volte per contrasto, nella narrazione e nelle riflessioni sulla Passione. I giudei, invece, hanno più ragione di riflettere sul significato della vicenda raccontata dal libro della Genesi alla luce della storia dei discendenti di Abramo. Ma la diversità del contesto non spiega tutto: c'è nei testi stessi una ricchezza e un'ambiguità che invita a una varietà di interpretazioni. Immagini come quella di Abramo che allunga sul figlio la mano armata, o che depone il figlio sopra la legna, toccano corde profonde dei successivi scrittori o interpreti. La ricchezza di figure, immagini e metafore degli scritti della Bibbia - nella sua narrativa, nella sua poesia e nei suoi testi più discorsivi - è tale da consentire senz'altro letture che corrispondono liberamente all'esperienza dei lettori. In essa sono contenuti storie e testi che comunità largamente diverse fra loro hanno potuto fare propri, proprio grazie alla loro natura evocativa. Né si tratta di testi chiusi, strettamente bloccati. Essi lasciano spazi aperti che chiedono di essere riempiti e contengono ambiguità che chiedono di essere risolte. Alcuni dei testi più fecondi, come vedremo, sono quelli più ambigui. Il carattere canonico dei testi deve dar conto non soltanto della diversità e ricchezza delle letture, ma anche del modo in cui le narrazioni e i discorsi stessi sono stati rielaborati e rimodellati. Nell'esempio così impressionante che abbiamo esposto, abbiamo visto come alcune versioni medievali della Akedah affermino di fatto che il racconto della scrittura parla della morte di Isacco. Più spesso, è una questione di enfasi, di lettura selettiva: gli elementi degli scritti biblici che suscitano echi più forti in una particolare comunità e in un particolare periodo di tempo saranno sottolineati, mentre altri elementi saranno esclusi o trascurati. I risultati di tale lettura selettiva possono essere altrettanto fortemente differenziati quanto la diretta alterazione della storia di Isacco. Ma, nell'un caso e nell'altro, ciò che spinge il processo di interpretazione è la medesima convinzione: che questi testi sono normativi per l'esperienza della comunità e che perciò l'esperienza della comunità deve in qualche modo essere riflessa e rappresentata in essi.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:41
8a - Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù (SEI 2001)


SOLO PER EBREI E CRISTIANI DIO E' NASCOSTO

Dunque Dio, se c'è, è nascosto; e né scienza della natura né filosofie sono strumenti validi, almeno per tutti, per raggiungere il mistero. Ciò che appare nel mondo non indica né l'esclusione totale, né la manifesta presenza di una divinità. Né luce né tenebre. Ma piuttosto un chiaroscuro, come la presenza di un Dio che si cela. Un Dio cui l'uomo non può giungere fuori della via di un dono, di una rivelazione. Da questa situazione oggettiva, che tutti constatiamo, Pascal trae una conclusione fondamentale e indiscutibile:

Poiché Dio, se esiste, è nascosto, ogni religione che non afferma che Dio è nascosto non può essere vera.

Ebbene, prosegue la sua logica, se questo è il principio per giudicare della veridicità di una religione, solo il cristianesimo può essere "vero". Solo il cristianesimo, infatti, pone tra le sue basi la constatazione del nascondimento di Dio. Attingendo anche in questo alla linfa della sua radice, l'ebraismo. Il giudeo-cristianesimo incarna la sua fede nella storia, vista come il terreno dove Dio e l'uomo a vicenda si ricercano e si incontrano. Non si cerca ciò che è evidente. Per l'altra sola, grande religione monoteistica, l'islamismo, Dio, Allàh, "è il sole che splende nel cielo a mezzogiorno". Per il musulmano, l'ateismo è un fenomeno incomprensibile. Anzi, addirittura inconcepibile. Come soltanto il pazzo può negare che il sole dardeggia sul deserto; così soltanto chi non sia sano d'intelletto può mettere in discussione l'evidenza stessa: l'esistenza nei cieli di Allàh. Una concezione, questa islamica, che è alla base di ogni altro sistema religioso, scomparso o vitale che sia. E' condivisa da tutte le fedi, tranne che dal sistema ebraico-cristiano. Solo qui si è creata una apologetica, quella parte della teologia, cioè, che si pone come scopo primario la "dimostrazione" dell'esistenza di Dio. Qualunque sia la loro efficacia, le vie percorse dall'apologetica, ebraica e cristiana, indicano come al Dio d'Abramo, di Isacco, di Giacobbe, al Dio di Gesù, si debba giungere con una ricerca; come quel Dio abbisogni di "dimostrazioni". Si ricerca, si dimostra ciò che è evidente? Solo se si dà per scontato che le nubi nascondono il sole (anche se la sua luce traspare da dietro lo schermo) si può tentare di convincere che, malgrado tutto, una fonte di luce c'è. La stessa esistenza di un'apologetica cristiana è scandalo, fatica blasfema per il seguace di altre fedi. Dice di se stesso Jahvè, il Dio degli ebrei, nell'Antico Testamento: "Io abito nella caligine" (I Re, cap. 8). A Mosè che chiede di "vedere la sua gloria", Jahvè replica: "Tu non puoi vedere la mia faccia, perché l'uomo non mi può vedere e restar vivo". Allo stesso "fondatore" della fede ebraica, secondo la Bibbia (Esodo, cap. 33) è concesso solo di vedere "le spalle di Dio", posteriora Dei. "Tu sei veramente un Dio nascosto, Dio d'Israele Salvatore", "vere tu es Deus absconditus, Deus Israel Salvator", esclama il profeta Isaia (cap. 45), nel passo che fu molto caro a Pascal. Nella concezione giudaica, Jahvè è un Dio che si cela, che ci cerca ma che occorre anche cercare. E anche in questo (oltre che per molti altri aspetti ancora che vedremo) è profondamente diverso dal Dio di ogni altra religione. Una diversità che è talvolta minacciata da infiltrazioni estranee alla visione ebraica. Ecco, ad esempio, il libro della Sapienza, "libro con un carattere prettamente greco nel linguaggio e in molte espressioni filosofiche" (Bibbia Concordata). Capitolo 13, all'inizio:

Stolti invero per natura tutti quegli uomini che ignorano Dio e che dai beni visibili non seppero conoscere Colui che è, né, considerandone le opere, seppero conoscere il loro artefice.

Jahvè, il Dio nascosto, il Dio che abita nella penombra, sembra qui accomunato alle divinità delle filosofie greche per cui la sua esistenza non fa problema. L'animo e la cultura giudaica reagiscono però a questo: il libro della Sapienza, infatti, non è accettato dall'elenco ufficiale dei libri che compongono la Bibbia degli ebrei, per i quali Dio non va cercato nella natura ma nella storia, luogo di certezze ma anche di ambiguità. Lo scandalo della non evidenza di Dio è ereditato e accettato in pieno dal cristianesimo. Il Nuovo Testamento, come abbiamo detto, trae anche qui vita dalla ricca radice ebraica. La realtà del Deus absconditus, del Dio che si cela, è non solo accettata ma è considerata dalle scritture cristiane come parte integrante del rapporto tra uomo e Dio. Ciò che nell'ebraismo era non di rado a livello di intuizioni e di abbozzo, nel cristianesimo è pienamente sviluppato. "Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto" dice Gesù nel vangelo di Giovanni, cap. 17, alla solenne preghiera prima della passione. E' lo stesso Giovanni che, all'inizio del suo vangelo, constata che "Dio nessuno lo ha mai veduto, il Dio Unigenito che è nel seno del Padre, lui ha rivelato" (I,18). Il Gesù di Matteo rende "lode al Padre, Signore del cielo e della terra" perché si è voluto rivelare solo ai semplici e si è nascosto "ai sapienti e agli scaltri". Così, "nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo" (Matteo, II). Gli apostoli, Paolo soprattutto, sottolineeranno tra le novità sconvolgenti del vangelo proprio questo concetto del celarsi di Dio: dato di esperienza comune, eppure rigettato con orrore da ogni altra fede. Prima Lettera di Paolo ai Corinti, cap. I : "Il mondo con la sua sapienza non ha conosciuto Dio". Egli ha voluto, osserva l'apostolo, che gli uomini lo cercassero "andando a tentoni" benché "Egli non sia lontano da ciascuno di noi" (Atti, 17). Aggiunge lo stesso Paolo che agli uomini, nella loro vita terrena, è dato solo di intravvedere ciò che si cela dietro la "caligine" di cui parlavano le antiche scritture. "Al presente, vediamo infatti come attraverso uno specchio, in maniera confusa". Solo dopo la morte, afferma Paolo, vedremo invece "faccia a faccia" (I Corinti, 13). Gli antichi Padri della Chiesa sottolineeranno con forza questo concetto. "La conoscenza di Dio ci arriva attraverso ombre ed enigmi", scrive Cirillo, il santo patriarca d'Alessandria. Nei secoli, poi, la mistica affermerà che la scientia sanctorum, "l'arte di essere santi", l'arte di essere radicalmente cristiani, proprio in questo consiste: nel credere contro ogni apparenza; contro ogni speranza e verosimiglianza umane.


UNA DISCREZIONE CHE HA LE SUE RAGIONI

Il cristianesimo è dunque la sola religione che prenda atto che natura e esistenza stessa di Dio costituiscono per l'uomo un interrogativo, un problema. Non solo, ma di questo nascondimento, sviluppando l'intuizione ebraica, fa un cardine della sua fede. In questo senso, soltanto il cristianesimo è "vero", per usare l'espressione pascaliana:

Poiché Dio, se esiste, è nascosto, ogni religione che non afferma che Dio è nascosto non può essere vera.

Di questo nascondimento che la sola tradizione biblica accetta, la riflessione di Pascal può far intravvedere qualche ragione: "Se non ci fosse oscurità, l'uomo non sentirebbe la sua miseria; se non ci fosse luce non spererebbe salvezza". Oltretutto "la fede è una cosa così grande che è giusto che coloro che non vogliono prendersi la pena di cercarla ne siano privati". Dunque, per quanto concerne la Verità sul mondo e sull'uomo "c'è abbastanza luce per chi vuol credere, ma abbastanza buio per chi non vuole credere". Sembra che Dio non voglia salvare l'uomo senza l'uomo. Simone Weil, l'ebrea educata nell'agnosticismo, ha reagito anch'essa in nome della ragione alla protesta istintiva e ricorrente dell'uomo per la mancata evidenza divina. "Dio non poteva creare che nascondendosi - ha scritto - altrimenti non avrebbe potuto esistere che Dio solo. Forse, egli ha lasciato intravvedere di sé solo quanto basta perché dalla fede in lui l'uomo sia spinto a occuparsi dell'uomo. Perché non sia abbagliato dal Cielo al punto di disinteressarsi della Terra". Nessuno ha amore più grande di colui che sa rispettare la libertà dell'altro, osserva ancora la Weil. La discrezione di Dio, che non sfolgora maestoso nel Cielo, sembra un omaggio alla libertà dell'uomo, la salvaguardia suprema della facoltà che è data alle creature di scegliersi il loro destino. Un Dio nascosto è il solo che possa instaurare con gli uomini un rapporto di libertà e non di necessità. Il diritto di cittadinanza che il cristianesimo dà quindi all'agnosticismo, all'ateismo, a queste accettazioni del nascondimento divino, può rivelare insospettate profondità. Il confronto con le altre concezioni religiose le mostra anche qui insufficienti, proprio perché si ostinano a negare la realtà (pur così evidente) del Dio nascosto. Guitton:

Per i cristiani, Dio è necessariamente discreto. Ha posto un'apparenza di probabilità nei dubbi che investono la sua esistenza. Si è avvolto di ombre per rendere la fede più appassionata e, senza dubbio, anche per avere il diritto di perdonare il nostro rifiuto. Occorre che la soluzione contraria alla fede conservi una sua verosimiglianza per lasciare completa libertà di azione alla sua misericordia.


IL DIO DI ABRAMO E DI GESU': UN INCONTRO DA REALIZZARE

Per la Scrittura, ebraica prima e soprattutto cristiana poi, la manifestazione di Dio non può essere che discreta per un'altra ragione ancora. Ed è la ragione da cui tutte le altre derivano. Per quelle Scritture, dunque, Dio è una Persona, nel senso pieno ed assoluto della parola. E' una Persona che va alla ricerca delle persone, degli uomini. E' la Persona per eccellenza, da scoprire e conoscere però come ogni altra. Si pensi all'esperienza concreta. Quando è possibile dire di conoscere davvero l'altro, di avere avuto un incontro autentico con lui? Quando l'altro rivela la sua intimità e io accetto con fiducia questa rivelazione. Ogni incontro presuppone dunque da una parte l'autorivelazione; e dall'altra parte la fiducia, la fede. Questa struttura dell'incontro umano vale, per il cristianesimo, anche nell'incontro tra Dio e l'uomo. Ecco, dunque, perché al cristiano non può bastare l'affermare che Dio esiste, per conoscerlo davvero. Su questa strada si giunge al Dio delle "religioni"; al Dio islamico, ad esempio. Un Dio la cui natura vera è indicata dai nomi stessi dei suoi fedeli: islàm significa "sottomissione"; muslìm, da cui "musulmano", è "il sottomesso". E' un Dio, questo, che non si può chiamare padre. Né per conoscere Dio, per il cristiano, basta accumulare dimostrazioni. E' la strada per cui si arriva al Dio di certi filosofi e di certi scienziati. Un Dio al quale si può tutt'al più attribuire l'esistenza, senza valore autentico per noi. Non solo. Ma è un Dio messo alle corde dalle due obiezioni fondamentali del pensiero moderno: la scienza fa a meno di lui; il male che da sempre stravolge il mondo lo accusa. E' il Dio del deismo, lontano dal cristianesimo quasi quanto l'ateismo, come osserva Pascal; un Dio che non ha nulla a che vedere con il Dio di Abramo e di Gesù. Anche se i credenti sono caduti in un drammatico equivoco e hanno troppo spesso pensato che le due concezioni di Dio, quella biblica, della rivelazione ebraica e cristiana, e quella filosofica, della "sapienza del mondo", potessero coincidere, fossero addirittura la stessa cosa. Tentare di chiarire la confusione ci sembra fondamentale.


"SE CONOSCESTE ME, CONOSCERESTE ANCHE IL PADRE"

E' una storia lunga. Qui possiamo soltanto accennarvi. Stando ai dati della Scrittura, Gesù ha rivelato un'immagine di Dio nettamente differente rispetto a quella cui giungono la filosofia o le altre religioni. Queste elaborano un concetto di divinità i cui attributi fondamentali sono l'esistenza e l'onnipotenza. Gesù, invece, rivela un Dio il cui primo attributo è l'amore. Un Dio che fa dire a Pietro, spaventato davanti a quel Messia che si fa servo: "Mai mi laverai i piedi!" (Gv, 13). Un concetto di divinità il cui simbolo terreno non è il re ma lo schiavo, l'ultimo dei servitori, quello addetto al pediluvio del padrone. Ed è a questo Gesù che presentano come Dio che i vangeli fanno dire che soltanto guardando a lui (e non affidandosi alla loro speculazione filosofica) gli uomini possono comprendere qualcosa del loro vero Creatore. "Se conosceste me conoscereste anche il Padre mio", "Chi vede me, vede Colui che mi ha mandato", afferma Gesù secondo il vangelo di Giovanni, ai capp. 8 e 12. E sempre Giovanni, sin dal primo capitolo, come abbiamo già visto: "Dio nessuno lo ha mai veduto, il Dio Unigenito che è nel seno del Padre, lui ce l'ha rivelato". Ebbene, con una lunga operazione teologica, quel Dio di Gesù, quel Dio - servo perché è Amore, è stato imbrigliato nella camicia di forza della "teologia naturale". Quella cioè cui si giunge per via di speculazione religiosa o filosofica. Rivolgendosi al Padre, Gesù aveva detto: "Il mondo non Ti ha conosciuto". Invece, il Dio-Idea di Platone, il Dio-Primo Motore di Aristotele, gli dèi insomma elaborati dagli uomini, vengono pian piano identificati con il Dio che la Scrittura rivela. I filosofi greci, eleganti, metodici, "umani" (anzi, direbbe Nietzsche, "troppo umani") sono chiamati a colonizzare i vangeli così fastidiosamente "barbari": così eversori di ogni riposante buon senso. Dimenticando la straordinaria originalità del messaggio evangelico, si afferma che il monoteismo sarebbe il fondo comune su cui si differenziano delle religioni, diverse per dogmi, riti, nomi, ma sostanzialmente eguali. Non credono forse tutte in un Dio solo? Viene cioè rovesciato l'imperativo attribuito al Cristo: invece di partire da lui per tentare di capire qualcosa di Dio, si parte dal concetto umano di "Dio" per "spiegare" il Dio di Cristo. Sulle spalle nude di Gesù è gettato, come per pudore o per paura, il mantello della filosofia greca, romana, islamica che sia. Quelli che dovrebbero essere gli apostoli del vangelo, i cristiani, diventano così troppo spesso gli ambasciatori del Dio dei filosofi; di quella cultura "del mondo" che per il Nuovo Testamento, che rovescia ogni valore accettato, "è follia agli occhi di Dio". Il cristiano, che non doveva sforzarsi di concepire chi sia Dio attraverso speculazioni metafisiche, ma guardando l'insegnamento e il comportamento del suo Maestro, è così trascinato nella compagnia di coloro che si sono costruiti un Dio a loro immagine e somiglianza. Da soggetto da incontrare, Dio diventa oggetto da plasmare.

Forse questo spiega perché molti di coloro che si dichiarano per il Dio di Gesù Cristo si comportano di fatto come se i loro dèi fossero la potenza e il denaro; e perché molti di coloro che hanno fame e sete di giustizia rifiutano il Dio delle beatitudini, camuffato da filosofi e teologi sino a renderlo irriconoscibile (J. Natanson).

Il sale del cristianesimo ha rischiato di diventare insipido. Ha rischiato di perdere il suo sapore sulla strada che dalla storia (quella contenuta in un libro di storia, sia pure particolare, la Scrittura giudaico-cristiana), lo ha condotto alla filosofia; alle grandi, magari mirabili costruzioni di pensiero, ma che poco hanno a che fare con la rivelazione cristiana. Che "rivelazione" sarebbe, poi, se Aristotele e gli altri sapienti fossero sufficienti al cristiano? "Con la sapienza del linguaggio", come già denunciava Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinti, è stata "resa inutile la croce di Cristo".
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:42
8b


SILENZI INSPIEGABILI

C'è dell'altro su cui i vangeli tacciono. E in modo ancora una volta inspiegabile, non solo per ogni mitologia religiosa, ma per la stessa psicologia cristiana quale, almeno, si è manifestata nei secoli. Limitiamoci a tre soli casi.

Primo esempio: l'aspetto fisico di Gesù, cui già facemmo un rapido cenno. A parte il caso sconcertante della Sindone di Torino (autentica per molti scienziati non credenti o protestanti ed ebrei, mentre alcuni tra i cattolici esigono prudenza: non ultimo esempio del paradosso cristiano), a parte dunque questo enigmatico lino che il progresso degli studi rende sempre più affascinante, pare siano ben 39 nel mondo gli altri lenzuoli, panni, drappi, venerati come "vera immagine del volto (o del corpo) di Gesù". E' ovvio che molti sono delle pie falsificazioni. Non occorre ricordare come tutta l'arte occidentale (e molta di quella africana e orientale) da venti secoli sia come ossessionata dall'aspetto fisico di Gesù. Si è tentato di rappresentarlo in ogni modo possibile. Sin dalle sue primissime origini, la fede dei cristiani ha cercato di ricostruire le fattezze del suo Dio: i vangeli apocrifi, certi antichissimi carteggi, rivelati poi falsi, ne propongono descrizioni fantasiose; pur di appagare il bisogno di intravvedere "com'era" non si è esitato, come si diceva, a ricorrere ai falsi, alle "veroniche" adulterate. Ebbene, nei vangeli che la Chiesa ha accettato, non c'è neppure una parola sull'aspetto fisico di Gesù. Nulla cui possa aggrapparsi la devozione o la curiosità. Niente. Anche questa sobrietà è inspiegabile se i vangeli sono davvero una creazione fantastica, una manipolazione di alcune notizie vere e di molte amplificazioni leggendarie. Non c'è alcuna mitologia o epopea religiosa che non abbia tra le preoccupazioni costanti il descrivere il suo eroe. Perché solo i vangeli sono così laconici?

Secondo esempio. E' tramandato soltanto per inciso che Gesù sapeva leggere. E' scritto infatti che lesse ad alta voce la Scrittura nella sinagoga di Cafarnao. Non è documentato, invece, che sapesse scrivere. L'unico vago accenno in proposito è nell'episodio del perdono all'adultera: mentre i benpensanti ne chiedono la lapidazione, si dice che Gesù "scriveva" sulla polvere. Potrebbe essersi trattato (come pensano alcuni esegeti) non di parole ma di scarabocchi, di segni simbolici. Anche qui, comunque, ci troviamo di fronte a un silenzio del tutto incomprensibile. Non si tace sulla formazione scolastica di colui che si vuol far credere Messia nel mondo giudaico, dove solo la cultura dava autorevolezza. Ancora una volta, non è così un testo religioso nato dalla deformazione fideistica o dal mito.

Terzo esempio. I quattro vangeli tacciono su almeno nove decimi della vita del loro protagonista: tra la nascita e l'inizio della predicazione è ricordato un solo episodio. Non si capisce perché proprio quello, se non attribuendo agli evangelisti quella volontà di danneggiarsi che certa critica dà per scontata, accettando l'ipotesi dei testi manipolati a piacere. Quell'unico episodio è infatti la fuga di Gesù dodicenne dai genitori, per discutere con i dottori della legge nel tempio di Gerusalemme. In una società come quella antica, sia pagana che soprattutto giudea, dove la famiglia e l'obbedienza filiale erano valori sacrali (un insulto al padre basta, secondo la Bibbia, per meritare la pena di morte), un'invenzione come questa significava partire col piede sbagliato. In un simile episodio, secondo la mentalità comune, facevano pessima figura sia il Gesù ribelle all'autorità familiare, sia i suoi genitori, incuranti di lui. Non è scritto forse, ad aggravare le cose, che della scomparsa del figlio Maria e Giuseppe si accorsero solo il giorno dopo? Gli evangelisti apocrifi si rivelano anche qui ben più meritevoli di successo, ben migliori conoscitori del cuore degli ascoltatori. Essi, che riempiono di mirabolanti storie gli anni oscuri di Gesù; con la costante, comprensibile preoccupazione di far fare bella figura al loro Cristo. Ecco, quindi, ad esempio, uscire dalla sua bottega di falegname i più begli attrezzi che mai si siano visti. Tanto che, alla fine, non si sa se sia più ammirevole come maestro d'ascia che come maestro di vita.

Il fatto è che gli apocrifi sono perfettamente in linea con la mitologia religiosa di ogni tempo e paese. Solo i quattro vangeli della Chiesa si presentano come out-sider inspiegabili; sia per chi segua l'ipotesi critica che per chi accetti quella mitica. Anche qui, però, la terza ipotesi (quella di fede) avanza una sua spiegazione: i vangeli nascono dall'urgenza, quasi dall'affanno di presentare una notizia, la buona notizia per eccellenza. "Annunciamo la tua morte, o Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell'attesa del tuo ritorno". Questo ciò che agli apostoli importa soprattutto far sapere. Ciò che interessa è lanciare il grido dell'araldo, il kérygma: passione, morte, risurrezione per noi del Messia tanto atteso. Tutto il resto, per i banditori della fede (e quindi per i vangeli che ne raccolgono la predicazione) è accessorio, del tutto secondario. Che importano i particolari, quando si è come soffocati dall'affanno di far sapere che egli ha patito, ma che ha vinto infine la morte e con essa il mondo e il peccato; e che quindi anche noi siamo salvati? Colore degli occhi, forma della barba, diplomi e lauree, capacità tecniche di quest'uomo in cui Dio si è rivelato salvezza-per-noi non hanno in questa prospettiva alcun significato. E' prolisso, ricco di notazioni di colore, baroccheggiante lo scrittore di romanzi storici popolari o il cantore di cicli mitici. E' secco, stringato il cronista che racconta fatti che sa veri e tanto importanti da non avere bisogno di essere abbelliti con lenocini letterari. Anche nella inspiegabile povertà di particolari che appaghino i curiosi, i vangeli sembrano confermare la loro veridicità, l'esistenza di un fatto traumatico (la visione del Risorto) che sta all'origine della predicazione. Chi sostiene che questi testi (si veda, ad esempio, quello di Marco, scheletrico e nervoso, senza una sbavatura, ma anche gli altri sono nella stessa linea) sono un coacervo di miti, deve ammettere che qui tutte le leggi della letteratura religiosa mondiale sono ancora una volta sovvertite. E non solo le leggi letterarie ma (il che è più importante e quindi più inspiegabile ancora) le leggi psicologiche. E' osservazione costante infatti che, nel raccontare, l'uomo è tanto più verboso, esagerato, colorito quanto meno è certo di ciò che dice. Il contrario quando è sicuro in modo inoppugnabile: perché dilungarsi, in questo caso? Questo tenere di vista il messaggio, questo puntare al sodo (che è poi l'annuncio del mistero pasquale: passione, morte e risurrezione), può contribuire a spiegare anche le famose "discordanze", le "contraddizioni" tra un testo e l'altro, quelle che divertivano Voltaire. I vangeli nascono, cioè, al solo scopo di diffondere la fede in un Messia che gli uomini hanno rigettato ma che Dio ha esaltato. Geografia, topografia, paesaggi, fauna, flora, situazione politica e sociale interessano ai predicatori solo come quadro necessario all'azione e all'insegnamento di questo Cristo risorto.


UN BLOCCO COMPATTO DI RICORDI DIFESO DA UN GRUPPO GERARCHICO

Ci viene da Paolo una riprova di quanto osservammo sull'esistenza di un dato originario su Gesù che non è considerato modificabile. Un blocco compatto di testimonianze e ricordi dei quali la Chiesa primitiva si considera non padrona, ma gelosa custode e fedele amministratrice. La controprova viene dunque da Paolo, lui che quasi certamente non conobbe Gesù vivo (o, se lo vide, non lo avvicinò) e non fu quindi testimone oculare della sua vita né ne ascoltò la predicazione. Malgrado si senta depositario della rivelazione privilegiata sulla via di Damasco, Paolo tiene in modo quasi ossessivo a che la sua predicazione sia in perfetto accordo con quella di coloro che sono stati (secondo la sua stessa parola) "testimoni secondo la carne". Eccolo infatti reagire in modo passionale quando è avvertito che certi "falsi fratelli" stanno seminando il dubbio sul suo annuncio tra quei Galati ai quali ha predicato. "Il vangelo di Paolo è incompleto, va integrato. Anzi, i Galati ascoltino non lui, ma i veri apostoli, i dodici, che vissero con Gesù e da lui vennero inviati ad ammaestrare il mondo". Questa, in sostanza, l'insinuazione fatta dai "falsi fratelli", certamente giudeo-cristiani che sostenevano la necessità di conservare la circoncisione: siamo infatti in piena "crisi del prepuzio". Subito, Paolo indirizza ai Galati una lettera di fuoco. Ha accusato il colpo: è stato contestato proprio sul fatto (che appariva dunque di importanza decisiva) di non avere visto e ascoltato di persona Gesù. E' vero, ammette rivolgendosi ai Galati, non sono stato testimone della vita mortale del Cristo, ma il mio vangelo ha ottenuto la piena approvazione di coloro che testimoni lo sono stati. Scrive, quasi a rassicurare innanzitutto se stesso:

Dopo tre anni, salii a Gerusalemme per visitare Cefa (Pietro) e rimasi presso di lui quindici giorni.

Una sorta di stage presso il capo degli apostoli per interrogarlo, imparare, correggere eventuali equivoci. E più avanti:

Poi, dopo quattordici anni, salii di nuovo a Gerusalemme con Barnaba, portando con me anche Tito. Vi salii, anzi, dopo una rivelazione. Ed esposi loro il vangelo che predico tra i Gentili, ma privatamente, ai capi, per non correre o avere corso invano.

Quindi, anche per Paolo, che pure ha piena coscienza della sua posizione di privilegio (Gesù stesso gli è apparso, con un clamoroso prodigio), l'autorità della predicazione deriva dall'approvazione di coloro che possono testimoniare in base ai loro ricordi. Questi ricordi diretti sono dunque l'unità per misurare se la predicazione sia da giudicarsi "autentica" o no. Si noti che la lettera ai Galati fu scritta, per ammissione comune, non più tardi dell'anno 57. Il primo "confronto con i capi", a Gerusalemme, è avvenuto (lo ricorda Paolo stesso) 17 anni prima. Siamo dunque all'anno 40. E' l'ennesima (e forse decisiva) conferma del blocco compatto di notizie su Gesù individuato e riconosciuto sin dall'inizio della fede in lui. La predicazione è rigidamente controllata: il banditore non può aggiungere né togliere nulla che non sia approvato dai "capi" che stanno ancora a Gerusalemme. Di nuovo Paolo ai Galati:

Anche se noi o un angelo del cielo vi evangelizzasse diversamente da ciò che vi evangelizziamo noi, sia anatema.

Lo scrupolo di aderenza a un messaggio fissato una volta per sempre secondo i ricordi dei testimoni, spinge Paolo a distinguere con ogni cura tra ciò che è volontà chiaramente enunciata dal suo Signore e ciò che è opinione personale. Un esempio, dal settimo capitolo della lettera ai Corinti:

Ai coniugati, poi, ordino non io, ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito.

Sino a quel punto del discorso sulla materia coniugale, l'apostolo aveva dato dei "consigli", derivati dalla sua sensibilità religiosa. Ora, invece, avverte di far riferimento a una parola precisa di Gesù, ricordata da coloro che l'ascoltarono: "Ordino, non io, ma il Signore". Più avanti, nella stessa lettera, si esamina il caso di chi resti vedova: "A parere mio, sarà più felice se rimane com'è". E' un "parere suo": chi ha ascoltato Gesù non ha alcun ricordo di una sua parola sull'argomento. Questo scrupolo, nel distinguere tra ciò che è giudizio personale e ciò che è parola immodificabile del Signore è frequentissimo nelle lettere non solo di Paolo ma anche degli altri apostoli. Si giudichi come questo atteggiamento possa conciliarsi con il presupposto del magma informe che, per tanti studiosi, sarebbe all'origine dei vangeli. Il fatto è (al di là di tante ipotesi dove il presupposto filosofico porta a forzare la realtà storica documentata) che la Chiesa debutta nella storia come un gruppo con una stretta gerarchia. Non è per nulla (una conferma tra le tante viene appunto da Paolo che periodicamente sale a Gerusalemme, a rapporto dai "capi") un gruppo anarchico, fabulatore, ingovernabile, dominato dalle emozioni. Critici e mitologi lo vorrebbero così per dare validità alle loro teorie sul passaggio dal nebuloso Gesù alla fede in Cristo: Ma nascondono la precisa realtà storica. La formazione dei vangeli è all'opposto di quella che sembra essere stata, ad esempio, la formazione dei poemi che vanno sotto il nome di Omero. Sin dagli anni 40, la storia incontra il gruppo cristiano sotto le specie di una piccola ma ordinata comunità sottomessa a dei capi, gli apostoli. Questi, a loro volta, appaiono subordinati a un capo, Cefa, la "pietra", che ne controlla il comportamento e la parola. La storia di questa comunità comincia con il problema di sostituire Giuda nel gruppo dirigente. Ebbene, qual è il criterio in base al quale scegliere tra i discepoli uno che entri a far parte del "Comitato Centrale" di dodici sorveglianti e garanti della predicazione? Quel criterio è enunciato così nel discorso di Pietro riferito dagli Atti degli Apostoli:

Bisogna dunque che uno degli uomini che sono stati con noi per tutto il tempo che il Signore Gesù venne e andò tra noi, a cominciare dal battesimo di Giovanni sino al giorno in cui fu assunto da noi, divenga con noi testimone della sua resurrezione.

Fu scelto Mattia "che fu annoverato tra i dodici apostoli" per il fatto di aver vissuto accanto a Gesù per tutta la durata della sua missione. Mattia, dunque, non sostituisce Giuda nel gruppo dirigente perché ha dimostrato di essere il più bravo nel formulare profezie in trance o nel parlare lingue sconosciute con accenti ispirati. Eppure, a dar retta a tanti che scambiano i loro presupposti per realtà storica, proprio questo avrebbe dovuto essere il criterio per far carriera in quel gruppo di fanatici anarchici che sarebbe stata la comunità che sta dietro ai vangeli. Al contrario, il metodo di scelta è uno solo: avere assistito a una vicenda ed essere quindi in grado di riferirla pacatamente ed esattamente.


IL TONO DI IMPASSIBILI CRONISTI

Critici e mitologi non devono spiegare soltanto perché i vangeli dicono spesso troppo e altrettanto spesso troppo poco. Ma anche perché in quei testi non ci sia alcuna relazione tra il contenuto e la forma, se la distinzione è lecita. Questi testi, cioè, che sarebbero usciti dalla esaltazione fideistica spinta al punto di scambiare un uomo per Dio o di dare un corpo al mito di un Dio salvatore, presentano in realtà uno stile antitetico a questa ipotesi. Il già citato Martinetti, per giustificare il sorgere della fede incrollabile nella risurrezione parla (come tantissimi altri) di allucinazioni isteriche. Ecco come quel seguace italiano dei critici (che prendiamo ad esempio tra i mille altri), descrive l'ambiente in cui le allucinazioni sarebbero avvenute:

La prima comunità cristiana era una comunità di entusiasti che aveva i suoi ispirati, i suoi profeti. Nelle sue riunioni il linguaggio estatico, la glossolalia, era un fenomeno frequente e alla glossolalia si associavano ordinariamente le visioni, le profezie, i miracoli.

Ebbene, questo gruppo di deliranti avrebbe espresso la sua fede in testi come i vangeli canonici, per definire lo stile dei quali gli specialisti hanno addirittura creato un termine apposito. Parlano infatti di impassibilità evangelica. Non solo nel "contenuto" (come abbiamo cercato di vedere nei paragrafi precedenti) ma neppure nello "stile" c'è qui qualcosa che testimoni dell'enfasi di falsari o del delirio di invasati. Siamo anzi all'opposto. Siamo davanti a scrittori che non lanciano un grido d'esultanza alla nascita del loro Messia; né si lasciano sfuggire un commento di dolore o di rancore alla sua morte. C'è invece, costantemente, il distacco del cronista: soltanto i fatti, nudi e crudi, mai accompagnati da un commento che li sottolinei. Anche da questo punto di vista, ci troviamo di fronte a testi che non danno per nulla l'impressione del leggendario; quanto piuttosto la sensazione della notizia. Ciò che colpisce a prima vista, accanto all'impassibilità, è appunto la spontaneità della cronaca. Manca ogni esaltazione. Quest'uomo di cui si raccontano cose inaudite è descritto con il linguaggio e le immagini di ogni giorno. Ne emerge il profilo di un personaggio "vero", che solo il pregiudizio potrebbe scambiare per il fantasma evanescente di un mito. E, questo, persino dopo l'annuncio della resurrezione. Il vangelo di Giovanni presenta l'uomo che fu crocifisso ma che ha ormai sconfitto la morte, mentre arrostisce dei pesci alla brace, sulla spiaggia, nella nebbia del primo mattino.

Ci aspetteremmo di vedere Gesù, dopo la Resurrezione e alla vigilia dell'Ascensione preparare in modo ben diverso l'ultimo incontro con i propri discepoli (Tournier).

"Ci aspetteremmo": certo, come ci si aspetta da ogni mito. Ma questo, se è un mito, rovescia ancora e sempre le nostre attese. Qui, si ha l'impressione di ricordi su un uomo che è stato visto mangiare pane e olive, accendere il fuoco, adirarsi e gioire, piangere e ridere. Un uomo che è stato sentito russare, la notte. Il racconto scorre fluido, su uno sfondo non imprecisato

ma che fa rivivere un angolo di campagna palestinese con le partenze, i ritorni, le pésche, le mietiture, le sepolture, le nozze, i bambini, gli amici e i nemici, il ciclo delle stagioni (K. Barth).

E' tale la banalità del tono, osserva Guitton, che si capisce come Ario, l'eretico del IV secolo, leggendo questi testi non vi abbia trovato abbastanza per fondare su di essi la fede nella divinità dell'uomo che vi è descritto. Ciascuno, confrontandosi con i testi, potrà constatare da sé se quanto cerchiamo di partecipare ha fondamento. Potrà osservare, tra l'altro, che anche i miracoli più strepitosi sono raccontati senza nessuna enfasi, con la consueta semplicità. Non sembrano per nulla delle aggiunte operate in seguito dalla fede:

Si è tentato di epurare i vangeli dai miracoli e si è visto che i testi ne rimanevano profondamente sconnessi, la narrazione si frantumava, il discorso non aveva più senso (Albanese).

Meraviglioso e quotidiano sono così strettamente uniti che è comprensibile la reazione di chi va con impazienza alla radice del problema. E afferma che le scelte ragionevoli davanti all'enigma di questi testi dove non c'è verso di accordare forma ordinaria e contenuto sconvolgente sono due e due soltanto: o li si accetta in blocco o si rifiuta tutto quanto. Il macigno evangelico è infatti così compatto che una scelta di avvenimenti "autentici" e di altri "aggiunti" dalla fede è al limite dell'impossibile. Del resto, anche in questo caso è decisivo il confronto con i vangeli apocrifi. Qui siamo davvero allo stile inconfondibile della creazione mitica. Non a caso già san Girolamo definiva gli apocrifi deliramenta, deliri. Qui, c'è tutto. Ma c'è soprattutto ciò che nei vangeli che la Chiesa ha fatto suoi non c'è mai: il miracolo gratuito, inutile, narrato solo per sbalordire. C'è, descritto in linguaggio esaltato, un Gesù bambino che plasma uccellini con il fango e, soffiandovi sopra, dà loro vita e li fa volare; o che allevia la fatica della madre, provvedendo con la sua onnipotenza alla mancanza di motori per sollevare l'acqua dal pozzo. E' il sapore inconfondibile della leggenda. Gli apocrifi si tradiscono, spezzano la corda della fede tirandola troppo. Confondono il soprannaturale con il meraviglioso, il sacro con lo spettacolare. I vangeli canonici non cedono mai a questa tentazione: per loro i miracoli sono semplici segni per appoggiare e confermare la verità dell'insegnamento. C'è di più: i vangeli più sobri sono quelli più antichi, il più asciutto e impassibile di tutti è Marco, il primogenito. E' un'osservazione non secondaria. Infatti, se all'inizio della fede c'è un'esplosione religiosa che trasforma in Dio un oscuro predicatore, proprio il più antico dei vangeli dovrebbe avere aspetto maggiormente leggendario, come quello che rispecchia più da vicino l'esaltazione iniziale. I testi più tardi dovrebbero invece testimoniare di un processo di depurazione, di decantazione dagli eccessi originari. Invece, ancora una volta, le leggi ordinarie qui sono sovvertite. Se Marco è il più scabro, Giovanni, il più tardo, non si accontenta dei dati di cronaca iniziali e li accompagna a riflessioni teologiche. Si noti che neppure l'istituzione del grande atto di culto della fede, la Cena, l'eucarestia, sfugge al rigoroso autocontrollo dei narratori. Ne è descritta l'istituzione durante un comune pasto, attorno a un tavolo. Un'atmosfera anche qui (proprio nel cuore del mistero sacrale) di assoluta normalità; senza alcun apparato di visioni, di fenomeni religiosi, di folgori, di esplosioni di luce. Il caposaldo stesso della fede, la risurrezione, è sbrigata dal solito Marco in pochi, asciutti capoversi. Eppure,

l'immaginazione avrebbe potuto moltiplicare i prodigi senza timore di urtare la fede, sempre accomodante in materia di verosimiglianza. Quando si ammette che Gesù è Dio, ci si può permettere di attribuirgli qualsiasi atto. Invece, nei vangeli non c'è nulla che risponda a quei postulati. Sicché, a leggerli con ingenuità, i primi tre vangeli non danno l'impressione di descrivere un Dio fatto uomo, ma soltanto un profeta eccezionale (Guitton).
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:43
8c


UN CRISTO "DEVIANTE"

Del resto, ogni aspetto del comportamento dell'uomo che i vangeli ci descrivono sfugge ai modelli e agli schemi di interpretazione sociologica. E' un comportamento deviante rispetto ai valori fondamentali della società in cui è fatto muovere. Società che pure, secondo gli studiosi di cui vedemmo le interpretazioni, lo avrebbe creato a sua immagine e somiglianza. La realtà dei vangeli è sempre assai più complessa di quanto vorrebbero gli interpreti a tesi, quelli che delle loro soluzioni precostituite vorrebbero farsi chiavi che aprano tutte le serrature. Il ritratto di Gesù in realtà non cessa di sconcertare e sfugge a ogni modello a lui contemporaneo. Il suo comportamento socialmente deviante è particolarmente significativo in tempi come i nostri, di riconoscimento del valore decisivo dell'ambiente sociale nel forgiare la persona; in tempi in cui lo studioso non crede più all'individuo "isolato", ma ammette che ogni uomo e ogni suo comportamento trovino spiegazione nella cultura della propria comunità o società. Secondo quel che raccontano gli evangelisti, Pilato stesso si stupisce sino a spaventarsi quando si trova davanti l'enigmatico out-sider. Quel mediocre rappresentante di Roma, che non doveva essere privo di una sua piccola cultura secondo i canoni della filosofia alla moda ("Che cos'è la verità?", chiede a Gesù da ironico lettore dei testi degli scettici), quel burocrate dell'Italia meridionale timoroso soprattutto di grane, è "meravigliato". Questo il termine che i vangeli impiegano per descrivere lo stato d'animo del procuratore di Giudea davanti allo strano imputato, così diverso da ogni altro; tanto che lo dicono passare alla fine dalla meraviglia alla paura: testualmente, "si impaurì di più", secondo Giovanni. "Tu, da dove vieni?", domanda facendo trapelare il suo affanno. E' davanti a una figura il cui comportamento sfugge a ogni suo schema di funzionario che pure, in anni di servizio nella turbolenta provincia, pensava di avere ormai imparato a decifrare ogni personaggio del variopinto panorama del luogo. La meraviglia di Pilato continua sino a noi, lettori di quei testi, tanto che, come ha osservato Pomilio, "ogni lettura dei vangeli è una scommessa col mistero". Anche il sociologo moderno, a un'analisi oggettiva del "caso", è tentato di chiedere ancora una volta: "Ma tu, da dove vieni?".


UN MESSIA CHE MANGIA E BEVE

Il personaggio descritto dai vangeli sfugge innanzitutto ai modelli di interpretazione, violando clamorosamente la legge che i sociologi definiscono del "comportamento imposto dal ruolo" (Holl). Uno dei "ruoli" che Gesù doveva recitare era quello dell'asceta. Non c'è profeta nel mondo ebraico che non convalidi le sue credenziali di "uomo di Dio" colla rigorosa austerità dei costumi. Le cose, del resto non sono molto cambiate da allora: l'ascetismo è tra le condizioni imprescindibili che ogni società esige dai suoi modelli religiosi. Il rimprovero mosso più di frequente a Gesù è invece quello di "mangiare e bere" senza problemi; per giunta, aggiungendo scandalo a scandalo, in compagnie equivoche. A lui e ai suoi discepoli non si manca di rinfacciare l'esempio opposto fornito dal suo parente e amico, Giovanni il Battista: questi vive nel deserto nutrendosi di cavallette e rispettando, puntualmente, il comportamento necessario al suo ruolo; lui invece si fa vedere spesso e volentieri a tavola, e con gusto manifesto, senza ipocrisie. Replicando una volta a quelle accuse, Gesù sembra rivelarsi non solo amatore di vini ma addirittura intenditore di tecniche enologiche: "Nessuno mette del vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spacca gli otri e vanno a male il vino e gli otri; ma il vino nuovo in otri nuovi". Così per Marco. Luca gli attribuisce un'altra precisazione che lo conferma attento alla qualità del vino: "Nessuno che beve il vino vecchio vuole il nuovo, perché dice: il vecchio è migliore". Il testo greco lo descrive spesso non "seduto" ma, letteralmente, "sdraiato a tavola", mentre fa onore a cibi e bevande. Situazione già scandalosa per qualsivoglia profeta in Israele. Ma si aggiunge qualcosa di ancor peggio. Come quella volta che, mentre è appunto "sdraiato" attorno al desco ben fornito di un fariseo, irrompe una donna, una "peccatrice". Naturalmente del "peccato" per antonomasia, quello contro la castità: una prostituta... E quella, racconta Luca, "si pose dietro ai suoi piedi, piangendo, e cominciò a bagnare con le lacrime i suoi piedi ed a asciugarli con i capelli del suo capo, mentre con tenerezza ne baciava i piedi e li ungeva con l'unguento profumato". Scandalo di tutti e anche del padrone di casa, che si prende però un duro rimprovero dal sorprendente ospite, mentre la donna è rimandata con affetto: "La tua fede ti ha salvata. Va' in pace". Qui è tra l'altro infranto violentemente (lo vedremo meglio più avanti) anche quel tabù del sesso che tormenta ogni visione della vita che si creda "religiosa". Per ora, ci interessa soprattutto questo "uomo di Dio" che non si ritira indignato dal già sconveniente banchetto, neppure se le circostanze vi aggiungono un tocco pesantemente erotico come quello portato dalla "peccatrice". Pare a noi evidente l'impossibilità sociologica per la cultura ebraica (ma, del resto, per la cultura "religiosa" di ogni tempo e paese) di scambiare per Dio o di inventare come Dio un personaggio come questo. Gli mancavano tutte le altre caratteristiche imposte a chi volesse recitare il ruolo di Messia, come vedemmo. Ma non aveva neanche l'austerità di vita o un minimo di prudente ipocrisia per sfuggire alla pubblica accusa di "ghiottone e bevitore". Né, del resto, c'è traccia negli evangelisti di qualche tentativo per sorvolare su caratteristiche così imbarazzanti del loro personaggio. Anzi, proprio il vangelo più "spirituale", quello di Giovanni, ci dice che il "primo dei segni" con cui "Gesù manifestò la sua gloria", tanto che "i suoi discepoli credettero in lui", fu il miracolo di Cana. Miracolo dalle motivazioni gravemente equivoche per l'ideale "religioso": la potenza divina sarebbe qui scomodata per fornire altro vino a una brigata di festanti già ubriachi. E vino prelibato, secondo l'osservazione del "capo delle mense" allo sposo. Miracolo al limite del blasfemo, dal pesante sentore di scandalo. Senz'altra motivazione che la gioia e la gioia terrena, corposa; e quindi, equivoca, secondo la mentalità religiosa di sempre. Ed è con questo exploit di Cana che un testo messo assieme pezzo per pezzo dal fanatismo religioso, sempre avido di ascetiche penitenze, farebbe esordire il suo eroe?


"QUANDO DIGIUNI, PROFUMATI I CAPELLI"

Fu Benedetto Croce a rilevare l'equivoco di coloro che, come Carducci e Goethe, immaginarono polemicamente Gesù come "un negatore della gioia e un diffonditore di tristezza". Costoro, dice il laicissimo Croce, dovettero ricredersi e riconoscere alla fine che "Gesù amò e volle la letizia". Il filosofo napoletano scriveva prima che dalle grotte di Qumràn fosse tirata alla luce la biblioteca degli esseni; questi "religiosi" ebraici per eccellenza sulla cui dottrina, insistono molti, sarebbe stato ricalcato l'insegnamento attribuito a Gesù. Peccato che questi assertori di un Cristo esseno non sembrino aver esaminato con un minimo di attenzione i documenti di quella setta contemporanea alle origini del cristianesimo. Già accennammo a come era inteso l'amore tra i solitari di Qumràn: amare i confratelli e odiare tutti gli altri. Vedremo più oltre altri aspetti di una radicale diversità "qualitativa" tra due messaggi pur sorti nella stessa cultura e accomunati, forse, da alcuni aspetti esteriori. Qui osserviamo come tra le regole di comportamento degli esseni si legga: "Nessuno osi portare su di sé profumi nel giorno di sabato". "Hanno l'aspetto di bambini atterriti dal bastone del maestro": così li descrive Flavio Giuseppe che ben li conosceva, cresciuto com'era alcuni anni alla loro scuola. Vangelo di Matteo, esortazioni di Gesù nel cosiddetto "Discorso della Montagna", la magna charta del cristianesimo:

Quando poi digiunate, non siate tristi come gli ipocriti, che sfigurano i loro volti per mostrare agli uomini che digiunano. (...) Tu invece, quando digiuni, profuma con l'olio il tuo capo e lava la tua faccia, per non mostrare agli uomini che digiuni, ma al Padre tuo che è nel segreto.

Al contrario di quanto imposto tra gli esseni, dunque, per il seguace della "buona notizia" cristiana la mortificazione del corpo non deve accompagnarsi all'ostentazione della tristezza, bensì alla letizia. Una tra le più enigmatiche caratteristiche dell'etica attribuita a Gesù è sempre la sintesi, unica nella storia religiosa, tra "corpo e spirito", tra "natura e grazia", tra "dolore e gioia". In questa visione, c'è il momento per la festa e il momento per il digiuno. Ma neppure questo deve andare a scapito della gioia. Soprattutto, non deve fare alcuna concessione alla ipocrisia: la quale è poi, spesso, il modo di rispettare il "comportamento richiesto dal ruolo dell'uomo religioso". Proprio ciò che a Gesù è fatto rifiutare. Quello dei vangeli è un Dio che da un lato accetta volentieri una sedia e un bicchiere alla nostra festa; e che, nello stesso tempo, insegna che per andare dietro di lui occorre "rinnegare se stessi e prendere ogni giorno la propria croce". E' il Dio che ordina di fare baldoria se torna il figlio che ha dilapidato la sua eredità con le prostitute. E che sgrida severamente il figlio "per bene" che protesta, in nome di una giustizia che pur sembra (ed è, almeno a viste umane) ragionevole. Quale "sacerdote", di qualunque religione (non escluso un certo cristianesimo benpensante) non inorridirebbe e non darebbe ragione al fratello restato a casa a lavorate? Qual è mai la comunità religiosa, ebraica o di qualunque altra fede, che creerebbe come esempio della sua etica un simile padre cui sembrerebbe giusto togliere piuttosto il diritto alla patria potestà? I princìpi della pedagogia dell'antico Israele sono ben espressi, tra l'altro, nel libro dell'Antico Testamento detto l'Ecclesiastico (oggi lo si indica di solito come Siracide) al cap. 30:

Chi ama suo figlio gli fa spesso sentire la sferza (...) Accarezza tuo figlio e ti farà spaventare, scherza con lui e ti farà piangere (...) Non lasciarlo libero in gioventù e non chiudere gli occhi alle sue mancanze...

Anche in questo, il protagonista del Nuovo Testamento appare un ben inedito "moralista" che sconvolge gli schemi immutabili dell'insegnamento "religioso". E' sempre più evidente, in qualunque modo si giri il problema: non c'è gabbia ideologica che basti a spiegare, a esorcizzare questo Gesù.


LA MORTE E LA FAMIGLIA

La morte, la famiglia, le donne, i bambini: quattro esempi, quattro realtà dove è possibile continuare a verificare sino a che punto questo presunto "prodotto della religiosità antica" se ne distacchi in realtà in modo radicale. Il personaggio del Nuovo Testamento è detto demitizzare quanto di più sacrale aveva la cultura ebraica. La morte e la famiglia, innanzitutto. In soli quattro versetti in successione, Luca lo descrive anteporre libertà e carità sia agli intangibili riti e consuetudini funerarie ("Disse poi a un altro: Seguimi. Ma quegli rispose: Signore permettimi che prima vada a seppellire mio padre. Gli disse: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu va' ad annunziare il regno di Dio"), sia ai legami familiari ("Gli disse ancora un altro: Ti seguirò Signore, ma prima permettimi di congedarmi da quei di casa. Gli rispose Gesù: Nessuno che pone mano all'aratro e guarda indietro è atto al regno di Dio"). Cap. 9. Antico Testamento, Libro Primo dei Re, cap. 19. Il profeta Elia chiama a seguirlo nella sua missione Eliseo. "Elia gli passò accanto e gli gettò addosso il suo mantello. (Eliseo) abbandonò i buoi e corse dietro Elia dicendo: "Che io baci mio padre e mia madre e poi verrò dietro di te". Gli rispose Elia: "Va' e torna..."". Neppure Elia, dunque, uno dei più grandi tra i profeti, quello stesso di cui gli ebrei attendevano il ritorno immediatamente prima dell'era messianica, poteva permettersi in Israele di vietare la tenerezza filiale. Proprio ciò che è invece fatto fare al Messia dei vangeli. Quanto al rifiuto persino di lasciare il tempo di seppellire il padre, ecco Guignebert, quello stesso che descrive i vangeli come una creazione fantasiosa del settarismo ebraico: "Noi sappiamo che il dovere di sotterrare il proprio padre era considerato un obbligo assoluto per il giudeo pio". Al punto che quella Chiesa che avrebbe "costruito" così il suo Messia tentò di attenuare almeno quel versetto affermando che il testo greco ("Lascia che i morti seppelliscano i morti") era sbagliato e bisognava leggere: "Lascia i morti ai becchini"... Del resto, tutto ciò che riguarda comportamento e insegnamento di Gesù riguardo alla famiglia "ha un suono che urta il sentimento ebraico", come nota l'israelita Montefiore. Luca, cap. 14:

Se uno viene a me e non odia il padre e la madre, la moglie e i figli, i fratelli e le sorelle (...) non può essere mio discepolo.

Matteo, cap. 10:

Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, e chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me.

Matteo, cap. 12:

Mentre egli ancora parlava alla folla, ecco che sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. Ora qualcuno gli disse: "Ecco che tua madre e i tuoi fratelli stanno di fuori, cercando di parlarti". Ma egli, rispondendo, disse a chi parlava: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?" Poi, stendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli".

Questo Gesù, nel cui nome si sono fatte tante "crociate per la famiglia", deve sfuggire alla sua famiglia stessa che tenta di catturarlo, per legarlo come pazzo e indemoniato pericoloso. Sino a quando, con frase inaudita per l'intero mondo antico, e scandalosa tra tutte nel mondo ebraico, Matteo, proprio l'evangelista dei giudei, gli attribuisce queste parole al decimo capitolo: "Sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera". Per poi aggiungere subito, con sconcertante anticipazione di Freud: "Nemici dell'uomo saranno i suoi familiari". Si è ormai d'accordo nel riconoscere che l'atteggiamento di Gesù verso i legami familiari costituisce un inesplicabile unicum per tutta la cultura a lui contemporanea, ebraica o pagana che sia. Ma non sarebbe proprio questa la dottrina che Engels definì "una miscela di teologia orientale, specialmente giudaica e di filosofia greca, specialmente stoica"?


LE DONNE

Se demitizza la sacralità della morte e della famiglia, il Personaggio dei vangeli è detto invece rivalutare quanto la cultura antica in generale e l'ebraismo in particolare stimava meno: le donne, cioè, e i bambini. L'ebraismo (lo vedremo meglio alla fine di questo stesso capitolo) è messaggio che fonda la radicale eguaglianza degli uomini, senza distinzione di sesso, sulla base dell'unica creazione divina. "E Dio creò l'uomo a sua immagine. A immagine di Dio li creò", dice il primo capitolo del Genesi; che aggiunge subito: "Maschio e femmina li creò". Malgrado questo riconoscimento, è indubbio che, non solo nella prassi ma anche nello sviluppo teologico, come scrive Guignebert, "l'ebraismo si rivela come una religione di uomini". E lo è stato a tal punto che, nota David Flusser dell'università ebraica di Gerusalemme, ignoriamo persino buona parte dei nomi femminili dell'antico Israele. I testi sacri, infatti, accumulano molti nomi d'uomo e pochissimi di donna, essendo questi ininfluenti per la storia e riguardando solo la piccola cronaca privata. Dice una preghiera d'Israele, ancor oggi recitata dal pio circonciso: "Benedetto sia tu, Signore, che non mi hai fatto donna". Mentre il marito pronuncia in piedi, con fierezza, queste parole, la moglie mormora con rassegnazione: "Benedetto sia il Signore che mi ha creato secondo la sua volontà". In certi passi dell'Antico Testamento, la donna è catalogata come un "bene" patrimoniale di cui il maschio (padre o marito) dispone a volontà. Per quella stessa Scrittura "è preferibile la malizia di un uomo a una donna che fa dei benefici" (Siracide, cap. 42). Per il libro dei Proverbi la donna è "stolta", "rissosa", "lunatica". Vedremo del resto come ancora oggi, all'interno di una civiltà anch'essa semitica, quella islamica, sia trattata questa metà del genere umano. Eppure, ancor peggiore la condizione femminile in tutto il mondo antico circostante, dove alla donna si negava persino la natura umana per attribuirle quella degli animali. Il culto di Mithra, che contese sino al VI secolo il primato al cristianesimo in tutto l'Impero Romano, escludeva del tutto le donne che, se desiderose di qualche religione, potevano semmai rivolgersi al culto di Iside. O potevano darsi alla prostituzione sacra. Non va molto meglio se ci si rivolge alla ancora oggi celebrata sapienza dei massimi maestri pagani. Socrate ignora le donne; per loro, testimonia Platone, non c'è posto (al limite neppure sessuale, anche su questo piano giudicando migliori i giovanetti) nella buona organizzazione sociale. Epitteto, il maestro di stoicismo spesso e imprudentemente paragonato a Gesù, le mette sullo stesso piano delle delizie del palato. Per Euripide, la donna "è il peggiore dei mali"; è un "male necessario" per Aulo Gellio; è "per natura difettosa e incompleta" per Aristotele; è stata creata "dal principio cattivo che generò anche il caos e le tenebre" per Pitagora, mentre l'uomo verrebbe "dal principio buono che generò pure la luce e l'ordine". Se non ci fossero le donne, scrive Cicerone, "gli uomini converserebbero con gli dei". Domi mansit, lanam fecit, è rimasta chiusa in casa a filare la lana, è il massimo elogio da incidere sulla tomba delle donne romane. Le cose non miglioreranno nel mondo moderno "laico e illuminato". Quel mondo vagheggiato da noi, ad esempio, dalla "Associazione Nazionale del Libero Pensiero Giordano Bruno"; associazione, appunto di "liberi pensatori", violentemente atei, e soprattutto, virulentemente anticristiani. Il loro giornale non a caso si chiama "La Ragione". Si avrebbe qualche sorpresa, però, rivedendo il brano in cui quel Giordano Bruno, fatto simbolo della ragione moderna, parla della donna che per lui è, testualmente: "Vacua di ogni merito; dov'è superbia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, falsitade, libidine, avarizia, puzzo, schifo, sepolcro, cesso, febbre quartana, carogna, bottega, dogana, mercato di porcarie... ". In quella "anti-Bibbia" per l'uomo d'oggi che si propone di essere il Così parlò Zarathustra di Nietzsche, il profeta esorta: "Vai a donne? Non dimenticare la frusta". Lo stesso filosofo tedesco, nel libro de L'Anticristo: "La donna fu il secondo errore di Dio". Del resto, i positivisti dell'Ottocento e del primo Novecento, che vollero contrapporre la "luce della Scienza e della Ragione" alle tenebre del cristianesimo, sostennero a lungo l'inferiorità "per natura" della donna. Il suo encefalo, dissero, pesa in media soltanto 1200 grammi, contro i 1320 grammi medi del cervello dell'uomo. Ancora oggi, nessuna delle Logge Massoniche regolari, nate anch'esse dal "pensiero libertario", accetta membri che non siano maschi. Anzi, il Gran Maestro italiano ha polemizzato di recente con certe donne che, in Francia, vistesi respinte si sono create da sole una loro massoneria. Ad avviso del Gran Maestro, il titolo di "massone" che si sono date è usurpato: se proprio vogliono la loro setta, si chiamino "tessitrici"... Torniamo allora al personaggio che i vangeli descrivono e che chiamano Gesù.

La sua originalità sembra rivelarsi in maniera sorprendente nel suo atteggiamento verso le donne (...). Egli si dice e si fa difensore della loro dignità e dei loro diritti.

La constatazione è preziosa, venendo da C. Montefiore, l'ebreo inglese la cui opera è volta alla diminuzione della originalità di Gesù, nel tentativo di dimostrare che non fu altro che un profeta tra i tanti in Israele. E invece, come vedemmo, Gesù è rappresentato mentre riserva l'onore della prima apparizione da risorto proprio a delle donne, quasi a sfida aperta alla cultura dei giudei e di tutto il mondo antico. Le mette a parte del meglio della sua dottrina, si fa seguire da ex-prostitute. E' rappresentato persino come una sorta di "mantenuto" da donne il cui passato avrebbe scatenato lo sdegno dei benpensanti di sempre. Donne, dice Luca, "che erano state guarite da spiriti maligni" e dalle quali "erano usciti sette demoni". Commenta J. Kahl, l'ex-pastore evangelico tedesco autore de La miseria del cristianesimo: "Gesù trattava le donne come persone di seconda categoria, facendosi donare oro da esse". Ecco un bell'esempio di stravolgimento totale del significato del messaggio evangelico. Questo "farsi mantenere" non è la vergogna, ma la gloria del personaggio dei vangeli che rifiuta "puro" e "impuro" (che cos'era più "impuro" per la società ebraica del denaro ricavato dalla prostituzione?); che non sdegna il contatto con la metà disprezzata dell'umanità; che sceglie di provocare sino a questo punto una cultura che, nel libro del Levitico, aveva elaborato persino tutta una serie di precetti per isolare la donna mestruata che, è detto, "rende impura ogni cosa su cui essa siederà o giacerà". Lo scandalo, per la "gente per bene" di ogni tempo, è infatti tale che in timorate traduzioni dei vangeli, il capitolo dove si narra della provocatoria comitiva che seguiva Gesù è devotamente intitolato "Le pie donne che assistevano la Chiesa nascente"... Ancora: Gesù è descritto mentre rimanda in pace l'adultera che i bigotti vogliono lapidare. Scandalo, anche qui, talmente intollerabile che alcuni Padri della Chiesa preferirono considerare "apocrifo", falso, interpolato quell'episodio dell'ottavo capitolo di Giovanni da cui (pareva loro) si traeva per le donne una sorta di peccandi immunitas, un invito al libertinaggio... Ancora una volta, la Chiesa appare costretta, volente e nolente, ad accettare un messaggio imbarazzante, che non può avere inventato e di cui, anzi, farebbe volentieri a meno. Ma, ancora. Lo stesso vangelo di Giovanni descrive Gesù risorto affidare a Maria Maddalena forse la più solenne delle missioni: "Non mi trattenere più oltre, perché ancora non sono salito al Padre. Va' invece dai miei fratelli e di' loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (cap. 20). Si ricordi che uno dei più grandi maestri dell'ebraismo antico, Rabbi Eliezer aveva scritto: "Meglio sarebbe bruciare tutte le parole della Legge piuttosto che darle in mano a una donna". Già si vide, nel sesto capitolo, l'enigmatica questione delle quattro donne "scandalose" citate nella genealogia. Il Gesù di Matteo (cap. 15) è detto rivolgere a chi non soltanto è donna ma è persino straniera e pagana, una cananea, il più grande degli elogi nella scala di valori costruita dal vangelo: "O donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri". Lo stesso primo vangelo (cap. 25) gli fa scegliere ancora una volta delle donne, le "vergini prudenti", come esempio di costanza nella fede e di vigilanza nell'attesa del suo ritorno. Non solo guarisce l'emorroìssa (altro termine pudibondo dei traduttori imbarazzati, per non far capire a chi non sappia di greco e di latino che si trattava di una donna con perdite di sangue dai genitali), ma esige che parli in pubblico di ciò da cui è stata liberata, quasi a indicare che le malattie delle donne non sono più "vergognose" di quelle degli uomini, come affermava la cultura ufficiale. Logico che, dopo tanti scandali, si arrivi a quello radicale: la contestazione, cioè, degli stessi ruoli "storici" in cui gli uomini hanno da sempre tenuto le donne. Un brano straordinario, quello del decimo capitolo di Luca. Eccolo, quell'episodio accolto nel terzo vangelo:

Ora, mentre essi erano in cammino, egli entrò in un certo villaggio. Una donna di nome Marta lo ospitò nella sua casa. Essa aveva una sorella chiamata Maria, che si era seduta ai piedi del Signore e ascoltava la sua parola. Marta invece era tutta affaccendata nel servizio. Allora, fattasi avanti, disse: "Signore, non ti importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma il Signore, rispondendo, le disse: "Marta, Marta, tu ti inquieti e ti agiti per troppe cose. Una sola cosa è necessaria: Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta".

Dunque, si comincia con la provocazione consueta (l'accettare l'ospitalità di donne) aggravata poi da una tale confidenza con il maestro: Maria "era seduta ai piedi del Signore". Gesù non solo non l'allontana e neppure le addita quello che per la cultura dominante sarebbe il suo "dovere": occuparsi delle faccende domestiche, della preparazione della cena per una così numerosa comitiva giunta all'improvviso. Ma, quando la sorella lascia i fornelli per pregare Gesù di "rimettere le cose a posto" ("Dille dunque che mi aiuti") sgridata non è Maria bensì Marta, seppure con la compassione che nasce dal constatare che la pressione sociale è più forte di una povera donna; che Marta non poteva non identificare il suo dovere "naturale" con il preparare la cena agli uomini. Gesù però non solo non accetta questa suddivisione rigida e immutabile di compiti tra uomo e donna ma afferma che, anche per una donna "la parte migliore" è compiere la "sola cosa necessaria": la ricerca cioè della verità, l'ascolto della parola di salvezza. Questa denuncia del ruolo tradizionale femminile non è solo straordinaria in una società come quella ebraica che aveva elaborato (nel libro del Levitico) certe "tabelle" per il riscatto delle persone, da cui si deduce che una femmina vale in danaro esattamente la metà di un maschio. E' una denuncia straordinaria anche per tante società pur cristiane, così spesso insidiate da tenaci misoginie. I vangeli restano così una piccola isola di rispetto e di difesa della donna in un fiume che precede, e che segue, di esasperato "maschilismo". E' anche da questa resistenza della tradizione cristiana ad arrendersi al "femminismo" di Gesù che ancora una volta valutiamo le ragioni di quegli autentici naifs della ricerca storica, critici o mitologi che siano, che pensano ai vangeli come a creazioni di comunità di ferventi religiosi orientali. A differenza di quanto affermato da tutta la cultura antica, per Gesù la differenza di sesso sembra accidentale, transitoria, tale da non creare nessuna diversità essenziale tra maschio e femmina. Questi ruoli sono destinati a sparire: "Nella resurrezione, infatti, né si sposano, né sono sposati, ma tutti sono come angeli di Dio nel cielo". Così gli è fatto rispondere, in Matteo (cap. 22), a certi sadducei che gli pongono un capzioso quesito matrimoniale. Marito, moglie; figlio, figlia; maschio, femmina: per lui queste non sono che "figure" di un mondo destinato a trasformarsi. Non individuano certo una divisione del genere umano, che è uno e uno soltanto: "Dio creò l'uomo a sua immagine" e quell'unico uomo "maschio e femmina lo creò", ma solo per questa vita. Alla distinzione tra uomo e donna, i vangeli sostituiscono piuttosto quella tra "sposati" e "vergini", qualunque sia il loro sesso. C'è, anche in questo, il rifiuto di una cultura feroce verso le nubili e le sterili; verso tutte quelle donne, cioè, che avevano "fallito" in quel rapporto con l'uomo che è il solo che sembrasse contare per la società antica, ebraica e no. Per realizzare la sua missione umana, la donna non è obbligata a divenire sposa e madre. Coloro che si beffano di quello che chiamano il "mito sessuofobo della verginità di Maria" non riflettono sul messaggio di liberazione che vi è contenuto. Per i vangeli, il Messia non solo è "fatto da donna" (come scrive Paolo nella lettera ai Galati) dando così alla donna, a ogni donna, la dignità, addirittura, di "madre di Dio". Ma quella donna è vergine (prima e dopo il parto, insiste la fede cattolica), non ha "conosciuto uomo"; eppure non sarà per questo maledetta come imponeva la cultura ufficiale. Al contrario, canta ella stessa: "Tutte le generazioni mi chiameranno beata".


I BAMBINI

Nell'antichità, il bimbo non era neppure considerato interamente persona. In alcuni casi l'infanticidio era addirittura prescrizione legale; comunque, non era certo considerato a livello di gravità di un omicidio. A Roma e ad Atene, sino alla cerimonia di "riconoscimento di paternità", il figlio non aveva alcun diritto alla vita: il padre poteva decidere di ucciderlo. Platone sostiene che bisogna lasciar morire i bambini delle famiglie troppo povere; Aristotele afferma che l'allevamento dei piccoli sciancati deve essere vietato per legge. Quanto all'ebraismo, la regola comunitaria degli esseni escludeva rigorosamente i bambini, come del resto i vecchi. Di Gesù è scritto che non solo non li scaccia secondo l'uso comune, ma sgrida duramente i discepoli che li vogliono allontanare. E, con rovesciamento radicale di valori (per ogni società antica, ma soprattutto per quella ebraica, per cui modello di saggezza è l'uomo anziano) li addita addirittura ad esempio; affermando che chi non si farà come un bambino non entrerà nella comunità dei salvati: "Il regno di Dio è di coloro che ad essi somigliano". Il bambino è sciocco e occorrono per lui colpi di frusta, diceva la pedagogia ebraica nel libro dei Proverbi, attribuito addirittura a Salomone: l'infanzia come una sorta di malattia, guaribile col tempo e col bastone. Quasi a metterli al riparo definitivamente, Gesù rivela ai discepoli che proprio i bambini hanno un rapporto specialissimo con Dio: guai a coloro, dunque, che osassero trattarli male. Uno dei suoi scatti di collera lo ha al pensiero che qualcuno possa scandalizzarli: "Sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa una macina d'asino al collo e fosse gettato nel profondo del mare". Ha scritto nelle sue memorie Eleanor, la figlia prediletta di Karl Marx:

Ricordo come mio padre mi narrasse la storia del falegname di Nazareth che fu ucciso dai ricchi e come dicesse sovente che possiamo perdonare molto al cristianesimo, perché ha insegnato ad amare i bambini.

Un "deviante", un "criminale" dunque, questo Gesù: non c'è alcun dubbio, almeno nel senso sociologico che abbiamo indicato. Reo di tanti e tanto gravi delitti contro i fondamenti stessi della sua società da essere messo a morte al più presto e (com'è scritto) "fuori dalla città", a significare la sua espulsione dalla comunità della gente perbene. "Non ritornare! - grida a Gesù colui che raffigura le chiese, il Grande Inquisitore di Dostojevskij - Smettila di opprimerci con la tua libertà!". Una croce fuori dalla città sarebbe ancora pronta per lui in ogni società "religiosa"; forse anche in quelle che dicono di ispirarsi a lui. Quale inedita comunità di credenti è dunque quella che lo avrebbe forgiato in questo modo?


UN "ESSENISMO CHE HA AVUTO SUCCESSO"?

Già a proposito di modo di intendere l'amore, la penitenza, l'atteggiamento verso i bambini, osservammo quale differenza esista tra l'insegnamento attribuito a Gesù e quello elaborato dagli esseni. La scoperta dei manoscritti di Qumràn ha tolto una speranza a chi pensava che gli enigmi del messaggio cristiano potessero trovare una qualche soluzione in quella setta giudaica. Misterioso sino alle scoperte del secondo dopoguerra, l'essenismo era conosciuto soltanto per pochi accenni in scrittori classici e in Flavio Giuseppe. Sembrava impossibile comprendere come dalla cultura ebraica del primo secolo fosse uscito un insegnamento per tanti aspetti non omogeneo? Era sempre più difficile sostenere la tesi di un Gesù modellato da una cultura religiosa attestata tanto spesso su posizioni opposte? Si poteva sempre sostenere che gli autori dei vangeli avevano trovato tra gli esseni l'humus per far germinare la loro pianta così inspiegabilmente esotica. Di quei solitari del Mar Morto si sapeva tanto poco, nessun pericolo di smentita nell'azzardare le teorie più audaci! Ecco così che, secondo la celebre frase di Renan, il cristianesimo altro non sarebbe stato che "un essenismo che ha avuto successo". In realtà, bastava osservare che, a differenza di quanto avvenuto subito per il cristianesimo nascente, non ci fu mai alcuna persecuzione militante contro esseni da parte delle autorità religiose ebraiche. L'esseno fu, al contrario, considerato sempre un modello di pietà: segno evidente che la sua spiritualità e la sua dottrina rendevano ancora più rigoroso il giudaismo senza però distaccarsene. A differenza di Gesù, il Maestro di Giustizia di Qumràn non si pone certo come un "criminale" rispetto ai valori riconosciuti dalla società contemporanea. "A Qumràn, il Nazareno sarebbe stato scomunicato ed espulso", ha scritto H. Kung. La smentita a chi voleva assimilare i due personaggi è comunque venuta dalle grotte violate dai pastori beduini. Si è appreso così che l'amore essenico si limitava agli amici del gruppo, mentre per quelli "di fuori" si prescriveva l'odio; che il rigorismo moralista si spingeva sino a vietare i profumi nel giorno di sabato; che i bambini erano allontanati con sospetto e alterigia, perché (come dice il Manuale di Giustizia) "soltanto santi angeli stanno nella comunità". E i bambini "santi angeli" non erano certo, per loro. Ma, dice ancora quel Manuale: "Stolti, pazzi, deficienti, alienati, ciechi, storpi, zoppi, sordi e minorati, nessuno di questi può far parte della comunità". Inoltre, è prescritto di tenersi lontani dai peccatori, dagli stranieri, dalle donne. Proprio l'esatto contrario, cioè, della figura descritta dal Nuovo Testamento che privilegia le minoranze infelici; che predilige sedersi a tavola proprio con coloro dai quali l'esseno fuggiva con orrore e disprezzo. Come ha riconosciuto con onestà lo stesso studioso ebreo Montefiore:

L'andare in cerca del peccatore invece di sfuggirlo come cattivo compagno; il prenderselo come amico, per operarne la salvezza morale, fu davvero una cosa nuova nella storia religiosa.

A Qumràn, si estendeva sino alle estreme conseguenze il concetto ebraico della sacralità del sabato. In quel giorno i "Santi" non andavano neppure al gabinetto, incerti se in questo modo non si infrangesse la legge del riposo. Nel dubbio, preferivano astenersi. Ancora una volta, l'esatto contrario di quel Gesù che, con frase spaventosamente blasfema non solo per l'esseno, ma per ogni ebreo, è detto dire: "Il sabato è per l'uomo e non l'uomo per il sabato". Il Manuale di Giustizia enumera minutissime prescrizioni alimentari e igieniche, distinguendo rigorosamente tra cibi "puri" e cibi "impuri". Si sa che questo concetto della "purità" degli alimenti ha accompagnato l'ebraismo sino ad oggi. Ancora e sempre, l'esatto contrario del personaggio degli evangelisti, cui si fa esclamare: "Ascoltatemi tutti e capite. Fuori dell'uomo non c'è nulla che, entrando in lui, possa contaminarlo; ma quello che esce dall'uomo è ciò che contamina l'uomo". Non a caso, queste parole di Gesù del settimo capitolo di Marco sono seguite in antichi codici dalle parole, manifestamente aggiunte dal copista: "Chi ha orecchi per intendere, intenda". Qui siamo infatti all'assolutamente inaudito: non soltanto per l'ebraismo che, in questo, non aveva saputo distaccarsi dalla visione comune di tutte le antiche religioni. L'Antico Testamento ha minuziose prescrizioni per la purificazione rituale delle persone e dei cibi. Prescrizioni che non nascono da una semplice esigenza igienica o di buona educazione: sono regole, invece, che mostrano come il profetismo ebraico avesse accettato il concetto per cui solo chi si è reso anche materialmente "puro", scartando certi cibi e procedendo a certi lavaggi, può accedere al "Sacro". La "impurità", invece, relega uomini e cose nella sfera "profana". Nella affermazione di Gesù che le cose del mondo non sono mai impure, ma lo diventano solo attraverso il cuore dell'uomo, molti studiosi vedono dunque una delle più enigmatiche e sconvolgenti novità del suo insegnamento. E' un'affermazione, infatti, che non solo pone un ebreo contro l'autorità dello stesso Mosè, ma "mette in questione tutto il rituale liturgico dell'intera antichità, con le sue pratiche espiatorie e sacrificali" (E. Kasemann). In quelle poche parole del vangelo di Marco è testimoniata un'altra (e tra le più inspiegabili) divergenze dell'insegnamento del Nuovo Testamento da ogni altro messaggio "religioso", quello ebraico incluso. Il concetto di "laicità" della creazione (che può essere profana e può essere sacra a seconda dell'atteggiamento dell'uomo e non per una qualche "contaminazione" da vincere) è qui portato a quelle conseguenze estreme cui l'ebraismo, che pur ne aveva posto le premesse, non è mai giunto. Né vi è giunto l'islamismo, esso pure ossessionato da norme di "purità" e "impurità". Il Maestro di Qumràn esortava a non propagare ai "non Santi" il suo insegnamento, a nascondere la sapienza della setta, sempre allo scopo di isolarla quanto più possibile dagli altri, "impuri e peccatori". Agli antipodi, anche qui, da Gesù:

Forse che si porta la lampada perché sia messa sotto il moggio o sotto il tetto? Non è forse per essere messa sul candelabro? Infatti, non c'è nulla di nascosto se non perché sia manifestato, e niente è segreto se non per essere messo in luce.

Come nota Bornkamm,

se c'è qualcosa di tipico in Gesù, è proprio il fatto che la sua predicazione e la sua opera non avevano lo scopo di raccogliere i "giusti" e i "pii", né di organizzare un "residuo santo". Gli esseni affermavano un dualismo secondo il quale l'umanità era divisa in "figli della luce" e in "figli delle tenebre". Per Gesù, nessuna spartizione aprioristica tra buoni e cattivi: ogni uomo deve convertirsi, perché ogni uomo può convertirsi.

"Beati i poveri...", "Guai ai ricchi..." fanno dire a Gesù i vangeli. Neppure le migliori tra le filosofie antiche avevano mai considerato la povertà un bene. Per il giudaismo la condizione del povero non era affatto da esaltare: la povertà era anzi considerata come il segno di una scarsa benevolenza divina. La ricchezza, al contrario, era vista come ricompensa della virtù. Tutt'al più, come nel libro dei Proverbi si chiedeva a Dio un giusto mezzo: "Non darmi né povertà né ricchezza". "O Signore, concedi la prosperità", dice il salmo 118 ripetuto ancor oggi nel culto ebraico. Nel primo libro di Samuele, Jahvè è esaltato come colui "che solleva il misero dalla polvere, dalle immondizie fa alzare il povero". Anche nell'elogio della povertà il messaggio attribuito a Gesù si distacca inspiegabilmente dalla matrice culturale da cui è generato. E la povertà è esaltata come un bene (i poveri sono detti "beati") perché se ne riconosce il legame con uno tra i valori che danno salvezza all'uomo: la libertà. "Quel che gli uomini non avevano conosciuto con i loro lumi più alti, questo messaggio lo insegna ai fanciulli": l'intuizione di Pascal può poggiare anche sul progresso dello studio delle religioni comparate.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:44
9 - Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della Speranza (Mondadori 2004)


MA, ALLORA, PERCHE' SI NASCONDE?

Dio, dunque, il Dio biblico, c'è. Ma, allora, è forse comprensibile la protesta di molti, ieri come oggi: perché non si rivela più chiaramente? Perché non dà prove tangibili e accessibili a tutti della Sua esistenza? Perché la Sua strategia misteriosa sembra quella di giocare a nascondino con le Sue creature? Esistono ragioni per credere, certo; ma - come molti hanno sostenuto e sostengono - ci sono anche ragioni per dubitare o, addirittura, per negare. Non sarebbe più semplice se la Sua esistenza fosse evidente?

Penso che le domande da lei rivolte - e che, del resto, sono di tanti - non facciano riferimento né a san Tommaso, né a sant'Agostino, né a tutta la grande tradizione giudeo-cristiana. Mi sembra che spuntino piuttosto in un altro terreno, quello puramente razionalistico, che è proprio della filosofia moderna. La cui storia inizia con Cartesio, il quale, per così dire, scisse il pensare dall'esistere e lo identificò con la ragione stessa: "Cogito, ergo sum" (Penso, dunque sono). Quanto diversa l'impostazione di san Tommaso, per il quale non è il pensare a decidere dell'esistenza, ma è l'esistenza, l'"esse", a decidere del pensare! Penso nel modo in cui penso, perché sono quello che sono - cioè una creatura - e perché Egli è Colui che è, cioè l'assoluto Mistero non creato. Se Egli non fosse Mistero, non ci sarebbe bisogno della Rivelazione o, meglio, parlando in modo più rigoroso, dell'autorivelazione di Dio. Se l'uomo, con il suo intelletto creato e con i limiti della propria soggettività, potesse superare tutta la distanza che separa la creazione dal Creatore, l'essere contingente e non necessario dall'Essere Necessario ("colei che non è", secondo la nota parola rivolta da Cristo a santa Caterina da Siena, da "Colui che è": cfr. Raimondo da Capua, Legenda maior, I, 10,92), solo allora le sue domande sarebbero fondate.

I pensieri che l'assillano, e che compaiono anche nei suoi libri, vengono espressi con una serie di domande. Non sono di certo soltanto sue: lei intende farsi portavoce degli uomini della nostra epoca, ponendosi al loro fianco sulle strade - talvolta difficili e intricate, talvolta apparentemente senza sbocchi - della loro ricerca di Dio. La sua inquietudine si esprime nella domanda: perché mancano prove più certe per l'esistenza di Dio? Perché Egli sembra nascondersi, quasi giocando con la Sua creatura? Non dovrebbe essere tutto molto più semplice, la Sua esistenza non dovrebbe essere qualcosa di ovvio? Sono interrogativi che appartengono al repertorio dell'agnosticismo contemporaneo. L'agnosticismo non è ateismo, in particolare non è un ateismo programmatico, come lo era l'ateismo marxista e, in un altro contesto l'ateismo dell'epoca illuminista.

Pur tuttavia, le sue domande contengono formulazioni che riecheggiano l'Antico e il Nuovo Testamento. Quando lei parla di Dio che si nasconde, usa quasi il medesimo linguaggio di Mosè, che desiderava vedere Dio faccia a faccia, ma non poté vederLo che "alle spalle" (cfr. Es 33,23). Non è qui indicata la conoscenza attraverso la creazione? Quando poi parla di "gioco", mi vengono in mente le parole del Libro dei Proverbi, che mostrano la Sapienza intenta a "ricrearsi tra i figli dell'uomo sul globo terrestre" (cfr. 8,31). Non significa questo che la Sapienza di Dio si dona alle creature ma, allo stesso tempo, non svela loro tutto il Suo mistero?

L'autorivelazione di Dio si attua in particolare nel Suo "umanizzarsi". Ancora una volta, la grande tentazione è di operare, secondo le parole di Ludwig Feuerbach, la classica riduzione di ciò che è divino a ciò che è umano. Le parole sono di Feuerbach, dal quale prende avvio l'ateismo marxista, ma - ut minus sapiens, "sto per dire una pazzia" (2Cor 11,23) - la provocazione proviene da Dio stesso, poiché Egli davvero si è fatto uomo nel Suo Figlio ed è nato dalla Vergine. Proprio in questa nascita, e poi attraverso la Passione, la Croce e la Risurrezione, l'autorivelazione di Dio nella storia dell'uomo ha raggiunto il proprio zenit: la rivelazione dell'invisibile Dio nella visibile umanità di Cristo. Ancora il giorno prima della Passione gli apostoli chiedevano a Cristo: "Signore, mostraci il Padre" (Gv 14,8). La Sua risposta rimane una risposta chiave: "Come potete dire: Mostraci il Padre? Non credete che io sono nel Padre e il Padre è in me? ... Se non altro, credetelo per le opere stesse. ... Io e il Padre siamo una cosa sola» (cfr. Gv 14,9-11; 10,30). Le parole di Cristo vanno molto lontano. Abbiamo quasi a che fare con quell'esperienza diretta alla quale aspira l'uomo contemporaneo. Ma questa immediatezza non è la conoscenza di Dio "faccia a faccia" (1Cor 13,12), la conoscenza di Dio come Dio.

Cerchiamo di essere, nel nostro ragionamento, imparziali: poteva Dio andare oltre nella Sua condiscendenza, nel Suo avvicinamento all'uomo e alle di lui possibilità conoscitive? In verità, sembra che sia andato lontano quanto era possibile. Oltre non sarebbe potuto andare. In un certo senso Dio è andato troppo lontano! Cristo non divenne forse "scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani" (1Cor 1,23)? Proprio perché chiamava Dio Suo Padre, perché Lo rivelava così apertamente in Se stesso, non poteva non suscitare l'impressione che fosse troppo... L'uomo ormai non era più in grado di sopportare tale vicinanza, e cominciarono le proteste. Questa grande protesta ha nomi precisi: prima si chiama Sinagoga, e poi Islam. Entrambi non possono accettare un Dio così umano. "Ciò non si addice a Dio" protestano. "Egli deve rimanere assolutamente trascendente, deve rimanere pura Maestà. Certo, Maestà piena di misericordia, ma non fino al punto di pagare le colpe della Propria creatura, i suoi peccati". Da una particolare ottica è giusto, dunque, dire che Dio si è svelato fin troppo all'uomo in ciò che ha di più divino, in ciò che è la Sua vita intima; si è svelato nel Proprio mistero. Non ha badato al fatto che tale svelamento Lo avrebbe in certo modo offuscato agli occhi dell'uomo, perché l'uomo non è capace di sopportare l'eccesso del Mistero. Non vuole esserne pervaso e sopraffatto. Sì, l'uomo sa che Dio è Colui nel quale "viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,28); ma perché ciò dovrebbe essere confermato dalla Sua Morte e Risurrezione? Tuttavia san Paolo scrive: "Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede" (1Cor 15,14).
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:45
10 - Giovanni Paolo II, Memoria e identità (RCS 2006)


IL MISTERO DELLA REDENZIONE

Alla luce di queste riflessioni emerge l'esigenza di una più completa risposta alla questione circa la natura della Redenzione. Che cos'è la Redenzione nel contesto del combattimento tra il bene e il male in cui l'uomo è coinvolto?

A volte questa lotta viene presentata ricorrendo all'immagine della bilancia. Riferendoci a tale simbolo, si potrebbe dire che Dio, col sacrificio del proprio Figlio sulla croce, abbia posto questa espiazione di valore infinito sul piatto del bene, affinché esso in definitiva possa sempre prevalere. La parola "Redentore", che in polacco suona Odkupiciel, fa riferimento al verbo odkupic, che significa "riacquistare". E' quanto accade, del resto, anche con il termine latino Redemptor, la cui etimologia si collega con il verbo redimere (riacquistare). Proprio questa analisi linguistica potrebbe avvicinarci alla comprensione della realtà della Redenzione. In essa si collegano in modo molto stretto i concetti di remissione, e anche di giustificazione. Entrambi i termini appartengono al linguaggio del Vangelo. Cristo rimetteva i peccati, sottolineando con forza il potere che il Figlio dell'uomo aveva di farlo. Quando gli portarono il paralitico disse innanzitutto: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati" (Mc 2,5), e poi aggiunse: "Alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua" (Mc 2,11). In tal modo poneva implicitamente in evidenza che il peccato è un male maggiore della paralisi del corpo. E quando, dopo la risurrezione, si presentò per la prima volta nel cenacolo, dove erano riuniti gli Apostoli, mostrò loro le sue mani trafitte e il costato, e poi alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (Gv 20,22-23). In questo modo Egli rivelava che il potere di rimettere i peccati, che solo Dio possiede, viene concesso alla Chiesa. Nello stesso tempo confermava, ancora una volta, che il peccato è il più grande male da cui l'uomo deve essere liberato, e insieme mostrava che la facoltà di operare tale liberazione è affidata alla Chiesa grazie alla passione e alla morte redentrice di Cristo. San Paolo esprimerà la stessa verità in modo ancora più profondo mediante il concetto di giustificazione. Nelle Lettere dell'Apostolo - innanzitutto in quelle ai Romani e ai Galati - la dottrina sulla giustificazione assume anche una connotazione polemica. Paolo, formato nelle scuole dei farisei, versati nello studio dell'Antica Alleanza, ne contesta la convinzione che fonte della giustificazione fosse la Legge. In realtà, egli afferma, l'uomo non accede alla giustificazione per mezzo degli atti prescritti dalla Legge - in particolare, non mediante l'osservanza delle molteplici prescrizioni di carattere rituale, a cui veniva attribuita una grande importanza. La giustificazione ha la sua fonte nella fede in Cristo (cfr. Gal 2,15-21). E' Cristo crocifisso che giustifica l'uomo peccatore tutte le volte che questi, in virtù della propria fede nella Redenzione da Lui compiuta, si pente dei propri peccati, si converte e ritorna a Dio come al proprio Padre. Così dunque il concetto di giustificazione è, da un certo punto di vista, un'espressione ancora più profonda di ciò che è racchiuso nel mistero della Redenzione. Per essere giustificati davanti a Dio non bastano gli sforzi umani; è necessario essere raggiunti dalla grazia che proviene dal sacrificio di Cristo. Soltanto l'immolazione di Cristo sulla croce ha, infatti, il potere di restituire all'uomo la giustizia dinanzi a Dio. La risurrezione di Cristo mette in risalto il fatto che solo la misura del bene immesso da Dio nella storia mediante il mistero della Redenzione è di una grandezza tale da corrispondere pienamente alla verità dell'essere umano. Il mistero pasquale diviene così la misura definitiva dell'esistenza dell'uomo nel mondo creato da Dio. In tale mistero non ci è rivelata soltanto la verità escatologica, la pienezza del Vangelo, cioè della Buona Novella. In esso rifulge anche una luce che si riversa su tutta l'esistenza umana nella sua dimensione temporale e si riverbera di conseguenza sul mondo creato. Cristo, mediante la sua risurrezione, ha per così dire "giustificato" l'opera della creazione e, in particolare, la creazione dell'uomo, nel senso che ha rivelato la "giusta misura" del bene inteso da Dio all'inizio della storia umana. Tale misura non è soltanto quella prevista da Lui nella creazione e poi compromessa dall'uomo con il peccato; è una misura sovrabbondante, nella quale il disegno iniziale trova una sua realizzazione più alta (cfr. Gn 3,14-15). In Cristo l'uomo è chiamato ad una vita nuova, la vita di figlio nel Figlio, espressione perfetta della gloria di Dio: "gloria Dei vivens homo - gloria di Dio è l'uomo vivente".
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:46
11a - Israel Knohl, Il Messia prima di Gesù (Mondadori 2001)


DOPO TRE GIORNI

Inizieremo la nostra ricerca sul contesto storico del messia di Qumran prendendo in esame due opere apocalittiche che, a mio parere, ci parlano della morte violenta del messia di Qumran. Il nostro primo compito consisterà nel datare gli eventi in esse narrati. In un'opera apocalittica l'autore descrive in genere gli accadimenti del suo tempo come profezia del futuro. Per questo le opere apocalittiche vanno interpretate sullo sfondo degli eventi storici dell'epoca in cui sono state composte. Come argomenterò in modo circostanziato, il contenuto delle nostre due apocalissi può essere chiaramente compreso alla luce della situazione politica nell'impero romano nella seconda metà del I secolo a.C., appena prima della vita e del ministero di Gesù. Nel 44 a.C. Giulio Cesare venne ucciso da un gruppo di cospiratori guidati da Bruto e Cassio. Dopo l'assassinio, si diede lettura del suo testamento. In esso Cesare dichiarava di avere adottato Ottaviano - figlio di sua nipote Azia - come proprio figlio, il quale ricevette il suo nome, divenendo Caio Giulio Cesare Ottaviano. A quell'epoca Ottaviano, che avrebbe ricevuto in seguito il titolo di "Augusto", era un giovane di diciannove anni, e dovette lottare per il potere a Roma contro rivali più anziani ed esperti, specialmente contro Marco Antonio. Gli sforzi principali di Ottaviano furono rivolti in quel periodo a ottenere onori divini per il Cesare assassinato; se fosse stata riconosciuta la divinità del padre adottivo, infatti, egli stesso avrebbe automaticamente acquisito uno status divino. Per sottolineare come fosse figlio del "divino Giulio", si definì divi filius, "figlio di dio" o "figlio del deificato". Tale titolo appare sulle sue monete. Gli anni successivi all'uccisione di Cesare videro divampare guerre spietate. Prima Ottaviano e Marco Antonio combatterono insieme contro gli assassini di Cesare e i loro sostenitori; poi, sconfitti i nemici, si divisero l'impero. Ottaviano, da Roma, si pose a capo delle regioni occidentali, mentre Marco Antonio, stabilitosi ad Alessandria, governava le province orientali. Ma gli stretti rapporti di Marco Antonio con Cleopatra, regina d'Egitto, suscitarono fra i due acute tensioni che sfociarono nel 31 a.C. nella battaglia navale di Azio. L'esito della battaglia era ancora indeciso quando

improvvisamente si videro le sessanta navi di Cleopatra alzare le vele per prendere il largo e fuggire passando attraverso il folto dei combattimenti. [...] Allora Antonio manifestò chiaro a tutto il mondo che non era più mosso dai pensieri e dalle ragioni dì un comandante, e neppure dai suoi propri [...] poiché si lasciò trascinare dalla donna quasi fosse attaccato e si muovesse con lei. Appena vide la sua nave che si allontanava, dimentico di tutto il resto, tradì, abbandonò coloro che combattevano e morivano per lui [...] e si diede a inseguire colei che l'aveva già rovinato.

Così Antonio e Cleopatra furono sconfitti dalla flotta di Ottaviano e, fuggiti ad Alessandria, si suicidarono. Tali drammatici eventi sono riflessi, a mio parere, nell'apocalisse nota come "Oracolo di Istaspe".


L'ORACOLO DI ISTASPE

La profezia di Istaspe è menzionata per la prima volta a metà del II secolo d.C. da Giustino Martire, che fu messo a morte dalle autorità romane per la sua fede cristiana. Egli racconta che chiunque avesse letto quella profezia, che prediceva la caduta dell'impero romano, sarebbe stato condannato da Roma alla pena capitale. Ma aggiunge che, nonostante la crudele minaccia, lui e i suoi amici continuavano a leggerla. Il Padre della Chiesa Clemente Alessandrino, dal canto suo, dice che Paolo di Tarso raccomandava di leggere la profezia di Istaspe e di citarla. Il mitico Istaspe, cui l'Oracolo era attribuito, era un re della Media che si presumeva vissuto prima della guerra di Troia. Ma l'identità persiana maschera il fatto che l'opera apocalittica fu scritta da un ebreo per parlare del popolo giudaico e di Gerusalemme. Alcuni suoi brani si sono conservati in un'opera del Padre della Chiesa Lattanzio (300 d.C. circa), che era noto come il Cicerone cristiano. Nella sua profezia Istaspe parla di due re. Del primo, destinato a dominare sull'Asia, dice: "Angarierà il mondo con il suo intollerabile dominio [...] e accarezzerà nuovi progetti nel petto, per assicurare il potere a se stesso. [...] E infine muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la sede". Dopo di che giungerà un altro re, più terribile del primo, e lo annienterà. Di questo secondo re Istaspe scrive che "si costituirà e denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio". Chi sono questi due re? Istaspe dice che il primo, che dominerà sull'Asia, muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la capitale. Tali affermazioni corrispondono esattamente alle accuse che i sostenitori di Ottaviano Augusto muovevano a Marco Antonio per i suoi rapporti con Cleopatra. Nel 40 a.C. Antonio, in seguito a un accordo raggiunto quell'anno a Brindisi con Ottaviano Augusto, ne sposò la sorella, Ottavia. L'accordo e il matrimonio suscitarono grandi speranze fra i romani, stanchi di interminabili guerre, ma tali speranze s'infransero quando Antonio tornò dalla sua amante, Cleopatra, e la sposò. La sua rivalità con Ottaviano Augusto raggiunse l'apice nel 32 a.C., anno in cui divorziò da Ottavia e la scacciò dalla propria casa. Ottaviano reagì sottraendo illecitamente il suo testamento alla custodia delle sacerdotesse vestali a Roma e leggendolo di fronte al senato. In esso Antonio aveva scritto che, anche se fosse morto a Roma, desiderava essere portato ad Alessandria e sepolto accanto a Cleopatra. Tali volontà furono assunte a prova dell'accusa secondo cui mirava a trasferire la capitale dell'impero ad Alessandria. Il senato ordinò una guerra contro la regina d'Egitto, guerra che portò alla battaglia di Azio tra la flotta di Augusto e quella di Antonio e Cleopatra. Secondo lo storico romano Dione Cassio a Roma si credeva che "se [Antonio] avesse vinto, avrebbe fatto dono di Roma a Cleopatra e avrebbe trasferito in Egitto la capitale dell'Impero". Nella visione di Istaspe si dice che il primo re "accarezzerà nuovi progetti nel petto, per assicurare il potere a se stesso. [...] E infine muterà il nome dell'impero e ne trasferirà la sede". In questo re si può identificare Marco Antonio. Egli, continua Istaspe, sarà annientato da un secondo re. Questo secondo re è Augusto, che prevalse su Antonio. Di lui Istaspe dice: "si [...] denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio"; e, come abbiamo visto, Ottaviano Augusto si denominò divi filius. Inoltre:

Sarà anche un profeta di menzogne, e si costituirà e denominerà dio e ordinerà di essere venerato come figlio di dio, e gli sarà dato il potere di compiere segni e prodigi, con la cui vista circuirà gli uomini perché lo adorino. Ordinerà che il fuoco scenda dal cielo.

Perché Augusto, il "figlio di dio", è descritto come falso profeta?


IL FALSO PROFETA NEL LIBRO DELL'APOCALISSE

La figura di un falso profeta che fa scendere fuoco dal cielo ci è familiare anche dalla famosa visione del capitolo 13 del Libro dell'Apocalisse nel Nuovo Testamento. In questa visione sono descritte due bestie. La prima, che ha sette teste e dieci corna, sale dal mare. Una delle sue teste viene gravemente ferita, ma la ferita guarisce. Tutti gli abitanti della terra la adorano. In seguito "sorge" una seconda bestia: "Vidi poi salire dalla terra un'altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago" (Apocalisse 13,11). Per mezzo di segni e prodigi, tra cui quello di far piovere fuoco dal cielo, la bestia persuade gli abitanti della terra a farsi un'immagine della prima bestia e a adorarla. "Operava grandi prodigi, fino a fare piovere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini" (Apocalisse 13,13). La seconda bestia assomiglia moltissimo alla figura del falso profeta, il "figlio di dio", di Istaspe. Della visione delle due bestie sono state proposte, lungo tutta la storia del cristianesimo, interpretazioni d'ogni genere, ma nessuna finora, sembra, davvero convincente. A mio avviso la chiave per comprendere la visione sta nel rendersi conto che Giovanni, che pare abbia scritto il Libro dell'Apocalisse attorno all'80 d.C., si servì qui di uno scritto più antico, risalente all'inizio del I secolo, durante il regno di Augusto. Nella visione la seconda bestia ha due corna simili a quelle di un agnello e parla come un drago. Questa strana combinazione di drago e corna di agnello può trovare un'adeguata spiegazione nella propaganda sull'origine divina di Augusto. La figura di un capretto o una capra con due corna, il capricorno, svolge un ruolo importante nel mito sulla sua divinità. Il capricorno era il segno del mese in cui Augusto era stato concepito. L'importanza che egli attribuiva a questo segno è fatta risalire da Svetonio a quello che l'astrologo Teogene gli aveva detto quando era giovane:

Durante il suo ritiro in Apollonia, Augusto era salito in compagnia di Agrippa fino all'osservatorio dell'astrologo Teogene; essendo stato predetto un magnifico e quasi incredibile futuro ad Agrippa, che aveva consultato per primo l'astrologo, egli aveva insistito nel tacere i dati relativi alla propria nascita e a non volerli rivelare, per il timore e la vergogna di essere trovato inferiore al compagno. Quando tuttavia alla fine, dopo molte esortazioni, a stento ed esitando li rivelò, Teogene balzò su e si prosternò a adorarlo. In seguito Augusto ebbe tanta fiducia nel proprio destino, da far pubblicare il suo oroscopo e da far coniare una moneta d'argento con inciso il segno del capricorno, sotto il quale era nato.

In effetti il capricorno compare su numerose monete emesse da Augusto. Una di esse, coniata in Spagna, mostra una capra con due corna che regge un globo e, sotto, la scritta "Augustus". Augusto pose il simbolo del capricorno anche su alcune insegne delle legioni romane, il che, come ha spiegato il classicista J.R. Fears, voleva significare che egli regnava con il favore degli dei ed era stato scelto da loro per governare il mondo. Nell'Apocalisse la bestia con due corna d'agnello parla come un drago. Il drago simboleggia il legame di Augusto con il dio Apollo. Dione Cassio afferma che Giulio Cesare scelse Ottaviano Augusto come suo successore sotto l'influenza di una storia narrata da Azia secondo cui lo avrebbe concepito con il dio Apollo:

Vari motivi lo spingevano a ciò: soprattutto il fatto che Azia affermava con piena sicurezza di averlo generato da Apollo, perché, essendosi una volta addormentata nel tempio di questo dio, le era sembrato di avere rapporti con un drago, per cui al momento giusto aveva partorito il bambino.

Svetonio, che racconta anch'egli questa storia nelle Vite dei Cesari, aggiunge che dopo l'episodio nel tempio era apparsa sul corpo di Azia una macchia a forma di drago. Il drago era simbolo dell'epiteto "Pitico", che Apollo si era guadagnato uccidendo, nella grotta di Delfi, Pitone, il mostruoso serpente. La leggenda della nascita miracolosa di Augusto compare per la prima volta in un epigramma di Domizio Marso, poeta e amico dell'imperatore. Il legame di Augusto con il dio si fece ancora più stretto dopo la vittoria di Azio, che avvenne non lontano da un tempio di Apollo. Il poeta Properzio, contemporaneo di Augusto, descrive il dio Apollo in piedi sulla nave di Ottaviano nell'atto di scagliare frecce contro la flotta di Cleopatra. Dopo la vittoria, Augusto fece erigere presso la propria casa sul Palatino uno splendido tempio ad Apollo. Su un colonnato vicino al tempio venne innalzata una statua del dio con le fattezze dell'imperatore, e su monete coniate in Asia minore dopo la battaglia di Azio Augusto fu raffigurato come Apollo. La bestia con due corna d'agnello che parla come un drago è Augusto, che si rappresentava come Apollo. Questo dio era noto per le sue doti profetiche, la cui massima espressione era l'oracolo di Delfi, e doti profetiche furono attribuite anche ad Augusto. L'autore della visione del Libro dell'Apocalisse in realtà controbatte la propaganda augustea: l'imperatore, afferma, non è un vero profeta, ma un falso profeta che parla come un drago. Il drago profetante è Pitone, il mostruoso serpente di Delfi ucciso da Apollo. Se Augusto sfruttò il mito di Apollo per conferirsi la sua divinità, l'autore della visione sfruttò lo stesso mito per rappresentare Augusto come un mostruoso drago. Nella visione delle due bestie il falso profeta persuade tutti gli abitanti della terra a adorare l'immagine della prima bestia (Apocalisse, 13,12). Come spiega diffusamente R.H. Charles, la prima bestia vuole rappresentare l'impero romano. Essa viene ferita gravemente a una delle teste, ma guarisce, così come l'impero romano si riprese e continuò a dominare il mondo dopo l'uccisione di Giulio Cesare. Quindi l'immagine della prima bestia, immagine che il falso profeta persuade tutti gli abitanti della terra a adorare, è la statua rappresentante l'impero romano. A spiegarlo è Svetonio, il quale racconta che Augusto ordinò che accanto alla statua dell'imperatore, nei templi eretti in suo onore, si collocasse una statua della dea Roma, simbolo dell'impero. Augusto era il falso profeta del culto imperiale alla statua di Roma. Nella visione delle due bestie del capitolo 13 dell'Apocalisse e nell'Oracolo di Istaspe si esprime una polemica contro la propaganda che rappresentava Augusto quale sovrano con attributi divini e contro il culto imperiale diffuso al suo tempo. Istaspe critica Augusto e lo accusa di creare un culto in cui è adorato come dio e "figlio di dio", e il Libro dell'Apocalisse attacca il secondo elemento del culto imperiale, quello della dea Roma, simbolo dell'impero.


L'UCCISIONE DEI MESSIA E LA LORO RESURREZIONE

L'Oracolo di Istaspe descrive la venuta di un grande profeta:

All'avvicinarsi della fine dei tempi un grande profeta sarà inviato da Dio a convertire gli uomini alla Sua conoscenza. Ed egli riceverà il potere di fare cose prodigiose. Ogni qual volta gli uomini non lo ascolteranno, egli chiuderà il cielo, e farà sì che trattenga le sue piogge; egli tramuterà l'acqua in sangue [...] e se qualcuno tenterà di nuocergli, dalla sua bocca uscirà un fuoco che lo brucerà. Tramite questi prodigi e poteri egli convertirà molti al culto di dio.

Il secondo re, il "figlio di dio", descritto come falso profeta,

combatterà contro il profeta di Dio e vincerà e lo ucciderà, e lo condannerà a giacere insepolto; ma dopo il terzo giorno egli risusciterà; e mentre tutti guarderanno e si stupiranno, sarà rapito in cielo.

Il falso profeta, il "figlio di dio", è Augusto. Istaspe afferma quindi che Augusto, il falso profeta, ha combattuto contro il vero profeta mandato da Dio e lo ha ucciso. Poi ha impedito che il suo corpo venisse sepolto, ma dopo tre giorni il vero profeta è tornato in vita ed è salito al cielo. Una tradizione parallela si trova nella storia dei due testimoni nel capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse. Gli stessi miracoli attribuiti da Istaspe al profeta di Dio sono attribuiti qui ai due testimoni. E il loro destino assomiglia a quello del profeta:

E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che vengano deposti in un sepolcro. Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio dì vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: "Salite quassù" e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici (Apocalisse 11,7-9, 11-12).

Negli elementi essenziali i due racconti sono simili. La principale differenza è che Istaspe parla di un singolo profeta, mentre il Libro dell'Apocalisse di due testimoni profetanti, rappresentati come due olivi che stanno davanti al Signore di tutta la terra (11,4), una terminologia che è inequivocabilmente quella di Zaccaria 4,11,14: "Quindi gli domandai: "Che significano quei due olivi [...]?". Mi rispose: "[...] sono i due consacrati che assistono il dominatore di tutta la terra"". "Due olivi" e due "consacrati" indicano due messia unti con olio. Il profeta Zaccaria accenna qui ai due leader della sua epoca, l'epoca del ritorno a Sion: il messia regale Zorobabele, figlio di Sealtiel, e il messia sacerdotale Giosuè, figlio di Iozadak. Stando così le cose, si direbbe che i due testimoni dell'Apocalisse siano due capi messianici: un messia regale e un messia sacerdotale. Istaspe dice che il profeta di Dio viene ucciso dal "figlio di dio", che abbiamo identificato in Augusto. Nel Libro dell'Apocalisse (11,7) i due testimoni-messia sono uccisi da una bestia che sale da un abisso (abyssos), anch'essa una definizione di Augusto e del suo esercito. Secondo l'Apocalisse i due testimoni-messia vengono uccisi nel corso di una battaglia per le strade di Gerusalemme. Quando si svolse questa battaglia? Nei primi due versetti del capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse, prima della storia dei due testimoni, si dice:

Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: "Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando. Ma l'atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani".

Questi versetti ci dicono che durante la battaglia in cui i due testimoni furono uccisi, i soldati romani erano penetrati nel cortile del Tempio, ma il Tempio stesso e l'altare si salvarono. Il che ci offre la chiave per datare con precisione l'evento. Il re Erode, che regnava sulla terra di Israele per concessione dei romani, morì nel 4 a.C., e dopo la sua morte scoppiò nel paese una grande rivolta, contro il successore di Erode, Archelao, e l'esercito romano che lo appoggiava. Durante la rivolta i soldati romani entrarono nel cortile del Tempio e ne saccheggiarono il tesoro. Inoltre diedero alle fiamme le camere esterne del cortile, ma non entrarono nel Tempio né nei locali interni in cui era situato l'altare. Tutto ciò corrisponde esattamente ai versetti iniziali del capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse, dove si dice che i pagani calpestarono l'"atrio" del Tempio, ma non il Tempio stesso e l'altare. La rivolta del 4 a.C. fu brutalmente soffocata da Quintilio Varo, governatore di Augusto in Siria. Varo giunse dalla Siria con due legioni e altre forze, crocifisse duemila rivoltosi, e altri vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi. I soldati del suo esercito lasciarono dietro di sé distruzioni e abusarono delle donne. I giudei fecero ricadere la responsabilità della brutale repressione della rivolta e dell'incendio nel cortile del Tempio sull'imperatore romano Augusto. Tale accusa trova espressione in due versetti dell'opera pseudoepigrafa l'Assunzione di Mosè, che descrive la repressione:

Verranno nel loro territorio coorti e un potente re dall'occidente, che li sottometterà e li porterà via prigionieri. Brucerà una parte del loro tempio col fuoco, alcuni li crocifiggerà vicino alla loro città.

Il potente re giunto dall'occidente è Augusto, rappresentato qui come un crudele carnefice, agli occhi dei giudei responsabile delle azioni del suo governatore e dei suoi soldati. Si può capire, quindi, perché Augusto sia ritratto, nelle fonti che abbiamo esaminato, con tanto odio. L'Oracolo di Istaspe parla dell'uccisione del "profeta di Dio" e il Libro dell'Apocalisse di quella di due messia. Come va spiegata la differenza tra le due fonti? Si direbbe che uno dei due capi messianici fosse più importante dell'altro. Istaspe parla soltanto del "profeta di Dio" per creare un'opposizione con il "profeta di menzogne", Augusto. In entrambe le fonti troviamo motivi che ci sono familiari dalla letteratura del Mar Morto. Istaspe descrive la disfatta del falso profeta e del suo esercito a opera della spada di Dio, che scende dal cielo. Tale descrizione corrisponde a quella di Herev-El (la spada di Dio) nel Rotolo della Guerra dei Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre. Nell'Apocalisse troviamo la storia dei due testimoni messianici. Nella letteratura del Mar Morto troviamo due messia: un messia sacerdotale e un messia regale. E' presumibile che la tradizione relativa all'uccisione del profeta o dei messia che trova espressione in queste opere provenisse dai membri della setta di Qumran o da circoli a loro vicini. Si direbbe quindi che i capi messianici delle cui morti parlano queste fonti appartenessero alla comunità di Qumran. Poiché i due capi messianici furono uccisi nel 4 a.C., erano indubbiamente attivi nel periodo precedente, cioè durante il regno di Erode (37-4 a.C.). Come abbiamo visto, tutte e quattro le copie degli inni messianici furono scritte proprio in tale periodo. Si può quindi presumere che uno dei due messia uccisi nel 4 a.C. fosse l'eroe degli inni messianici di Qumran, ma il protagonista di questi inni era il messia regale o il messia sacerdotale? L'eroe degli inni non ha alcun attributo sacerdotale, mentre afferma di sedere su un "trono di potere" e menziona una corona. Possiamo dedurne che si trattasse del messia regale. C'era tuttavia anche l'altro "olivo", un messia sacerdotale.


GUARDANDO IL MESSIA TRAFITTO

Gli inni messianici fanno pensare che per qualche anno i membri della setta di Qumran abbiano creduto che l'età della redenzione fosse giunta. Essi erano convinti che avesse avuto inizio una nuova era in cui il dolore fosse scomparso e dominassero luce e gioia. Ma la realtà si dimostrò diversa. Il loro capo messianico fu ucciso dai soldati romani e il suo corpo venne lasciato insepolto in strada per tre giorni, come quello di un criminale. Non disponiamo di fonti storiche che descrivano i sentimenti dei membri della setta di Qumran al vedere il corpo trafitto del messia giacere per strada. Può aiutarci tuttavia un'analogia storica. Rivolgiamoci alle osservazioni di Gershom Scholem sulla crisi in cui precipitarono i discepoli di Shabbetai Zevi, un leader messianico ebraico del XVII secolo, quando egli abbandonò l'ebraismo per farsi musulmano: i sentimenti dei seguaci del messia di Qumran prima del 4 a.C. dovevano indubbiamente essere simili a quelli dei seguaci di Shabbetai Zevi prima della crisi generata dal suo cambiamento di religione:

Essi dovevano credere in perfetta semplicità che si aprisse una nuova era della storia e che essi stessi avessero già iniziato ad abitare un mondo nuovo e redento. Una tale convinzione non poteva non esercitare un profondo impatto su coloro che la nutrivano: i loro più intimi sentimenti, che li assicuravano della presenza della realtà messianica, parevano del tutto in armonia con il corso esteriore degli eventi.

La crisi scoppiò, per i membri della setta di Qumran, quando gli eventi del 4 a.C. si dimostrarono in totale contraddizione con i loro sentimenti sull'avvento della redenzione. Una situazione analoga è descritta da Gershom Scholem:

Tra i due livelli del dramma della redenzione, quello dell'esperienza soggettiva e quello degli oggettivi fatti storici, appariva per la prima volta una contraddizione. [...] Soprattutto, i "credenti", coloro che rimanevano fedeli all'esperienza interiore, furono costretti a trovare una risposta alla semplice domanda: quale poteva essere il valore di una realtà storica che si era rivelata così amaramente deludente, e come si poteva porre tale realtà in rapporto con le speranze che aveva tradito?

Una risposta a tale domanda si può trovare soprattutto nelle fonti che descrivono la morte del messia: l'Oracolo di Istaspe e il capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse. Da queste fonti possiamo dedurre che i credenti trovarono una chiave fondamentale per comprendere la catastrofe nel Libro di Daniele. Essi interpretarono la visione della quarta bestia nel capitolo 7 di Daniele come una profezia su Augusto e l'impero romano: era l'impero romano sotto Augusto la bestia che divorava e calpestava tutta la terra. Daniele dice che la quarta bestia "muoveva guerra ai santi e li vinceva" (7,21). I credenti interpretarono queste parole come una predizione dello scontro militare tra il messia e i suoi seguaci e i soldati di Augusto. Secondo tale interpretazione la sconfitta dei "santi" (il messia e i suoi seguaci) da parte dell'esercito romano era stata predetta nelle Scritture. Un'altra Scrittura che servì da base alla comprensione del tragico destino del messia fu un versetto di Zaccaria (12,10): "Guarderanno a colui che hanno trafitto", interpretato in riferimento al messia, il cui corpo trafitto venne lasciato in strada per tre giorni perché tutti lo vedessero. Abbiamo osservato nel primo capitolo come il messia di Qumran si appropriasse della descrizione del 2servo sofferente" di Isaia 53,3-4:

Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.

Dopo la morte del messia questi versetti acquisirono indubbiamente un significato del tutto nuovo. Che il corpo del messia fosse stato lasciato insepolto in strada come quello di un criminale poteva ora essere spiegato da questo passo dello stesso capitolo di Isaia:

Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori. (Isaia 53,9,12)

Dopo la morte del messia, insomma, i suoi fedeli crearono un'ideologia "catastrofica". La reiezione del messia, la sua umiliazione e la sua morte furono ritenute predette nelle Scritture e passi necessari del processo di redenzione. I discepoli credettero che dopo tre giorni il messia umiliato e trafitto risuscitasse e fosse destinato a riapparire sulla terra come redentore, vincitore e giudice. Daniele profetizzava che la quarta bestia sarebbe stata distrutta e il regno consegnato al "figlio dell'uomo", che egli descrive seduto su un trono celeste e apparso sulle nubi del cielo. I discepoli e seguaci del messia qumranico credevano che dopo tre giorni egli fosse risorto e salito in cielo su una nube. Ora sedeva in cielo, come egli stesso aveva detto nella sua visione, su un "trono di potere nel concilio angelico". Alla fine sarebbe tornato, scendendo dall'alto con le nubi del cielo, circondato da angeli. Sarebbe allora giunto il tempo della disfatta della quarta bestia, Roma, e il messia avrebbe così realizzato la visione del "figlio dell'uomo" di Daniele.


IL MESSIA DI QUMRAN E GESU'

La data esatta della nascita di Gesù non ci è nota, ma si ritiene che egli sia nato nel 6 a.C., cioè a poca distanza dalla morte del messia di Qumran. Non è pensabile quindi che fra quest'ultimo e Gesù vi siano stati contatti personali. A mio parere, tuttavia, la figura del messia qumranico e l'ideologia messianica a lui connessa esercitarono una profonda influenza su Gesù e sullo sviluppo del messianismo cristiano. Gesù veniva dalla Galilea, e certi aspetti della sua personalità possono essere spiegati con le caratteristiche spirituali dell'ambiente in cui crebbe. Nel suo ruolo di operatore di miracoli e guaritore di malati fa pensare agli hasidim galilei della sua epoca, dediti anch'essi a tali attività. Anche la sua sensibilità morale trova un parallelo nei racconti sugli hasidim galilei e nei detti di Hillel, e le sue parabole sono di un genere usuale per il luogo e il tempo in cui visse. Il messianismo di Gesù tuttavia, l'elemento più importante della sua personalità qual è descritta nel Nuovo Testamento, non è spiegabile nei termini delle tradizioni galilee. Gli hasidim galilei non erano capi messianici, e non esiste una sola tradizione che li associ a personalità del genere. Se vogliamo capire il messianismo di Gesù dobbiamo renderci conto che, in aggiunta ai caratteri religiosi e spirituali che acquisì dal luogo in cui nacque e dall'educazione appresa in gioventù, subì anche l'influenza, negli ultimi anni, di un'altra tradizione religiosa, dalla quale ricevette la sua dottrina messianica. Il mio intento è di dimostrare che l'immagine messianica di Gesù si formò nell'incontro con coloro che tenevano viva la tradizione del messia di Qumran. Non c'è ragione di occuparci qui dei miracoli compiuti da Gesù, delle sue parabole e dei suoi insegnamenti morali. Nulla di tutto ciò ha a che vedere con il retaggio qumranico, bensì, come abbiamo osservato, con le tradizioni galilee e di Hillel. Ciò su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione è la cristologia di Gesù, cioè il suo messianismo quale lo descrivono i Vangeli.


IL SEGRETO MESSIANICO

Dopo avere udito, mentre veniva battezzato da Giovanni, la voce dal cielo, Gesù tenne la conoscenza della propria missione messianica per sé, senza rivelarla a nessuno. La prima occasione in cui la rivelò ai suoi discepoli è raccontata dal Vangelo di Marco (8,27, 29-31):

Interrogava i suoi discepoli dicendo: "E voi chi dite che io sia?". Pietro gli rispose: "Tu sei il Cristo". E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno. E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare.

Questo racconto solleva diversi interrogativi: Gesù si vedeva quale "figlio dell'uomo"? In questo caso perché parlò del "figlio dell'uomo" in terza persona? Poteva prevedere la sua reiezione, la sua morte e la sua risurrezione? Come abbiamo visto, la tendenza dominante negli studi neotestamentari da oltre un secolo è di negare l'autenticità storica di tale racconto. Gesù, secondo questa posizione, non si riteneva il Messia e non era riconosciuto come tale dai suoi discepoli. Non poteva prevedere la sua passione, morte e risurrezione, e tale predizione gli fu attribuita in data posteriore. Nelle parole di R. Bultmann: "La scena della professione di fede messianica di Pietro non costituisce una controprova; al contrario! Essa infatti è un racconto pasquale che Marco proietta all'indietro nella vita di Gesù". Per Bultmann tutte le predizioni di Gesù relative alla sua futura passione e risurrezione sono invenzioni tarde, perché "il giudaismo non conosceva l'idea di un messia o "Figlio dell'uomo" che patisce, muore e risorge". Una visione simile è stata espressa più recentemente da G. Vermes, eminente studiosa dei Rotoli del Mar Morto e del Nuovo Testamento, che scrive: "Né la sofferenza del messia, né la sua morte e risurrezione sembra facessero parte della fede del giudaismo del I secolo". Il nostro studio ha rivelato che questa sentenza corrisponde solo in parte a verità. Essa si applica alla maggioranza dei giudei all'inizio del I secolo d.C., ma non ai discepoli del messia di Qumran. Questo gruppo reagì al trauma dell'anno 4 a.C. creando un modello catastrofico di messianismo basato su versetti della Bibbia. I suoi membri credettero che la sofferenza, morte e risurrezione del messia fossero una necessaria base per il processo di redenzione. In vita il messia di Qumran si era ritratto come una combinazione del "figlio dell'uomo", che siede in cielo su un trono possente, e del "servo sofferente", che si carica di tutti i dolori. Come abbiamo visto, questo messia aveva attribuito a se stesso le parole di Isaia 53: "Disprezzato e reietto dagli uomini". E' una chiara dimostrazione che l'idea di un messia sofferente esisteva già una generazione prima di Gesù. Secondo Istaspe la risurrezione del grande profeta che abbiamo identificato con il messia di Qumran avvenne "dopo il terzo giorno". Come abbiamo osservato, la credenza nella risurrezione del messia dopo tre giorni era strettamente connessa con il fatto che per tre giorni i romani avevano proibito la sepoltura del suo corpo, che venne lasciato in strada perché tutti lo vedessero. Gesù si aspettava che il destino del "figlio dell'uomo" fosse simile a quello del messia di Qumran, e predisse che il "figlio dell'uomo" sarebbe stato ucciso, come era stato ucciso dai soldati romani il messia qumranico. Si aspettava inoltre che dopo tre giorni il "figlio dell'uomo" sarebbe risuscitato, come si credeva che "dopo il terzo giorno" fosse risuscitato il messia di Qumran.


LA NOTTE AL GETSEMANI

La missione messianica di Gesù fu quindi un viaggio verso una sofferenza e una morte conosciute. Secondo l'idea che gli fu trasmessa dai discepoli del messia qumranico, passione e morte del messia erano parte integrante del destino messianico. Farsi carico di una tale missione era naturalmente molto arduo, e il parlare di se stesso in terza persona, come "figlio dell'uomo", sembra rifletterlo. La difficoltà di tale missione è drammaticamente espressa dal racconto dell'ultima notte della vita di Gesù. Dopo l'Ultima Cena, egli si recò con i discepoli nell'orto del Getsemani. Lì cadde in una profonda depressione:

Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate". Poi, andato un po' innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell'ora. E diceva: "Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu". (Marco 14,33-36)

La lotta interiore nell'anima di Gesù era ormai giunta al suo apice. Egli sentiva che era venuto il momento che si compisse la sua missione messianica, che non poteva che significare sofferenza e morte. Poiché la sua volontà di vivere si ribellava a un destino così terribile, pregò il proprio Padre onnipotente di revocare la dura sentenza. Tuttavia si rassegnò a quella che credeva fosse la decisione divina, anteponendo alla propria volontà quella di Dio. Avrebbe quindi seguito le orme del suo predecessore, il "servo sofferente" dei Rotoli del Mar Morto.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:47
11b


UN ALTRO PARACLITO

In questo capitolo vorrei proporre per il messia prima di Gesù un'identità storica. L'argomentazione si baserà su un presupposto accettato dalla maggior parte degli studiosi della letteratura del Mar Morto, anche se non da tutti. Mi riferisco all'identificazione del popolo di Qumran con quello degli esseni, che conosciamo dagli scritti di Giuseppe Flavio e del filosofo giudaico Filone di Alessandria. Benché la correttezza di tale presupposto sia a mio avviso molto probabile, non è un dato indiscutibile. L'esposizione che segue dipende perciò dalla sua attendibilità. Anche l'identità che propongo per il messia di Qumran è solo un'ipotesi. Il carattere frammentario e problematico delle fonti relative alla personalità storica che tento di identificare con questo messia impedisce di essere troppo categorici. Voglio sottolineare, però, che la validità della tesi principale del libro non dipende dall'accettazione dei presupposti di questo capitolo. La mia affermazione per cui la combinazione di divinità e sofferenza, evidente negli inni messianici, influì sull'emergere del cristianesimo, rimane valida, anche non riuscendo a identificare il protagonista degli inni e le precise ragioni storiche della nascita del movimento messianico di cui era a capo. Coloro che rifiutano l'identificazione della setta di Qumran con gli esseni, e negheranno quindi un'identità storica del messia fondata su tale presupposto, dovranno ancora fare i conti con la tesi principale di questo libro.


MENAHEM, IL PREDILETTO DEL RE

Il primo dei due inni messianici inseriti nel Rotolo del Ringraziamento è una sorta di autoritratto dell'eroe messianico. Le traversie del tempo lo hanno danneggiato: alcune parti sono andate perdute e i colori sono sbiaditi. Ma se vogliamo identificare l'eroe messianico, dobbiamo guardare con attenzione ai frammenti di ritratto contenuti nell'inno. Qualche informazione significativa si può trarre osservando come egli descrive la propria vicinanza a Dio e il proprio posto fra gli angeli. L'eroe messianico si ritrae come "il prediletto del re". E aggiunge: "la mia gloria [sarà annoverata] con i figli del re". Si tratta, è chiaro, di espressioni metaforiche: il re, in questo contesto, è Dio, e i figli del re sono gli angeli. Tuttavia, il fatto stesso che vengano usate espressioni del genere richiede una spiegazione: il titolo "il prediletto del re" è insolito per definire un rapporto con Dio, e la definizione degli angeli come figli del re è senza precedenti. Perché l'eroe messianico scelse di usare espressioni così insolite? Non è certo irragionevole supporre che simili metafore riflettano l'esperienza di vita del protagonista degli inni. Forse il capo messianico apparteneva alla corte di un re terreno, alla corte che egli frequentava vi erano persone considerate amici del re, e la cerchia di questi amici includeva anche i figli del re. Un'ulteriore informazione la fornisce la vanagloriosa dichiarazione dell'eroe: "Chi può unirsi a me e così paragonarsi al mio giudizio?". Tali informazioni ci permettono di tracciare una sorta di profilo del capo messianico: presumiamo che fosse amico del re, avesse rapporti con i figli del re, e svolgesse funzioni giudiziarie. La nostra indagine sulla sua identità potrebbe partire da un esame della sua amicizia con il re. Chi era questo re? Re Erode emulava i costumi dei sovrani ellenistici del suo tempo. Come loro, aveva alla sua corte un gruppo di consiglieri e dignitari noti come "amici" o "diletti", alcuni dei quali egli nominò consiglieri dei propri figli. Tali amici fungevano anche da giudici in speciali tribunali da lui istituiti. La fonte delle metafore dell'inno messianico di Qumran potrebbe essere quindi la corte di Erode. Che rapporti aveva Erode con i membri della setta di Qumran? Sappiamo di qualche membro della setta che potrebbe avere frequentato la sua corte? La maggior parte degli studiosi dei Rotoli del Mar Morto accetta la possibilità di identificare la setta di Qumran con gli esseni. Nei suoi scritti Giuseppe Flavio parla della considerazione e del rispetto che Erode nutriva nei loro confronti, in particolare dovuti allo speciale rapporto che il re aveva sviluppato con Menahem l'esseno. Vediamo innanzi tutto che cosa scrive Giuseppe Flavio:

E' bene tuttavia esporre il motivo per cui Erode teneva in onore gli esseni e aveva di loro una considerazione più alta della semplice natura mortale; poiché tale discorso non è fuori luogo in un'opera di storia, dato che illustrerà allo stesso tempo qual era la generale stima che vi era su costoro. Vi era un esseno di nome Manaem [in ebraico Menahem] che per testimonianza di tutti conduceva una vita di grande virtù ed era dotato da Dio della previsione delle cose future. Incontratosi con Erode, ancora fanciullo, che andava dal suo maestro, lo salutò "re dei Giudei". Egli, pensando che non lo conoscesse o che si facesse gioco di lui, gli ricordò quello che era; cioè solo un privato cittadino. E Manaem sorrise gentilmente e gli diede una pacca sulle spalle, dicendo: "Eppure tu regnerai e il tuo dominio sarà felice poiché sei stato giudicato degno da Dio. E ricordati delle carezze di Manaem, di modo che anch'esse siano per te un segno di quanto possa mutare la fortuna. Ottimo, infatti, è questo discorso, se amerai la giustizia e la pietà verso Dio e la moderazione verso i cittadini. Ma io so che tu non sarai così poiché conosco tutta la situazione. Ora tu sarai scelto per una fortuna così felice che non ebbe nessun altro, e avrai una gloria eterna, ma al termine della tua vita, tu dimenticherai la pietà e la giustizia; questo però non può sfuggire a Dio e al termine della tua vita la Sua collera attesterà che Egli si ricorda di queste cose". Sul momento Erode prestò assai poca attenzione a queste parole, perché era sprovvisto di questo genere di speranze; tuttavia man mano che avanzava nella regalità e nella buona fortuna, e quando giunse al massimo del suo potere, mandò a chiamare Manaem e lo interrogò su quanto ancora sarebbe durato il suo regno. Manaem non rispose nulla. Di fronte al silenzio, domandò se avesse ancora dieci anni di regno; l'altro rispose che ne aveva venti e forse trenta, ma non fissò un limite al tempo stabilito. Erode tuttavia restò soddisfatto da questa risposta, e con cortesia congedò Manaem. Da quel tempo seguitò a mantenere gli esseni in grande onore. Mi è parso che fosse a proposito riferire queste cose ai lettori, per quanto possano apparire incredibili, e rivelare ciò che ebbe luogo tra di noi poiché molte di queste persone sono favorite dalla conoscenza di cose divine a motivo della loro virtù.

Questa storia ha certo qualcosa della leggenda, come le altre raccontate da Giuseppe Flavio sulla capacità degli esseni di predire il destino dei sovrani. Inoltre la profezia di Menahem serve qui a dimostrare l'elezione di Erode da parte di Dio. Ma, se non dobbiamo prendere il racconto nella sua interezza come verità letterale, storica, da Giuseppe Flavio veniamo a sapere che Erode stimava gli esseni e li chiamava vicino a sé, e intratteneva stretti rapporti di amicizia con Menahem l'esseno. Sulla base del suo racconto possiamo identificare "l'amico del re", il protagonista degli inni messianici, con questo Menahem. Il favore che Erode dimostrava alla setta essena guidata da Menahem va visto alla luce della sua politica verso la società giudaica del tempo. Egli apparteneva a una famiglia di estrazione idumea e, in quanto tale, priva di radici nella comunità giudaica. Era stato nominato re di Giudea dal senato romano e governava grazie al favore dei romani. Estromise dal potere gli asmonei, che dominavano in Israele da oltre un secolo. I sadducei, l'aristocrazia sacerdotale che aveva appoggiato gli asmonei, gli erano ostili. Per trovare un sostegno per se stesso e il suo regime, Erode doveva quindi rivolgersi ad altri elementi della società giudaica. Un sostegno lo trovò in circoli farisei moderati capeggiati da Hillel e negli ebrei della diaspora. Gli esseni, gli uomini della setta di Qumran, erano stati perseguitati dagli asmonei, ed erano quindi anch'essi, per Erode, possibili alleati. Il secondo inno messianico, come abbiamo visto, descrive un meraviglioso periodo in cui malvagità e oppressione sono scomparsi dalla terra sostituiti da luce e gioia, pace e conciliazione:

[... la malvagità perisce ...]
[l'oppressore cessa con indignazione]
appare la luce, e la gioia fiorisce];
[sparisce] il dolore, e il lamento vola via; appare la pace, cessa il terrore.

Tale descrizione sembra riflettere il profondo mutamento prodottosi nella posizione della setta di Qumran all'epoca di Erode. Dal punto di vista degli uomini di Qumran il destino che s'era abbattuto sui loro nemici asmonei era un segno dell'inizio della redenzione. I sovrani asmonei erano stati loro ostili, li avevano tiranneggiati, tentando addirittura di uccidere il fondatore della loro setta, il "maestro di giustizia". Sotto il dominio asmoneo essi avevano dovuto abbandonare il loro luogo di residenza e stabilirsi nella zona desertica presso il Mar Morto. Erode, che aveva scacciato gli asmonei dal potere, aveva rispetto per gli esseni e soprattutto per il loro leader, Menahem; erano loro, ora, a godere di onore e prestigio. Su tale sfondo si può comprendere il significato di queste parole del secondo inno:

sollevando quelli che inciampano
ma umiliando le alte assemblee degli eternamente superbi.

I superbi umiliati sono i membri dell'aristocrazia asmonea, e quelli che inciampano e vengono sollevati i membri della setta di Qumran. Il rapporto di Menahem con Roma e la sua cultura era caratterizzato da duplicità. Da un lato, come vedremo diffusamente nell'appendice B, egli subiva l'influenza della cultura romana dell'epoca. Dall'altro, come tutti i membri della sua comunità, nutriva un odio profondo per i romani, in cui gli esseni vedevano dei conquistatori e oppressori. Il fatto che Menahem fosse uno degli "amici" di Erode, sovrano per concessione dei romani, faceva sì che egli vivesse una doppia esistenza. Ma questo modo di vivere non era una novità per lui e i suoi seguaci. Nel Manuale di Disciplina di Qumran, descrizione delle leggi e norme che regolavano il comportamento dei membri della setta, si legge:

Queste sono le norme per l'istruttore in quei tempi riguardo al suo amare e odiare: odio eterno per gli uomini di perdizione in spirito di segretezza [...] e umiltà davanti a colui che domina su di lui; per essere un uomo pieno di zelo per lo statuto e per il suo tempo, per il giorno della vendetta.

Sono istruzioni per condurre una doppia vita! Un membro della setta deve comportarsi umilmente, "come un servo davanti al suo padrone", verso gli "uomini di perdizione" che "dominano su di lui", ma nel segreto del cuore deve odiarli e attendere il giorno della vendetta, quando muoverà loro guerra aperta. Il pacifismo degli esseni era solo provvisorio: avrebbe avuto termine il giorno della vendetta. Come abbiamo cercato di mostrare con la ricostruzione immaginaria all'inizio del libro, tale ingiunzione generale a condurre una doppia esistenza trovava, sembra, speciale esemplificazione ed era praticata a un grado eccezionale nella vita dell'"amico del re", Menahem.


LA SCOMUNICA

La morte di Erode il 4 a.C. e la rivolta che scoppiò allora nel paese permisero a Menahem di cessare di condurre una doppia vita e di rivelare in pubblico il suo segreto messianico. Le circostanze in cui il segreto fu rivelato ci sono note da fonti rabbiniche. La più antica raccolta di questa letteratura, la Mishnah, menziona cinque coppie di capi religiosi che si succedettero nel periodo compreso fra la rivolta asmonea (167 a.C.) e l'epoca di Erode. La coppia nominata per il periodo erodiano è quella di Hillel e Menahem. La Mishnah aggiunge: "Menahem uscì, ed entrò Shammai". Che cosa dicono queste fonti del Menahem attivo all'epoca di Erode, e perché "uscì"? Egli è indubbiamente una figura eccezionale nella letteratura rabbinica. In tutti i voluminosi scritti che la compongono non si trova una sola legge o affermazione a suo nome. Il trattato Avot include un elenco di saggi in ordine di generazione, ma il nome Menahem non vi compare. Si direbbe quindi che egli non fosse uno dei saggi farisei, ma appartenesse a una setta d'opposizione. Per questa ragione molti studiosi, dal XVI secolo a oggi, hanno identificato il Menahem di cui parlano le fonti rabbiniche con il Menahem l'esseno di Giuseppe Flavio. Le fonti rabbiniche dicono che Menahem era membro della corte del re, il che corrisponde a quanto dice su Menahem l'esseno Giuseppe Flavio. Il Talmud di Gerusalemme cita dalla Mishnah l'affermazione "Menahem uscì" e chiede: "Dove andò?". La risposta è:

Alcuni dicono che passò da un modo di condursi a un altro
e alcuni dicono che si voltò e se ne andò;
egli e ottanta coppie di studiosi della Torah rivestiti di
tirki [armatura] d'oro,
i cui volti si fecero neri come vasi
perché essi dissero loro,
"Scrivete sulle corna di un toro che non avete parte nel Dio di Israele".

Tale descrizione è una fotografia verbale di un evento straordinario. Menahem è attorniato da centosessanta discepoli rivestiti di armature d'oro, cioè luccicanti. Di fronte a loro è schierato un altro gruppo, che li scomunica. Costoro dicono a Menahem e ai suoi discepoli che sono espulsi dal popolo giudaico: "Scrivete sulle corna di un toro che non avete parte nel Dio di Israele". Menahem non risponde, ma si volta ed esce con i discepoli in silenzio e nel disonore, i volti "neri come vasi". In questo brano i discepoli di Menahem indossano cotte d'armi. All'epoca in cui fu scomunicato, Menahem era a capo di un gruppo militare con ambizioni rivoluzionarie. Vista l'amicizia che lo legava a Erode, è difficile credere che egli avrebbe preso parte a una sollevazione finché il re fosse stato in vita. E' più probabile che l'evento narrato nel Talmud di Gerusalemme sia connesso con la rivolta che scoppiò dopo la morte di Erode nel 4 a.C. Perché all'epoca della rivolta Menahem fu scomunicato? L'unica menzione di Menahem nella Mishnah si trova nel capitolo 2 del trattato Hagiga. Questo capitolo si apre con una famosa proibizione a indagare, specie in pubblico, su certe aree segrete del sapere
religioso:

I gradi proibiti non possono essere esposti di fronte a tre persone,
né la storia della creazione di fronte a due,
né il capitolo del carro di fronte a uno solo,
a meno che egli non sia un Saggio che comprende il suo proprio sapere.
Chiunque rivolge la mente a quattro cose,
sarebbe meglio se non fosse venuto al mondo:
ciò che è sopra,
ciò che è sotto,
ciò che era prima
e ciò che sarà dopo.
E chiunque non si dà pensiero dell'onore del suo Creatore, sarebbe meglio per lui se non fosse venuto al mondo.

Questo brano vieta assolutamente di occuparsi di certi campi del sapere, di "ciò che è sopra, ciò che è sotto, ciò che era prima e ciò che sarà dopo", e pone dei limiti alla discussione pubblica sui segreti della creazione e al tentativo di descrivere la sede di Dio in cielo, "il capitolo del carro". La Mishnah termina con una dura condanna di chiunque manchi di riguardo all'onore di Dio. Gli studiosi hanno avuto difficoltà a capire come questo discorso s'inquadri nel trattato Hagiga. Ogni trattato si occupa di un certo argomento, e l'Hagiga di questioni connesse alle cerimonie che si svolgevano nel Tempio durante le festività. Il divieto di mancare di rispetto all'onore di Dio occupandosi dei segreti della creazione o della sede di Dio in cielo non ha rapporto con tale argomento. La soluzione di questo problema, che tormenta i commentatori della Mishnah da secoli, sta a mio parere nella figura di Menahem.
Significativamente, l'unica menzione di Menahem nella Mishnah compare subito dopo le osservazioni sull'iniquità di chi manca di rispetto all'onore di Dio. Il protagonista degli inni messianici, che abbiamo identificato con Menahem, si descrive seduto in cielo su un "trono di potere" nel mezzo di un "concilio" di angeli. E osa addirittura chiedere: "Chi è come me fra gli angeli?". Non c'è dubbio che, dal punto di vista dei Saggi, proprio a lui si applicasse il monito: "chiunque non si dà pensiero dell'onore del suo Creatore, sarebbe meglio per lui se non fosse venuto al mondo". Le parole sull'iniquità di chi manca di rispetto all'onore di Dio furono incluse nel trattato Hagiga per spiegare l'"uscita" di Menahem. Egli "uscì" perché aveva mancato di riguardo all'onore del suo Creatore. Il che spiega anche l'osservazione del Talmud secondo cui Menahem "se ne andò per cattivi sentieri". Il racconto della scomunica che leggiamo nel Talmud di Gerusalemme diviene ora più chiaro. Durante il regno di Erode, Menahem non poteva dichiarare in pubblico le sue aspirazioni messianiche, perché sarebbe stata considerata una ribellione al re, ma dopo la morte di Erode pensò che il momento di proclamare pubblicamente il suo messianismo fosse giunto, così come il momento della guerra escatologica "dei Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre", per la quale lui e i suoi discepoli si preparavano da tanti anni. Menahem avrebbe voluto che, in questa guerra, i Saggi farisei si schierassero al suo fianco, cosa che corrispondeva al desiderio prevalente allora nella setta di cercare la collaborazione del popolo di Israele nella sua interezza. Quindi, alla testa dei discepoli rivestiti di armature, si presentò ai farisei e rivelò loro le sue aspirazioni messianiche e i suoi piani militari. E, forse per dare maggior forza alle proprie pretese messianiche, descrisse in pubblico l'esperienza mistica che aveva vissuto, di sedere in cielo su un "trono di potere". Quello che fino allora era stato un "segreto messianico" custodito all'interno della cerchia chiusa della setta qumranica venne pubblicamente proclamato. Ma la speranza di Menahem andò delusa. I farisei lo respinsero e non accettarono le sue pretese messianiche. Giudicarono la sua affermazione di essersi seduto in cielo su "un trono di potere" blasfema, e perciò scomunicarono lui e i suoi discepoli, dichiarando che non avevano "parte nel Dio di Israele". Sotto il peso della delusione, Menahem piombò nel silenzio e non rispose. Si voltò e se ne andò con vergogna insieme ai discepoli. Nel Midrash al Cantico dei cantici la storia dell'uscita di Menahem inizia così: "Ai giorni di Menahem e Hillel, quando ci fu una disputa fra loro e Menahem uscì". Hillel guidava il gruppo dei Saggi da cui Menahem fu scomunicato. Il confronto tra le figure di Hillel e Menahem, che vissero e operarono nello stesso periodo, è istruttivo. Hillel era il capo dei farisei, e Menahem quello degli esseni. Sorprendentemente, tra i due c'è un elemento di somiglianza. Abbiamo visto come Menahem descrivesse la sua grande vicinanza a Dio e non si facesse scrupolo di esprimere la propria posizione privilegiata parafrasando un versetto della Bibbia che fa riferimento a Dio: "Chi è come me fra gli angeli?". Anche Hillel, cosa degna di nota, usò per definire la propria condizione passi della Bibbia che fanno riferimento a Dio. Applicò a se stesso le parole di Esodo 20,24: "In ogni luogo dove io vorrò ricordare il mio nome, verrò a te e ti benedirò" e un passo dei Salmi: "Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell'alto e si china a guardare nei cieli e sulla terra?". A giudicare dalle apparenze, la sua audacia non era minore di quella di Menahem. Perché, allora, Hillel e i suoi colleghi lo scomunicarono? Oltre alle somiglianze, tra Menahem e Hillel c'era una significativa differenza. Dopo l'esperienza mistica che aveva vissuto, Menahem si considerò elevato sopra gli altri. Come indica la sua affermazione, "[Il mio] deside[rio] non è della carne", non si riteneva più un essere di carne e ossa: una negazione della fisicità in sintonia con il suo ritrarsi seduto in cielo su un "trono di potere" nella congregazione degli angeli. Egli era una figura messianica che rivendicava uno status semidivino. Questa semidivinità lo distingueva da tutti gli altri esseri umani ed era a fondamento delle sue pretese messianiche. La figura di Menahem è estremamente affine a quella del leader settario descritto da Gershom Scholem:

Nella storia della religione incontriamo spesso tipi di individui noti come "pneumatici" o "spiritualisti". (...] Questi termini non designavano semplicemente chiunque, nel corso della vita, potesse avere avuto occasione di essere "mosso dallo spirito"; si applicavano invece solo a quei pochi che dimoravano nel "palazzo del re", che vivevano cioè in costante comunicazione con un regno spirituale attraverso le cui porte erano passati. (...] Uno così favorito non era più considerato per certi versi soggetto alle leggi della realtà di tutti i giorni: aveva realizzato dentro di sé il mondo nascosto della luce divina. Naturalmente, tipi spiritualistici di questo genere hanno sempre ritenuto di costituire un gruppo a parte, da cui lo speciale senso di "superiorità" che li caratterizza. [...] Abbiamo qui, insomma, tutti i prerequisiti dell'inclinazione settaria: la setta, infatti, serve agli illuminati sia come punto di riunione dei loro simili sia come rifugio dall'incomprensione delle masse carnali e ottenebrate.

Hillel, invece, non nutriva pretese messianiche. La sua audacia spirituale era frutto della consapevolezza di ciò che la creazione a immagine di Dio degli esseri umani implicava. A indicarlo è la storia seguente:

Quando Hillel andava in un posto, la gente gli chiedeva: "Dove stai andando?"
"Sto andando ad adempiere a un comandamento."
"Quale comandamento, Hillel?"
"Sto andando alla latrina."
"Ma questo è un comandamento?"
Egli rispondeva: "Sì, lo è, perché il corpo non si corrompa".

O ancora:

"Dove stai andando, Hillel?"
"Sto andando ad adempiere a un comandamento."
"Quale comandamento, Hillel?"
"Sto andando ai bagni."
"Ma questo è un comandamento?"
Egli rispondeva: "Sì, lo è, per pulire il corpo. E sappiate, allora, che questo è un fatto, perché se il governo dà una pensione annua al funzionario incaricato di lucidare e strofinare le statue che stanno nei palazzi dei re e se, ancora di più, egli è elevato al rango dei grandi uomini del regno, a maggior ragione è così per quanti di noi sono stati creati a immagine e somiglianza".

Nella visione di Hillel gli esseri umani dovevano il loro elevato status al fatto di essere stati creati a immagine di Dio. Il messia di Qumran rifiutava la propria fisicità dicendo: "[Il mio] deside[rio] non è della carne"; Hillel, invece, accettava il corpo e i suoi bisogni. Se il fondamento della dignità umana era il corpo fisico a immagine di Dio, ciò si applicava ovviamente a tutti senza eccezione: Hillel, quindi, non rivendicò mai una qualche speciale posizione rispetto agli altri. Alle sue parole era sotteso il culto delle immagini dell'imperatore romano, cioè il culto imperiale che stava emergendo all'epoca di Augusto e di cui Erode era stato sostenitore e diffusore. Sia Hillel sia Menahem riflettevano lo spirito del tempo, ma con una differenza decisiva. Il messia, sotto l'influenza della propaganda augustea, si appropriò del concetto di un redentore dagli attributi divini. Hillel, invece, reagì al culto imperiale sottolineando il principio che gli esseri umani sono creati a immagine del divino. Ogni persona, insegnava, è parzialmente divina, perché è fatta a immagine di Dio. Cogliendo la differenza tra i punti di vista di Hillel e Menahem, lo sfondo su cui avvenne la scomunica di quest'ultimo diviene chiaro. Menahem sosteneva di essere stato elevato al di sopra del resto dell'umanità, e che la sua natura fisica era stata eliminata. Si descriveva seduto sul trono di Dio in cielo. Per Hillel e i suoi colleghi, questo era un affronto all'onore di Dio, un empio tentativo di far svanire la distinzione fra creatore e creatura. Menahem, per loro, era uno che "non si dà pensiero dell'onore del suo Creatore", per cui "sarebbe meglio per lui se non fosse venuto al mondo". Hillel e i suoi colleghi non avevano quindi altra scelta che scomunicare Menahem e i suoi discepoli rivestiti di scintillanti armature.


LA RIVOLTA E L'UCCISIONE DI MENAHEM

Le fonti talmudiche non parlano delle azioni militari di Menahem e dei suoi centosessanta discepoli. Giuseppe Flavio, però, racconta che fra coloro che presero parte alla rivolta vi erano persone vicine al re Erode; che vi partecipasse Menahem, "l'amico del re", non è quindi da escludere. Il suo ruolo di capo messianico corrisponde a ciò che sappiamo dei capi della rivolta:

La rivolta giudaica dopo la morte di Erode non ebbe un solo capo né un comando unificato. Fu essenzialmente una serie di sollevazioni spontanee che si produssero indipendentemente l'una dall'altra in varie parti del paese. [...] I capi di queste sollevazioni [...] assunsero titoli regali. Si può ipotizzare che tale fenomeno fosse legato ad aspettative escatologiche, suscettibili di portare in primo piano singole figure messianiche.

I semi della rivolta erano già stati gettati sul finire della vita di Erode. Quando il re era sofferente e vicino a morire, due dotti farisei di Gerusalemme, Giuda e Mattatia, incitarono i loro discepoli a rimuovere l'aquila d'oro fatta collocare dal sovrano sulla porta del Tempio: la legge giudaica, infatti, proibiva le immagini di creature viventi, ma Erode aveva voluto compiacere i romani, per i quali era un simbolo importante. In questa opposizione va visto quindi un misto di fanatismo politico e religioso. Quando corse voce che Erode era morto, i discepoli di Giuda e Mattatia si recarono alla porta del Tempio armati di asce e la distrussero. La voce, però, era falsa: Erode non era ancora morto e, quando seppe della distruzione dell'aquila, ordinò che Mattatia e alcuni suoi discepoli fossero bruciati. Erode morì poco dopo, e a succedergli sul trono fu il figlio Archelao. Era la festività di Pasqua, e si erano radunati a Gerusalemme migliaia di pellegrini. I discepoli di Mattatia e Giuda li aizzarono contro Archelao. Il nuovo re scagliò contro la folla la sua cavalleria, e tremila persone furono uccise. Quando, dopo la festività, Archelao partì per Roma, la rivolta scoppiò in tutta la sua forza. I rivoltosi si scagliarono contro i sostenitori di Archelao e i soldati romani asserragliati nella Torre di Fasael, presso il palazzo reale. I soldati uscirono in massa dalla torre e assalirono i ribelli. Questi ultimi salirono sui tetti delle camere del Tempio, da dove lanciarono contro i romani pietre e proiettili. I soldati romani reagirono appiccando il fuoco alle camere. L'incendio divampò immediatamente, e in esso morirono molti ribelli. Allora i romani entrarono nel cortile del Tempio e saccheggiarono il tesoro. E' questo il retroterra di ciò che si legge all'inizio del capitolo 11 del Libro dell'Apocalisse: "Ma l'atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani". E i due testimoni, i due "olivi", che compaiono poco più avanti nello stesso capitolo?

E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città [...] dove appunto il loro Signore fu crocifisso(Apocalisse 11,7-8).

I corpi dei due testimoni, due capi messianici uccisi dai soldati romani, giacciono per strada a Gerusalemme. Di questi due testimoni messianici è scritto nello stesso capitolo dell'Apocalisse: "Questi sono i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra" (Apocalisse 11,4). Uno di essi era probabilmente Menahem.


IL PARACLITO

Abbiamo visto che la vocazione messianica di Gesù reca dall'inizio alla fine l'impronta del messianismo di Menahem. In queste pagine dimostrerò che nel Vangelo di Giovanni, in particolare, si conserva una tradizione che riflette la linea di continuità da Menahem a Gesù. Tale tradizione è il misterioso concetto di Paraclito. Secondo il Vangelo di Giovanni, al momento dell'Ultima Cena Gesù promette ai suoi discepoli che chiederà al Padre, cioè a Dio, di inviare loro un altro Paraclito. Egli, definito anche "Spirito santo" e "Spirito di verità", li guiderà alla verità e mostrerà loro "le cose future". Inoltre, "convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio". Sulla base di tali affermazioni, il Paraclito può essere definito un maestro, un profeta che predice il futuro e un rivelatore di verità. La sua comparsa, aggiunge Gesù ai discepoli, avverrà solo se e quando egli avrà lasciato il mondo, dal che possiamo concludere che Gesù vedeva in questa prodigiosa figura uno che l'avrebbe sostituito. Qui sorgono due interrogativi: perché tale prodigiosa figura è chiamata il Paraclito? Secondo Giovanni (14,16), inoltre, Gesù definì tale figura un altro Paraclito; sembra quindi che considerasse se stesso un Paraclito: perché Gesù si sarebbe definito così? Prendiamo in esame, innanzi tutto, il significato che aveva il termine paraclito all'epoca in cui fu scritto il Vangelo. Il suo primo significato era connesso con le corti di giustizia. Dalle fonti greche e dalla letteratura rabbinica si evince che il paraclito era l'avvocato difensore nei processi, ma nulla, nelle descrizioni che delle sue funzioni offre il Vangelo di Giovanni, fa pensare a un ruolo giudiziario del genere. In antiche traduzioni della Bibbia il termine paraclito e i verbi a esso connessi traducono il verbo ebraico nahem (consolare) e i sostantivi menahem, menahemim (consolatore, consolatori). Per questo i Padri della Chiesa descrissero il Paraclito come uno che consola gli afflitti. Neanche tale interpretazione, però, concorda con la figura descritta nel Vangelo di Giovanni: la consolazione degli afflitti non rientra tra le funzioni del Paraclito elencate dall'evangelista. Il tentativo di trovare analogie gnostiche con questa figurate è anch'esso poco convincente. La scoperta dei Rotoli del Mar Morto, tuttavia, ha gettato sul Paraclito nuova luce. Il Vangelo di Giovanni definisce il Paraclito "lo spirito di verità" (14,17), un'espressione sulla cui origine ebraica gli studiosi hanno attirato l'attenzione ancor prima della scoperta dei Rotoli. Da questi ultimi è risultato evidente che lo "spirito di verità" era un concetto centrale nella teologia del popolo di Qumran: rappresentava il polo positivo nella visione dualistica qumranica di luce e tenebre, verità e falsità. Numerosi studiosi hanno pensato quindi che la figura del Paraclito in Giovanni sia strettamente legata alla filosofia dei Rotoli del Mar Morto. Alla luce delle conclusioni cui siamo giunti in questo libro, il nesso tra la figura del Paraclito e gli esseni acquista un rilievo ancora maggiore. Come abbiamo visto, in antiche traduzioni della Bibbia il termine paraclito rende l'ebraico menahem. "Paraclito", nel Vangelo di Giovanni, traduce quindi a mio avviso il nome del messia esseno, Menahem. Come sappiamo, il nome di Giulio Cesare, primo reggitore dell'impero romano, divenne il titolo degli imperatori che gli succedettero, chiamati tutti "cesare". Allo stesso modo il nome di Menahem, primo messia giudaico, giunse a rappresentare il messia in quanto tale. L'idea che il nome del messia sia "Menahem" è documentata nella letteratura rabbinica. La tradizione del Paraclito nel Vangelo di Giovanni costituisce una manifestazione cristiana di tale convenzione. Quando Gesù dice che il Padre invierà un altro Paraclito, rivela che egli stesso è un Paraclito. In tali parole è riflessa l'idea che egli portava avanti la tradizione di Menahem ed era il suo successore. Quando egli se ne andrà, promette Gesù, Dio invierà un altro Paraclito, cioè un altro Menahem. Questo Paraclito sarà una sua copia e adempierà ai compiti cui egli ha adempiuto in vita. La tradizione del Paraclito nel Vangelo di Giovanni esprime il concetto unico di una catena di redentori. In tale tradizione trova succinta espressione la tesi principale di questo libro: Gesù era l'erede e successore del messia di Qumran. Secondo il Vangelo di Giovanni, Gesù parlò del Paraclito durante l'Ultima Cena. Essa, secondo la tradizione cristiana, si tenne sul monte Sion a Gerusalemme, proprio dove Menahem l'esseno aveva vissuto e operato. Sembra che la "sala al piano superiore" che la ospitò appartenesse a uno degli esseni rimasti a Gerusalemme dopo la morte del loro capo. Anche le parole di Gesù all'Ultima Cena dimostrano lo stretto rapporto che esisteva fra lui e Menahem. Gesù vedeva in se stesso il messia. Egli prevedeva la propria passione e la propria morte, e questa visione di reiezione, morte e risurrezione si basava sulla vita e sulla morte del suo predecessore. Possiamo dire quindi che Gesù era davvero "un altro" Paraclito, un secondo Menahem.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:48
12 - Jurgen Becker, La resurrezione dei morti nel cristianesimo primitivo (Paideia 1991)


BATTESIMO E RESURREZIONE

I. AFFERMAZIONI SUL BATTESIMO CON SENSO SALVIFICO RIFERITO AL PRESENTE

Con la soluzione paolina alla questione del destino dei cristiani defunti in I Thess 4, non viene certamente presentata l'unica possibilità allora esistente di approntare i mezzi per togliere a questo problema il suo effetto di minaccia nei confronti della fede e della speranza. E' probabile piuttosto che, prendendo le mosse da una determinata concezione della teologia battesimale, indipendentemente e parallelamente a Paolo, sia stata presa anche un'altra strada per dare fondamento a speranza e resurrezione: partendo cioè dall'ipotesi che nel battesimo si verificasse il "morire insieme" e "risuscitare insieme" con Cristo. Tanto la storia dell'interpretazione del battesimo in generale, quanto proprio gli inizi di questa speciale teologia battesimale non sono facilmente accertabili, dato che lo storico non può partire da prove testuali comparativamente sicure come I Thess 4,13 ss. Le seguenti affermazioni contengono perciò in misura maggiore una costruzione di carattere ipotetico. Il necessario livello di ipoteticità è viceversa ricompensato dalla meta raggiunta. Chi in pochi punti della storia del cristianesimo primitivo non trova il coraggio per ipotesi di questo tipo, spesso deve rinunciare del tutto a spiegazioni, fermarsi all'ambito del frammentario e prescindere appunto anche da un'interpretazione globale dei fenomeni. Se nel battesimo si verifica la partecipazione soteriologia alla morte e resurrezione di Cristo, allora l'indicativo della salvezza, cioè lo stato di salvezza dei cristiani espresso al presente, viene con ciò manifestato in modo accentuato. La possibilità di un'affermazione di salvezza escatologica al presente, così marcata al momento del battesimo, da un lato presuppone - il che non dovrebbe essere contestato - che ci si trovi nell'ambito di un influsso diretto o indiretto delle religioni misteriche ellenistiche, dal momento che in esse la partecipazione esperimentata nel culto al destino della divinità è in effetti l'elemento fondamentale del trasferimento della salvezza al presente. D'altra parte, per poter comprendere tali affermazioni, devono naturalmente verificarsi anche premesse storico-teologiche di storia del cristianesimo. Se, per seguire questa connessione, si indaga su acuite affermazioni di salvezza al presente all'atto del battesimo, e quindi sull'interpretazione della situazione ecclesiale, si incontra una serie di espressioni formulari ben definibili, la cui radice più antica si trova probabilmente nella teologia siriaco-antiochena e le cui ramificazioni conducono presumibilmente soprattutto a Corinto. Nel periodo paolino della storia comunitaria antiochena l'unità della comunità "in Cristo" era evidentemente intesa come fattore livellante della divisione, fino ad allora fondamentale sotto il profilo della storia della salvezza, tra giudei e pagani. Con ciò la via di salvezza della legge come norma divina fondamentale per tutta quanta la storia è stata abrogata: l'essere in Cristo ha ora una qualità escatologica tale, che la legge, insieme con la sua validità, è revocata (cfr. Gal 2,16a; 3,28a; 5,6; 6,15). Lo stato di salvezza escatologico, che viene sottolineato come presente, nel suo aspetto caratteristico di fondamento causale per l'abrogazione della legge, acquista importanza specialmente là dove "in Cristo" viene inteso come "nuova creazione" come in Gal 6,15. Ci si dovrà chiedere, in effetti, che cosa un'affermazione del genere lasci ancora alla dimensione della speranza. La risposta a ciò dovrà venire in rapporto all'attesa imminente della parusia come è testimoniata in I Thess 1,9 s. anche proprio per il periodo antiocheno di Paolo: che cioè al compimento, in sostanza, manca soltanto la diretta presenza del Signore che viene. Forse, a questo proposito, la consapevolezza della situazione escatologica nell'Antiochia antica veniva dopo tutto formulata solo riguardo all'abrogazione della legge. E' possibile però che anche qui si sia già andati oltre. Ad ogni modo, per il periodo della primitiva comunità di Corinto si dovrà probabilmente constatare che già allora, in relazione a battesimo - Spirito - corpo di Cristo, s'era largamente diffusa non solo la revoca dell'opposizione tra giudei e pagani, ma, oltre a questa differenziazione a livello di storia della salvezza, anche quella sociologica tra schiavi e padroni, come pure infine quella creaturale tra uomo e donna, ritenute tutte escatologicamente sorpassate nella comunità cristiana (I Cor 12,12 s.; 7,19; 11,4 s.; cfr. Col 3,11). Comunque, per coloro ai quali - come in I Cor 4,8 - viene riconosciuta in modo così evidente la consapevolezza del compimento escatologico, tali affermazioni risultano calzanti. In base a questo risultato parziale, si può ora prendere in considerazione la più vasta tradizione chiusa riguardante questo contesto, caratteristica, fra l'altro, dell'ambiente di Corinto. Si trova in Gal 3,26-28 e dice:

Tutti voi siete figli in Cristo Gesù.
Perché quanti siete stati battezzati in Cristo
vi siete rivestiti di Cristo.
Non c'è dunque né giudeo né greco,
né schiavo né libero,
né uomo né donna.
Poiché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù.

Il battesimo prende quasi l'aspetto di fusione identificatrice con Cristo. Il "rivestire Cristo" è espressione gravida di simbolismo per l'unione con il Signore, nella quale tendenzialmente soggetto e oggetto non sono più divisi in modo inequivocabile. La visuale delle religioni misteriche ellenistiche palesa qui la sua parentela spirituale sotto il profilo storico-religioso. Da notare che qui di Cristo non viene considerato il suo destino di morte, egli è invece inteso come il Figlio innalzato e come rappresentante della nuova creazione. I membri della comunità sono figli in base alla partecipazione alla sua qualità di figlio, come aiuta a spiegare il motivo di fondo della formula di missione che viene elaborato immediatamente dopo: "Dio inviò suo figlio, nato da una donna, ... affinché noi ottenessimo l'adozione a figli" (Gal 4,4 s.). Questi figli sono quelli che posseggono lo Spirito, che gridano "Abba!" (4,6). Che qui si tratti di un contesto concluso, a livello di storia della tradizione, lo dimostra Rom 8,12 ss. La qualità di figlio per i cristiani è costituita dunque dal "rivestire Cristo". La realizzazione di questo simbolo sta nell'unità indivisibile dei cristiani muniti dello Spirito con il pneuma celeste dell'Innalzato. Essere spiritualmente tutt'uno con il Cristo celeste, significa nel contempo avere accesso immediato a Dio. Così si è dispensati in modo molto reale dai vincoli relazionali esistenti, propri di questo mondo. Ora non ci si deve più sentire nella condizione storico-salvifica di giudaismo e paganesimo, in quella sociologica di schiavitù e padronato e in quella creaturale di virilità e femminilità. La nuova unione in Cristo esclude una tale ricaduta nella vecchia creazione. In verità manca solo un'accentuazione unilaterale, la tendenza cioè a sottolineare la piena identificazione ed il relativo appello a disprezzare in modo apodittico i rapporti tipici di questo mondo, e si è molto vicini agli abusi di Corinto.


2. RISUSCITATI CON CRISTO

Delle condizioni proprie di questo mondo fa parte, proprio nell'ambito dell'ellenismo, l'essere soggetti alla transitorietà ed alla morte. Cosa significhi il superamento soteriologico di morte e transitorietà nel contesto or ora descritto, può essere dimostrato anzi tutto sulla base della lettera deuteropaolina ai Colossesi. Per respingere l'erronea dottrina a Colossi, la cui discussione in questa sede dev'essere tralasciata, lo sconosciuto discepolo di Paolo scrive: "In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità ed è in lui che voi partecipate a questa pienezza Egli è il capo di ogni principato e potestà. In lui siete stati circoncisi di una circoncisione che non viene da mano d'uomo. Infatti con questa circoncisione di Cristo vi siete spogliati del vostro corpo di carne (come di un vestito). Nel battesimo siete sepolti con lui, in lui siete pure (insieme) con (lui) risorti per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Voi eravate morti a causa dei vostri peccati e a causa dell'incirconcisione della vostra carne, (ma) Dio vi ha risuscitati insieme con lui alla vita e vi ha perdonato tutti i vostri peccati" (Col 2,9-13). Dopo queste affermazioni la resurrezione come partecipazione alla signoria di Cristo è già avvenuta. La rimozione dalle condizioni di questo mondo non si riferisce solo alla sorpassata differenziazione fra giudeo-pagano, schiavo-libero (ecc., cfr. Col 3,11), ma anche al destino di morte. Il fatto di aver parte al Sovrano, nel quale la pienezza della divinità è presente corporalmente, significa lo spogliarsi del corpo della carne mortale nel battesimo (si noti ancora una volta il simbolismo dell'abito!) e l'essere risuscitato con lui, quindi la situazione di salvezza escatologica oltre la morte. La resurrezione è la perfezione della salvezza, vita escatologica in quanto contenuto dell'indicativo di salvezza, solo che è ancora nascosto e (con questo viene indicato l'unico contenuto restante della speranza) deve manifestarsi con la venuta di Cristo (3,1-4). Così la speranza non si estende più ad un nuovo essere, ma solo al suo attributo mancante, l'essere manifesto, revocando l'attuale segretezza. Un cristiano che già ora è partecipe "dell'eredità dei santi nella luce" e con ciò è già "strappato al potere delle tenebre e trasportato nel regno del Figlio suo diletto" (1,12 s.) in effetti non può più dire che l'ultimo nemico, la morte, dev'essere ancora vinto (cfr. I Cor 15,26). Non si deve trascurare la vicinanza strutturale di quest'affermazione alla dottrina della redenzione così come viene espressa nella massima di 2 Tim 2,18: "La resurrezione è già avvenuta". Ora, queste prove, che secondo la loro struttura possono essere ampliate dalla lettera agli Efesini e dal quarto vangelo, appartengono tutte alla terza generazione e non al periodo di Paolo immediatamente dopo le sue affermazioni di I Thess 4. C'è da chiedersi però se queste affermazioni postpaoline sul battesimo, che parlano di una partecipazione identificatrice dei cristiani alla morte e resurrezione del Signore, non possano essere seguite a ritroso, relativamente a questo concetto di fondo, fin nel periodo paolino. A questa domanda si può rispondere molto verosimilmente in senso affermativo. Com'è noto, lo stereotipo del Dio che muore e risorge è familiare alle religioni misteriche ellenistiche. La sua ricezione da parte cristiana tramite e al di fuori di Paolo è già stata or ora stabilita per Gal 3,26-28 ed affermazioni simili in un caso ben preciso. Non occorre però fermarsi a questa generale constatazione storico-religiosa. Nella lettera ai Romani, che Paolo invia da Corinto, l'apostolo in 6,1 ss. interpreta il battesimo esplicitamente come un morire e risuscitare insieme con Cristo. Qui, per Paolo, il "morire con" [Cristo] appartiene agli aspetti compiuti della salvezza, mentre d'altra parte il dono della vita escatologica appartiene ancora al patrimonio della speranza. Di un essere "conrisuscitato" del cristiano per il momento si può parlare solo richiamando l'attenzione sulla nuova condotta. Il dono della vita viene in certo modo diviso tra la vita definitiva nell'eschaton presso Cristo e Dio, ancora oggetto di speranza, e la già ottenuta possibilità di una condotta nuova dopo l'essere "morti con" Cristo nel battesimo. Questa differenziazione tipica di Paolo costituisce una variazione secondaria in relazione al concetto di fondo effettivamente atteso. Di conseguenza, quest'alterazione porta troppo chiaramente in fronte la sostanziale incongruenza nell'analogia del destino di morte e resurrezione di Cristo e dell'inclusione dei cristiani in questo destino, perché questa possa restare nascosta. In effetti, il pensiero di 6,3 ss. sarebbe logico, se il testo suonasse così: "Quelli che sono battezzati in Cristo Gesù sono battezzati nella sua morte. Così con il battesimo noi siamo con lui sepolti nella sua morte. E come Cristo venne risuscitato dai morti in virtù della Signoria del Padre, così anche noi siamo stati risuscitati con lui. Perché, se siamo stati innestati e modellati nella sua morte, lo siamo allora anche in rapporto alla sua resurrezione".


3. ASPETTI DELLA TEOLOGIA CORINZIA

Ora, a dire il vero, non è possibile trovare un effettivo indizio che lasci supporre in Rom 6,1 ss. una polemica diretta contro una concezione che comprese e sostenne teologicamente in modo sostanzialmente conseguente l'analogia Cristo-cristiani nel senso di un ripensamento in chiave misterica della completa partecipazione al destino di Cristo inclusa la sua resurrezione. Questo potrebbe dare adito ad un giudizio generalizzante: la cristianità primitiva generalmente ha recepito il pensiero di tipo misterico solo alla maniera paolina, quindi sempre solo in senso molto frammentario, con la riserva escatologica di un compimento ancora aperto. Ma chi dice che quello che in un primo tempo aveva valore solo per Roma - cioè di non sostenere alcuna teologia del compimento della salvezza - non fosse pure in altri luoghi all'ordine del giorno sotto il profilo teologico? Non sarebbe concepibile che Paolo, solo dopo un aperto contrasto con una posizione simile, si fosse visto costretto a descrivere la sua concezione del battesimo in appoggio così diretto alle religioni misteriche, formulando al tempo stesso in modo competente e appropriato l'oggettiva differenza nei confronti di quelle? Ad ogni modo si può asserire, richiamandosi a I Cor 10,1 ss., che Paolo dovette redarguire proprio i Corinti di non essere tanto convinti che i sacramenti, in modo magico-costrittivo, per il loro carattere irresistibile e senza considerazione per l'esistenza cristiana terrena e la sua condotta di vita (la quale potrebbe anche non avere buon esito), siano tali da trasferire nel compimento non più rivedibile della salvezza. La sicurezza del pieno possesso della salvezza viene precisamente respinta anche in I Cor 4,8. Quindi, non solo non c'è alcuna prova della logicità della generalizzazione di Rom 6 a tutto il cristianesimo primitivo della prima generazione, ma vi sono altresì prove contrarie, le quali presuppongono addirittura una situazione tale da costringere Paolo ad una critica in sostanza simile a quella che egli, solo indirettamente e senza immediata polemica, con implicita distruzione, cioè, dell'effettivo rapporto analogico, espone in Rom 6,3 ss. Si può così intendere fondatamente Rom 6 come risultato di un contrasto avuto in precedenza con la teologia corinzia. Chi giudica la situazione in questo modo deve poi situare in modo conseguente la netta analogia, elusa da Paolo e sottintesa in Rom 6,3 ss., presso gli avversari di Paolo a Corinto. In questo caso non si trattava di cosa facile neanche per l'apostolo, dato che anch'egli - come probabilmente tutta la cristianità di quel tempo - teneva per fermo che i cristiani non potessero essere esclusi dalla salvezza finale. Così, ad esempio, il cosiddetto incestuoso di I Cor 5,1 ss. può essere sì consegnato a Satana, ma solo affinché con ciò il suo Spirito venga salvato nel giorno del giudizio del Signore. Ora, i Corinti, con l'aiuto della loro visione teologica, reinterpretano questa incondizionata certezza nella salvezza da parte dei cristiani solo nel senso di una entusiastica presenza salvifica. Se il grido estatico "Signore (è) Gesù" di I Cor 12,3 significa per loro l'identificazione diretta del cristiano con il Signore innalzato e con il suo dominio sul mondo, essi allora intendono lo Spirito come facoltà di partecipare alla già compiuta presa di potere del Signore. Questa unità identificatrice con l'Innalzato non fa solo sparire la differenza fra l'ecclesia viatorum da un lato ed il compimento di Cristo dall'altro, ma portò anche ad una problematica perdita di considerazione per i confratelli cristiani. L'essere tutt'uno con Cristo individualizzava e si rifletteva in senso distruttivo sulla comunità. Proprio questo è il tenore fondamentale della discussione paolina in I Cor 12-14. Se là egli mette in evidenza l'edificazione e il bene della comunità, per invitare così all'elaborazione della realtà con le sue premesse terrene e mondane, in 4,8 si richiama allo stesso stato di cose, quando fa sentire energicamente la differenza - che veniva saltata a piè pari - fra lo stato dei cristiani e quello del Signore innalzato. I Corinti credono di possedere già tutta la pienezza della ricchezza escatologica, credono di essere già arrivati al dominio. Ma dall'esistenza dell'apostolo si può dedurre che la morte possiede ad ogni modo ancora il valore di una realtà (4,8-13). Certamente Paolo non vuole ancora rinunciare all'indicativo della salvezza del battesimo. In 6,11 egli lo difende con una formulazione tradizionale: voi siete lavati. Voi siete santificati. Voi siete stati giustificati. Così egli definisce la posizione dei cristiani anche di Corinto. Non sono, però, ancora entrati nel dominio di Dio: questo è un patrimonio di speranza ancora dovuto, a condizione di una condotta cristiana e dell'abbandono delle opere malvagie (6,9 s.). Così Paolo distingue fra indicativo di salvezza e speranza di salvezza. La partecipazione al dominio nel compimento non è ancora realtà attuale, anzi, realtà al presente è l'essere in vista della morte, come si può vedere dall'esistenza apostolica. Queste elaborazioni paoline, di cui è evidente l'analogia con Rom 6,1 ss., presumono addirittura, unitamente alla polemica contro la garanzia della salvezza mediante i sacramenti (10,1 ss.), che i Corinti considerassero come già avvenuta anche la resurrezione: regnare insieme con Cristo richiede la trasposizione nel suo stato. Proprio a questo Paolo contrappone la vicinanza della morte alla sua esistenza. I Corinti dunque avranno sostenuto l'analogia di Rom 6,3 ss. in modo netto e non paolino, forse anzi furono i primi cristiani a concepire il battesimo come partecipazione alla morte e resurrezione di Cristo. Se però i Corinti, allargando la tradizione accettata anche da Paolo in Gal 3,26-28, includevano, a differenza dell'apostolo, anche la morte nella potenza escatologica già raggiunta dai cristiani, e si credevano risorti, essi che - per dirla con il vangelo di Giovanni - sono già passati dalla morte alla vita (Io 5,24), evidentemente in precedenza era cambiata anche la concezione del mondo ed il quadro biografico rispetto a I Thess 4. Nell'ambito della immediata attesa della parusia e senza l'esperienza dei primi cristiani defunti, un potere esplicitamente chiaro anche sulla morte era inconsistente. Una tale asserzione non avrebbe avuto alcun punto d'appoggio nella vita dei cristiani. Se, però, la morte di cristiani prima della parusia diventa in certo modo una situazione normale, così che rimane solo la certezza che non tutti quelli attualmente in vita saranno defunti alla venuta del Signore (I Cor 15,51), e se è possibile parlare senza problemi della morte di un certo numero di testimoni pasquali (15,6), allora la nuova consapevolezza della situazione con ciò segnalata richiede anche una "normale" elaborazione della problematica della morte. Se l'argomentazione in I Thess 4,13 ss. era ancora sotto il segno di un'esperienza irregolare, eccezionale di cristiani defunti, che potevano quindi essere inclusi come "eccezione" nella precedente attesa della parusia, la teologia del battesimo ricostruita per Corinto indica una soluzione del problema della morte, il cui valore è indipendente dalla proporzione, fra cristiani che vivono la parusia come viventi o come morti risuscitati. Anzi, in base alla provenienza storico-religiosa della concezione elaborata, questa soluzione del problema è in realtà indipendente da qualsiasi attesa di parusia. Il suo scopo non è di accomodare una nuova situazione all'attesa tradizionale della parusia, ma s'intende quale risposta alla comprensione ellenistica del generale destino di morte e transitorietà. Essa supera questa transitorietà individualmente, senza aver affatto bisogno della componente di una futura attesa cosmico-apocalittica. La soluzione del problema della morte da parte dei sacramentalisti e degli entusiasti dello Spirito, a Corinto, appartiene agli anni immediatamente successivi alla descritta risoluzione di tale questione in I Thess. 4,13 ss. Essa non è paolina, vive però in buona parte dell'eredità della teologia paolina ampiamente interpretata. Nonostante l'attacco frontale sferratole da Paolo, tale soluzione, con diverse modifiche, ha esercitato un grande fascino sulla storia del cristianesimo primitivo. Prova ne sono ad esempio le lettere ai Colossesi, agli Efesini ed il vangelo di Giovanni, come già s'è detto sopra. Questo fascino certamente non si spiega con la simpatia verso i Corinti, ma si fonda sulla generale struttura di plausibilità che era propria di questa posizione nell'ambito dell'intreccio sociologico-religioso dell'ellenismo. Nel contesto di questi problemi a Corinto ed a causa delle opinioni di un gruppo interno alla comunità, Paolo si deve esprimere ancora più esplicitamente sulla questione della resurrezione. Lo fa in I Cor. 15. Questo capitolo è stato tolto intenzionalmente dalla discussione ora conclusa, perché si dovrà innanzitutto chiarire a quali specifici avversari, all'interno dell'ambiente corinzio, Paolo replichi qui, non dovendo a priori e nettamente concordare con la teologia della comunità nel suo complesso. Questo passo, inoltre, presenta tali e tanti problemi specifici da consigliare, anche per questo verso, un discorso a parte. Infine, nell'esposizione si dovranno anche far risaltare le prove del fatto che Paolo stesso è cambiato nei confronti di I Thess. 4,13 ss.

Come risultato di questa ricerca stabiliamo questo: oltre alla soluzione della problematica della morte in I Thess 4,13 ss. esiste un'altra concezione, non paolina, della vittoria sulla morte, che proviene da una ben precisa teologia battesimale. Come risposta alla concezione ellenistica di una generale corruzione mortale, il battesimo viene annunciato come partecipazione soteriologica alla morte e resurrezione di Cristo. L'aver parte alla resurrezione di Gesù Cristo significa nel contempo entusiastica partecipazione al regno del Cristo innalzato. Perciò il cristiano non è più soggetto alle condizioni terrene - inclusa la corruzione mortale. Questo concetto sembra essersi sviluppato principalmente a Corinto.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:49
13a - Adolf Holl, Lo Spirito Santo. Una biografia (Rizzoli 1998)


FELICITA' PASQUALE

I tempi erano ormai maturi per un nuovo dio. Certo, i sacerdoti di Giove si occupavano ancora, come nei tempi antichi, di mantenere buone relazioni con le Potenze superiori; la Dea Madre aveva i suoi altari per tutto il Mediterraneo, e a essi ancora giungevano pellegrini per recitare le loro preghiere e malati che speravano in un miracolo. Ma a fianco della consueta pratica religiosa si facevano strada culti sempre più esotici, provenienti dalla periferia orientale dell’Impero romano. I figli dei patrizi, insoddisfatti della fede dei loro padri, viaggiavano dal Tevere al Nilo per farsi iniziare a misteri esoterici. Talora una divinità straniera riusciva persino a conquistarsi un tempio a Roma; nessuna però aveva ottenuto il primato assoluto nella sfera sacra tra Spagna e Siria, Africa e Britannia. Così stavano le cose quando i seguaci di un certo Cristo (Chrestos) cominciarono a far parlare di sé. La strana setta trovava adepti tra piccoli artigiani e schiavi, si teneva lontana dai bagni pubblici, dalle corse dei carri e dai combattimenti dei gladiatori, e predicava il disprezzo per gli dèi. Nessuno trovò da ridire quando le autorità presero severi provvedimenti contro questi spregiatori della religione. Di loro si sapeva comunque molto poco: pregavano un Giudeo che era morto crocifisso come criminale, si incontravano in segreto, erano legati da un profondo sentimento di fratellanza, avevano le loro associazioni in ogni città di una certa importanza ed erano rigidamente organizzati. E credevano in Dio - non nel significato generico, tradizionale, del termine usato per gli dèi Olimpi, ma nell’Entità singola assoluta appartenente alla dimensione ultraterrena, al cui confronto la familiare molteplicità dei Celesti si riduceva a impostura di dèmoni. Questo Dio, di origine ebraica come il Crocifisso, riuscì contro ogni previsione a diventare l’istanza politico-religiosa centrale nell’Impero romano, con le ben note conseguenze in Europa e nel resto del mondo. Dietro questo processo straordinario si celò fin dall’inizio una forza che i cristiani chiamarono "Spirito Santo". Per il resto, le notizie sul modo di agire di questa forza sono molto frammentarie: lo Spirito Santo si cela tra le righe dei testi cristiani fondamentali, e si svela solo attraverso indizi che danno l’impressione di essere cifrati, come se esso volesse occultare il proprio ruolo decisivo nell’evento della salvezza. Chi è capace di decifrare il codice e di leggere i segni, vedrà gli esordi del cristianesimo sotto un’altra luce. Essi si avvicinano a un fenomeno che ai nostri giorni, con un atteggiamento piuttosto restrittivo, sarebbe tutt’al più di competenza della psichiatria. Gesù diventa quindi un caso di possessione - resta semplicemente da chiedersi da chi o da che cosa sia provocato. Per chi medita questi misteri, la risposta a tale domanda, possiamo esserne sufficientemente certi, non si trova nella Bibbia.


UNA COLOMBA DAL CIELO

La prima notizia abbastanza attendibile sull’intervento di uno "Spirito Santo" nel corso degli eventi risale al secondo decennio della nostra era. In quei giorni, si dice nel Vangelo di Marco (1,9), Gesù venne da Nazareth in Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto. Nel Vangelo di Matteo la visione che ebbe Gesù è definita "Spirito di Dio". Luca è il più esplicito fra tutti: lo Spirito Santo, con articolo determinativo, sarebbe sceso dai cieli aperti su Gesù "in apparenza corporea, come di colomba". Il quarto Vangelo, infine, viene presentato come testimone Giovanni Battista: Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. La manifestazione del divino sotto forma di colomba sarebbe dunque stata percepita solo da Gesù e dal suo battezzatore. Viene spontaneo chiedersi in base a quale fonte i due interpretassero l’uccello celeste come incarnazione proprio dello Spirito Santo; non c’è un solo passo nell’Antico Testamento che colleghi lo Spirito di Dio a una colomba.

Nelle storie che circolavano tra i discepoli di Jeshu’a e quelli di Johanan, e che in seguito confluirono nei Vangeli cristiani, si può ancora notare la tensione originaria tra i due uomini: essi appaiono come una coppia antagonista, al pari di Romolo e Remo, Caino e Abele. Uno dei due deve morire, e in questo caso è Johanan, che difatti è già atteso dal boia. La scelta però è già stata fatta nella dimensione visionaria che avvolge i due uomini durante l’estasi. In questo spazio dominano certezze diverse da quelle della vita quotidiana: l’essere che scaturisce dalla cascata dei cieli aperti e come colomba scende a volteggiare sul prescelto deve trarre origine dall’ambito divino, deve provenire, per gli Ebrei credenti, da JHWH, l’Altissimo, sia lodato il Suo nome, i cui affiati già nei tempi antichi avevano ispirato i Profeti: lo Spirito di Dio, in ebraico ruah jahu. In questo modo si decide anche quale battesimo consacrerà da quel momento in poi gli araldi dell’imminente Regno di Dio - non il battesimo con acqua, ma il battesimo "in Spirito Santo". Subito dopo, prosegue Marco, lo Spirito lo sospinse nel deserto. Così l’Evangelista intende chiarire come funziona il nuovo battesimo, innanzitutto per Jeshu’a il Nazareno, il prediletto dal Cielo per indicazione della colomba. Il battezzatore con acqua, Johanan, deve cedere il passo. La colomba spirituale non venne da allora mai più scorta.

Il Giordano proseguiva da lì la sua corsa verso il Mar Morto, il punto più basso della Terra, dove la moglie di Lot per la sua eccessiva curiosità si irrigidì in una statua di sale. Là, nel più inospitale dei deserti, Jeshu’a deve incontrare un altro spirito, non uno Spirito Santo, ma malvagio e nemico, chiamato Shaitan. Egli comanda sugli innumerevoli ginn di quelle lande desolate, i mostruosi esseri intermedi che fanno da corteo disordinato e strepitante al Signore delle Tenebre: da ogni parte spuntano spiriti, più o meno dotati di corpo, né dèi, né bestie, né uomini, asessuati, con artigli, becchi, occhi enormi, squame, code. Ma Jeshu’a è "pieno" di Spirito Santo, come sottolinea Luca e fin dall’inizio è stabilito che vincerà nella lotta per il potere. Nella bolgia degli spiriti giunge il comando di Dio: Nessuno può stare al mio confronto! A me solo spetta ogni ossequio! Subito gli esseri maligni si disperdono nell’aria, abbandonando il campo in attesa dell’attacco successivo. Già si avvicinano gli esseri dai volti fiammeggianti discesi dal Trono di JHWH, per ristorare l’estenuato Jeshu’a. Gli angeli lo servivano, osserva Marco. Poi Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio, prosegue l’Evangelista: è imminente la conversione dell’esistente, ecco io faccio nuova ogni cosa, la mensa di Abramo è già pronta per gli affamati, cielo in terra, a noi venga il tuo regno. I più sensibili a questo nuovo modo di esprimersi sono gli indemoniati. Se ne ha già un esempio quasi teatrale appena il Nazareno fa il suo primo ingresso nella sontuosa sinagoga di Cafarnao, sul lago di Tiberiade in Galilea: un uomo comincia a urlare, lo "spirito immondo" (così Marco) che lo possiede parla alla prima persona plurale - evidentemente non è l’unico ad essere nervoso. Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio! I dèmoni sanno dunque come stanno le cose. Ora l’uomo di Nazareth deve mostrare di che cosa è capace: il predicatore si è già trasformato in esorcista. Due comandi energici colpiscono al centro del problema: Taci! Esci da quell’uomo! Subito il corpo dell’indemoniato si contorce: la potenza che lo possiede non è disposta a cedere così facilmente. Alla fine l’urlo prolungato, segnale che il dèmone è uscito dal corpo. Poi, silenzio. Mormorii tra il pubblico: egli comanda persino agli spiriti immondi ed essi gli obbediscono. Matteo e Luca sanno qual è il passo successivo di uno spirito cacciato: dopo essere uscito dal corpo della vittima, se ne va per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: Ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito. E tornato la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, si prende sette altri spiriti peggiori ed entra a prendervi dimora. Questo racconto suona piuttosto inquietante: il mondo degli Evangelisti è pieno di spiriti, così come è oggi quello degli abitanti dell’isola di Bali. Tanto più energicamente insistono gli Evangelisti sulla singolarità dello Spirito che si è impadronito della persona del Nazareno: solo questo spirito disceso “dall’alto”, così dice il Vangelo di Giovanni, merita il titolo di Santo. Deve essere lui che ha designato Jeshu’a come salvatore di Israele, come mashiah (= Messia, letteralmente "l’Unto", in greco christòs). Senza questo "Spirito Santo", Gesù non sarebbe mai divenuto il Cristo, e la religione che a lui si richiama dovrebbe cercarsi un altro nome.


RITMO FRENETICO

No, il cristianesimo non è una religione del Libro, per lo meno non originariamente. il Nazareno non ha lasciato niente di scritto. Non mi trattenere, chiede Gesù nel Vangelo di Giovanni alla sua affezionata Maria di Magdala: con ciò veniva anche respinto ogni tentativo di fissare per iscritto le sue parole. Evidentemente Jeshu’a non aveva tempo di dedicarsi alla scrittura; e i testi sacri che furono poi composti su di lui sono gravati fin dal principio dal sospetto di avere falsato le intenzioni originarie del Nazareno. Non a caso, quindi, nel Nuovo Testamento affiorano, senza volerlo, tracce furtive di una profonda autoironia, come ad esempio nella Seconda lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo: la lettera uccide, lo spirito dà vita. Nel cuore stesso del testo, dunque, la tendenza alla fissazione della parola scritta è frenata dal principio divino originario, sotto la sigla "Spirito", senza il cui intervento il Nazareno sarebbe rimasto un falegname.

Con il termine "Geist" i popoli germanici convertiti al cristianesimo tradussero la parola greca pneuma (in latino: spiritus) presente nella Bibbia. Pneuma era a sua volta una traduzione della radice semitica rwh, di genere femminile, resa in ebraico con ruah, in siriano con ruho, dal significato originario di "aria in movimento". Il Geist germanico aveva sì in comune con la ruah semitica l’incorporeità, ed anche una certa vivacità, ma agli uomini del Nord era completamente estranea la sfera semantica del vento infuocato proveniente dal deserto arabo, che nell’Antico Testamento viene ugualmente chiamato ruah. Nel Vangelo di Giovanni, al contrario, è ancora presente il significato primitivo di ruah: il vento (pneuma) soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito. Nella versione originale greca, il pneuma di questo passo rivela con estrema chiarezza la sfumatura linguistica semitica soggiacente: il versetto indica la ruah come un vento impetuoso per poi subito trasformarla in metafora per qualcosa che afferra all’improvviso e trasforma in una nuova persona. L’effetto doveva dunque essere stato prorompente nell’evento che qui viene narrato, ma questo, con la sua natura così posata, è destinato a rimanere del tutto estraneo al Geist tedesco, anche a quello Santo, tanto quanto può esserlo un bazar orientale. I 378 passi dell’Antico Testamento in cui compare la ruah si possono al contrario associare a tutto ciò che contrasta l’uniforme andamento delle cose - che si tratti della creazione del mondo, di un accesso di collera, della condiscendenza di JHWH per l’uomo Mosè o della resurrezione di cadaveri, della garanzia dell’incomparabile forza fisica di Sansone o del furore estatico dei profeti di Dio, oppure della trasformazione di un guerrigliero come David in un monarca rispettabile. Non appena la ruah piomba dall’alto, i figli e le figlie di Israele cominciano a profetare, i fanciulli hanno visioni, i consiglieri vengono visitati da sogni veritieri, e Dio fa un nuovo Testamento.

Così fu anche per Jeshu’a, il figlio dl Giuseppe il falegname. Come la ruah abbia rivoluzionato la vita di quest’uomo, le cui fasi precedenti restano oscure, ci è svelato da una paroletta che l’evangelista Marco si lascia sfuggire, senza un’intenzione particolare, ben 41 volte: euthys. Si tratta solo di un pleonasmo su cui è facile sorvolare, presente all’inizio di alcune frasi, che funge da elemento di transizione da un episodio all’altro: "subito", "non appena", "senza indugio", "immediatamente dopo". Questa particella innesta un ritmo serrato nella vita del Nazareno: eccolo costretto a correre come un forsennato da una scadenza all’altra, per circa un anno, fino a che per lui non giunge la fine. Il rapido staccato della ruah ha inizio in Marco nell’istante in cui Jeshu’a emerge dalle acque del Giordano dopo il suo battesimo. Subito il cielo si spalanca, scende la colomba, risuona la voce imperiosa. Immediatamente dopo la ruah spedisce il suo uomo nel deserto. Ed ecco che Shim’on e suo fratello abbandonano le loro reti sulle sponde del lago di Genezaret per correre dietro a Jeshu’a, che li ha chiamati con un cenno. E non appena è sabato Jeshu’a mette piede nella Sinagoga di Cafarnao. Di colpo l’indemoniato grida e il dèmone lo lascia. E così via, in lungo e in largo per la Galilea, poi a Tiro e a Sidone, a sud verso Gerico e infine di nuovo a nord per la festa della Pasqua a Gerusalemme, dove l’ultimo euthys affretta la consegna a Pilato del prigioniero, all’alba del Venerdì Santo che porterà Jeshu’a sulla croce. Gesù può finalmente prendersi tempo solo dopo la sua morte, nel corso della sua divinizzazione e ascesa al trono alla destra del Padre: per tutto questo, nel Vangelo di Marco, non è più necessario alcun euthys.


PRESTO!

C’è una porzione di eredità ebraica, dunque, nell’accelerando spirituale della ruah di Colui il cui nome i pii giudei contemporanei di Jeshu’a non avevano più sulle labbra, per non offendere Dio. Per questo coloro che seguirono Jeshu’a dal battesimo nel Giordano fino alla crocifissione sul Golgota, impressionati dallo straordinario potere del loro maestro, aggiunsero alla ruah divina l’articolo determinativo e l’attributo di santità. Questo Spirito Santo aveva, si è detto, una certa fretta, come era già stato preannunciato da parecchio tempo in certi trattati, un nuovo tipo di letteratura "catastrofica" apparsa tra il II secolo a.C. e il I della nostra era, composti da Ebrei impazienti per i quali la vecchia fase del mondo non volgeva abbastanza velocemente alla fine. Uno di loro si chiamava Giovanni e il suo libretto, Apocalisse [cioè rivelazione] di Gesù Cristo, diede in seguito il nome all’intero genere letterario. L’autore dell’Apocalisse forse non doveva avere mai incontrato faccia a faccia l’uomo Jeshu’a, anche se si era appropriato del nome di uno dei discepoli del Nazareno. Nella sua mente creativa, lo Jeshu’a terreno divenne una figura terribile, dalla voce simile al fragore di grandi acque, gli occhi fiammeggianti come fuoco e i piedi che avevano l’aspetto del bronzo splendente. Egli avrebbe udito la voce dell’apparizione "in Spirito" una domenica sull’isola di Patmos, garantisce l’autore proprio all’inizio del suo scritto, reclamando così per sé la stessa vista profetica conferita a Jeshu’a e a Johanan quando scorsero la colomba, alla fine degli anni Venti del I secolo - nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, sentenzia Luca (3,1). Da allora qualche altro signore del mondo era trapassato all’Ade, tra cui il crudelissimo persecutore di cristiani Nerone, morto nel 68 d.C. Lo Spirito Santo, al contrario, era ancora ben vivo e vegeto stando alla testimonianza dell’Apocalisse di Giovanni, che si calcola sia stata redatta negli ultimi anni del regno di Domiziano, intorno all’anno 95 d.C. Evidentemente i destinatari dell’Apocalisse, sette comunità cristiane disseminate in altrettante città citate per nome nel territorio dell’attuale Turchia occidentale, sapevano bene quanto l’autore che cosa significasse "in Spirito" - altrimenti egli avrebbe sicuramente fornito loro una spiegazione. Erano anche informati dell’abitudine a conversare dei draghi, del significato del numero 666 e di altri messaggi cifrati che avrebbero dato parecchio filo da torcere agli esegeti posteriori. Esoterismo a non finire, dunque, nei circoli cristiani di Efeso o Pergamo che si immergevano nella lettura dell’Apocalisse. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Sette volte l’autore ripete l’ordine sceso dall’alto che lo ha spinto a scrivere, in modo che non sorga davvero alcun dubbio sul fatto che non l’ambizione letteraria ha guidato la sua penna, bensì lo pneuma santo, la ruah del Signore Gesù, del testimone fedele, del primo di coloro che sono risorti dalla morte, dell’arconte dei re della terra. I destinatari dell’Apocalisse di Giovanni non sono invitati allo studio del testo e al piacere della lettura, come potremmo aspettarci oggi, ma a trapassare nella sfera di un’esperienza spirituale che afferra e pervade il Signore Gesù così come l’autore e persino la sua cerchia di lettori - di cui Giovanni scrive che sono come afferrati dallo Spirito; il loro orecchio potrà udire solo se sarà diventato un orecchio ispirato. Lo Spirito Santo, l’autore non si stanca di precisarlo, è diventato mezzo esclusivo di coloro che hanno il privilegio di udirlo, e questo mezzo è anche il messaggio. I non-privilegiati, e cioè i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi,gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna, rimangono "fuori", esclusi dal medium-Spirito. L’ambito dell’esperienza spirituale rappresentato nell’Apocalisse giovannea è quello della setta.

Nello spazio ispirato, che l’autore dell’Apocalisse giovannea dispiega "in Spirito", vengono suscitate violente energie - paura e terrore, desideri di vendetta, sadismo, certezza di vittoria. A partire dal quinto capitolo la scena della visione è dominata da Gesù Cristo sotto forma di Agnello immolato, fornito di sette corna e sette occhi, protagonista mostruoso e implacabile di 28 passi. La collera dell’Agnello è immensa, rileva l’autore: non appena i primi quattro sigilli del Rotolo in cui sta scritto il destino dell’umanità vengono aperti, i destrieri dei cavalieri dell’Apocalisse cominciano a galoppare, e quello che portano è ben poco piacevole. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra. Lo psicologo del profondo Carl Gustav Jung diagnosticò nell’autore dell’Apocalisse una vasta trama di risentimenti, un’orgia di odio, collera, e cieca furia distruttiva, che si sfoga in immagini fantastiche e terrificanti, tutt’al più paragonabili alle allucinazioni che accompagnano le psicosi gravi. Questo però non ci impedisce di chiederci se il responsabile delle furiose galoppate dell’Apocalisse debba essere considerato lo Spirito Santo o lo sconosciuto scrittore di Patmo. O magari entrambi. A discarico dello Spirito Santo emerge il fatto che il suo portavoce, qua e là, ha un poco barato per quanto riguarda l’originalità delle visioni descritte. I quattro esseri viventi del quarto capitolo non derivano, come afferma l’autore, da una visione, ma sono una ripresa letterale dal libro del profeta Ezechiele. Ulteriori prestiti dalla letteratura apocalittica si possono dimostrare con altrettanta facilità - il che prova l’erudizione dell’autore dell’Apocalisse, ma non la sua qualificazione come mistico di talento. Forse gli capitò qualcosa di simile a quello che avvenne a Emanuel von Swedenborg, ingegnere minerario e visionario svedese, che di tanto in tanto, durante la semplice lettura di un testo sacro, improvvisamente "era in Spirito", conversava con gli angeli e incontrava anche parecchi draghi apocalittici. Mille e seicento anni separano Swedenborg dalla stesura dell'Apocalisse, il che è evidentemente del tutto irrilevante quando l’aldilà prende vita.

Poco fa abbiamo nominato un termine importante: psicosi. Il celebre indagatore di anime, a cui tale termine venne in mente durante la lettura dell’Apocalisse, era ben lungi dal paragonare la religiosità mistica alla pazzia: egli sapeva che difficilmente una religione di portata mondiale ha origine dallo schiamazzo di dementi. Jung si considerava un medico: mentre i cristiani litigano sulla giusta interpretazione della verità, scriveva, il medico si occupa di un caso urgente. Chi ha indagato sulle allucinazioni schizofreniche sa dell’esistenza di motivi archetipici nella psiche di persone che non hanno mai sentito parlare di mitologia. Un collega di Jung, lo psichiatra di origine praghese Stanislav Grof, si è ugualmente imbattuto nel corso delle sue terapie in quelle rappresentazioni collettive primordiali che Jung aveva chiamato archetipi. Grof lavorò dapprima con l’LSD, poi con l’iperventilazione (respirazione accelerata): chi partecipa all’esperimento raggiunge con essa stati di coscienza alterati e rivive il trauma della propria nascita, assieme alle paure e alle angosce che accompagnano il cammino del feto verso la luce del mondo. Grof menziona esplicitamente visioni apocalittiche nella sua descrizione delle immagini percepite durante viaggi del genere: possono comparire draghi, angeli e diavoli che combattono tra di loro, sino alla liberazione finale da tutte le paure, accompagnata da molta luce e colori sgargianti, come negli ultimi due capitoli dell'Apocalisse giovannea, dove la Sposa dell’Agnello discende dal cielo come città d’oro con dodici porte scintillanti formate da perle. Tra il disturbo psicotico e l’estasi mistica Grof non traccia un confine rigido: l’unica vera discriminante tra fatto clinico e fatto religioso è da lui individuata nell’abilità o meno a integrare l’esperienza vissuta nella vita quotidiana. Lo spazio "transpersonale", così lo definisce Grof, racchiude santi e folli: un esito accettabile anche sul piano teologico.

Per i "santi" che vivevano a Efeso, dove sorgeva il monumentale tempio di Artemide polimastide, o quelli di Pergamo, con il gigantesco altare di Zeus al di sopra della città, la vita quotidiana era determinata da forze che essi, in quanto cristiani, rifiutavano tassativamente. Tutte le nefandezze pagane, questo intimava loro l’Apocalisse, "in Spirito" dovevano di lì a breve, nel corso di una sola ora, essere ridotte a un deserto, a un incolto terreno di rovine per archeologi. La profezia non era del tutto sbagliata, come si è rivelato nel frattempo. Ci vollero tuttavia ancora un paio di secoli perché le visioni di rovina dell'Apocalisse divenissero realtà. Il tempo è vicino, sottolinea la rivelazione esoterica proprio all’inizio dell’opera, e alla fine l’imperiosa voce divina dichiara: Sì, verrò presto! Che cosa ciò volesse dire, non potevano saperlo né l’autore né i destinatari dell'Apocalisse. Essi fecero l’errore di prendere alla lettera lo Spirito Santo. Senza questo errore essi sarebbero certamente da tempo dimenticati.


DOPO LA PASQUA

L’opera detto Spirito Santo, nei sessantacinque anni tra il battesimo del figlio del falegname e la dettatura dell'Apocalisse giovannea, ebbe il suo culmine assoluto nella settimana che seguì la morte di Cristo sulla croce. Se si deve credere ai Vangeli, che furono redatti parecchi decenni dopo i fatti, i seguaci del giustiziato, uomini e donne, vissero in maniera molto differenziata ciò che allora accadde. Talora è uno straniero che al momento decisivo si fa riconoscere come la persona creduta morta. In un’altra occasione il defunto compare davanti al gruppo di discepoli sconvolti, riuniti a porte chiuse, con le stimmate fresche sul corpo, e si fa ospitare. Oppure un giovinetto vestito di bianco, seduto nel sepolcro vuoto, annuncia alle giovani donne atterrite l’inconcepibile: È risorto, non è qui. A un altro testimone per credere è sufficiente la vista delle bende mortuarie abbandonate nella tomba. Non manca nemmeno il rappresentante dello scetticismo, l’incredulo Tommaso, come se il testo volesse alludere ironicamente ai tranelli in cui può finire il pensiero scientifico. Beati quelli che pur non avendo visto crederanno, viene detto all’apostolo dubbioso. Segue l’ascesa di Cristo al cielo sotto gli occhi dei fedeli, con la promessa del suo ritorno imminente. Sette settimane dopo la Pasqua lo Spirito Santo si manifesta, in forma definitiva, nella tempesta di fuoco della mattina di Pentecoste, come dono di grazia continuamente operante della rinvigorita forza profetica del nuovo Israele tra i popoli.

Tutto questo è ormai per noi storia superata, e le generazioni venute dopo il "Big-Bang" cristiano devono considerarsi ritardatarie, battezzate superficialmente come sono. Nei racconti pasquali che vengono loro letti ad alta voce resta inespressa la cosa più importante: in nessun luogo viene rivelato come la personalità di quegli uomini e di quelle donne, che dopo aver seppellito il loro Jeshu’a si accingevano a ritornare alle loro barche da pesca e alle loro pentole, venne invece completamente trasformata. L’apparizione del cadavere vivente suscita in loro innanzitutto terrore, e le parole rassicuranti del fantasma, Non temete, denunciano solamente l’abisso che doveva venire superato perché l’orrore si mutasse in giubilo. Questo giubilo di un circolo ristretto di discepoli di Gesù, che nella migliore delle ipotesi comprendeva una dozzina di persone, venne poi trasferito ai resto dei seguaci? Se sì, rimane comunque inspiegabile come una tale comunità in festa si sia tramutata in un’energica macchina di propaganda divina, che percorse in lungo e in largo le strade della Palestina, della Siria, dell’Arabia, dell’Asia Minore, per divulgare la notizia che un ebreo giustiziato aveva giocato un tiro mancino alla morte.

Si sono conservati solamente un paio di oscuri accenni all’azione dello Spirito tra la Pasqua e la Pentecoste nell'anno della morte di Cristo, che i "ritardatari" si sono sforzati di decifrare. Il maestro ritornato dal regno dei morti avrebbe alitato sui suoi discepoli e avrebbe detto: Ricevete lo Spirito Santo. Noi sappiamo, afferma un altro passo delle Scritture, che siamo passati dalla morte alla vita. Lo Spirito Santo sarebbe disceso su di lui e sugli altri Apostoli, racconta Pietro - sarebbe stata dunque una specie di distribuzione di premi tra i seguaci, ricolmati del dono dell’eloquenza e della persuasione retorica. La privazione del sonno potrebbe aver giocato in tutto ciò un certo ruolo. Le fonti riferiscono che gli uomini e le donne più legati a Jeshu’a, dopo l’ascesa al cielo del loro maestro, si sarebbero trasferiti in una stanza "al piano superiore" a Gerusalemme, per trattenervisi "assidui e concordi in preghiera". L’istantanea, sempre che sia stata scattata sotto la luce giusta, coglie un raggruppamento di persone fuori dal comune, impaurito da Dio, E' difficile immaginarsi che queste persone, durante le loro peregrinazioni al seguito del nervoso Nazareno, abbiano dato tanto peso a un riposo notturno indisturbato. Poi l’angoscia degli ultimi giorni, dopo la Domenica delle Palme a Gerusalemme, pieni di presagi di una catastrofe ineluttabile. Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me, dice il Maestro nella notte del suo arresto ai discepoli che, esausti, si sono addormentati. Già al primo canto del gallo della mattina di Pasqua, dopo lo sgomento impietrito del Sabato Santo, alcune donne si precipitano fino al sepolcro e vengono subito sorprese da manifestazioni ultraterrene quanto mai reali. Gli uomini sono dapprima diffidenti, poi però vengono rapidamente coinvolti nell’evento che fa dell’ucciso un vincitore, fino a che egli non si dilegua in cielo lasciando vuoto il proprio posto nella consueta cerimonia dello spezzare il pane, in quella sala al piano superiore - cerimonia di cui si parla un’unica volta, senza darne ulteriore spiegazione. Non ce ne sono, di spiegazioni. La singolare e irripetibile dinamica di gruppo che intercorse, nei giorni precedenti l’esplosione della Pentecoste, tra uomini e donne di origine ebraica di cui conosciamo i nomi, resta per sempre sepolta nel segreto di quella stanza. Ci è dato solo di sbirciare dalla serratura per vedere un paio di persone sovraeccitate, che hanno poco tempo per l’igiene del corpo, mangiucchiano distrattamente qualche boccone di cibo quando la fame si fa sentire, dormono poco e per il resto non hanno altro in mente che colmare il vuoto creatosi al centro della loro comunità evocando con la preghiera la presenza di colui di cui essi così intensamente sentono la mancanza. Maranà tha: vieni, o Signore! In casi normali, un brusìo del genere non conduce proprio a niente, anche se dura per ore - a meno che lo Spirito Santo di Dio non si senta spinto ad assumere il controllo all’interno di questa associazione già piuttosto "fuori di testa" di massaie e pescatori analfabeti; essi perciò si persuaderanno di essere in contatto permanente con la Beatitudine dei troni celesti, dove sia il Padre che il Figlio vivono in eterno, come era in principio, così ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen. A partire dalle nove del mattino della domenica di Pentecoste il contatto permanente è attivato, la macchina dello Spirito ha dato il via al suo lavoro nella tempesta di fuoco - Anno Domini 30, se le date tornano. I cristiani "ritardatari" sarebbero stati felici di sapere come lo Spirito Santo, nel corso dei successivi quarant’anni, si fosse scelti i suoi quattro evangelisti, e soprattutto avrebbero appreso volentieri tutto ciò che fosse degno di nota sul costituirsi del Nuovo Testamento, ma purtroppo devono accontentarsi di qualche lettera dell’apostolo Paolo, dettata negli anni 50, e dei primi dodici capitoli degli Atti degli Apostoli, che furono messi per iscritto intorno al 70. Né le Lettere né gli Atti offrono dati utili sui metodi di suggestione dello Spirito Santo, sulla cosiddetta ispirazione, a cui si deve la mitezza severa di quella prosa che più tardi venne letta in ginocchio da regine e garzoni di ciabattini, papi e monache, conquistadores e popoli delle colonie dell’era cristiana. Gli studiosi della Bibbia si tormentano da un centinaio d’anni chiedendosi quali affermazioni attribuite a Jeshu’a nei Vangeli potrebbero discendere proprio da lui e quali furono invece formulate solo dopo la sua morte, nei circoli spirituali di coloro che credevano al Risorto e speravano nel Suo imminente ritorno per il Giudizio Universale - ebrei e greci, egiziani, siri e romani, poiché il Vangelo fu divulgato con grande rapidità. Come docenti accademici, i biblisti non possono lasciar affiorare nella loro prosa scientifica la benché minima fiducia nell’operato dello Spirito Santo, ma devono conservare un rigido distacco nel loro lavoro di ricerca. Quando sono più o meno sicuri che una parola autorevole del Nazareno venne coniata solo venti o trenta anni dopo la sua morte, parlano di "formula comunitaria" - come se le parole alate della Bibbia si potessero tranquillamente attribuire alle smanie di grandezza del primo maniaco religioso sulla piazza. Simili facezie non arrivano nemmeno a sfiorare la ragione per cui la Bibbia è stata per tanto tempo il libro in assoluto più popolare. Perciò quell’affascinante marxista messianico che fu il filosofo Ernst Bloch (morto nel 1977) ha tenuto in scarsa considerazione gli esegeti da parata come Rudolf Bultmann. La loro "demitologizzazione", così scrive Bloch, annulla le sfumature, riduce a menzogne tutte le favole, e finge di non sentire la voce di Prometeo nel sussurro dei miti. Dagli studiosi della Bibbia, pertanto, non c’è da aspettarsi nessuna risposta alla domanda dei "ritardatari" sull’origine della cultura occidentale del Libro. Tutt’al più, gli eruditi sono in grado di stabilire le coordinate politiche, sociali ed economiche all’interno delle quali furono redatti i testi fondamentali della cristianità. Una prospettiva di questo genere ci fa però sapere che in Terra Santa, proprio durante la più intensa attività d’ispirazione dello Spirito Santo, scoppiò una guerra dalle conseguenze catastrofiche per il popolo d’Israele.

Non rimarrà qui pietra su pietra. Così esclamò Gesù (secondo Marco) alla vista del tempio di Gerusalemme, considerato una delle meraviglie del mondo. Nessun’altra profezia del Nazareno si è avverata con maggior precisione: un unico muro è rimasto in piedi dell’edificio grandioso che il re Erode fece innalzare in dieci anni, e che al tempo di Cristo non aveva neppure cinquant’ anni. La sua distruzione nell’estate dell’anno 70 della nostra era - la risposta dei Romani a una rivolta popolare nella provincia della Giudea che durava già da quattro anni - privò i figli di Abramo del loro centro politico e religioso sino al tempo della fondazione di Israele nel 1948, nel XX secolo dopo la nascita di Cristo. Eppure, stranamente, né la guerra giudaica né la sua fine terribile trovano una diretta menzione negli scritti del Nuovo Testamento. Solo indirettamente, come profezia minacciosa di Jeshu’a, sono annunciati eserciti in guerra che assedieranno Gerusalemme, e una devastazione della Città Santa. Questo silenzio ha un effetto sorprendente, se si considera la manifesta ostilità di tutti e quattro gli Evangelisti nei confronti dei "Giudei" (Vangelo di Giovanni). Se i Vangeli, come oggi viene ammesso quasi unanimemente, furono redatti dopo la distruzione di Gerusalemme del 70, viene spontaneo chiedersi perché essi rinunciarono a buttare in faccia agli Ebrei la rovina del loro Tempio quale castigo divino per la loro incredulità. Lo Spirito Santo non ha forse permesso una tale perfidia? Dopo Auschwitz sarebbe bello poterselo immaginare. Ma purtroppo, come ben si sa, Dio preferisce eludere le domande sgradevoli.


BIBEL, BUBEL, BABEL

Ci vollero trecento anni perché i cristiani si mettessero d’ accordo su quali Vangeli fossero stati ispirati dallo Spirito Santo e quali no. I Vangeli respinti - ed erano molti - vennero tolti dalla circolazione, e che alcuni di essi, nonostante tutto, si siano conservati, è un fatto noto solo agli specialisti. Secondo la sistemazione data dalla Chiesa, il testo sacro della "Nuova Alleanza", come lo si può comprare nelle librerie, comprende in tutto ventisette scritti: i Vangeli di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, inoltre quattordici Lettere attribuite a Paolo, un paio di altri scritti epistolari, gli Atti degli Apostoli, e infine l’Apocalisse giovannea. Per persone ardentemente alla ricerca di Dio essi furono spesso insufficienti. Costoro non potevano proprio accontentarsi di credere che lo Spirito Santo avesse terminato la sua attività attorno all’anno 100, in accordo con quanto stabilito autorevolmente dalla rivelazione divina. Il propugnatore più acceso di questa spiritualità si chiamava Thomas Muntzer, e morì decapitato nel 1525 per aver partecipato all’insurrezione contadina tedesca. Se uno per tutta la vita, proclamò Muntzer, non avesse né udito né visto la Bibbia, potrebbe comunque avere un’autentica fede cristiana grazie al retto insegnamento dello Spirito, come l’ebbero tutti coloro che redassero le Sacre Scritture senza alcun uso di libri. Questo significava affermare, con il sostegno proprio degli autori dei testi biblici, che tutti i credenti "ritardatari", in linea di principio, erano contemporanei, e sottomessi solo all’afflato dello Spirito Santo - un’affermazione decisamente audace. Difatti all’epoca seguì anche una dura replica da parte di Martin Lutero al suo collega radicale, cui egli rinfacciò di aver deriso tutta la Sacra Scrittura con le parole Bibel, Bubel, Babel (Bibbia, bubbole, Babele). Muntzer non era da meno di Lutero quanto a violenza verbale: una persona che non sappia nulla della parola interiore di Dio racchiusa nel profondo della sua anima, scrisse, resterà sempre ignorante, anche se ha divorato centinaia di migliaia di Bibbie. Una riconciliazione tra il principio del Testo sostenuto da Lutero e il principio dello Spirito di Muntzer non è facile. Nel primo caso, la persona si appoggia alla garanzia delle Scritture, nell’altro alla presenza della loro origine spirituale. Ernst Bloch trovava che la forma di spiritualità solitaria, come essa si manifestò già nei primi tempi del cristianesimo, fosse da considerare come il prototipo della creatività umana di età moderna. Questo, per di più da parte di un ateo, è uno splendido complimento per lo Spirito Santo.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:50
13b


VOCI FEMMINILI

Solo molto raramente le voci maschili nemiche della vita provenienti dai circoli esoterici vengono interrotte da una donna. Essa parla con la voce di Maria Maddalena e ha ricevuto da Gesù, che è il suo amante, insegnamenti sconosciuti ai dodici Apostoli. Questo però fa arrabbiare Simon Pietro, l'uomo con le chiavi del Regno dei Cieli, che mette a tacere la donna. Di lui ho paura, confessa la Maddalena, poiché egli odia il sesso femminile. L'inconveniente di base nella relazione tra i due sessi non si può esprimere in maniera più eloquente di questa isolata richiesta di parola del III secolo. Essa aveva fatto del Nazareno un figlio di mamma ed un eterno scapolo, che non poteva sopportare accanto a sé alcuna donna una volta asceso al cielo. Inutilmente lo Spirito Santo aveva ripartito i suoi carismi indistintamente tra donne e uomini, durante i primi cinquant'anni del giubilo pentecostale. Sì, allora le donne non si vergognavano di dichiarare liberamente in pubblico quanto veniva loro in mente per ispirazione, come profetesse, predicatrici, indovine, evangeliste, teologhe. Si può addirittura pensare che qualche compagna del Nazareno nel circolo ebraico di Gesù del primo periodo potesse aspirare allo stesso rango di Simon Pietro e degli altri Apostoli, come quella Maria di Magdala che aveva accompagnato il suo amico fino all'esecuzione, mentre il branco dei discepoli maschi brillava per la sua assenza. Oppure l'altra Maria del villaggio di Betania, che era stata lodata esplicitamente da Gesù con le parole: si è scelta la parte migliore. Ben presto, tuttavia, si fecero sentire le voci di alcuni uomini ai quali l'orgogliosa consapevolezza delle donne cristiane dava sui nervi. In alcune epistole che essi diffusero sotto il nome di Paolo, si poteva leggere che la predica era cosa da uomini, così come, ovviamente, solo a uomini spettavano tutti i compiti direttivi nelle comunità cristiane. Poiché Adamo era stato creato per primo, e solo dopo Eva. E non Adamo si era lasciato sedurre, ma la donna si era fatta ingannare ed era caduta nel peccato. I signori che la pensavano così nel II e III secolo assunsero gradualmente il comando nelle comunità cristiane. Ma non in tutte. Un uomo di nome Abercio della provincia dell'Asia (Turchia occidentale) intorno all'anno 200 diede l'incarico di incidere un'iscrizione sepolcrale che doveva registrare le esperienze più importanti della sua vita. Un pastore divino, cosi scrisse Abercio, che pasceva le pecore con occhi attenti, sapiente e affidabile, lo aveva mandato a Roma, per vedere un popolo che conservava un sigillo scintillante, governato da una regina in vesti dorate. Nel suo viaggio lo aveva accompagnato il caro Paolo e la Signora Pistis. Egli era passato anche per la Siria: dappertutto aveva trovato compagni nella fede ed era stato ospitato e rifocillato. "Chi è in grado di comprendere, preghi per Abercio". Il testo cifrato (pistis significa "fede"), comprensibile solo per iniziati, allude alla celebrazione cristiana della Cena del Signore, e naturalmente anche a Gesù con il suo sguardo luminoso. Che l'apostolo Paolo appaia in compagnia femminile non è evidentemente un caso. L'accenno alla regina romana dà parimenti un accento femminile, e d'altra parte nell'iscrizione viene nominata anche un'altra vergine immacolata, nel contesto della cena rituale. La codificazione devozionale misterica della partecipazione femminile alla vita comunitaria cristiana con un ruolo-guida sembra parte di una traccia che più tardi venne accuratamente cancellata. Solamente da astiose osservazioni del partito di Simon Pietro si può rilevare come stessero le cose prima della svolta costantiniana. "Come sono sfacciate e arroganti le donne eretiche", scrisse il cristiano Tertulliano. "Esse osano insegnare, disputare, eseguire esorcismi, promettere guarigioni, se possibile persino battezzare". Il sospetto dell'eresia sgorgava dalla penna di quell'uomo nello stesso periodo in cui veniva formulata l'iscrizione di Abercio. Per Tertulliano, un giurista originario del Nordafrica, nella sua patria una donna a capo di una comunità cristiana veniva definita "questa vipera". Questo genere di ingiurie era frequente. Proprio quei circoli cristiani in cui le donne potevano ancora far sentire la propria voce ricevettero dai loro nemici il marchio a fuoco della perversione morale e ideologica. Che cosa avessero pensato veramente e come in realtà avessero vissuto i cristiani e le cristiane diffamati, si poteva solo faticosamente ricostruire, prima del ritrovamento di Nag Hammadi, dagli scritti polemici dei loro persecutori, i custodi della fede e dei costumi. In essi affioravano quei bizzarri nomi di eresie che i bravi ortodossi pronunciavano solo con ribrezzo: Carpocraziani, Barbelognostici, Ofiti, Fibioniti, Stratiotici. Ogni specie di ignominia riferiva il polemico vescovo Epifanio nella sua Cassetta farmaceutica (Panarion in greco), antidoto spirituale ai veleni dei Criptocristiani: costoro avevano l'usanza di riunirsi in preghiera completamente nudi. Dopo un'abbondante cena con arrosto e vino, aveva luogo l'orgia. Un altro esperto dell'argomento, di nome Ireneo, tagliava parimenti i panni addosso ai deviazionisti che chiamavano se stessi Perfetti e Pneumatici. Un seduttore di nome Marco a Lione, dove Ireneo era vescovo intorno al 180, avrebbe fatto girare la testa specialmente alle donne cristiane, attraverso l'invio di incantesimi magici. Con preghiere di scongiuro gli sarebbe riuscito di far apparire rosso porpora il calice con il vino santo. Avrebbe incitato le donne a pronunciare le parole di transustanziazione sul vino, e quindi a versare i loro calici nel suo, fino a farlo traboccare. Avrebbe nominato profetessa più di una donna con le parole "apri la tua bocca, la grazia è scesa su di te". Per questo la sciagurata avrebbe pronunciato sfacciatamente le più grosse sciocchezze. Oltretutto, non si poteva escludere che il briccone avesse adescato le sue seguaci con l'esortazione ad accedere alla perfezione della stanza nuziale santa per accogliere il seme della luce. Nella biblioteca gnostica di Nag Hammadi, al contrario, non si trova un solo passo a favore di una condotta di vita sregolata o di costumi sfrenati. Con notevole frequenza, sotto diversi nomi, affiora invece nelle ricostruzioni teosofiche di questa spiritualità esclusiva un principio femminile associato a quello maschile fin dentro al cuore del divino, reso dinamico attraverso i miti e intriso di simbolismo numerico. Queste riflessioni non venivano sicuramente dalla Bibbia.

La ragazza patrizia che, a Roma o ad Alessandria, metteva il naso tra i trattati gnostici, aveva spesso un debole per le letture di sapore filosofico. Di regola, aveva fatto conoscenza con il credo cristiano tramite l'ancella che le massaggiava il ventre. Una religione meravigliosa, con un giovane pastore come dio, che offre la vita eterna. Nelle riunioni di cristiani le donne erano in nettissima maggioranza. Erano molto in vista le donne facoltose nel fiore degli anni, rimaste vedove giovani o nubili, che non trovavano alcun piacere nella vita matrimoniale. Esse sostenevano i poveri, visitavano gli ammalati e accoglievano predicatori forestieri nelle loro ville - asceti colti dallo sguardo visionario, la cui ricerca spirituale aveva trovato ispirazione, che dalle sfere superiori risuonava come una chiamata a tornare finalmente a casa. Di tale calibro erano i capiscuola del cristianesimo pneumatico, che più tardi ottennero un posto in prima fila nei cataloghi degli eretici: Basilide, Marcione, Valentino. Essi saltarono fuori per cosi dire dal nulla sulla scena della storia, cent'anni dopo la morte di Cristo, e trovarono un pubblico attento nelle colte adoratrici di Cristo. La parola greca per sapienza, sophia, declinata al femminile, affiora nell'insegnamento di questi teosofi come un Leitmotiv in molteplici variazioni. Ora questa divina Sophia siede su un monte, prende desiderio di se stessa, appaga da sé la sua brama e rimane perfino incinta. Un uomo non è mai presente a questo evento creativo da cui ha origine il mondo. Un'altra volta la donna divina nasce da un altro essere femminile, Pistis. Oppure subisce un aborto, che si trasforma in un mostro il quale non ha nient'altro da fare che creare il mondo. La Sophia gnostica non nasconde di essere per natura lussuriosa. Essa si perde in ogni specie di acque profonde, il suo massimo desiderio è andare a letto con suo padre, ma anche con suo figlio. Innocenza e vizio si fondono in lei come nel Vaso di Pandora dello scrittore tedesco Frank Wedekind. E per colmare la misura, essa viene per di più paragonata allo Spirito Santo, alla ruah semitica, la cui forza sotto forma di serpente gioca un tiro mancino al Signore del Paradiso. In un breve testo incluso negli scritti di Nag Hammadi l'orgoglio femminile si spinge tanto avanti da presentarsi in prima persona, con voce tonante. "Guardatemi", cosi comincia l'audace carme, "voi che meditate su di me. Siate attenti. Io sono la Prima e l'Ultima, l'Onorata e la Disprezzata, la Puttana e la Santa, Donna e Vergine, Madre e Figlia. Sono silenzio, sono voce, pudicizia e corruzione, impaurita e audace. Dovunque odiata, dovunque amata. Io sono la Sophia". Purtroppo non ci è dato di sapere se fu un uomo o una donna a recitare questi versi, prima che fossero messi per iscritto, forse in una piccola cerchia, in uno dei lunghi pomeriggi di animato dialogo tra i correligionari di entrambi i sessi, magari in una tenuta della campagna romana. Si può supporre che in tali riunioni circolasse nell'aria un delicato fluido erotico. E perché no, in fondo? Dell'attività riproduttiva, tali circoli non si preoccupavano affatto. Le donne, libere da gravidanze e doglie del parto, rimanevano giovanili e ben curate. Gli uomini avevano già raggiunto la pace dei sensi, cosa che allora capitava spesso a quarant'anni. Solo raramente il velo che posa su questa elegante religiosità, quando le donne non erano ancora Cenerentole, viene un poco sollevato. Talvolta compare un nome femminile in relazione all'attività di predicazione e di guida della comunità, per esempio quello di una certa Marcellina, attiva a Roma intorno al 150. Di una donna di nome Flora si sa solamente che le venne dedicata una lettera pastorale. Del resto le raffinate cercatrici di Dio di un cristianesimo esoterico, che è tramontato nei secoli bui delle migrazioni di popoli, rimangono anonime. Ad esse fa riferimento un'iscrizione funeraria di Roma, che nel III secolo un marito affettuoso ha dedicato alla sposa Flavia Sophia. "Unta nei bagni di Cristo", cosi l'iscrizione si rivolge alla defunta, "ti sei affrettata per vedere il Grande Angelo, sei giunta alla stanza sponsale e sei salita in grembo al Padre, immortale". La prima parola sulla lapide spezzata: "Luce".


QUELL'ALTRO DISCEPOLO

Il più grandioso e antico testo della nuova spiritualità dopo la nascita di Cristo venne chiamato "Vangelo di Giovanni", nome con cui secondo la tradizione della Chiesa si voleva indicare l'apostolo omonimo. Nel Vangelo stesso viene tuttavia presentata un'altra versione. L'autore del libretto sarebbe l'allievo prediletto di Gesù, si dice in una nota di mano diversa proprio in chiusura, egli sarebbe stato testimone di quanto scrive, e direbbe la verità. Quello che l'autore mise per iscritto entrò nel Nuovo Testamento come quarto Vangelo. Eccone l'inizio: In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Che un pescatore della Palestina di nome Giovanni, uno dei Dodici che circondavano Gesù, figlio di un certo Zebedeo, disponesse di una tale capacità espressiva è improbabile. Si dubita addirittura che l'apostolo Giovanni sapesse leggere e scrivere. Il suo nome serviva a conferire allo scritto dell'anonimo discepolo di Cristo l'autorità necessaria. Esso venne messo in circolazione attorno all'anno 100, forse a Efeso, all'inizio senza titolo; in breve tempo divenne molto popolare tra i cristiani. Si alzarono tuttavia anche voci di critica, e forse per questo alcuni ammiratori del mirabile testo potrebbero aver pensato di spacciarlo per Vangelo dell'apostolo Giovanni. Allora simili attribuzioni non erano affatto rare. Il vero autore, al contrario, quel discepolo tanto unito in spirito a Gesù, rimase intenzionalmente anonimo, si nascose per così dire tra le righe del testo. Durante una cena comune prima di quella festa pasquale così funesta per Gesù, il discepolo prediletto si intrufola per la prima volta nel testo; egli giace sul triclinio così vicino al maestro che può appoggiargli la testa sul petto. Più tardi, unico uomo, sta con la madre di Cristo e la bella Maria di Magdala sotto la croce e osserva come il soldato con la lancia trafigge il petto del suo maestro. Il mattino di Pasqua precede l'apostolo Pietro presso la tomba di Cristo, la trova vuota e viene sommerso da un'ondata di gioia. Infine siede con Pietro e alcuni altri apostoli, tra i quali anche il pescatore Giovanni, in una barca sul lago di Genezaret; scorge sulla sponda una figura e sa: è Lui. Un'altra allusione celata mette "quell'altro discepolo" in rapporti di fiducia con il sommo sacerdote ebraico, cosa che rende ancora più misteriosa la faccenda. Ulteriore confusione provoca l'esordio dell'ultimo libro del Nuovo Testamento, l'Apocalisse di Giovanni. Io, Giovanni, scrive l'autore, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione [...], mentre mi trovavo nell'isola chiamata Patmos [...], rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente. La tradizione identificò nel visionario solitario l'apostolo che aveva composto anche il quarto Vangelo. Gli specialisti moderni, diffidenti come sono, da tempo non lo credono più. Analisi accurate dello stile e del lessico dei due libri hanno dimostrato che è impossibile che l'Apocalisse di Giovanni e il Vangelo di Giovanni siano frutto della stessa mano. Affiorano così, dietro la figura di Giovanni, dai tempi più remoti, altri volti, indistinti come nella nebbia, tra cui appunto anche quell'"altro" discepolo, che aveva conosciuto personalmente Gesù ed era con lui a tavola mentre l'apostolo Giuda abbandonava la sala per andare a informare gli sbirri. Di certo, all'epoca doveva essere piuttosto giovane, se era ancora in grado, cinquanta o sessant'anni dopo la morte di Cristo, di ordinare le sue memorie e di comporle in un libro, il cui inizio tradisce un teologo di prim'ordine: In principio era il Verbo. Egli potrebbe essere l'autore anche delle tre lettere tramandate nel Nuovo Testamento sotto il nome dell'apostolo Giovanni: in esse parla un uomo anziano con la pacatezza di chi ha già voltato da tempo le spalle alle tribolazioni mondane. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta. Questo è il messaggio che abbiamo udito [...]: che Dio è luce e in lui non ci sono tenebre.

All'ombra, per così dire, della Grande Artemide, che ad Efeso aveva il suo celeberrimo tempio, dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani, un vecchio ebreo in una ristretta cerchia conferì dunque un tono diverso alla religione. E' giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre [...]. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Dio è spirito. Quel che è nato dalla carne è carne, e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. E' lo spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla. Lo Spirito Santo [...] vi insegnerà ogni cosa. Il Vecchio, come veniva chiamato con rispetto dai cristiani di Efeso, introdusse un nome insolito per lo Spirito Santo - parakletos. Tradotto letteralmente, significa "chiamato in soccorso", termine con cui in greco veniva indicato un assistente legale durante un processo giudiziario, un intercessore, un avvocato, o un difensore. La corretta traduzione latina suona perciò: advocatus. La freddezza giuridica di tale termine non si addice assolutamente all'infuocata prosa giovannea; più credibile sembra un'interpretazione che venne preferita dai Padri della chiesa orientale, e che conferisce un tono amichevole all'attività dello Spirito: Consolatore. Anche Lutero, più tardi, avrebbe tradotto così (Troster). Io pregherò il Padre, dice il Gesù del Vangelo di Giovanni, ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce". Nella memoria del Vecchio di Efeso il ricordo della voce amata del Maestro si mescolava ai pensieri propri di una vita movimentata. Metti allora per iscritto, o vecchio, ciò che ci hai già così spesso raccontato, perché non vada perduto. Devo scrivere? Dettare sarebbe meno faticoso... Il risultato, soprattutto nelle ultime dichiarazioni del Vangelo di Giovanni, non ha pari per delicatezza in nessun altro testo della Bibbia. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete. Io vado a prepararvi un posto. Poi ritornerò e vi porterò da me. Non sia turbato il vostro cuore. Rimanete nel mio amore. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. E' ben per voi, che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera. Chi parlava cosi, sapeva il Vecchio, aveva mantenuto la sua promessa. Secondo la scrittura il morto era venuto in mezzo ai suoi discepoli, a porte sbarrate, la sera del primo giorno della settimana dopo la sua crocifissione, non come un fantasma, ma in carne e ossa; aveva mostrato loro le stigmate e li aveva salutati con shalom (pace a voi). E i discepoli gioirono al vedere il Signore, raccontò il Vecchio. Poi l'apparizione aveva soffiato su di loro e pronunciato le parole: Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi. E poi? Ma di questo avvenimento il vecchio signore non aveva ulteriori ricordi, oppure era stanco di parlare. Anche Paolo aveva soggiornato a Efeso, come raccontano gli Atti degli Apostoli, e proprio all'inizio del suo operato aveva posato le mani su parecchi uomini per conferire loro lo Spirito: e i cresimati erompevano subito nel giubilo della lingua. Simili accessi improvvisi erano piuttosto estranei allo spirito di Cristo, come lo aveva consciuto quell'altro, il discepolo prediletto. Al Vecchio veniva in mente una corrente d'acqua, fiumi impetuosi, quando pensava allo Spirito Santo, e stranamente questa forza prorompeva dall'intima carne del maestro, a placare la sete eterna. Può essere che in questo abbia giocato un ruolo anche il ricordo della trafittura di lancia sul Golgota: e subito ne uscì sangue e acqua. Tra il Venerdi Santo e la Domenica di Pasqua era in ogni caso successo qualcosa di incredibile. La morte del Maestro aveva scatenato lo Spirito Santo, grazie al quale il discepolo era divenuto evangelista, portatore della buona novella della vita eterna. Chi crede in me, aveva detto il Maestro, non morrà in eterno. Cosa intendesse dire, l'"altro" discepolo lo aveva compreso nell'istante in cui aveva messo piede nel sepolcro vuoto nel quale era stato posato il corpo senza vita del Maestro. Lo spirito rende vivi. Allo spirito Consolatore era riuscito di far risplendere la natura divina del Maestro agli occhi del discepolo prediletto. La luce splende nelle tenebre. La luce vera, quella che illumina ogni uomo. Il Vangelo "secondo Giovanni", come venne chiamato, era dovuto a un'illuminazione senza salivazione, roteamento degli occhi e dono delle lingue. Lo spirito con cui era stato scritto si rivolgeva ai dotti, non agli analfabeti. Il Consolatore del quarto Vangelo non attivava forze profetiche o balbettii vaticinatori, ma la visione delle cose ultime. Chi opera la verità, viene alla luce. Ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, affermava il Vecchio ebreo nella cerchia ristretta dei cercatori di saggezza di Efeso, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Il Vecchio di Efeso, che forse era quello stesso giovane che si era stretto così affettuosamente al maestro, raccontava la storia di un amore infinito. Il concetto di Dio e il principio dell'amore erano in questo racconto una cosa sola, il polo positivo nel fondamentale rapporto di tensione che domina gli eventi. Il polo negativo, chiamato mondo, non dava di sé un'immagine particolarmente piacevole. In esso dominavano avidità, odio e follia. Un ultimo tentativo del principio dell'amore di farsi capire dal mondo risaliva a solo qualche decennio prima: in Palestina lo spirito era sceso come una colomba sull'uomo Gesù, come segno del fatto che il Prescelto era venuto a portare al mondo la notizia che esso era amato moltissimo da Dio. Ma tutto fu vano. Il mondo non prestò alcuna fede alla figura della luce, nonostante i segni e i miracoli del Prescelto. Al contrario. Sacerdoti ebrei e soldati romani portarono il Figlio di Dio davanti al tribunale di Ponzio Pilato. Alla domanda, che delitto avesse commesso, Gesù aveva risposto: Il mio regno non è del mondo". Il Vecchio di Efeso ritornava sempre a questa distinzione basilare. Alla fine dell'Ultima Cena, prima della sua cattura, il Maestro aveva levato gli occhi al cielo, raccontava il Vecchio, e usato parole che solo un Dio può pronunciare: Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo. Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Nel mondo, non del mondo. La formula era inaudita per il fatto che creava una distanza tra Io e Non-Io, che in precedenza era impensabile. Per la sensibilità greca, il mondo era una totalità ben ordinata, per la religiosità ebraica una creazione dell'Onnipotente. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. La teologia del Vangelo giovanneo, al contrario, introduceva una negazione totale di tutto l'esistente, un linguaggio di insoddisfazione, che non risulta particolamente gradevole. Lo Spirito consolatore di Giovanni si comportava nei rapporti di forza come un pubblico ministero che trattasse da imputato l'intero cosmo. Davanti al tribunale stava il "principe di questo mondo", e questo era ovviamente il diavolo. Dalla demonizzazione del mondo c'era ancora solo un passo per la vita puramente spirituale. Questo passo doveva essere fatto in Persia.


MANI

Il ponte tra Gesù e Buddha venne gettato attorno al 250 d.C., in Mesopotamia, la terra del Tigri e dell'Eufrate, da un uomo eccezionale di nome Mani, che si richiamava esplicitamente all'ispirazione dello Spirito Consolatore di cui il Vecchio di Efeso aveva annunciato la potenza. "Tutto ciò che è successo e che succederà", affermò Mani, "mi venne rivelato attraverso il Paracleto. Egli mi rivelò il mistero nascosto della Luce e delle Tenebre, il mistero della creazione di Adamo, il mistero dell'Albero della Conoscenza, da cui ha mangiato Adamo, per cui i suoi occhi cominciarono a vedere; inoltre il mistero degli Apostoli inviati nel mondo, anche il mistero dei prescelti e dei peccatori. Tutto ciò che l'occhio vede e che l'orecchio sente e che il pensiero pensa, io l'ho compreso attraverso il Paracleto". Il nuovo ambasciatore dello Spirito Santo si autodefiniva "apostolo della Luce", e si considerava dopo Buddha, Zarathustra e Gesù come l'ultimo, definitivo e perfetto testimone della Verità eterna. Evidentemente Mani non soffriva di complessi di inferiorità, il che non deve sorprendere, con una madre appartenente all'alta aristocrazia. Educato nella sapienza antico-persiana, indiana, ebraica, greca, cristiana, Mani era anche versato nella medicina, nell'arte e nella musica. Disabile dalla nascita per via di una gamba paralizzata, veniva insultato dai suoi nemici come storpio. I nemici erano i sacerdoti degli antichi templi di fuoco, la cui fiamma non doveva mai spegnersi. Per essi Mani rappresentava un eretico e un demonio. Alla fine lo catturarono, lo accusarono davanti al re Bahram I e ottennero la sua carcerazione. Mani morì in prigione, all'età di sessant'anni. Egli lasciò in eredità una religione mondiale, con testi sacri, cerimonie commoventi, missionari infaticabili. Mezzo secolo dopo la morte del suo fondatore la chiesa manichea aveva sedi in tutto l'Impero romano; il primo editto imperiale contro di essa, sottoscritto da Diocleziano, risale all'anno 297. Nel regno turco degli Uiguri essa divenne religione di stato nel 762, penetrò fino in Cina e scomparve dalla storia delle religioni solo nell'alto Medioevo estenuata dalla spietata ostilità dei suoi concorrenti zarathustriani, cristiani, islamici, buddhisti e confuciani. Evidentemente, la chiesa dello Spirito Paracleto aveva propositi tanto contraddittori da non poter durare a lungo come sanatorio per le masse.

Quello che il Consolatore aveva rivelato a Mani eliminava in effetti radicalmente tutte le angustie della vita - attraverso la rinuncia a priori, organizzata e irrevocabile, alla discendenza. La dottrina segreta dei prescelti (in latino: electi), che costituivano il nucleo della Chiesa dello Spirito, poneva questi uomini e queste donne nel mondo come ampolle, per distillare da essi la preziosa sostanza di luce, attraverso una rigorosa riduzione al minimo di tutte le funzioni vitali di tipo orale, manuale e genitale. Una volta al giorno i Perfetti, come venivano anche chiamati, si accostavano al pasto santo, che veniva loro servito solennemente dai meno dotati "uditori" (auditores). Consisteva in acqua e pane, con l'aggiunta di un po' di verdure, soprattutto cetrioli e meloni che contenevano, si pensava, un'alta percentuale di luce. La consumazione di cibo da parte dei prescelti raccoglieva i quanti di luce come in un apparecchio per la distillazione. Queste particelle di Dio fuoriuscivano poi dalle bocche dei Perfetti quando essi emettevano un sospiro durante la preghiera, e ritornavano al polo positivo. La particolareggiata procedura dipendeva dal fatto che la realtà terrena era caratterizzata da quel terribile ottenebramento che veniva continuamente deplorato nelle teosofie esoteriche del Vicino Oriente. Il sistema di Mani esprimeva questo stato di cose con un'immagine militare, come una battaglia permanente tra il Regno della Luce e il Mondo dell'Ombra, che tra di loro erano in stato di guerra. Moltissimo tempo prima era riuscito alle forze delle tenebre di impadronirsi dell'anima di un prototipo, molto prima della creazione del mondo. Quest'ultimo non poté far altro che costituirsi da una miscela di luce e tenebre, spirito e materia. L'unica cosa che importava nella battaglia dei mondi era il ristabilimento definitivo della condizione originaria, della divisione tra polo positivo e polo negativo, tra Dio e diavolo, luce e tenebre, spirito e carne. Ciò che non si poteva riportare al campo positivo doveva alla fine essere ridotto a una massa informe, in un incendio di dimensioni cosmiche che durasse esattamente 1468 anni, fino alla definitiva eliminazione del male. Nel frattempo, i santi della Chiesa dello Spirito guardavano con rispetto e fiducia alla luna, che nella fase crescente raccoglieva la luce dispersa per restituirla nella fase calante al sole, che da parte sua nel passaggio attraverso i dodici segni zodiacali la irradiava ancora più in alto. Nella falce di luna c'era ancora posto per le anime degli Eletti, non appena il loro involucro terrestre moriva. Per gli imperfetti c'era pur sempre la consolazione che dopo alcune reincarnazioni avrebbero anch'essi intrapreso l'ultimo viaggio, sfuggendo alla valle di lacrime mondana. Perché vivere equivaleva a soffrire. Questa formula era stata coniata per la prima volta da quel nobile Gotama che era divenuto il Buddha, il "Risvegliato", senza polvere sugli occhi. Il suo nobile ottuplice sentiero, percorso da uomini e donne desiderosi di sfuggire al mondo, era considerato nell'India del re Asoka (272-231 a.C.) una regola di vita altamente raccomandabile, come il cristianesimo sotto l'imperatore Costantino seicento anni più tardi. Il re Asoka era diventato buddhista dopo una spietata campagna di conquista. "Ogni volta che una terra indipendente viene assoggettata", fece scolpire il re su una delle sue famose lapidi che fungevano da editti, "il massacro, la morte e la deportazione delle persone sono enormemente dolorosi per l'amato dagli dèi e sono un peso enorme sulla sua anima". Pare che il re pentito abbia sacrificato i capelli e la barba e abbia indossato il saio del monaco, fino a che gli affari di governo non lo richiamarono indietro. Subito dopo, la veste color ocra dei monaci buddhisti si diffuse dovunque sul subcontinente asiatico. Un monarca tormentato dai rimorsi era divenuto il patrono di una nuova cultura, la vita monastica. I monaci vestiti di giallo non evitavano solo le donne, ma anche tutte le domande inutili sul senso della vita, sull'esistenza di Dio, sulla vita dopo la morte. Essi si tenevano lontani dalla religione tradizionale, con le sue litanie, libagioni, sacrifici di capre. Vagabondavano per la campagna, come aveva fatto il loro maestro, forniti soltanto degli otto requisiti - tre vesti, una ciotola per l'elemosina, un rasoio, un ago, una cintola, un filtro per l'acqua. Durante la stagione delle piogge, da giugno a settembre, si fermavano in un luogo, per imparare a memoria i detti del Buddha e per conoscere a fondo il proprio corpo attraverso una profonda concentrazione sui suoi diversi umori, i suoi muscoli e le sue ossa, la sua lenta corruzione dopo la morte attraverso putrefazione e decomposizione. Può essere che Mani abbia incontrato questi nichilisti, quando visitò la valle dell'Indo dopo essere stato risvegliato dal Paracleto. Sembra non aver conservato molto del colore giallo: egli indossava calzoni bicolori, verde porro e rosso, e un mantello color cielo. Il suo clero preferì in seguito, in Persia, il bianco brillante, combinato con un'alta tiara sulla testa. Ma l'abito non fa il monaco. Mani era convinto di essere l'incarnazione del profetizzato Maitreya, il "Buddha che viene", il "ben disposto". Egli era dunque libero di regolare monasticamente la vita del nucleo della nuova Chiesa dello Spirito, conformemente alle esperienze dei monaci indiani. Così per lo meno Mani interpretava il compito assegnatogli dallo Spirito Paracleto. La comunicazione tra India e Mediterraneo passa attraverso l'Iran, e quindi era giusto che un persiano mediasse la conoscenza tra Gesù e Buddha, all'ombra della cultura monastica.

In base al frammento persiano M2, un certo Addas, quando Mani era ancora in vita, predicò la dottrina della Luce in Egitto e fondò numerosi monasteri. Contro questo missionarismo manicheo fu inviata una lettera pastorale cristiana, già nella seconda metà del III secolo, che rimprovera alla nuova chiesa di essere contro il matrimonio. La lettera metteva in guardia soprattutto dalle donne che andavano di casa in casa a fare propaganda in nome del profeta persiano. Gli scarsi accenni sembrano sorprendenti, poiché non collegano l'inizio del monachesimo del Vicino Oriente, come di consueto, all'opera dell'eremita cristiano Antonio, che intorno al 275 si ritirò nel deserto egiziano, ma considerano il nuovo modello di vita come un'importazione dalla Persia, di ispirazione buddhistica e teosofica, perciò di origine assolutamente non biblica. E cosi era. In nessun punto degli scritti della prima generazione di cristiani, le lettere di Paolo e i Vangeli, il fondamentale disgusto per il mondo diventa un programma di rinuncia, senza il quale non si dà vita monastica. Del Nazareno veniva persino raccontato che avesse occasionalmente bevuto molto volentieri un sorso di vino, e che fosse rimasto nel deserto solamente quaranta giorni, per venire poi tentato da Satana. La mentalità ebraica, dalla quale derivavano le storie di Gesù, era tanto estranea al disprezzo della carne femminile quanto alla rinuncia di una bella schiera di figli. Tutt'al più la scarna figura di Giovanni il Battista si poteva considerare prototipo del celibato ascetico, ma contro di lui si ergeva l'immagine di Gesù, che si faceva massaggiare i piedi in pubblico da una prostituta nota in tutta la città. Anche il fervore dei sentimenti che venivano attribuiti al Nazareno, ad esempio a casa di Lazzaro e delle sue sorelle, non si adattava per nulla all'immagine di un monaco, e di certo un casto non avrebbe sopportato al proprio fianco il giovane affettuoso di cui raccontava così chiaramente il Vecchio di Efeso. No, non veniva certo da Gesù l'idea di reprimere l'amore per la vita, ma dallo Spirito Paracleto e Consolatore, che aveva pronta la risposta giusta alla disperazione esistenziale di molte persone tra Persia ed Egitto. Dove siamo stati gettati? La chiamata dall'aldilà pieno di luce, cosi come circolava nei sensibili cenacoli femminili di alcune comunità cristiane, consigliava la fuga dalla carne, il rifiuto dei volgari piaceri dei giochi gladiatori, lo studio pacifico di trattati teosofici, l'alimentazione vegetariana, il ritiro dagli affari e dalla politica, la rinuncia a procreare. Tutto ciò ancora nell'ambito di una concezione tradizionale dell'economia domestica, a partire dal II secolo dell'era cristiana, allorché la speranza nel declino dell'esistente e nell'imminente ritorno di Cristo era quasi scomparsa tra i cristiani. Inoltre, tanti di loro avevano conosciuto il carcere, erano stati condannati ai lavori forzati nelle cave di pietra, cosa che influì sul loro stato d'animo. Il mondo si rivelava un luogo ostile. Il Consolatore vi guiderà alla verità piena, si legge nel Vangelo di Giovanni, e la verità piena si trovava evidentemente nel rinunciare, nel rifiutare, nell'astenersi dai piaceri sensuali, si trovava nel "vivere come angeli", come si diceva. Nei cento anni precedenti Mani, prima che egli facesse balenare la piena verità nello spirito dei Persiani, il Consolatore non era affatto rimasto inattivo. Qua e là, soprattutto in Siria e in Anatolia, fin oltre il Tigri, sulle cui sponde crebbe il giovane Mani, in una comunità di credenti di villaggio con severe regole di purezza e frequenti abluzioni, il Paracleto aveva trovato tra giovani di entrambi i sessi alcuni seguaci risoluti - ventenni orgogliosi della propria vocazione provenienti dalle comunità cristiane, ai quali il morbido letto nuziale non offriva alcuna prospettiva di una vita ardita. Essi fuggirono di casa come la selvaggia Tecla in un romanzo i cui episodi andavano di bocca in bocca intorno al 200: la protagonista era una fanciulla appassionata che si gettò nuda in una piscina piena di pescecani nell'anfiteatro di Antiochia e rimase illesa. Con meraviglia dei sedentari cristiani, i giovani nomadi vagavano di villaggio in villaggio, cantavano i loro inni spirituali e i loro esorcismi, chiedevano la carità per le campagne e coltivavano la loro diversità.

Gesù era morto giovane, e anche Mani cominciò a predicare a venticinque anni. Presto presero ad accompagnarlo due dozzine di eletti, ragazze e ragazzi indiscriminatamente. La nuova Chiesa dello Spirito prese il via come movimento giovanile, cosmopolita, senza legami con una città natale, con una patria, con una lingua madre, in cammino verso un futuro senza differenze tra i sessi, con lo slancio dell'innocenza e la freschezza di un nuovo inizio, e con un motto coniugato al modo congiuntivo e non all'indicativo. Già a partire dal 244 comparvero i primi apostoli di Mani in Egitto, parecchi decenni, dunque, prima di Antonio, nominalmente il primo padre del monachesimo nel Vicino Oriente, e organizzarono comunità per gli eletti, monasticamente separate dal mondo della violenza, dell'avidità e della sessualità. Se questa informazione è esatta, la vita monastica cristiana si deve proprio a quel Mani che più tardi è stato denigrato dalla Chiesa cattolica come eretico e ciarlatano. A sostegno dell'origine manichea del monachesimo c'è anche il fatto che all'epoca del primo Concilio di Costantinopoli, nel 381, la maggior parte dei metropoliti e vescovi egiziani, così come numerosi eremiti, erano seguaci di Mani. E nell'urna di Nag Hammadi, che venne alla luce nel 1945, guarda caso solo a pochi chilometri di distanza dal sito del primo monastero cristiano conosciuto, giacevano gli scritti proprio di quella spiritualità che caratterizzava anche il pensiero di Mani, e non le lettere di Paolo o i Vangeli canonici di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Questi ultimi non avevano bisogno di venire nascosti, intorno al 350, allorché venne ufficializzata la Chiesa cattolica costantiniana. A essere seppelliti, invece, furono i documenti più radicali di una mentalità il cui raggio di influenza andava dal Gange al Nilo, le formulazioni di quella profonda disperazione alla quale si devono tutte le religioni del mondo, e di cui la giovane Chiesa dello Spirito costituì, nei suoi circoli, la più universale e più coerente realizzazione, con l'aiuto del Consolatore. L'uso di profumi, che Mani aveva concesso e raccomandato ai suoi eletti, è tuttavia molto presto finito nel dimenticatoio nei monasteri egiziani.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:51
14a - Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), Gesù di Nazaret (RCS 2007)


IL BATTESIMO DI GESU'

L’attività pubblica di Gesù ha inizio con il suo battesimo al Giordano a opera di Giovanni il Battista. Mentre Matteo data questo avvenimento solo con una formula convenzionale – "In quel tempo" - Luca lo inserisce intenzionalmente nel grande contesto della storia universale, permettendo così una datazione ben precisa. A dire il vero, anche Matteo offre una sorta di datazione, premettendo al suo Vangelo l’albero genealogico di Gesù, costruito come albero genealogico di Abramo e Davide: Gesù è presentato come l’erede sia della promessa ad Abramo sia dell’impegno di Dio verso Davide, al quale - nonostante tutti i peccati d’Israele e tutti i castighi di Dio - Egli aveva promesso una regalità eterna. Secondo quest’albero genealogico la storia si articola in tre periodi di 14 generazioni - 14 è il valore numerico del nome Davide -: da Abramo a Davide, da Davide all’esilio babilonese e poi un ulteriore periodo di 14 generazioni. Proprio il particolare che sono di nuovo trascorse 14 generazioni indica che è venuta l’ora del Davide definitivo, della rinnovata regalità davidica intesa come instaurazione della regalità propria di Dio. Come si addice all’evangelista ebreo-cristiano Matteo, si tratta di un albero genealogico giudaico nella prospettiva della storia della salvezza, che guarda alla storia universale al massimo in modo indiretto, nella misura cioè in cui il regno del Davide definitivo, come regno di Dio, riguarda naturalmente il mondo nella sua interezza. Con ciò anche la datazione concreta rimane vaga, perché pure il computo delle generazioni è modellato più sulle tre fasi della promessa che su una struttura storica e non mira a stabilire precise coordinate temporali. Qui intanto osserviamo che Luca non colloca l’albero genealogico di Gesù all’inizio del Vangelo, ma lo collega alla narrazione del battesimo quale sua conclusione. Ci dice che a quel tempo Gesù aveva circa trent’anni, aveva cioè raggiunto l’età che lo autorizzava a un’attività pubblica. Nel suo albero genealogico Luca - al contrario di Matteo - parte da Gesù e percorre la storia a ritroso. Ad Abramo e Davide non viene data particolare rilevanza: l’albero genealogico va indietro fino ad Adamo, anzi fino alla creazione, poiché dopo il nome di Adamo Luca aggiunge: figlio di Dio. In questo modo mette in risalto la missione universale di Gesù: Egli è figlio di Adamo - figlio dell’uomo. Attraverso il suo essere uomo noi tutti apparteniamo a Lui, Lui a noi; in Lui l’umanità conosce un nuovo inizio e giunge a suo compimento.

Torniamo al racconto del battesimo. Luca aveva già fornito due importanti dati temporali nei racconti dell’infanzia. Circa l’inizio della vita del Battista ci dice che esso si deve datare "al tempo di Erode, re della Giudea" (1,5). Mentre il dato temporale concernente il Battista resta così all’interno della storia ebraica, il racconto dell’infanzia di Gesù comincia con le parole: "In quei giorni un decreto di Cesare Augusto..." (2,1). Sullo sfondo, cioè, appare la grande storia universale, rappresentata dall’impero romano.

Luca riprende questo filo introducendo il racconto del battesimo, l’inizio dell’attività pubblica di Gesù. Con solennità e precisione ci dice: "Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa..." (3,1s). Ancora una volta, con la citazione dell’imperatore romano, viene indicata la collocazione temporale di Gesù all’interno della storia universale: l’attività di Gesù non è da considerare inserita in un mitico prima-o-poi, che può significare insieme sempre e mai; è un avvenimento storico precisamente databile con tutta la serietà della storia umana realmente accaduta - con la sua unicità, la cui contemporaneità con tutti i tempi è diversa dalla atemporalità del mito. Non si tratta, tuttavia, solo di datazione: l’imperatore e Gesù personificano due diversi ordini della realtà, che non devono necessariamente escludersi a vicenda, ma che nel loro confronto recano in sé la miccia di un conflitto che riguarda le questioni fondamentali dell’umanità e dell’esistenza umana. "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12,17), dirà Gesù più tardi esprimendo così l’essenziale compatibilità delle due sfere. Ma se l’impero interpreta se stesso come divino, come è già implicito nell’autopresentazione di Augusto come portatore della pace mondiale e salvatore dell’umanità, allora il cristiano deve "obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (At 5,29); allora i cristiani diventano "martiri", testimoni di Cristo, che è morto Egli stesso sotto Ponzio Pilato come "il testimone fedele" (Ap 1,5). Con la citazione del nome di Ponzio Pilato, già dall’inizio l’attività di Gesù è collocata sotto l’ombra della croce. La croce si annuncia anche nei nomi di Erode, Anna, Caifa. Ma si può scorgere ancora qualcos’altro dall’accostamento di imperatore e principi, tra i quali è divisa la Terra Santa. Tutti questi principati dipendono dalla Roma pagana. Il regno di Davide è crollato, la sua "casa" è caduta (cfr. Am 9,11s); il discendente, che secondo la Legge è il padre di Gesù, è un artigiano della provincia della Galilea, abitata da una popolazione prevalentemente pagana. Ancora una volta Israele vive nell’oscurità di Dio, le promesse fatte ad Abramo e a Davide sembrano sprofondate nel silenzio di Dio. Ancora una volta vale il lamento: non abbiamo più profeti, sembra che Dio abbia abbandonato il suo popolo. Ma proprio per questo il Paese era in pieno fermento. Movimenti, speranze e aspettative contrastanti determinavano il clima politico e religioso. Più o meno al tempo della nascita di Gesù, Giuda il Galileo aveva incitato a una rivolta soffocata nel sangue dai romani. Il suo partito, gli zeloti, continuava a esistere, pronto al terrore e alla violenza per ripristinare la libertà di Israele; è possibile che uno o due dei dodici Apostoli di Gesù - Simone lo Zelota e forse anche Giuda Iscariota - provenissero da quella corrente. I farisei, che incontriamo di continuo nei Vangeli, cercavano di vivere seguendo con estrema precisione i dettami della Torah e di evitare l’adattamento alla cultura unitaria ellenistico- romana, che andava imponendosi quasi da sé nei territori dell’impero romano e ora minacciava di appiattire Israele sullo stile di vita dei popoli pagani del resto del mondo. I sadducei, che appartenevano in gran parte all’aristocrazia e alla classe sacerdotale, cercavano di vivere un giudaismo illuminato, consono allo standard spirituale del tempo, e quindi di trovare un compromesso anche con il potere romano. I sadducei sono scomparsi dopo la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), mentre lo stile di vita dei farisei ha trovato forma durevole nel giudaismo plasmato dalla Mishnah e dal Talmud. Se nei Vangeli osserviamo gli aspri contrasti tra Gesù e i farisei, e se la sua morte in croce fu l’esatto contrario del programma degli zeloti, non possiamo tuttavia dimenticare che trovarono la via a Cristo uomini di ogni corrente e che la prima comunità cristiana comprendeva non pochi sacerdoti ed ex farisei. Una casuale scoperta, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, ha avviato a Qumran degli scavi e portato alla luce dei testi che da alcuni studiosi vengono collegati con un movimento più ampio, gli esseni, conosciuto precedentemente solo in base a fonti letterarie. Era un gruppo che si era staccato dal tempio erodiano e dal suo culto e aveva dato vita nel deserto della Giudea a comunità monastiche, ma anche a una convivenza di famiglie fondata sulla religione, e aveva costituito un ricco patrimonio di scritti e di rituali propri, in particolare anche con abluzioni liturgiche e preghiere comunitarie. Ci colpisce la devota serietà di questi scritti; sembra che Giovanni il Battista, ma forse anche Gesù e la sua famiglia, fossero vicini a questa comunità. In ogni caso i manoscritti di Qumran presentano molteplici punti di contatto con l’annuncio cristiano. Non è da escludere che Giovanni il Battista abbia vissuto per qualche tempo in questa comunità e abbia in parte ricevuto da essa la sua formazione religiosa.

Tuttavia, l’entrata in scena del Battista portava con sé qualcosa di veramente nuovo. Il battesimo a cui egli invita si distingue dalle solite abluzioni religiose. Non è ripetibile e deve essere attuazione concreta di una svolta che determina in modo nuovo e per sempre la vita intera. È legato a un ardente invito a un nuovo modo di pensare e di agire, è legato soprattutto all’annuncio del giudizio di Dio e all’annuncio del più Grande che verrà dopo Giovanni. Il quarto Vangelo ci dice che il Battista "non conosceva" questo più Grande a cui voleva preparare la via (cfr. Gv 1,30-33). Ma sa di essere inviato per preparare la via al misterioso Altro, sa che la sua intera missione è orientata verso di Lui. In tutti e quattro i Vangeli questa sua missione è descritta con un passo di Isaia: “Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio"" (Is 40,3). Marco aggiunge un ulteriore passo risultante dalla fusione tra Malachia 3,1 e Esodo 23,20 che, in un altro contesto, incontriamo anche in Matteo (11,10) e in Luca (1,76; 7,27): "Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada" (Mc 1,2). Tutti questi testi dell’Antico Testamento parlano dell’intervento salvifico di Dio, che esce dalla sua imperscrutabilità per giudicare e salvare; a Lui bisogna aprire la porta, preparare la strada. Con la predicazione del Battista queste antiche parole di speranza erano diventate realtà: si annunciava qualcosa di grande.

Possiamo immaginare la straordinaria impressione che dovettero destare la figura e l’annuncio del Battista nell’atmosfera accesa di quel momento della storia di Gerusalemme. Finalmente c’era di nuovo un profeta, qualificato come tale anche dalla sua vita. Finalmente si annuncia di nuovo un agire di Dio nella storia. Giovanni battezza con l’acqua, ma il più Grande, Colui che battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco, è già alle porte. Così non dobbiamo affatto considerare un’esagerazione le parole di san Marco: "Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati" (1,5). Del Battesimo di Giovanni fa parte la confessione: il riconoscimento dei peccati. Il giudaismo del tempo conosceva confessioni di carattere più convenzionale e generico, ma anche l’ammissione personale dei peccati, in cui dovevano essere elencate le singole azioni peccaminose (Gnilka I, p. 68). Si tratta davvero di superare l’esistenza peccaminosa condotta fino a quel momento, di iniziare una vita nuova, mutata. Lo svolgimento del battesimo ne è simbolo. Da un lato, nell’immergersi nell’acqua c’è il simbolismo della morte, dietro il quale sta quello del diluvio che annienta e distrugge. L’oceano nel pensiero degli antichi appariva come la costante minaccia del cosmo, della terra: le acque originarie che possono seppellire ogni vita. Nell’immersione il fiume poteva assumere in sé anche questa simbologia. Ma, in quanto corrente, è soprattutto simbolo di vita; i grandi fiumi - Nilo, Eufrate, Tigri - sono i grandi dispensatori di vita. Anche il Giordano è fonte di vita per la sua terra, lo è ancor oggi. Vi è in gioco la purificazione, la liberazione dal sudiciume del passato, che pesa sulla vita e la altera; si tratta di un nuovo inizio, e cioè di morte e risurrezione, di ricominciare la vita da capo e in modo nuovo. Si potrebbe quindi dire che si tratta di rinascita. Tutto ciò verrà espressamente sviluppato solo nella teologia battesimale cristiana, ma è già incoativamente presente nella discesa nel Giordano e nella risalita dalle sue acque.

Abbiamo appena udito che tutta la Giudea e Gerusalemme accorrevano a farsi battezzare. Ma adesso sopraggiunge qualcosa di nuovo: "In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni" (Mc 1,9). Di pellegrini provenienti dalla Galilea non si era ancora parlato; tutto sembrava limitato al territorio della Giudea. Ma il fatto veramente nuovo non è che Gesù venga da un’altra area geografica, da lontano, per così dire. Il fatto veramente nuovo è che Egli - Gesù - vuole farsi battezzare, che entra nella grigia moltitudine dei peccatori in attesa sulla riva del Giordano. Del battesimo faceva parte la confessione dei peccati (l’abbiamo appena udito). Esso stesso era una confessione delle proprie colpe e il tentativo di deporre una vecchia vita mal spesa per riceverne una nuova. Gesù poteva farlo? Come poteva confessare dei peccati? Come staccarsi dalla vita precedente per una nuova? E’ una domanda che i cristiani si dovettero porre. La disputa tra il Battista e Gesù, di cui ci parla Matteo, dava voce anche a una loro domanda a Gesù: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?" (Mt 3,14). Matteo ci racconta: "Ma Gesù gli disse: “Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia". Allora Giovanni acconsentì" (Mt 3,15). Il senso di questa risposta, che suona enigmatica, non è facile da decifrare. In ogni caso nella parola àrti - per ora - c’è una certa riserva: in una determinata situazione provvisoria vale un determinato modo di agire. Per interpretare la risposta di Gesù è decisivo il significato che si attribuisce alla parola "giustizia": si deve adempiere ogni "giustizia". Nel mondo in cui vive Gesù, "giustizia" è la risposta dell’uomo alla Torah, l’accettazione della piena volontà divina, è prendere su di sé "il giogo del regno di Dio", secondo la formulazione giudaica. Il battesimo di Giovanni non è previsto dalla Torah, ma con la sua risposta Gesù lo riconosce come espressione del sì incondizionato alla volontà di Dio, come obbediente assunzione del suo giogo. Poiché nella discesa in questo battesimo sono contenute una confessione di colpa e una richiesta di perdono per un nuovo inizio, vi è in questo sì alla piena volontà di Dio in un mondo segnato dal peccato anche un’espressione di solidarietà con gli uomini, che si sono resi colpevoli, ma tendono verso la giustizia. Solo a partire dalla croce e dalla risurrezione l’intero significato di questo avvenimento è divenuto chiaro. Scendendo nell’acqua, i battezzandi riconoscono i propri peccati e cercano di liberarsi dal peso di essere sottomessi alla colpa. Che cosa ha fatto Gesù? Luca, che in tutto il suo Vangelo presta una viva attenzione alla preghiera di Gesù, e lo presenta costantemente come Colui che prega - in dialogo con il Padre -, ci dice che Gesù ha ricevuto il battesimo stando in preghiera (cfr. 3,21). A partire dalla croce e dalla risurrezione divenne chiaro per i cristiani che cosa era accaduto: Gesù si era preso sulle spalle il peso della colpa dell’intera umanità; lo portò con sé nel Giordano. Dà inizio alla sua attività prendendo il posto dei peccatori. La inizia con l’anticipazione della croce. Egli è, per così dire, il vero Giona, che aveva detto ai marinai: prendetemi e gettatemi in mare (cfr. Gio 1,12). Il significato pieno del battesimo di Gesù, il suo portare "ogni giustizia" si rivela solo nella croce: il battesimo è l’accettazione della morte per i peccati dell’umanità, e la voce dal cielo "Questi è il Figlio mio prediletto" (Mc 3,17) è il rimando anticipato alla risurrezione. Così si comprende il motivo per cui nei discorsi propri di Gesù la parola "battesimo" designa la sua morte (cfr. Mc 10,38; Lc 12,50).

Solo a partire da qui si può capire il battesimo cristiano. L’anticipazione della morte sulla croce, che era avvenuta nel battesimo di Gesù, e l’anticipazione della risurrezione, annunciata dalla voce dal cielo, ora sono diventate realtà. Così il battesimo con acqua di Giovanni riceve pienezza di significato dal battesimo di vita e di morte di Gesù. Accettare l’invito al battesimo significa ora portarsi al luogo del battesimo di Gesù e così nella sua identificazione con noi ricevere la nostra identificazione con Lui. Il punto della sua anticipazione della morte è ora diventato per noi il punto della nostra anticipazione della risurrezione insieme con Lui. Nella sua teologia del battesimo (cfr. Rm 6), Paolo ha sviluppato questa relazione intrinseca senza parlare espressamente del battesimo di Gesù al Giordano.

Nella sua liturgia e teologia dell’icona la Chiesa orientale ha ulteriormente spiegato e approfondito questa interpretazione del battesimo di Gesù. Essa vede un legame profondo tra il contenuto della festa dell’Epifania (proclamazione della filiazione divina per mezzo della voce dal cielo: per l’Oriente l’Epifania è la festa del battesimo) e la Pasqua. Nella parola di Gesù a Giovanni – "poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia" (Mt 3,15) - essa vede l’anticipazione della parola pronunciata nel Getsemani: "Padre [...] non come voglio io, ma come vuoi tu!" (Mt 26,39); i canti liturgici del 3 gennaio corrispondono a quelli del Mercoledì santo, quelli del 4 gennaio al Giovedì santo, quelli del 5 gennaio a quelli del Venerdì e del Sabato santo. L’iconografia riprende queste corrispondenze. L’icona del battesimo di Gesù riproduce l’acqua come un sepolcro liquido, dalla forma di cavità oscura, che a sua volta è l’immagine iconografica dell’Ade, gli inferi, l’inferno. La discesa di Gesù in questo sepolcro liquido, in questo inferno, che lo contiene tutto, è anticipazione della discesa agli inferi: "Essendo sceso nelle acque legò il Forte" (cfr. Lc 11,22), dice Cirillo di Gerusalemme. Giovanni Crisostomo scrive: "L’immersione e l’emersione sono immagine della discesa agli inferi e della risurrezione". I tropari della liturgia bizantina aggiungono ancora un ulteriore riferimento simbolico: "Il Giordano un tempo ritornò indietro a causa del mantello di Eliseo e le acque si divisero lasciando un passaggio asciutto, vera immagine del battesimo, mediante il quale noi attraversiamo il corso della vita" (Evdokimov, pp. 275-76).

Il battesimo di Gesù viene così inteso come compendio di tutta la storia, in esso viene ripreso il passato e anticipato il futuro. L’ingresso nei peccati degli altri è discesa all’"inferno" - non solo, come in Dante, da spettatore, ma con-patendo e, con una sofferenza trasformatrice, convertendo gli inferi, travolgendo e aprendo le porte dell’abisso. E' discesa nella casa del male, lotta con il Forte che tiene prigioniero l’uomo (e quanto è vero che tutti noi siamo tenuti prigionieri dalle potenze senza nome, che ci manipolano!). Questo Forte, invincibile con le sole forze della storia universale, viene sopraffatto e legato dal più Forte che, essendo della stessa natura di Dio, può prendere su di sé tutta la colpa del mondo e la esaurisce soffrendola fino in fondo - nulla tralasciando nella discesa nell’identità di coloro che sono caduti. Questa lotta è la "svolta" dell’essere che produce una nuova qualità dell’essere, prepara un nuovo cielo e una nuova terra. Il sacramento - il Battesimo - appare quindi come dono di partecipazione alla lotta di trasformazione del mondo intrapresa da Gesù nella svolta della vita che è avvenuta nella sua discesa e risalita.

Con questa interpretazione e assimilazione ecclesiale dell’avvenimento del battesimo di Gesù ci siamo allontanati troppo dalla Bibbia? In questo contesto conviene ascoltare il quarto Vangelo, secondo il quale Giovanni il Battista, nel vedere Gesù, pronunciò le seguenti parole: "Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" (Gv 1,29). Ci si è arrovellati molto su queste parole, che nel rito romano vengono pronunciate prima della distribuzione dell’Eucaristia. Che cosa significa "agnello di Dio"? Perché Gesù viene chiamato "agnello" e perché questo "agnello" porta via i peccati del mondo, li vince fino a togliere loro sostanza e realtà? Joachim Jeremias ha messo a disposizione i mezzi decisivi per comprendere in modo corretto questa parola e poterla considerare - anche dal punto di vista storico - come vera parola del Battista. Anzitutto sono riconoscibili in essa due allusioni veterotestamentarie. Il canto del servo di Dio in Isaia 53,7 paragona il servo sofferente a un agnello che viene condotto al macello: "come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, [egli] non aprì la sua bocca". Ancora più importante è il fatto che Gesù fu crocifisso durante una festa di Pasqua ebraica e dovette dunque sembrare proprio il vero agnello pasquale, in cui si compiva quello che era stato il significato dell’agnello pasquale nell’uscita dall’Egitto: liberazione dalla mortale tirannia egizia e via libera all’esodo, al cammino verso la libertà della promessa. A partire dalla Pasqua la simbologia dell’agnello è divenuta fondamentale per la comprensione di Cristo. La troviamo in Paolo (cfr. 1 Cor 5,7), in Giovanni (cfr. 19,36), nella Prima Lettera di Pietro (1,19) e nell’Apocalisse (per esempio 5,6). Jeremias sottolinea inoltre che l’unica parola aramaica talja’ significa sia "agnello" sia "giovanetto", "servitore" (GLNT I 1919). Cosi le parole del Battista possono aver indicato anzitutto il servo di Dio che con le sue penitenze vicarie "porta" i peccati del mondo; ma nello stesso tempo esse lo facevano riconoscere come il vero agnello pasquale, che espiando cancella i peccati del mondo. "Paziente come un agnello offerto in sacrificio, il Salvatore è andato a morte per gli altri sulla croce; con la forza espiatrice della sua morte innocente ha cancellato la colpa di tutta l’umanità" (GLNT I 921). Se nell’angustia dell’oppressione egizia il sangue dell’agnello pasquale era divenuto decisivo per la liberazione di Israele, Egli, il Figlio che è divenuto servo - il pastore che è diventato agnello - si fa garante non più soltanto per Israele, ma per la liberazione del "mondo", per l’intera umanità. Con ciò ho toccato il tema dell’universalità della missione di Gesù. Israele non esiste solo per se stesso: la sua elezione è la via attraverso la quale Dio vuole arrivare a tutti. Incontreremo ripetutamente il tema dell’universalità quale centro autentico della missione di Gesù. Con la frase dell’agnello di Dio che porta i peccati del mondo, nel quarto Vangelo tale tema è presente subito all’inizio del cammino di Gesù.

L’espressione "agnello di Dio" interpreta il carattere - se così possiamo dire - di teologia della croce del battesimo di Gesù, della sua discesa nelle profondità della morte. Tutti e quattro i Vangeli riferiscono, anche se in maniera diversa, che nel momento in cui Gesù salì dall’acqua "il cielo si squarciò" (Mc), "si aprirono i cieli" (Mt e Lc), lo Spirito discese su di Lui "come una colomba", mentre dal cielo risuonava una voce: essa, secondo Marco e Luca, si rivolge a Gesù: "Tu sei..."; secondo Matteo, invece, dice di Lui: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto" (Mt 3,18). L’immagine della colomba può ricordare l’aleggiare dello Spirito sulle acque, del quale parla il racconto della creazione (cfr. Gn 1,2); attraverso la piccola parola "come" (come una colomba) essa funge da "immagine di ciò che in sostanza non è descrivibile" (Gnilka I, p. 129). Quanto alla "voce", la incontreremo di nuovo in occasione della trasfigurazione di Gesù, dove però è aggiunto l’imperativo: "Ascoltatelo!". Quando ne parleremo, dovremo dedicare a queste parole una riflessione più approfondita. Qui desidero solo sottolineare brevemente tre aspetti. Anzitutto vi è l’immagine del cielo squarciato: sopra Gesù il cielo è aperto. La sua comunione di volontà con il Padre, l’"intera giustizia" che adempie, apre il cielo, che per natura è il luogo in cui si adempie perfettamente la volontà di Dio. A ciò si aggiunge poi la proclamazione da parte di Dio, il Padre, della missione di Cristo, che però non annuncia un fare, ma il suo essere: Egli è il Figlio prediletto, su cui sta il beneplacito di Dio. Infine vorrei far notare che qui, insieme con il Figlio, incontriamo anche il Padre e lo Spirito Santo: si preannuncia il mistero di Dio Trinità, che naturalmente può svelare se stesso nella sua profondità solo nel corso dell’intero cammino di Gesù. In questo senso, tuttavia, si delinea un arco che unisce quest’inizio del cammino di Gesù alle parole con le quali il Risorto invierà i suoi discepoli nel "mondo": "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19). Il Battesimo che i discepoli di Gesù amministrano da quel momento in poi è l’ingresso nel battesimo di Gesù, l’ingresso nella realtà che Egli con esso ha anticipato. Così si diventa cristiani.

Un’ampia corrente della teologia liberale ha interpretato il battesimo di Gesù come un’esperienza vocazionale: qui Egli, che fino a quel momento aveva condotto una vita del tutto normale nella provincia di Galilea, avrebbe fatto un’esperienza sconvolgente; qui avrebbe raggiunto la consapevolezza di uno speciale rapporto con Dio e della sua missione religiosa, consapevolezza maturata sulla base delle attese allora dominanti in Israele, a cui Giovanni aveva dato nuova forma, e grazie alla commozione personale provocata in Lui dall’avvenimento del battesimo. Ma niente di ciò si trova nei testi. Per quanto colta sia la veste che si può dare a questa teoria, essa è più riconducibile al genere del romanzo su Gesù che alla vera interpretazione dei testi. Questi non ci permettono di guardare nell’intimo di Gesù. Egli è al di sopra delle nostre psicologie (Romano Guardini). Ci fanno, invece, sapere in che rapporto sta Gesù con "Mosè e i Profeti". Ci fanno conoscere l’intima unità del suo cammino dal primo momento della sua vita fino alla croce e alla risurrezione. Gesù non appare come un uomo geniale con le sue emozioni, insuccessi e successi - in tal modo, come individuo di un’epoca storica passata, Egli resterebbe in definitiva a una distanza insuperabile rispetto a noi. Egli invece sta di fronte a noi come "il Figlio prediletto", che se da un lato è il totalmente Altro, proprio per questo può anche diventare contemporaneo di tutti noi, per ognuno di noi più intimo di quanto ciascuno lo sia a se stesso (cfr. sant’Agostino, Confessioni, III,6,11).
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:52
14b
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:52
15 - Joseph Ratzinger, In cammino verso Gesù Cristo (San Paolo 2004)


"CHI HA VISTO ME, HA VISTO IL PADRE" (Gv 14,9)

IL VOLTO DI CRISTO NELLA SACRA SCRITTURA

"VEDERE GESU'" NEL VANGELO DI GIOVANNI

I discorsi dell’addio, tramandati nel vangelo di Giovanni, oscillano in maniera tutta singolare tra tempo ed eternità, tra l’incombere della passione di Gesù e una sua nuova presenza, essendo la passione già di per sé anche "esaltazione" del Figlio. Da una parte grava su questi discorsi l’oscurità del tradimento e della diserzione, del consegnarsi di Gesù all’estrema umiliazione della croce; dall’altra, tutto questo sembra già vinto e trasfigurato nella gloria a venire. Gesù indica la sua passione come un andarsene, preludio di un nuovo e più intenso ritorno, come un cammino di cui i discepoli già sono a conoscenza. E la domanda di Tommaso non si fa attendere: "Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?". La risposta di Gesù è divenuta una proposizione centrale della cristologia: "Io sono la Via e la Verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". Questa rivelazione del Signore suscita una nuova domanda - o piuttosto una richiesta - questa volta presentata da Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta". Gesù risponde con una nuova rivelazione, che sotto altro aspetto introduce nella profondità della sua coscienza, nel cuore della fede cristologica della Chiesa: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,2-9). L’ancestrale aspirazione dell’uomo alla visione di Dio si era espressa nell’Antico Testamento come "ricerca del volto di Dio". Anche i discepoli di Gesù sono dei cercatori del volto di Dio: per questo hanno seguito il Maestro. E ora, nella sorprendente risposta data a Filippo ecco condensata, come in un cristallo, tutta la novità del Nuovo Testamento che irrompe attraverso Cristo: Dio si può vedere, è visibile in Cristo. Questa rivelazione, che qualifica il cristianesimo come religione della compiutezza, ovvero della presenza divina, dà adito immediato ad una nuova domanda, volta a comprendere che cosa significhi il "già-e-non-ancora" come struttura fondamentale dell’esistenza cristiana. Un interrogativo che sentiamo risuonare in tutto il cristianesimo post-apostolico: com’è possibile vedere Cristo e contemporaneamente vedere il Padre? Il Vangelo di Giovanni affronta la questione non nei discorsi del cenacolo, ma il giorno del festoso ingresso in Gerusalemme, allorché alcuni greci, venuti per la Pasqua, si presentano a Filippo, il discepolo che nel cenacolo chiederà di poter vedere il Padre. Filippo è originario di Betsaida di Galilea, una regione fortemente ellenizzata della Terra Santa, e il desiderio espresso dai greci suona: "Signore, vogliamo vedere Gesù" (Gv 12,20s). E' la richiesta del mondo pagano, ma è anche quella dei cristiani di tutti i tempi, e pure la nostra: Vogliamo vedere Gesù! Ma com’è possibile questo? Filippo la trasmette al Signore, facendosi accompagnare da Andrea; ma non sappiamo se l’incontro dei greci con Gesù sia realmente avvenuto. Abbiamo però la risposta di Gesù, misteriosa come quasi tutte le risposte che nel quarto Vangelo il Maestro riserva ai grandi interrogativi dell’umanità. Con le sue parole egli dischiude un orizzonte del tutto inatteso in questo momento; vede infatti, in tale richiesta, l’approssimarsi della sua glorificazione, che esprime con queste parole: "... se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (12,24). La glorificazione avviene nella passione, e da essa deriva il frutto abbondante: cioè - possiamo noi completare - la Chiesa dei gentili, l’incontro di Cristo con i greci, rappresentanti di tutti i popoli della terra.

La risposta di Gesù, in questo modo, va oltre la situazione del momento per proiettarsi nel futuro: "Certamente i greci mi vedranno, e non solo questi venuti da Filippo, ma tutto il mondo dei greci. Mi vedranno non nella mia esistenza terrena e storica, "secondo la carne" (cfr 2Cor 5,16), ma attraverso la mia passione. Attraverso di essa io vengo, e non più soltanto in un limitato spazio fisico ma oltre tutti i confini geografici, nella vastità del mondo che desidera vedere il Padre". Gesù annuncia la sua venuta con la risurrezione, nella potenza dello Spirito Santo, e quindi un nuovo modo di "vedere" nella fede. Perciò la passione non è accantonata come qualcosa di obsoleto, ma rimane il luogo dal quale e nel quale soltanto egli può essere visto. Gesù estende la parabola del chicco di grano, che soltanto morendo diventa fecondo, a norma basilare di un’esistenza umana autentica, di un’esistenza nella fede: "Chi ama la sua vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo" (Gv 12,25s). Il vedere si realizza nella sequela, che significa vivere nel luogo dove Gesù dimora. Questo luogo è la sua passione, qui soltanto è presente la sua gloria. Che cos’è accaduto? L’idea del "vedere" ha assunto una dinamica insospettata. Si vede mediante un modo di vita definito "sequela". Si vede prendendo parte alla passione di Gesù. E lì che, in lui, si vede anche il Padre. Acquista così tutto il suo alto significato la profezia riportata da Giovanni a conclusione del racconto della passione: "Guarderanno a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37; cfr. Zc 12,10). Vedere Gesù, vedendo in lui allo stesso tempo il Padre, è un atto dell’intera esistenza. Sotto l’aspetto terminologico occorre precisare che l’espressione "volto di Cristo" non compare nei testi giovannei, che tuttavia appaiono intimamente legati ad una tematica centrale dell’Antico Testamento, il cui contenuto religioso si esprime in tutta una serie di testi come "ricerca del volto di Dio". Esiste pertanto una stretta continuità tra il giovanneo "guardare a Cristo" e il tendere veterotestamentario alla visione del volto di Dio. Paolo dà risalto anche al legame terminologico quando, nella seconda lettera ai Corinzi, parla della gloria di Dio che risplende sul volto di Cristo (4,6). Su questo torneremo più avanti. I passi neotestamentari (Giovanni e Paolo) sul vedere Dio in Cristo sono profondamente ispirati dalla pietà d’Israele e mediante essa si collegano alla storia universale delle religioni; o meglio: essi orientano verso Cristo l’indistinta aspirazione della religiosità umana, portandola a incontrare la risposta. Se vogliamo comprendere, in tutta la sua profondità, la teologia neotestamentaria del volto di Cristo, dobbiamo richiamarci all’Antico Testamento.


LA RICERCA DEL VOLTO DI DIO NELL'AT

Il termine panim ("volto") ricorre circa 400 volte nell’Antico Testamento; quasi la metà dei passi riguarda una persona umana o qualche misterioso essere intermedio come cherubini e serafini; a Dio stesso si riferisce oltre un quarto dei passi, quindi un buon centinaio. Questa frequenza del termine in tutta la letteratura veterotestamentaria ci suggerisce l’importanza del concetto di cui esso è tramite. Dovremo anche chiarire alcune espressioni caratteristiche, quali "cercare il volto di Dio", "splendore del volto di Dio", ecc. Come va interpretata questa nostalgia della visione in una religione che, proibendo del tutto le immagini, sembra escludere assolutamente il "vedere" dal culto e dalla pietà? A che cosa mira l’israelita quando cerca il volto di Dio, pur sapendo che non può esistere alcuna immagine di lui? Si è cercato di far risalire tutto questo complesso lessicale, nelle sue svariate forme, ai culti pagani: la "visione del volto" richiamerebbe la contemplazione di un’immagine; la "luce del volto" fa pensare a divinità astrali, e così via. Si tratta di ipotesi indimostrabili, che nell’insieme hanno trovato scarso credito presso gli studiosi. Si può comunque aderire al presupposto che la terminologia della ricerca del volto di Dio provenga in qualche modo dal culto delle immagini. Ciò aiuta a comprendere meglio la radicalità del passo compiuto dall’Antico Testamento: l’immagine è abbandonata, mentre la ricerca del volto rimane. Viene meno la forma concretizzata, la riduzione della divinità ad oggetto, ma Dio conserva il suo volto. Proprio perché non riproducibile in immagini, egli rimane Colui che ha un volto, che può vedere e può essere veduto. L’antica forma cultuale, che aveva materializzato Dio riducendolo ad un "particolare", è stata dissolta, lasciando così emergere il suo significato più profondo: questo Dio ha un volto, è una "persona". Simian-Yofre nel suo art. cit. "Panim", assai dettagliato sotto il profilo filologico, ha così riassunto la questione: "Per la sua idoneità a esprimere sentimenti e reazioni, panim designa il soggetto in quanto si rivolge ad altri... cioè quale soggetto di relazioni. Panim è un concetto che esprime relazioni". Possiamo dire che, nel venir meno del culto delle immagini, proprio col vocabolo panim ha preso forma il concetto di persona, e precisamente come dimensione relazionale. Accanto a panim occorre menzionare, quale ulteriore forma della medesima intuizione, il termine sem ("nome"): il Dio dell’Antico Testamento rivela il suo nome, col quale può essere invocato. Anche il nome è un concetto relazionale: chi ha un nome può ascoltare e rivolgere a sua volta la parola ad altri; attraverso il suo nome può essere invocato. La filosofia greca ha identificato l’idea di natura, ma non ha conosciuto il concetto e la natura della persona. Per essa la persona non esiste; c’è soltanto l’individuo, ma come una delle molteplici espressioni della natura, l’unica realtà che conta. Quella peculiarità che noi definiamo persona è invece venuta alla luce nel quadro della fede biblica, quando dal rifiuto dell’immagine emerse ciò che vi è di più autentico: quell’essenza che può vedere ed essere vista, che può ascoltare, parlare ed essere interpellata. Fu dunque secondo logica che panim venisse reso prevalentemente col greco prosopon ("volto/faccia"), una parola assente dalla filosofia greca come termine tecnico. E giustamente prosopon divenne in latino persona, una parola che poco alla volta vide riconosciuto il suo pieno significato anche in ambito filosofico. Inoltre, non fu un caso se l’approfondimento della nuova nozione, l’evidenziarsi del mistero della persona, avvenne proprio nella disputa sulla dottrina della Trinità. Si può ritenere questo: il termine ebraico panim esprime Dio come persona, come un essere che si rivolge a noi e ci ascolta, vede, parla, è capace di amare e di adirarsi; un Dio che è al di sopra d’ogni cosa e tuttavia ha davvero un volto. Esattamente in questo l’uomo è simile a Dio, è sua immagine; dal volto egli può riconoscere chi è Dio, che cos’è e com’è. Verso questo volto si orienta, lo cerca con tutto il suo cuore. Mi sembra importante che a entrambi i concetti – "nome" e "volto" – da un lato sia soggiacente una profonda intuizione spirituale, divenuta possibile soltanto col rifiuto dell’immagine esteriore; e dall’altro che non si alimenti una nozione puramente concettuale: il guardare sensibile e l’idea del volto restano essenziali. Cerchiamo ora, attraverso un paio d’esempi, di cogliere più da vicino come concretamente, nella fede e nella pietà d’Israele, si presenti la relazione evocata dal termine panim. Risalta in primo luogo l’atteggiamento fondamentale della ricerca del volto di Dio. Recita il salmo 105,3s: "Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto". Il salmo 24 enumera le condizioni richieste per chi desidera entrare nella santa dimora del Signore: mani pure e cuore puro. Tutto è poi condensato nelle parole: "Questa è la generazione di coloro che lo cercano, di quanti desiderano il tuo volto, o Dio di Giacobbe" (Sal 24,6). Ambedue i salmi si richiamano all’ingresso nel santuario, al corteo che introduce l’arca santa nel tempio. Non si può dunque negare un contesto cultuale: il volto di Dio lo si può incontrare nel tempio, lo si cerca ponendosi in cammino verso il luogo santo. Tuttavia il significato di panim va oltre il puro dato del culto. Ciò è evidente in Os 5,15, dove Dio, riferendosi a Israele, dice: "Me ne tornerò alla mia dimora, finché non si saranno pentiti e cercheranno il mio volto, e si volgeranno di nuovo a me nella loro angoscia". Questo "cercare" e "volgersi" deve abbracciare tutto l’uomo; soltanto quando egli è "giusto" con tutto il suo cuore, essendo secondo Dio, può sperare nell’incontro con il volto del Signore. Giustamente scrive Simian-Yofre: "Cercare il volto del Signore è un comando di valore universale e permanente". Ciò risulta con chiarezza dal salmo 17: la preghiera del giusto che non si lascia distogliere dalla via di Dio, anche se deve subire le aspre minacce dei suoi persecutori. Nell’insieme si delineano due forme d’esistenza. Da una parte, coloro che si affidano totalmente alle realtà materiali e se ne saziano. Senza provare invidia, il giusto sofferente dice al Signore: "Ricolma pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli e ne avanzi per la loro prole". L’orante, invece, vede il proprio destino diversamente: "Nella giustizia io contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza". Egli vuole un appagamento che non è quello del ventre; desidera saziarsi alla vista del suo Dio; sa che la sua ricerca troverà compimento nella visione. Due aspetti sono importanti in quest’ultimo testo. Innanzitutto, ciò che conferisce all’orante la capacità di vedere Dio è la giustizia. Una parola che compendia l’atteggiamento basilare della pietà veterotestamentaria, ed è l’esatto corrispondente di ciò che il Nuovo Testamento e la Chiesa chiameranno fede. La giustizia è un modo di vita conformato sulla parola di Dio, è un dimorare in questa parola mettendola in pratica. Possiamo dire: giustizia è vita secondo Dio. Il salmo 17 è in consonanza col salmo 24: la ricerca del volto di Dio è un atteggiamento che coinvolge tutta la vita; per poter alla fine contemplare il volto di Dio, l’uomo dev’essere da Dio totalmente illuminato. Va inoltre osservato che il giusto si attende il dono della visione - della beatitudine che darà compimento a tutti i suoi desideri - per il momento del "risveglio". Il salmo, in questo modo, si proietta chiaramente oltre l’esistenza storica dell’uomo; è l’attesa di un risveglio che segnerà l’inizio della vera vita. Proprio per questo il giusto si distingue dai suoi avversari senza Dio, i quali ripongono tutta la loro felicità, e quindi il fine dell’esistenza umana, unicamente nella soddisfazione del momento, nel successo e nella sazietà materiale. Essi restano nell’ambito del mondano, imbrigliati nei limiti temporali della vita terrena. Di conseguenza, non può valere per loro il criterio della "giustizia"; si deve allungare la mano là dove sono disponibili successo e soddisfazioni. La giustizia, come "vita secondo Dio", rinvia oltre la nuda materialità e temporalità dell’esistenza terrena. In questa luce, l’osservanza dei precetti di Dio e la prospettiva escatologica appaiono intimamente connesse. Anche se l’idea della vita nuova è qui semplicemente accennata, senza ulteriore sviluppo, l’orientamento escatologico dell’esistenza è di fatto ben evidente per chi cerca il volto di Dio con tutta sua vita, nella certezza di poterlo contemplare "al risveglio". La ricerca del volto di Dio comporta il superamento del tempo e la speranza escatologica. L’Antico Testamento offre tuttavia anche un anticipo di "ciò che sarà". Nel salmo 24 abbiamo osservato la connessione tra la ricerca del volto di Dio e il culto, rilevando peraltro la necessità di andare oltre il culto. Nel salmo 17 l’elemento cultuale è del tutto assente, ma nella maggioranza dei testi veterotestamentari l’espressione "cercare il volto di Dio" ha un significato cultuale, anzi è addirittura un termine tecnico dell’incontro con Dio nel culto. I tre calendari liturgici (Es 23,14-19; 34,18-26; Dt 16,1-17) menzionano due volte ciascuno l’espressione. Con formulazione quasi identica si stabilisce l’obbligo per gli uomini, tre volte l’anno, di visitare il santuario ("contemplare il volto di JHWH"). "Dt 31,11 prevede, ogni sette anni, la proclamazione della legge davanti a tutto il popolo convenuto per la festa delle capanne nel santuario (di Gerusalemme) a "contemplare il volto di JHWH"". Così, l’evento cultuale diviene un incontro con Dio, una forma di contemplazione del divino; ma alla luce dell’insieme dei testi si rivela più che altro come una sorta di anticipazione, che rinvia oltre se stessa. Quest’orizzonte complessivo si ripropone quando consideriamo le espressioni riferite alla luce del volto di Dio o all’occultarsi, della sua faccia. Luce e vita sono, per l’uomo dell’Antico Testamento, concetti intimamente connessi. Quando si parla dello splendore del volto divino, s’indica Dio come fonte della vita. Sal 4,7b supplica: "Risplenda su di noi, o Signore, la luce del tuo volto", e questo per ottenere vita e salvezza. Altrove la richiesta ha come oggetto la fecondità della terra, la liberazione e la prosperità del popolo: "Rialzaci, Signore nostro Dio, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi" (Sal 80,4.8.20). Entra in tema anche l’illuminazione del cuore, affinché l’uomo possa riconoscere i suoi peccati (Sal 90,8). Viceversa, quando Dio nasconde la sua faccia, tutto fa ritorno alla polvere. Per questo, la preghiera affinché Dio non nasconda il suo volto è supplica per la vita stessa, per la capacità di vedere, senza di che nulla può esserci di buono. Il silenzio di Dio, l’occultamento della sua faccia significano punizione. Purtroppo il nascondersi di Dio può suscitare nel peccatore una sicurezza ingannevole, quasi che Dio non esista. Sembra possibile vivere tranquillamente senza di Lui, contro di lui, voltandogli le spalle. Questa sicurezza dell’uomo senza Dio è davvero la sua più profonda rovina. Proprio in questo nostro tempo del silenzio di Dio, quando il suo volto sembra divenuto irriconoscibile, non dovremmo riflettere con un po’ di timore sul significato del suo nascondimento? Non dovremmo vedere in ciò la vera sciagura del mondo, e quindi con maggior forza e insistenza gridare a Dio affinché mostri il suo volto? Non si è fatta ancora più urgente, in tale situazione, la ricerca del volto di Dio?


MOSE' E CRISTO

A completamento di questi accenni sui presupposti veterotestamentari della ricerca del volto di Cristo e di Dio come ce la propone il NT, desidero ancora prendere in esame un testo basilare dell’AT che lo stesso Paolo - come già è stato accennato - ha ripreso in 2Cor 3,4-4,6 leggendolo alla luce di Cristo. Diventa così ancor più palese tutta la novità del cristianesimo, come l’intima unità dei due Testamenti. Intendo il complesso di Es 32-34, dove si racconta il peccato d’Israele, l’adorazione del vitello d’oro, la punizione dei peccatori e infine la contesa di Mosè con Dio, per indurlo ad accogliere di nuovo il suo popolo, dal quale minaccia d’allontanarsi. L’intercessione di Mosè raggiunge il suo culmine nell’offerta che fa di se stesso: "Ecco, questo popolo ha commesso un grande peccato... Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... Se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!" (32,31s). Nel cap. 33 dell’Esodo il nostro tema compare in due passi che sembrano quasi contraddirsi, ma che si sono rivelati di somma importanza per la ricerca cristiana del volto di Dio. Dapprima si descrive il confidenziale rapporto tra Mosè e Dio: "Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino" (33,11). In seguito Mosè chiede a Dio: "Fammi vedere la tua gloria!". Questa è la risposta: "Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. [...] Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sulla rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e tu vedrai le mie spalle. Ma il mio volto non si può vedere" (33,18.20-23). Da una parte, dunque, c’è il colloquiare faccia a faccia come tra amici, dall’altra l’impossibilità di vedere in questa vita il volto di Dio: l’uomo può conoscerlo soltanto di spalle. Ovviamente, nella rilettura cristiana dell'Antico Testamento, questo passo doveva assumere un nuovo significato. Dalle parole di Stefano davanti al sinedrio (At 7,37) deduciamo che la promessa contenuta nel Deuteronomio restava ben presente ai cristiani: "Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto" (Dt 18,15). Ma in seguito Israele dovette prendere atto della malinconica considerazione con cui si chiude il Deuteronomio: "Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, col quale il Signore s’intratteneva faccia a faccia" (34,10). Stefano vuol dire che la promessa, fino allora rimasta aperta, si è finalmente avverata in Gesù di Nazaret, il quale, come Mosè sul monte, ha offerto se stesso quale vittima d’espiazione. L’offerta di Mosè non era stata accolta; Cristo invece è divenuto realmente per noi peccato, ha preso su di sé la maledizione (Gal 3,13) e ora è nostro intercessore presso il Padre (1Gv 2,1). Egli stava ininterrottamente faccia a faccia con il Padre - assai più che un profeta, assai più che un amico, ma come Figlio -, e sul suo volto rifulge per noi la gloria di Dio (2Cor 4,6). Da allora, per gli uomini, la ricerca del volto di Dio si è fatta più concreta: consiste nell’incontro con Cristo, nell’amicizia con lui, che non ci chiama più servi, ma amici (Gv 15,10). Se il conversare di Mosè faccia a faccia con Dio era per il lettore cristiano dell’Esodo un evidente richiamo a Cristo, l’impossibilità della visione piena, limitata alle "spalle di Dio", non poteva però riguardare allo stesso modo Gesù. Nella figura di Mosè era quindi significato sia il mistero di Cristo, sia il cammino dei suoi discepoli, ai quali - perciò a tutti noi, seguaci di Cristo - andava riferito il secondo testo. E' questa, fondamentalmente, l’interpretazione di Es 33 presso i Padri; varia tuttavia nei particolari, in specie per il difficile riferimento alla visione delle "spalle di Dio", allo stare nella fenditura della roccia, alle mani di Dio che ci ricoprono. Personalmente, sono sempre attratto dall’interpretazione che ne dà Gregorio di Nissa. Che cosa significa poter vedere Dio soltanto di spalle - scrive il Nisseno - se non che ci è possibile incontrare Dio esclusivamente camminando dietro a Gesù; perciò solamente attraverso la sequela, che è un procedere sulle orme di Gesù, quindi alle spalle di Dio? Vedere Dio, in questo mondo, significa fare di tutta la nostra esistenza un cammino verso il Dio vivente, nella sequela di Gesù Cristo, il quale ci addita la sua strada, che è l’itinerario del mistero pasquale di passione e morte, di risurrezione e ascensione.


CONTEMPLARE CRISTO NELL'ESISTENZA CRISTIANA

La testimonianza centrale dell’AT sulla visione del volto di Dio ci ha introdotti al NT. In che cosa consiste la vera novità del Nuovo Testamento? Non si tratta certo di un’idea. La novità è un fatto, o meglio una persona: Gesù Cristo. Nella sua luce numerosi aspetti della religiosità veterotestamentaria si riorganizzano e assumono, soprattutto dopo la distruzione del tempio, una nuova concretezza. Adesso è lui il volto di Dio per noi. Sulla base di questa coscienza ha preso vita la grande arte delle icone, che tuttavia non possono pretendere di rappresentare la meta finale della nostra ricerca del volto di Cristo. Questo vale naturalmente anche per le cosiddette achiropite, ovvero immagini "non fatte da mano d’uomo" che secondo la tradizione avrebbero ispirato le icone di Cristo. Nella disputa tra culto delle immagini e iconoclastia era questo il punto discriminante: l’icona non può diventare un’immagine di Dio a sé stante, quasi a voler rendere la divinità materialmente afferrabile. Deve invece esprimere il dinamismo del superamento, cioè rinviare oltre se stessa, farsi invito a intraprendere la ricerca del volto del Signore: un richiamo a oltrepassare la dimensione materiale e a mantenersi sull’itinerario della sequela, che non potrà mai concludersi in questa vita. Per esprimerci ad un livello teologicamente più rigoroso: l’icona reca in sé una tensione escatologica, e soltanto in questa prospettiva è possibile contemplarla correttamente. Nel secolo XIX da questi impulsi rinasce, collegandosi a forme di pietà tardomedievale, la devozione al Sacro Volto, che giunge ad espressione somma con Teresa di Lisieux, la quale non esita a definirsi "del Bambino Gesù e del Volto Santo". Entrambi questi titoli fanno riferimento alla kénosis di Dio, al suo farsi piccolo in Cristo, al suo discendere nella povertà dell’esistenza umana. E mentre il primo sottolinea preferibilmente l’amabilità di questa discesa, il secondo mette l’accento sull’aspetto della passione, poiché in questo mondo Cristo si presenta col "capo coperto di sangue e ferite" (O caput cruentatum!). In tal modo egli rivela tutto il mistero dell’amore di Dio e il suo vero volto. Volendo approfondire ulteriormente, possiamo distinguere tre momenti basilari nella pietà cristiana - fondata sul Nuovo Testamento - della ricerca del volto di Cristo e del volto di Dio. In primo luogo la sequela, ovvero l’intera esistenza orientata all’incontro con Gesù. In essa il posto centrale spetta all’amore del prossimo; quell’amore che alla luce del crocifisso ci fa riconoscere il volto di Gesù in chi è povero, debole e sofferente. Mettendoci al servizio dei bisognosi, è lui che amiamo, a lui ci accostiamo, lo vediamo e lo tocchiamo (cfr. Mt 25,31-46). Nella realtà, ci è possibile riconoscere Gesù nei poveri soltanto se il suo vero volto già ci è divenuto familiare e prossimo, e questo soprattutto nel mistero dell’Eucaristia, dove continuamente si ripropone per noi la contesa di Mosè sul monte: ora sul monte c’è il Signore Gesù, che per noi "si fa peccato". Egli è il chicco di grano che muore, per potersi donare a tutti noi nell’Eucaristia, vero pane di vita nelle nostre mani. L’Eucaristia, come già per i discepoli di Emmaus, diventa un "vedere": lo riconosciamo allo spezzare del pane, ci cadono dagli occhi le scaglie, guardiamo a colui che abbiamo trafitto, contempliamo il suo capo insanguinato. Così, imparando a conoscere lui, possiamo riconoscerlo nei poveri. In questo senso, appartengono alla pietà liturgica la personale devozione alla passione, l’incontro intimo con Gesù e la stessa pietà popolare. La vera icona nasce da quest’incontro con Gesù e conduce a lui, e di conseguenza, irresistibilmente, anche al prossimo. Oltre a questi due momenti, tra loro inseparabili, della contemplazione del volto di Cristo, ne riconosciamo un terzo: quello escatologico. Come l’icona è destinata a rinviare sempre oltre se stessa, così la celebrazione eucaristica esprime una tensione dinamica verso il Cristo che viene, verso quel "risveglio" in cui egli ci sazierà con il suo volto, con il volto del Dio trinitario. La stessa attenzione al prossimo, le varie forme dell’impegno sociale, devono mirare oltre il momento presente. L’amore, certamente, interviene dove adesso è necessario, soccorre i sofferenti e i bisognosi al presente. La teologia politica voleva posporre quest’aiuto, da offrire subito, al compito primario della costruzione di un mondo migliore. Ma si trattava, e si tratta, d’un intento presuntuoso, col quale si riducono gli individui a strumenti di sogni politici futuri, destinati per lo più a rimanere irrealizzabili. Nemmeno qui, però, manca il solito "granello di verità": in effetti, l’offerta d’aiuto al singolo fa parte della grande lotta dell’amore, della lotta della fede per il compimento del regno di Dio. Il Regno non è una realtà politica realizzabile dall’uomo, ma è dono di Dio, che a noi non è concesso di forzare. E tuttavia sta in rapporto col nostro impegno di sequela nel servizio, poiché l’amore che attraverso l’aiuto materiale non offrisse anche Dio, che non conducesse anche Dio, che non orientasse al suo volto, darebbe sempre troppo poco. Amore del prossimo e culto sono anticipazioni di ciò che in questo mondo sopravvive come speranza; sono energie della speranza che conducono a ciò che di più grande sta per venire, cioè alla vera salvezza e al vero compimento: la contemplazione del volto di Dio.


LE RELIGIONI MONDIALI E LA FEDE

A conclusione della nostra riflessione vogliamo tornare sul problema della connessione di questa tematica con la storia delle religioni nel suo insieme. Avevamo osservato come l’abolizione delle immagini cultuali - che peraltro avevano mantenuto viva la ricerca del volto di Dio - conducesse al riconoscimento di un Dio personale, e in seguito al concetto di persona. E' a questo punto che si dividono le vie della storia religiosa. Le grandi costruzioni religiose che non conoscono un Dio personale (ad es. il neoplatonismo e il buddismo, o importanti correnti dell’induismo) enumerano comunque numerose divinità alle quali vengono rivolte preghiere, essendo in grado di aiutare o di nuocere. Queste sono raffigurabili con immagini, hanno un volto, in qualche modo sono anche persone. Sono "dèi", ma non sono Dio. Rappresentano delle potenze operanti in quello spazio intermedio, oltre il quale molti non riescono ad andare. Non appartengono al regno del "definitivo", del "totalmente altro", del vero "autentico". La realtà autentica - che Plotino chiama l’Uno, al di sopra d’ogni essere e d’ogni nome, e che nella concezione buddistica è il Nulla assoluto - non ha nome e non ha volto. Il fine ultimo di ogni purificazione e di ogni forma di salvezza sta nell’uscire dalla cerchia dei nomi e dei volti, delle distinzioni e delle contrapposizioni, per entrare nell’anonimato dell’uno o del Nulla. La novità della religione biblica era e consiste nel fatto che quest’essere originario, il Dio vero di cui non può darsi alcuna immagine, ha nondimeno un volto e un nome, è persona. La salvezza non sta più nel cadere nell’anonimato, ma in quel "saziarsi del suo volto", che al nostro "risveglio" ci verrà concesso. A questo risveglio, a questo saziarsi va il cristiano incontro, tenendo fisso lo sguardo sul Trafitto, cercando il volto di Gesù Cristo.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:55
16a - Bart D. Ehrman, I Cristianesimi perduti. Apocrifi, sette ed eretici nella battaglia per le Sacre Scritture (Carocci 2005)


DUE SETTE AGLI ANTIPODI NEL CRISTIANESIMO DELLE ORIGINI: EBIONITI E MARCIONITI

Affermare che uno dei risultati acquisiti dalla filologia storica è che Gesù era ebreo potrebbe apparire alquanto banale, come dire che un risultato acquisito della scienza moderna è che la carta è combustibile. Eppure neanche un secolo fa l'ebraicità di Gesù era ancora argomento di accesi dibattiti tra seri studiosi del Cristianesimo antico; inoltre, per tutta la storia della chiesa cristiana, anche quando l'identità ebraica di Gesù non è stata negata, è stata comunque ridimensionata, trascurata o ignorata. Oggi nessuno che lavori nell'ambito della filologia neotestamentaria considera l'ebraicità di Gesù discutibile o insignificante: Gesù era ebreo, e ogni valutazione delle sue parole, atti e destino deve tenere sempre conto di questo dato. Altro discorso, ovviamente, è determinare che tipo di ebreo fosse, e qui i dibattiti filologici possono diventare lunghi e aspri per gli studiosi e piuttosto scoraggianti per i profani. Il Gesù storico va considerato un ebreo rabbino, che come gli altri rabbini insegnava ai suoi seguaci il vero significato delle dottrine di Mosè? O un ebreo santo, che come gli altri santi poteva vantare un rapporto speciale con Dio che gli conferiva poteri straordinari? Un ebreo rivoluzionario, che come gli altri rivoluzionari cercava di realizzare una ribellione armata contro gli imperialisti romani? O un ebreo estremista sociale, che come gli altri estremisti sociali promuoveva una controcultura di vita in opposizione alle norme e ai valori della società del suo tempo? Un ebreo mago, che come gli altri maghi poteva manipolare le forze della natura in modi che creavano stupore? O un ebreo femminista, che come gli altri femministi sosteneva la causa delle donne e cercava di realizzare strutture egualitarie in questo mondo? O ancora un ebreo profeta, che come gli altri profeti prediceva l'imminente intervento di Dio nel mondo per sconfiggere le forze del male e instaurare un nuovo Regno in cui non ci sarebbero state più sofferenze, peccati e morte? Tutte queste ipotesi hanno i loro sostenitori tra studiosi competenti che hanno dedicato anni della loro vita alla questione ma che non sanno accordarsi sui fatti più basilari riguardanti Gesù, se non che era ebreo. Se non altro questo è un punto di partenza, e per i nostri scopi probabilmente basta e avanza. Inoltre, molti studiosi oggi riconoscono non solo che Gesù era ebreo ma che crebbe in una casa nel villaggio ebraico di Nazareth, in Palestina: crebbe nella cultura ebraica, accettò le usanze ebraiche, imparò la tradizione ebraica e osservò la Legge ebraica; venne circonciso, osservava il sabato e le festività periodiche e probabilmente mangiava kosher; una volta adulto, iniziò una missione di predicazione itinerante nella Galilea rurale, radunando attorno a sé un certo numero di discepoli, tutti ebrei, e insegnò loro la sua interpretazione della Legge ebraica e del Dio che chiamò gli ebrei a essere il suo popolo. Molti studiosi ammettono che alcuni di questi discepoli, probabilmente mentre Gesù era ancora vivo, lo consideravano il Messia ebraico, giunto a liberare il popolo di Dio dal potere oppressivo di Roma cui erano sottoposti. Per un motivo o per l'altro, i capi del suo popolo, i detentori del potere a Gerusalemme, lo considerarono un sovversivo, e quando giunse nella capitale per festeggiare la Pasqua attorno al 30 d.C. lo fecero arrestare e lo consegnarono al governatore romano, che lo mise sotto processo per sedizione contro lo stato e lo fece giustiziare con l'accusa di aver affermato di essere il re dei Giudei. Dunque Gesù fu ebreo dall'inizio alla fine. Anche i suoi discepoli lo furono, di nascita e di educazione. Non molto dopo la sua morte alcuni di loro o tutti giunsero a vedere in Gesù qualcosa di più di un maestro ebreo (o santo o rivoluzionario o riformatore sociale o femminista o mago o profeta o qualsiasi altra cosa sia stato). Per loro, Gesù fu colui che aveva insegnato agli altri il giusto comportamento da tenere di fronte a Dio. Alcuni dei suoi seguaci pensarono che questa salvezza provenisse dalla morte e dalla resurrezione di Gesù, altri dissero che veniva dai suoi insegnamenti divini; in ogni caso, i suoi seguaci proclamarono ben presto che la salvezza portata da Gesù non era destinata solo agli ebrei ma a tutti, ebrei e gentili.


PAOLO E I SUOI AVVERSARI GIUDAIZZANTI

Nessuno fu importante quanto l'apostolo Paolo in questa predicazione ai non ebrei, cioè ai gentili. Originariamente Paolo era un fariseo ebreo nato fuori della Palestina che aveva udito la proclamazione cristiana di Gesù, l'aveva trovata blasfema e si era dato da fare per contrastarla con tutte le sue forze, ed era stato uno dei primi e più violenti persecutori della nuova fede (Lettera ai Galati 1.13, cfr. Atti 8.3). Ma poi ebbe una specie di esperienza visionaria (Lettera ai Galati 1.15-16, Prima lettera ai Corinzi 15.8-11) e si trasformò da primo avversario del movimento cristiano a primo difensore della fede, da persecutore a predicatore. In particolare, Paolo si considerò l'apostolo di Cristo tra i gentili. Ben presto, nel suo sforzo di portare il Vangelo nell'ambito missionario pagano, emerse un grave problema. Ovviamente i gentili erano "pagani", cioè politeisti che adoravano i loro numerosi dèi. Per accettare la salvezza di Gesù, dovevano rinunciare alle loro divinità precedenti e accettare solo il Dio di Israele e suo figlio Gesù, la cui morte e resurrezione aveva messo l'uomo nella giusta condizione nei confronti di Dio, come predicava Paolo. Ma per adorare il Dio degli ebrei, non dovevano diventare ebrei? Il Dio ebreo, dopotutto, aveva dato la Legge ebraica al popolo ebraico. E per mostrare di essere il popolo eletto, quel popolo osservava la sua Legge, una legge che forniva linee di condotta ben precise, tra l'altro, su come dovevano adorarlo e vivere insieme in comunità. Questa legge prevedeva che il popolo di Dio evitasse di adorare gli idoli pagani e obbedisse a precise regole etiche largamente accettabili, come non uccidere o non commettere adulterio; ma indicava anche che il suo popolo doveva restare separato dagli altri popoli con usanze distintive, ad esempio ritenendo sacro il settimo giorno, nel quale doveva astenersi dal lavoro per adorarlo, seguendo precise regole dietetiche ed evitando cibi come il maiale e i molluschi; inoltre, nel caso dei maschi, ricevendo il segno del patto che Dio aveva stipulato con il suo popolo, la circoncisione. Questo era il problema che Paolo dovette affrontare nel convertire i gentili alla fede in Gesù, il figlio del Dio ebreo. I gentili che entravano nella fede in Gesù dovevano diventare ebrei per essere cristiani? Dovevano adottare la Legge ebraica per se stessi? Si può immaginare che la questione fosse alquanto pressante, soprattutto per i gentili maschi, gran parte dei quali non era circoncisa. Alcuni dei seguaci ebrei di Gesù affermavano che i convertiti dovessero adottare le usanze dell'Ebraismo, ma a quanto pare Paolo fu il principale sostenitore di una posizione più moderata su questo punto. Paolo affermava che i gentili che diventavano seguaci di Gesù dovevano accettare il Dio degli ebrei e adorare solo lui, ma era altrettanto convinto che non fossero tenuti ad adottare le usanze ebraiche (o, come potremmo chiamarle, i paletti dell'Ebraismo) così come erano espresse nella Legge ebraica: non erano tenuti a osservare il sabato o le festività ebraiche, a mangiare kosher o a farsi circoncidere. Anzi, secondo Paolo adottando le usanze ebraiche i gentili avrebbero messo in dubbio la salvezza fornita da Dio tramite la morte di Gesù: era solo Gesù, e non la Legge ebraica, a portare il fedele alla giusta condizione di fronte a Dio (Lettera ai Romani 3.10, 8.3; Lettera ai Galati 2.15-16). Riconsiderando questi dibattiti, che si riflettono anche nelle pagine del Nuovo Testamento, potremmo pensare che la questione venne risolta in modo facile, veloce ed efficace; invece anche i testi neotestamentari che discutono il problema mostrano che la questione non fu così semplice e che le idee di Paolo non vennero accettate universalmente, anzi, si direbbe neanche ampiamente. La storia della conferenza che si riunì per giudicare su questo punto a Gerusalemme, nel bel mezzo dell'attività missionaria di Paolo tra i gentili (Atti 15), indica che alcuni gruppi anonimi di cristiani sostenevano la linea contraria, cioè che i gentili convertiti che volevano diventare cristiani dovevano prima diventare ebrei. Ancora più importante è che le stesse lettere di Paolo affermino che esistevano capi cristiani schietti, sinceri e attivi che erano in violento disaccordo con lui su questo punto e consideravano le sue idee una corruzione del vero messaggio di Cristo. Costoro comparivano tra le chiese paoline in Galazia e convincevano i fedeli maschi che dovevano farsi circoncidere se volevano essere veri membri del popolo di Dio, e per dare valore alle proprie idee citavano le Scritture: Dio aveva dato il segno della circoncisione al padre degli ebrei, Abramo, e gli aveva detto non solo che si trattava di un patto eterno (cioè, non un accordo temporaneo destinato a essere annullato in seguito) ma anche che valeva sia per chi era nato ebreo sia per qualunque non ebreo volesse appartenere al popolo di Dio (cfr. Genesi 17.9-14). Paolo scagliò una lettera fremente d'ira in risposta ai suoi oppositori "giudaizzanti" in cui attaccava questi "falsi maestri" che, secondo lui, avevano corrotto il vero Vangelo dl Cristo ed erano maledetti agli occhi di Dio. Ovviamente alla fine questa missiva entrò nel Nuovo Testamento, e così molti la prendono alla lettera: gli avversari di Paolo erano corruttori del Vangelo e maledetti da Dio. Ma sicuramente loro non la vedevano così: dopotutto erano missionari cristiani intenti a diffondere il Vangelo di Gesù in tutto il mondo. Una delle nostre perdite più gravi è una risposta scritta da parte di uno di loro, che, se mai è esistita, è scomparsa per sempre. Ma questo non vuol dire necessariamente che all'epoca essi fossero in minoranza. Si deve sempre ricordare che proprio in questa Lettera ai Galati Paolo afferma di essersi misurato con Pietro su questi problemi (2.11-4): fu cioè in disaccordo su questo punto con il più stretto discepolo di Gesù! Che cosa avrà risposto Pietro? Purtroppo ancora una volta non lo sapremo mai, visto che abbiamo solo il punto di vista di Paolo. Secondo Paolo, per essere nel giusto basta la fede nella morte e nella resurrezione di Gesù, senza seguire nessuna delle prescrizioni espresse dalla Legge ebraica, e questo vale tanto per gli ebrei quanto per i gentili. Poiché solo Gesù è la via della salvezza, allora chiunque cerca di seguire la Legge per fare la volontà di Dio ha frainteso il Vangelo e probabilmente ha perso la sua salvezza (Lettera ai Galati 1.6-9, 5.4). Abbiamo qui un'alternativa netta: nessuno tra i primi cristiani poteva battere Paolo nel rendere un problema chiaro e stringente. Allo stesso tempo, per quanto ci resti solo la versione di Paolo sul suo confronto con Pietro e con i missionari giudaizzanti della Galazia, in quegli anni erano sulla scena numerose posizioni teologiche. Anche se molte sono andate perdute, è possibile che di alcune sia rimasta traccia: una lettura ravvicinata delle fonti superstiti mostra che almeno uno dei nostri Vangeli sembra rappresentare un punto di vista diverso. Il Vangelo di Matteo è a buon diritto ritenuto il più "ebreo" dei Vangeli del Nuovo Testamento: questa versione della vita e della morte di Gesù sottolinea l'ebraicità di Gesù in modo eccezionalmente esplicito. Il libro inizia col fornire una genealogia di Gesù che attraverso Davide, il più grande tra i re ebrei, arriva ad Abramo, il padre degli Ebrei; cita in continuazione il Vecchio Testamento per mostrare che Gesù è il Messia ebreo mandato dal Dio ebreo per avverare le Sacre Scritture (cfr. Matteo 1.23, 2.6, 18). Qui non è solo Gesù a seguire le Scritture (lo avrebbe ammesso anche Paolo): Matteo sottolinea anche, diversamente da Paolo, che anche i seguaci di Gesù lo devono fare. In una delle affermazioni più nette dell'opera, che in tutto il Nuovo Testamento si trova solo in questo Vangelo, a Gesù vengono messe in bocca queste parole:

Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (5.17-20).

Per Matteo deve essere osservata l'intera Legge ebraica fino all'ultima lettera (iota). In realtà qui i farisei vengono criticati non perché osservano la Legge ma perché non la osservano abbastanza. Vale la pena di notare che in questo Vangelo, quando un ricco va da Gesù e gli chiede come ottenere la vita eterna, Gesù gli risponde che se vuole vivere in eterno deve osservare i comandamenti della Legge (19.17). Ci si potrebbe chiedere se la stessa persona avesse avvicinato Paolo con la stessa domanda venti anni dopo, che cosa si sarebbe sentito rispondere. Paolo gli avrebbe detto di osservare la Legge? Le sue opere danno una risposta chiara: decisamente no (cfr. Lettera ai Romani 3.10, Lettera ai Galati 2.15-16). E' difficile immaginare che Paolo e Matteo siano mai andati d'accordo su questo punto. In ogni caso, dal punto di vista storico è interessante notare che, dopo la morte dei due, i sostenitori delle loro posizioni sulla Legge svilupparono queste idee con notevole ampiezza. Alla metà del II secolo sappiamo di gruppi cristiani che riguardo all'Ebraismo si assestarono su posizioni diametralmente opposte: alcuni affermavano che la Legge ebraica doveva essere seguita ai fini della salvezza, altri sostenevano che la Legge ebraica non poteva essere seguita se ci si voleva salvare. Tutti questi gruppi affermavano di rappresentare le idee autentiche di Gesù.


CRISTIANI CHE VOLEVANO ESSERE EBREI: GLI EBIONITI

Sappiamo dell'esistenza di cristiani chiamati ebioniti da fonti che vanno dal II al IV secolo. Non sappiamo con certezza da dove sia derivato il loro nome: l'eresiologo (cioè nemico delle eresie) proto-ortodosso Tertulliano afferma che il gruppo prendeva nome dal fondatore Ebion, ma questa sembra un'invenzione di scarso valore probabilmente basata sull'ipotesi di Tertulliano che ogni eresia inizi con un eretico cui si può dare un nome. Altri eresiologi come Origene di Alessandria andarono probabilmente più vicini al segno facendo derivare il nome dall'ebraico ebyon, che vuol dire "povero". Origene e altri autori proto-ortodossi si divertirono a fare battute sul nome, affermando che gli ebioniti erano "poveri di comprendonio". Di sicuro questo non è ciò che loro pensavano di se stessi. Forse il nome risale ai primi giorni della comunità: può darsi che i membri della setta abbiano dato via i loro averi per dedicarsi a una vita di povertà volontaria per amore degli altri, come le prime comunità menzionate in Atti 2.44-45 e 4.32-37. Ovviamente anche Gesù era povero: forse queste persone lo presero sul serio quando diceva che dovevano amare il prossimo come se stessi e capirono che era difficile farlo vivendo nella ricchezza mentre le persone attorno a loro morivano di fame. In ogni caso, si chiamavano ebioniti, e già nel II secolo nessuno dei loro avversari sapeva dire perché; e poiché a quanto pare non abbiamo alcuna opera ricollegabile a un autore del gruppo, neanche noi possiamo saperlo. Questa mancanza di materiale primario è una perdita veramente grave. Sicuramente alcuni di loro scrissero trattati che esponevano le loro idee e le difendevano quanto necessario, ma poiché non ce ne è giunto nessuno, dobbiamo basare le nostre affermazioni sulle parole dei loro avversari, talvolta prendendole cum grano salis. Poiché alcune di queste affermazioni sono in contrasto con altre, può darsi che ci fossero diversi gruppi di ebioniti che avevano ognuno una diversa visione di alcuni aspetti della loro fede. Gli autori proto-ortodossi concordano unanimemente sul fatto che gli ebioniti erano e si consideravano ebrei seguaci di Gesù. Non furono l'unico gruppo di ebrei cristiani di cui siamo a conoscenza in quel periodo, ma furono il gruppo che provocò la più clamorosa opposizione. I cristiani ebioniti che conosciamo meglio credevano che Gesù fosse il Messia ebreo mandato dal Dio ebreo al popolo ebreo per realizzare le Scritture degli ebrei. Credevano inoltre che per appartenere al popolo di Dio bisognava essere ebrei, perciò sottolineavano l'importanza di osservare il sabato, mangiare kosher e circoncidere tutti i maschi. Questa sembra proprio la posizione assunta dagli avversari di Paolo in Galazia, e può darsi che gli ebioniti fossero i loro discendenti fisici o spirituali. Una fonte antica, Ireneo, riferisce anche che gli ebioniti continuavano a riverire Gerusalemme, evidentemente pregando in direzione della città negli atti quotidiani di adorazione. L'importanza che davano al restare o diventare ebrei non sembra poi così strana dal punto di vista storico, visto che Gesù e i suoi discepoli erano ebrei. Ma l'ebraicità degli ebioniti non li rendeva simpatici a molti altri cristiani, per i quali Gesù li autorizzava a saltare i dettami della Legge ai fini della salvezza. Gli ebioniti affermavano però che le loro idee erano state autorizzate dai discepoli originari, soprattutto da Pietro e dal fratello di Gesù, Giacomo, capo della chiesa di Gerusalemme dopo la resurrezione. Un altro aspetto del Cristianesimo ebionita che lo separava da quello di molti altri gruppi cristiani era la loro concezione dell'identità di Gesù. Gli ebioniti non erano d'accordo con l'idea della preesistenza di Gesù o della sua nascita da una vergine. Queste idee originariamente erano distinte tra di loro: i due Vangeli neotestamentari che parlano della concezione di Gesù da parte di una vergine (Matteo e Luca) non indicano che egli esistesse prima della sua nascita, mentre i libri neotestamentari che sembrano presupporre la sua preesistenza (cfr. Giovanni 1.1-3,18; Lettera ai Filippesi 2.5-11) non menzionano mai la sua nascita da una vergine; ma quando tutti questi libri vennero inclusi nel Nuovo Testamento, entrambe le nozioni vennero affermate contemporaneamente, cosicché si pensò che Gesù fosse stato con Dio nel passato eterno (Giovanni, Paolo) per poi diventare carne (Giovanni) una volta partorito dalla Vergine Maria (Matteo e Luca). I cristiani ebioniti, però, non avevano il nostro Nuovo Testamento e vedevano Gesù in modo diverso. Per loro Gesù era il Figlio di Dio non per la sua natura divina o la sua nascita da una vergine, ma per la sua "adozione" da parte di Dio che ne volle fare suo figlio; perciò questo tipo di cristologia è talvolta chiamata "adozionista". Per esporre la questione con più completezza, gli ebioniti credevano che Gesù fosse un vero uomo di carne e ossa come tutti noi, nato come figlio maggiore dall'unione sessuale dei suoi genitori Giuseppe e Maria: ciò che lo distingueva da tutti gli altri uomini era la sua perfetta osservanza della Legge di Dio, e perciò era l'uomo più giusto della terra. Di conseguenza, Dio lo scelse come suo figlio e gli conferì una missione speciale, quella di sacrificarsi per amore degli altri. E così Gesù andò sulla croce, non per essere punito dei suoi peccati ma per i peccati del mondo, un sacrificio perfetto per mantenere le promesse fatte da Dio al suo popolo, gli ebrei, nelle Sacre Scritture. Come segno del suo gradimento del sacrificio di Gesù, in seguito Dio lo resuscitò dai morti e lo collocò in cielo. Sembra che i cristiani ebioniti credessero anche che, poiché Gesù era il sacrificio perfetto, supremo e finale per i peccati, non ci fosse più alcun bisogno del sacrificio rituale di animali. Perciò i sacrifici ebraici venivano visti come una misura temporanea e imperfetta offerta da Dio per espiare i peccati fino al compimento del sacrificio espiatorio supremo. Di conseguenza, se questi ebrei (cristiani) esistevano già prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., non partecipavano alle sue pratiche cultuali; in seguito essi o alcuni di loro rimasero evidentemente vegetariani, poiché nel mondo antico lo sgozzamento di animali da carne era quasi sempre eseguito in un contesto cultuale religioso. A quali Scritture si appellavano questi ebioniti in sostegno delle loro idee? Quali libri veneravano, studiavano e leggevano nell'ambito dei loro servizi di adorazione? Ovviamente avevano la Bibbia ebraica, cioè il Vecchio Testamento, come Scrittura per eccellenza: erano ebrei o convertiti all'Ebraismo per i quali le antiche tradizioni ebraiche rivelavano la continua interazione di Dio con il suo popolo e la sua Legge per la loro vita. E' altrettanto ovvio che non accettassero alcuno scritto di Paolo, anzi, per loro Paolo non sbagliava semplicemente su alcuni punti secondari, ma era l'arcinemico, l'eretico che aveva traviato tante persone affermando che una persona fa la volontà di Dio indipendentemente dall'osservanza della Legge e che aveva proibito la circoncisione, il "segno del patto", per i suoi seguaci. Ma gli ebioniti annoveravano anche altri testi "cristiani" nel loro canone. Non sorprende che, a quanto pare, accettassero il Vangelo di Matteo come principale autorità scritturale, ma la loro versione di Matteo era forse una traduzione del testo in aramaico: Gesù stesso parlava aramaico così come i suoi primi seguaci, e non è strano che un gruppo di seguaci ebrei di Gesù originari della Palestina continuasse a citare le sue parole e le storie che lo riguardavano nella sua lingua originaria. Sembra probabile che questo Matteo aramaico fosse in qualche modo diverso dal Matteo che oggi leggiamo nel canone: in particolare, il Matteo usato dai cristiani ebioniti mancava forse dei primi due capitoli che narrano della nascita di Gesù da una vergine, idea che gli ebioniti rifiutavano. Indubbiamente c'erano anche altre differenze con la nostra versione del Vangelo di Matteo. Non sappiamo come gli ebioniti chiamassero la loro versione del Vangelo di Matteo. Forse va identificata con un libro che alcuni dei primi scrittori ecclesiastici conoscevano come Vangelo dei Nazareni: il nome "Nazareno" era usato da alcuni gruppi di cristiani ebrei, se non da tutti, e non ne facevano parte solo gli ebioniti. Abbiamo indizi di un'altra autorità evangelica usata da alcuni gruppi di ebioniti (o da tutti). Questi indizi provengono dalle opere del IV-V secolo di un feroce avversario di ogni eresia, Epifanio, vescovo ortodosso dell'isola di Cipro. In un prolisso libro (Panarion, cioè "cassetta medicinale") che descrive nel dettaglio e poi attacca violentemente ottanta diversi gruppi ereticali, Epifanio dedica un capitolo agli ebioniti e cita un Vangelo, a quanto dice, usato da loro; riporta sette brevi citazioni, non quante ne vorremmo noi, ma sufficienti a darci un'idea di questo Vangelo ora perduto. Per esempio, questo particolare Vangelo degli ebioniti sembra essere stato un'"armonizzazione" dei Vangeli neotestamentari di Matteo, Marco e Luca, come vediamo nella narrazione del battesimo di Gesù. Come hanno da tempo notato i lettori più attenti, i tre Vangeli sinottici riportano tutti le parole pronunciate da una voce dal cielo quando Gesù emerge dall'acqua, ma sempre in forma leggermente diversa: "Questo è il mio Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto" in Matteo (3.17), "Tu sei mio Figlio diletto, in te mi sono compiaciuto" in Marco (1.11), "Tu sei mio Figlio, oggi io ti ho generato" nei testimoni più antichi del Vangelo di Luca (3.22). Che cosa disse veramente la voce? Nel Vangelo degli ebioniti la questione è facilmente risolta: la voce parla tre volte e ogni volta dice una cosa diversa. In alcuni frammenti citati da Epifanio compaiono anche le idee anti-sacrificali degli ebioniti. In un passo, i discepoli chiedono a Gesù dove vuole mangiare l'agnello pasquale con loro (cfr. Marco 14.12), e la risposta è: "Non ho alcun desiderio di mangiare la carne di questo agnello pasquale con voi". In un altro passo Gesù dice, ancora più chiaramente: "Sono giunto ad abolire i sacrifici; se non smetterete di sacrificare, l'ira di Dio non cesserà di gravare su di voi". Dove non c'è sacrificio non c'è neanche carne. Probabilmente i cambiamenti più interessanti rispetto alle versioni neotestamentarie a noi familiari riguardano la descrizione che questo Vangelo dava di Giovanni Battista, che evidentemente, come il suo successore Gesù, osservava una vita strettamente vegetariana. In questo Vangelo, cambiando solamente due lettere della parola greca in questione, si affermava che la dieta del Battista non consisteva di locuste (akridas), quindi carne, e miele selvatico (cfr. Marco 1.6), ma di focacce (enkridas) e miele selvatico, un cambiamento preferibile anche da altri punti di vista. Questo Vangelo degli ebioniti era evidentemente scritto in greco, altrimenti non sarebbe stato possibile trasformare le locuste in focacce, e basato almeno in parte su Matteo, Marco e Luca, come si nota nella tendenza ad armonizzarli. Perciò era usato da cristiani ebioniti che non sapevano più l'aramaico: evidentemente vivevano al di fuori della Palestina. Inoltre includeva le idee caratteristiche degli ebioniti sulla natura della vera religione (di qui la condanna del sacrificio animale). Tutte queste ragioni ci fanno rimpiangere ancora di più di averne così pochi frammenti: un altro Vangelo perso dalla posterità, distrutto o dimenticato dai vincitori proto-ortodossi nella lotta per decidere che cosa i cristiani dovessero venerare e leggere.


CRISTIANI CHE DISPREZZAVANO TUTTO CIO' CHE ERA EBRAICO: I MARCIONITI

Un altro gruppo di cristiani viveva nello stesso periodo e godeva della stessa indesiderata attenzione da parte dei proto-ortodossi, sebbene si trovasse esattamente all'estremo opposto dello spettro teologico: si trattava dei marcioniti. In questo caso non ci sono dubbi sull'origine del nome: erano i seguaci dell'evangelista-teologo del II secolo Marcione, noto ai cristiani successivi come uno dei principali eretici della sua epoca, ma nel complesso uno dei più significativi pensatori e scrittori cristiani dei primi secoli. Sui marcioniti siamo meglio informati che sugli ebioniti, perché i loro avversari li ritenevano una minaccia più seria per la stabilità dell'intera chiesa. Come ho già insinuato, i potenziali pagani convertiti al Cristianesimo non facevano certo la fila per entrare nella vita ebionita, che prevedeva la restrizione delle attività il sabato, l'abbandono della carne di maiale e di altri cibi molto amati, e per gli uomini la sottoposizione a un'operazione chirurgica per rimuovere il prepuzio dal pene. I marcioniti invece avevano una religione decisamente attraente per molti pagani convertiti, perché era esplicitamente cristiana senza aver nulla di ebraico; anzi, tutto ciò che lo era ne veniva rigorosamente escluso. Gli ebrei, riconosciuti ovunque per usanze che colpivano i pagani nel migliore dei casi come stravaganti, avrebbero avuto difficoltà a riconoscere nella religione marcionita una propaggine della propria: non venivano rifiutate solo le usanze ebraiche, ma anche le Scritture ebraiche e il Dio ebraico. Dal punto di vista storico, è interessante che una simile religione potesse affermare una continuità storica diretta con Gesù. Poiché il Cristianesimo marcionita era visto come una minaccia importante per la stabilità del movimento proto-ortodosso, gli eresiologi scrissero molto su di esso. Tertulliano, ad esempio, stilò un'opera in ben cinque volumi (Contro Marcione) per attaccare Marcione e le sue idee. Questi libri sono fonti fondamentali per la comprensione del conflitto e vanno integrati con gli attacchi scagliati dai successori di Tertulliano, tra cui Epifanio di Salamina. Bisogna comunque fare la tara a quanto ci viene detto: non si può mai sperare che la versione fornita da un nemico sia un'esposizione onesta e disinteressata, e anche in questo caso le opere di Marcione e dei suoi successori furono a lungo destinate alla spazzatura o ai falò; perciò ancora una volta dobbiamo dedurre molto sulla vita e gli insegnamenti di Marcione dalle fonti polemiche rimasteci.


VITA E INSEGNAMENTI DI MARCIONE



Marcione nacque intorno al 100 nella città di Sinope, sulla costa meridionale del Mar Nero, nella regione del Ponto. Si dice che suo padre fosse il vescovo della chiesa locale, affermazione indubbiamente possibile, perché spiegherebbe la grande padronanza di Marcione della Bibbia ebraica, che in seguito avrebbe rifiutato, e la sua piena comprensione di alcuni aspetti della fede cristiana fin da una fase precoce della sua vita. Da adulto fu sicuramente ricco, avendo guadagnato come mercante marittimo o forse come armatore. Notizie più tarde affermano che ebbe uno scontro con suo padre, che provvide ad allontanarlo dalla chiesa; le dicerie vogliono che il motivo fosse che aveva "sedotto una vergine". Molti studiosi la interpretano come una seduzione metaforica: Marcione aveva sedotto membri della comunità (la chiesa come vergine di Cristo) con i suoi falsi insegnamenti. In ogni caso, pare che nel 139 Marcione si fosse spostato dalla sua patria, l'Asia Minore, alla città di Roma, che in quanto capitale e massima città dell'Impero doveva attirare in quel periodo ogni tipo di persone, e anche ogni tipo di cristiani. Fece una buona impressione alla chiesa romana, che era già una delle più grandi (se non la più grande) del mondo, donandole 200.000 sesterzi per la missione. Per quanto stimato per la sua munificenza, Marcione aveva evidentemente piani più ambiziosi, ma si tenne nell'ombra ed elaborò la sua strategia nell'arco di cinque anni esponendola in due opere letterarie. Prima di discutere questi libri, vorrei spendere qualche parola sulla teologia sviluppata da Marcione, che era considerata distintiva, rivoluzionaria e affascinante, e quindi pericolosa. Tra tutti i testi e gli autori cristiani a sua disposizione, Marcione restò colpito soprattutto dalle opere dell'apostolo Paolo, in particolare dalla distinzione da lui operata nella Lettera ai Galati e in altri luoghi tra Legge degli ebrei e Vangelo di Cristo. Come abbiamo visto, Paolo affermava che una persona giunge a Dio solo per mezzo della fede in Cristo, e non agendo in osservanza della Legge. Questa distinzione divenne fondamentale per Marcione, che la rese assoluta: il Vangelo è la buona novella di liberazione, perché comporta amore, pietà, grazia, perdono, riconciliazione, redenzione e vita; la Legge ebraica, invece, è la cattiva novella, il fattore primo che più di tutto rende necessario il Vangelo, perché comporta comandamenti severi, colpa, giudizio, inimicizia, punizione e morte. La Legge è data agli ebrei; il Vangelo è dato da Cristo. Come poteva lo stesso Dio essere responsabile di entrambe le cose? In altri termini, come poteva il Dio iracondo e vendicatore degli Ebrei essere il Dio amoroso e clemente di Gesù? Marcione affermava che questi attributi non potevano appartenere a un solo Dio, essendo in contrasto tra di loro: odio e amore, vendetta e pietà, giudizio e grazia. Ne concluse che in realtà dovevano esserci due Dèi: il Dio degli ebrei, che si trova nel Vecchio Testamento, e il Dio di Gesù, che si trova negli scritti di Paolo. Una volta che Marcione giunse a questo principio, tutto il resto venne da sé. Il Dio del Vecchio Testamento era il Dio che aveva creato questo mondo e tutto ciò che è in esso, come descritto nella Genesi; il Dio di Gesù, di conseguenza, non aveva mai avuto a che fare con questo mondo ma vi era intervenuto solo quando Gesù era comparso dal cielo. Il Dio del Vecchio Testamento era il Dio che aveva chiamato gli ebrei a essere il suo popolo e aveva dato loro la Legge; il Dio di Gesù non considerava gli ebrei il suo popolo (erano stati i prescelti dell'altro Dio) e non era un Dio che dettava leggi. Il Dio del Vecchio Testamento affermava che si doveva osservare la sua Legge e penalizzava coloro che non lo facevano. Non era malvagio, ma era severamente giusto: aveva leggi e infliggeva castighi a chi non le osservava. Questo, però, lo rendeva necessariamente un Dio iracondo, perché nessuno osservava le sue leggi alla perfezione: tutti dovevano pagare il prezzo delle proprie trasgressioni, e il castigo per la trasgressione era la morte. Il Dio del Vecchio Testamento era perciò completamente giustificato nell'esigere le sue punizioni e nel condannare tutti a morte. Il Dio di Gesù era giunto in questo mondo per salvare gli uomini dal Dio vendicatore degli ebrei. In precedenza era sconosciuto a questo mondo e non aveva mai avuto a che fare con esso, perciò Marcione talvolta si riferisce a lui come al Dio Straniero. Neanche le profezie del futuro Messia provengono da questo Dio, perché non parlano di Gesù ma di un prossimo Messia di Israele che deve essere mandato dal Dio degli ebrei, creatore di questo mondo e Dio del Vecchio Testamento. Gesù era giunto del tutto inaspettatamente e aveva fatto ciò che nessuno avrebbe mai potuto sperare: aveva pagato il prezzo dei peccati degli altri uomini per salvarli dalla giusta ira del Dio del Vecchio Testamento. Ma come poté Gesù, che rappresenta il Dio non materiale, giungere in questo mondo materiale, creato dall'altro Dio, senza diventarne parte? Come poté il non materiale diventare materiale, anche per un Dio come lui e per una causa nobile come la salvezza? Marcione spiegava che Gesù non era veramente parte di questo mondo materiale: non aveva un corpo di carne e ossa, non era nato concretamente, non era veramente umano: sembrava solo un umano con un'esistenza materiale come chiunque altro. In altre parole, Marcione, come alcuni cristiani gnostici, era un docetista che affermava che Gesù "sembrava" soltanto avere un corpo di carne. Giungendo "nella somiglianza della carne del peccato", per dirla con l'autore preferito di Marcione, Paolo (Lettera ai Romani 8.3), Gesù pagò il prezzo dei peccati umani morendo sulla croce. Avendo fede nella sua morte, si potevano evitare i patimenti dell'iracondo Dio degli ebrei e ottenere la vita eterna con il Dio dell'amore e della pietà, il Dio di Gesù. Ma come poté Gesù morire per i peccati degli uomini se non aveva un corpo vero? Come poté il suo sangue versato portare espiazione se non aveva sangue vero? Purtroppo non sappiamo esattamente in che modo Marcione avesse sviluppato i dettagli della sua teoria della redenzione. Forse, come alcuni cristiani dopo di lui, pensava che la morte di Gesù fosse una specie di trappola per ingannare l'essere divino che controllava le anime umane perdute nel peccato e che quindi il Dio degli ebrei fu costretto a liberare le anime di quelli che credevano nella morte di Gesù, non rendendosi conto che in realtà quella morte era solo un'apparenza. Ma non sappiamo davvero come Marcione affrontò le sottigliezze teologiche. Ciò che sappiamo è che basò il suo intero sistema su alcuni testi sacri che aveva nella sua chiesa. Tra questi c'erano gli scritti di Paolo, ma non solo. Tertulliano, ad esempio, indica che Marcione era particolarmente attratto dal detto di Gesù che un albero si riconosce dal frutto (cfr. Luca 6.43-44): i buoni alberi non producono frutti marci e gli alberi marci non producono buon frutto. Che cosa succede se si applica questo principio al Regno di Dio? Quale Dio crea un mondo infestato di dolore, miseria, disastri, malattie, peccato e morte? Quale Dio dice di essere quello che "crea il male" (Amos 3.6)? Sicuramente un Dio che è egli stesso malvagio. Ma quale Dio porta amore, pietà, grazia, salvezza e vita, e che fa ciò che è bello, generoso e buono? Un Dio che è buono. Dunque ci sono due Dèi, e secondo Marcione è Gesù stesso a dirlo. Inoltre, Gesù spiega che nessuno mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti gli otri vecchi esplodono e vanno perduti sia gli otri sia il vino (Marco 2.22). Il Vangelo è qualcosa di nuovo comparso nel mondo, e non può essere messo nei vecchi otri della religione ebraica.


LA PRODUZIONE LETTERARIA DI MARCIONE

Una volta elaborato il suo sistema teologico, Marcione lo espose nelle sue due opere letterarie. La prima, intitolata Antitesi ("affermazioni contrarie"), fu composta da lui stesso, e non è sopravvissuta se non nelle citazioni fatte dai suoi avversari. Evidentemente era una specie di commento alla Bibbia in cui Marcione dimostrava le sue idee dottrinarie secondo le quali il Dio del Vecchio Testamento non poteva essere il Dio di Gesù. Forse il libro consisteva in parte di affermazioni antitetiche dirette e mirate che ponevano in contrasto i due Dèi. Ad esempio, il Dio del Vecchio Testamento dice al popolo di Israele di entrare nella città di Gerico e uccidere ogni uomo, donna, bambino a animale nella città (Giosuè 6), ma il Dio di Gesù dice ai suoi seguaci di amare il loro nemico, di pregare per coloro che li perseguitano e di porgere l'altra guancia (Luca 6.27-29). Si tratta dello stesso Dio? Quando Eliseo, il profeta del Dio del Vecchio Testamento, viene preso in giro da un gruppo di ragazzi, Dio gli permette di invocare due orse per attaccarli e sbranarli (2 Re 2.23-24); il Dio di Gesù dice "lasciate che i bambini vengano a me" (Luca 18.15-17). Si tratta dello stesso Dio? Il Vecchio Testamento dice che l'appeso al patibolo "è una maledizione di Dio" (Deuteronomio, 21.23), ma il Dio di Gesù ordina che lui, il benedetto, venga appeso a un albero. Si tratta dello stesso Dio? Oggi molti cristiani potrebbero trovarsi d'accordo con le idee di Marcione, visto che spesso si sente ancora parlare di un Dio iracondo del Vecchio Testamento e di un Dio amoroso del Nuovo. Ma Marcione spinse l'idea fino al limite in un modo che molti moderni non potrebbero accettare: per lui c'erano davvero due Dèi, e cercava di dimostrarlo appellandosi al Vecchio Testamento. In questo libro di antitesi, Marcione mostrava di non voler spiegare questi passi fornendone un'interpretazione figurativa o simbolica: per lui andavano presi alla lettera, e così facendo risultavano in forte contrasto con i chiari insegnamenti di Gesù e con il suo Vangelo di amore e pietà. La seconda opera letteraria di Marcione non fu una sua composizione originale ma una nuova edizione di altri testi. Marcione mise insieme un canone di Scritture, cioè una raccolta di libri che considerava autorità sacre; anzi, molti credono che Marcione sia stato il primo cristiano ad aver costruito un canone chiuso e limitato di testi scritturali, molto prima che venisse istituito il Nuovo Testamento a noi noto. Alcuni studiosi pensano che la decisione di Marcione di creare un canone possa aver incentivato gli sforzi dei cristiani proto-ortodossi a fare altrettanto. In che cosa consisteva il canone di Marcione? Innanzitutto, ovviamente, non includeva alcun libro delle Scritture ebraiche (il "Vecchio" Testamento): erano libri scritti dal e sul Dio del Vecchio Testamento, creatore del mondo e Dio degli ebrei, e non potevano essere testi sacri per coloro che erano stati salvati dalla sua morsa vendicativa per mezzo della morte di Gesù. Il Nuovo Testamento era completamente nuovo e senza precedenti. Il Nuovo Testamento di Marcione consisteva di undici libri. La gran parte era rappresentata da lettere del suo amato Paolo, l'unico predecessore cui Marcione si potesse affidare per intendere le affermazioni radicali del Vangelo. Perché, si chiedeva, Gesù tornò sulla terra per convertire Paolo per mezzo di una visione? Perché non si limitò a far sì che i suoi discepoli proclamassero il suo messaggio in tutto il mondo? La sua risposta era: perché i discepoli di Gesù, essendo ebrei, seguaci del Dio ebraico e lettori delle Scritture ebraiche, non compresero mai correttamente il loro Signore. Confusi da ciò che Gesù aveva insegnato loro, pensando erroneamente che egli fosse il Messia ebraico, continuarono a non capire anche dopo la sua morte e resurrezione, interpretando le parole, gli atti e la morte di Gesù alla luce della loro lettura dell'Ebraismo. E così Gesù dovette ripartire da zero e chiamò Paolo per rivelare loro "la verità del Vangelo". Ecco perché Paolo dovette scontrarsi con Pietro, discepolo di Gesù, e con Giacomo, fratello terreno di Gesù, come si vede nella Lettera ai Galati: Gesù aveva rivelato la verità a Paolo, e questi altri, in termini molto semplici, non avevano mai capito niente. Invece Paolo capì, e fu il solo. Perciò Marcione incluse nel suo canone scritturale dieci lettere paoline, tutte quelle che alla fine vennero incluse nel Nuovo Testamento con l'eccezione delle lettere pastorali, le due a Timoteo e quella a Tito. Forse non sapremo mai perché non incluse anche queste tre; probabilmente all'epoca di Marcione non avevano una circolazione vasta come le altre, e perciò non le conosceva. Ovviamente Paolo parla del suo "vangelo", intendendo il suo messaggio evangelico, ma Marcione credette che Paolo avesse un vero e proprio libro evangelico a sua disposizione. Di conseguenza incluse nel suo canone un Vangelo che era una rielaborazione del Vangelo di Luca. Non è chiaro perché abbia scelto proprio quello di Luca: forse perché il suo autore è tradizionalmente noto come compagno dell'apostolo Paolo, forse perché mostra grande interesse per i gentili nella missione di Gesù o forse, ancora più plausibilmente, perché era il Vangelo con cui crebbe nella sua chiesa originaria di Sinope. In ogni caso questo Vangelo, insieme alle dieci lettere paoline, formava il canone sacro delle Scritture di Marcione. Persino un canone così breve (solo undici libri e neanche l'ombra del Vecchio Testamento) fu un problema per il suo redattore, perché questi undici libri sembrano affermare che il mondo è una creazione del vero Dio, citano passi del Vecchio Testamento e mostrano legami con l'Ebraismo storico. Marcione si rendeva pienamente conto del problema e lavorò duramente per risolverlo. Secondo lui la ragione per cui questi libri contenevano quei brani non era affatto che i loro autori si fossero ingannati nel pensare che l'Ebraismo fosse importante per il messaggio di Gesù; il motivo era un altro: quei brani problematici erano stati inseriti nelle copie di quelle opere solo dopo la loro stesura da parte di scribi che continuavano a non capire il vero messaggio di Gesù. E così, per presentare le Scritture nella loro genuina forma originaria, Marcione fu indotto dalla logica del suo sistema a tagliare i passi che affermavano che il mondo materiale è una creazione del vero Dio, quelli che citavano il Vecchio Testamento e quelli che sapevano di Ebraismo. Con un'operazione che ricorda la più recente Bibbia di Jefferson, Marcione rimosse tutti i passi che risultavano in contrasto con le sue idee: per dirla con il suo avversario proto-ortodosso Tertulliano, Marcione aveva interpretato la sua Scrittura "con un pugnale, non con una penna" (Prescrizione degli eretici 38).


IL DESTINO DI MARCIONE

Appena Marcione completò le sue creazioni letterarie, cercò di far accettare il più possibile le sue idee al mondo cristiano. Forse questo è uno dei motivi per cui si trasferì proprio a Roma, la capitale: a quanto pare vi convocò un concilio di autorità ecclesiastiche per esporre le sue idee (si tratterebbe del primo concilio ecclesiastico romano della storia), ma dopo averlo ascoltato, i presbiteri romani, invece di accogliere le sue idee a braccia aperte, decisero di scomunicarlo dalla loro comunità, restituendogli la sua enorme donazione e rimandandolo a casa. Marcione lasciò la chiesa di Roma, momentaneamente sconfitto ma per nulla privo di energie e sempre convinto della verità del suo Vangelo. Marcione tornò in Asia Minore per diffondere la sua versione della fede, ed ebbe un enorme successo. Non sappiamo esattamente perché, ma ebbe una fortuna senza uguali in ambito missionario, tanto che nel giro di pochi anni uno dei suoi avversari proto-ortodossi, l'apologista e teologo Giustino, che operava a Roma, poté dire che Marcione insegnava le sue idee eretiche a "molte persone di ogni nazione" (Apologia 1.26). Per secoli le chiese marcionite fiorirono: in alcune zone dell'Asia Minore furono la forma originaria di Cristianesimo e continuarono per molti anni a comprendere molti di quelli che si definivano cristiani. Ancora nel V secolo leggiamo di vescovi ortodossi che ammoniscono i membri delle loro congregazioni a stare attenti se viaggiando entrano in una città straniera: potrebbero recarsi nella chiesa locale la domenica mattina e scoprire con costernazione che stanno pregando in mezzo a un gruppo di eretici marcioniti.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:56
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I CRISTIANI "CHE SANNO": I MONDI DEL PRIMO GNOSTICISMO CRISTIANO

Nessuna forma di Cristianesimo perduto ha affascinato i lettori moderni e sconcertato gli studiosi quanto il primo Gnosticismo cristiano. E' facile capire il perché, soprattutto se si pensa alla scoperta della biblioteca di Nag Hammadi (cfr. pp. 76-80). Quando il gruppo di braccianti capeggiati da Mohammed Ali scoprì quel deposito di libri nell'Alto Egitto, il mondo venne improvvisamente posto di fronte a una prova inconfutabile dell'esistenza nell'antichità di altri gruppi cristiani che contrastavano nettamente con qualsiasi tipo di Cristianesimo odierno a noi noto. Qui non c'era il Gesù delle vetrate o del credo, e neanche un Gesù del Nuovo Testamento. Questi libri erano radicalmente diversi da qualsiasi cosa conoscessimo e quasi nulla avrebbe potuto prepararci alla loro esistenza.


LA BIBLIOTECA DI NAG HAMMADI

La biblioteca conteneva un'ampia gamma di libri, molti dei quali fornivano interpretazioni su Dio, il mondo, Cristo e la religione che differivano non solo dalle idee dei proto-ortodossi ma anche tra di loro. C'erano nuovi Vangeli che riportavano le parole di Gesù, alcuni dei quali contenevano i suoi insegnamenti segreti e "più veri", rivelati dopo la sua resurrezione dai morti; Vangeli che si proclamavano scritti dai suoi discepoli Filippo e Giovanni figlio di Zebedeo, da suo fratello Giacomo, dal suo gemello Tommaso. Anche se falsi, questi libri vennero ovviamente scritti seriamente e intendevano essere presi sul serio come guida verso la verità. Lo stesso vale per gli altri libri della raccolta, tra cui diverse riflessioni mistiche contrastanti tra loro ma anche con se stesse sulla nascita del regno divino. Molti di questi documenti sostenevano che non esisteva semplicemente un Dio superiore che aveva creato il mondo e l'aveva reso buono, e alcuni erano alquanto espliciti: questa creazione non era affatto buona, ma era il risultato di una catastrofe cosmica realizzata da una divinità inferiore e ignorante che pensava erroneamente di essere Dio Onnipotente. Queste opere, dunque, esprimevano ciò che tante persone nel corso della storia - i morti di fame, gli ammalati, gli storpi, gli oppressi, i reietti, i derelitti - hanno sempre saputo bene per esperienza personale: questo mondo è penoso. E se c'è qualche speranza di riscatto, non verrà da questo mondo con mezzi terreni, ad esempio rafforzando lo stato sociale, mettendo più insegnanti nelle aule o dedicando più risorse nazionali a lottare contro il terrorismo. Questo mondo è una sentina di ignoranza e sofferenza, e la salvezza non verrà cercando di renderlo migliore ma soltanto rifuggendolo. Alcuni dei documenti della biblioteca di Nag Hammadi non solo esprimono questa idea del mondo, ma spiegano anche come questo mondo sia potuto nascere, come noi uomini siamo giunti ad abitarlo (un'altra catastrofe cosmica) e come possiamo fuggirne. Per molti di questi testi, la liberazione dal mondo materiale potrà avvenire solo quando apprenderemo la conoscenza segreta che può portare salvezza (si ricordi che gnosis in greco vuol dire "conoscenza"; gli gnostici, dunque, sono coloro "che sanno"). Alcuni di questi testi (quelli di più evidente orientamento cristiano) indicano che Gesù è colui che porta questa conoscenza. Ma conoscenza di cosa? Non il tipo di conoscenza che si può raggiungere con l'osservazione e la sperimentazione empirica, non la conoscenza dei fenomeni esterni e di come manipolarli, ma la conoscenza di noi stessi. Molti di questi libri trasmettono e presentano l'idea che, a quanto sappiamo, apparteneva a vari gruppi gnostici: la conoscenza salvifica è "conoscenza di chi eravamo e di ciò che siamo diventati, di dove eravamo e di dove siamo stati fatti cadere, del punto verso cui ci affrettiamo e della fonte da cui veniamo redenti, di che cosa è la nascita e che cosa è la rinascita". Secondo questa visione, questo mondo orribile non è il nostro posto. Siamo giunti da un altro luogo, dal Regno di Dio. Qui siamo intrappolati, imprigionati, e quando impariamo chi siamo e come possiamo fuggire, allora possiamo tornare alla nostra casa celeste. Non è un caso che queste espressioni di religiosità gnostica abbiano trovato un'eco tra i lettori moderni, molti dei quali si sentono alienati da questo mondo, che per loro non ha senso, lettori che sentono, in modo molto profondo e significativo, di non appartenervi. Per alcuni gruppi di gnostici cristiani antichi era proprio così: questo non è il nostro posto. La nostra alienazione è vera, questa non è casa nostra. Siamo giunti dall'alto, e in alto dobbiamo tornare. Malgrado il loro interesse attuale, molti di questi testi gnostici non sono facili da comprendere. E ovviamente è giusto che sia così: se la conoscenza necessaria per la salvezza fosse semplice e diretta, tutti l'avremmo già trovata da tempo. Ma questa è una conoscenza segreta riservata all'élite, ai pochi, a quelli che davvero hanno dentro di sé una scintilla di divino da riaccendere e far rinascere attraverso la gnosi (conoscenza) portata dall'alto da chi è sceso dal regno divino per ricordarci la nostra vera identità, la nostra vera origine e il nostro vero destino. Questo emissario divino non è un semplice mortale: è un essere del regno superiore, un emissario divino mandato dal vero Dio (non il creatore ignorante che ha dato origine a questo odioso mondo materiale) a rivelarci come stanno davvero le cose e i mezzi per fuggire. Coloro che ricevono, comprendono e accettano questi insegnamenti, quindi, saranno gli "gnostici", coloro "che sanno". A questo punto l'interesse destato da questi sistemi gnostici in molti lettori è ovvio. Ma perché, come ho detto all'inizio, hanno creato tanto sconcerto tra gli studiosi? Forse la spiegazione più facile è che un conto è riassumere la sostanza degli insegnamenti di questo o quel gruppo gnostico, un altro è immergersi nelle profondità dei testi. E probabilmente nell'antichità cristiana non c'è altra letteratura religiosa di qualsiasi lingua più problematica e volutamente oscura di alcune opere gnostiche. Certo, le si può leggere in buone traduzioni in italiano, ma anche se i traduttori cercano di offrire questi testi in termini comprensibili ai lettori moderni, esse restano oscure in vari punti, ad esempio quando descrivono le complesse parentele di innumerevoli esseri divini descritte nelle sottili sfumature di un linguaggio altamente simbolico. A volte si sospetta che la traduzione sia cattiva, ma in realtà molto spesso la traduzione italiana è anche più chiara del copto dei testi. Alcuni testi originali sono difficili non solo da comprendere singolarmente, ma anche da porre in rapporto reciproco. Gli studiosi hanno concluso che nei vari documenti gnostici giunti dall'antichità sono rappresentate varie prospettive religiose, non sempre coerenti tra loro. Probabilmente documenti differenti provengono da varie comunità diverse con visioni del mondo, sistemi mitologici, credenze e pratiche differenti. Alcuni testi trovati a Nag Hammadi offrono o presuppongono sistemi religiosi non accostabili ad alcun altro sistema antico a noi noto: alcuni di loro non sono neanche gnostici, e altri sono quasi sicuramente non cristiani. Pertanto, piuttosto che una cosa sola, la biblioteca di Nag Hammadi ne contiene molte, varie visioni che si rispecchiano in una grande varietà di testi, molti dei quali cristiani. E' impossibile sintetizzarne le idee, i presupposti, le prospettive religiose in un unico sistema monolitico. Di conseguenza gli studiosi affrontano lunghi e continui dibattiti su di essi, sia sul singolo documento sia in generale sul fenomeno chiamato Gnosticismo. Alcuni degli interrogativi principali sono: il termine "Gnosticismo" è adatto a definire tutte le religioni che di solito facciamo rientrare sotto di esso, o queste religioni sono tanto diverse tra loro che chiamandole "gnostiche" ne livelliamo le differenze? Quando nacquero queste varie religioni? Alcune esistevano già prima del Cristianesimo? Nascono da una qualche forma di Ebraismo o sono diramazioni del Cristianesimo? O sono religioni sorte nello stesso periodo del Cristianesimo e che con esso ebbero mutui rapporti di influenza (ad esempio, i cristiani non gnostici derivarono alcune idee dagli gnostici e viceversa)? Possiamo ricondurre alcuni testi gnostici cristiani a sette cristiane gnostiche a noi note? Si tratta di residui di miti gnostici o solo di un mito trasversale narrato in vari modi? E così via. Per fortuna in questa sede non devo affrontare questi problemi filologici, molti dei quali si basano su presupposti molto specialistici. I miei interessi sono molto più generici, perciò tratterò lo gnosticismo come un fenomeno complesso dalle molte manifestazioni (come il Cristianesimo di ieri e di oggi), conscio però che molti testi della biblioteca di Nag Hammadi sono legati tra loro perché sono radicati nella stessa fondamentale visione gnostica del mondo, che pure si manifesta in molti modi diversi. Inoltre ipotizzerò che, basandoci su testi coerenti (contrapposti a quelli che partono da prospettive diverse), possiamo descrivere le caratteristiche generali di alcune religioni gnostiche (pur riconoscendo che altre caratteristiche potrebbero applicarsi ad altri tipi di religione gnostica), che queste caratteristiche possono a loro volta aiutarci a spiegare i testi, e infine che possiamo farci un'idea generale di come alcune forme di Cristianesimo gnostico si colleghino ai Cristianesimi non gnostici, che questi gruppi gnostici siano venuti prima del Cristianesimo e siano perciò indipendenti da esso, o che siano sorti dopo. Quando nella discussione che segue parlerò di "testi gnostici", dunque, mi riferirò solo a documenti (per lo più provenienti da Nag Hammadi) coerenti tra loro e che perciò sembrano rappresentare una particolare prospettiva religiosa. Bisogna sempre tenere a mente che anche quando parlo di una forma di religione gnostica non intendo con questo dire che lo Gnosticismo fosse un'entità unica, comunque non più di quanto lo fosse il Cristianesimo.


LE ORIGINI DELLO GNOSTICISMO

Prima di approfondire ulteriormente i punti principali dell'unico tipo di Gnosticismo che prenderemo in esame, vorrei spendere due parole sulla sua probabile provenienza e spiegare più approfonditamente come oggi possiamo saperne di più. La questione della provenienza interessa gli studiosi da molto tempo. Due caratteristiche in particolare dei testi gnostici hanno fatto sorgere molti problemi. Da un lato, questi testi presuppongono chiaramente che il mondo materiale non sia un bel posto, cioè che non sia una creazione del Dio che ha fatto tutte le cose e poi le ha dichiarate "buone", come nella Genesi. Certo, gli ebrei e i cristiani non hanno mai pensato che il mondo fosse perfetto, neanche quelli che hanno scritto la Bibbia: hanno sempre avuto in mente il male e la sofferenza e spesso li hanno messi in prima fila nelle loro opere. Ma la maggior parte degli scrittori biblici crede che il male nel mondo derivi da un peccato umano che ha provocato una corruzione della buona creazione di Dio. Molti autori gnostici, invece, pensano che il male sia scritto nella materia stessa del mondo terreno. Questa potrebbe sembrare un'idea anti-giudeo-cristiana. Dall'altro lato, questi testi cristiani gnostici sono pieni di materiali ebraici e cristiani: Cristo è il redentore supremo, il Dio creatore è identificato con il Dio del Vecchio Testamento e molti testi non sono altro che esposizioni dei primi capitoli della Genesi (creazione, Adamo ed Eva, diluvio universale ecc.). Se gli scrittori erano anti-ebraici, perché presupponevano gli insegnamenti dell'Ebraismo? Se provenivano da un ambiente anti-ebraico, perché scrivevano commenti sulla Genesi? Un modo di risolvere il problema è collocare l'origine del Cristianesimo gnostico non al di fuori dell'Ebraismo ma all'interno di esso, come un movimento di reazione ad alcune forme di Ebraismo che si erano sviluppate nel periodo in cui emerse il Cristianesimo e che avevano influenzato Gesù e i suoi seguaci. Per fare un esempio facile, dobbiamo fare un passo indietro, tanto quanto ce lo permettono le notizie di teologi ebrei che tentarono di capire perché ci fosse la sofferenza nel mondo. Questo problema è vecchio quanto le nostre notizie sui teologi ebrei, cioè centinaia di anni prima di Cristo. In un modo o nell'altro, una parte importante della teologia ebraica risale alle tradizioni sull'esodo dall'Egitto sotto la guida di Mosè narrato nei primi libri della Bibbia ebraica. Secondo queste storie, dopo che i figli di Israele erano stati schiavi per secoli, Dio udì il loro lamento e fece sorgere per loro un profeta, Mosè, che contrastò il Faraone egizio lanciando dieci piaghe contro gli Egiziani per costringerlo a liberare il suo popolo. Dopo che gli Israeliti fuggirono, il Faraone inseguì i suoi ex schiavi e subì una sonora sconfitta sul Mar Rosso: quando le acque si aprirono miracolosamente, i figli di Israele passarono sulla terra asciutta e le armate egizie vennero distrutte dall'inondazione quando le acque tornarono al loro posto. Per gli ebrei antichi la tradizione dell'Esodo aveva un grande significato teologico: mostrava, in senso lato, che Dio aveva scelto Israele come suo popolo e che sarebbe intervenuto in suo aiuto quando si fosse trovato in gravi difficoltà. Che cosa dovevano dunque pensare i teologi quando, tempo dopo, il popolo di Israele soffrì ma Dio non intervenne? Gran parte della Bibbia ebraica è tormentata da questa domanda. La risposta tipica ricorre negli scritti di profeti ebrei come Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea e Amos: Israele soffre crisi militari, politiche, economiche e sociali perché il popolo ha peccato contro Dio, che lo sta punendo per questo. Ma se gli ebrei ritorneranno sulla retta via, seguendo le istruzioni di vita comunitaria e religiosa che Dio ha dato a Mosè nella Legge, egli smetterà e li riporterà alla loro vita prospera e felice. La spiegazione "classica" della sofferenza continuò a informare di sé la teologia dell'Esodo (Dio è il Dio di Israele e interverrà in sua difesa) e a spiegare il problema ancora vivo della sofferenza. Ma che cosa accade quando il popolo fa ritorno a Dio, cerca di osservare i suoi dettami e tuttavia continua a soffrire? La difficoltà principale della spiegazione classica, quella dei profeti, è che non spiega perché i malvagi prosperano e i giusti soffrono. Questo difetto portò a molte teologie diverse nell'antico Israele, tra cui quelle del libro di Giobbe e dell'Ecclesiaste, entrambi contrari a questa spiegazione profetica, e a quella di un gruppo di pensatori ebrei che gli studiosi moderni hanno chiamato "apocalittici". Il termine deriva dalla parola greca apokalypsis, che significa "disvelamento" o "rivelazione", usato in relazione a questi pensatori perché credevano che Dio avesse "rivelato" loro i segreti supremi del mondo che spiegano perché esso contenga tanto male e tanta sofferenza. L'apocalittica ebraica sorse in un contesto di intensa sofferenza, circa duecento anni prima di Gesù, quando il sovrano siriaco che aveva il controllo della Palestina, cioè la patria ebraica, perseguitò gli ebrei per il semplice fatto che erano ebrei. Ad esempio la circoncisione, il segno fondamentale del patto di unione con Dio, venne proibita con la pena di morte. Ovviamente per molti pensatori ebrei questo tipo di sofferenza, contraria all'idea classica dei profeti, non poteva provenire da Dio, poiché era il diretto risultato dello sforzo di seguirlo: doveva dunque esserci qualche altro motivo per la sofferenza e qualche altro agente che ne fosse responsabile. Gli apocalittici ebrei svilupparono l'idea che Dio avesse un avversario personale, il Diavolo, responsabile della sofferenza, e che nel mondo esistessero forze cosmiche e poteri malvagi che affliggevano il popolo di Dio. Secondo questa visione, Dio era sempre il creatore del mondo e sarebbe stato il suo redentore finale, ma per ora le forze del male erano state scatenate e stavano danneggiando il popolo di Dio. Gli apocalittici ebrei affermavano comunque che Dio sarebbe intervenuto presto a rovesciare queste forze del male in un'esibizione di forza cataclismatica che avrebbe distrutto chiunque gli si opponesse, inclusi tutti i regni che stavano creando sofferenza al suo popolo, e che infine avrebbe portato un nuovo regno in cui non ci sarebbero stati più peccato, sofferenza, male o morte. Questi apocalittici affermavano che coloro che stavano soffrendo dovevano resistere solo un po' più a lungo, perché Dio li avrebbe ben presto vendicati e avrebbe dato loro un premio eterno nel suo regno. Quando sarebbe accaduto tutto questo? "In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il Regno di Dio venire con potenza": queste sono le parole di Gesù (Marco 9.1), probabilmente l'apocalittico ebreo più famoso dell'antichità. Oppure, come dice più avanti, "In verità vi dico, non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute" (Marco 13.30). Gesù e i suoi primi seguaci erano apocalittici ebrei che aspettavano l'intervento di Dio per distruggere le forze del male; in questo senso erano come molti altri ebrei del I secolo, tra cui quelli che scrissero i rotoli del Mar Morto. Gesù sembra aver pensato che Dio avrebbe mandato ben presto il Figlio dell'uomo dal cielo come giudice contro tutti quelli che si schierano contro Dio (cfr. Marco 8.38-9.1, 13.24-30), e anche in questo era d'accordo con altri profeti apocalittici dei suoi giorni. Ma dopo la sua morte i suoi seguaci cominciarono a pensare che sarebbe stato Gesù stesso a tornare dal cielo sulle nuvole come giudice cosmico della terra. L'apostolo Paolo, il nostro autore cristiano più antico, credeva che Gesù sarebbe tornato per giudicare mentre lui era ancora in vita (cfr. Prima lettera ai Tessalonicesi 4.14-18; Prima lettera ai Corinzi 15.51-52). Che cosa sarebbe stato di una visione del mondo apocalittica se, al contrario delle attese, la fine non fosse giunta "presto", o peggio ancora, se non fosse giunta mai? Che cosa avrebbero fatto, allora, le persone più saldamente attaccate a una visione del mondo apocalittica? Come sarebbe cambiato il loro pensiero? Queste persone potevano provare anche un altro cambiamento radicale di pensiero, traumatico almeno quanto quello che aveva portato dall'ideale profetico (Dio provoca la sofferenza) all'ideale apocalittico (il nemico di Dio, il Diavolo, sta provocando la sofferenza). Entrambi questi ideali precedenti presuppongono che il mondo sia stato creato da Dio, che è la forza buona e onnipotente che lo ha originato. Ma se questi ideali vengono posti in dubbio da una continua realtà di sofferenza terrena, che cosa succede? Forse è l'intero impianto del ragionamento a essere sbagliato. La sofferenza di questo mondo non sta accadendo come punizione da parte di questo Dio o malgrado la sua bontà: forse il Dio di questo mondo non è buono, forse sta causando la sofferenza non perché è buono e vuole che le persone partecipino della sua bontà, ma perché è malvagio o ignorante o inferiore; vuole che gli uomini soffrano o non gli importa che soffrano, o forse non può farci niente. Ma se ciò è vero, allora il Dio di questo mondo non è il vero Dio: deve esserci un Dio più grande su questo mondo che non ne è il creatore. Secondo questo ideale, lo stesso mondo materiale (l'esistenza materiale in tutte le sue forme) è inferiore nel caso migliore e malvagio nel caso peggiore, e così deve essere anche il Dio che l'ha creato. Deve esserci un Dio non in contatto con questo mondo, superiore al Dio creatore del Vecchio Testamento, che non ha creato questo mondo né vi ha portato sofferenza e che vuole alleviare le sofferenze dei suoi, non redimendo questo mondo ma liberandoli da esso e dalla loro prigionia nell'esistenza materiale. Questo è un ideale gnostico, che può essere derivato, in ultima analisi, da una specie di apocalitticismo fallito. Non sorprende dunque che mostri somiglianze con alcuni testi ebrei, visto che deriva da una visione del mondo ebraica, e che nelle sue forme cristiane assegna un ruolo così centrale a Cristo, reinterpretandolo lontano dalle sue radici apocalittiche. Ma sarebbe un errore considerare lo Gnosticismo un apocalitticismo fallito puro e semplice, visto che ci sono altri fattori che sembrano aver influenzato la complessa miscela riscontrabile nelle religioni gnostiche. Ne indicherò solo un altro: una delle caratteristiche più palesi dello Gnosticismo è il suo radicale dualismo, per cui il mondo materiale è malvagio e il mondo dello spirito è buono. Da dove deriva questa idea? Alcuni lettori restano immediatamente colpiti dal parallelismo con alcuni tipi di religione orientale, e può darsi che questo legame sia valido; ma gli studiosi dell'antichità restano ancora più colpiti dalle somiglianze con altre idee filosofiche ben note di quell'epoca, soprattutto di pensatori che si collocavano nella tradizione platonica. Anche Platone aveva sottolineato una sorta di dualismo di ombra e realtà, materia e spirito, e a partire dal I e II secolo d.C. vari filosofi ampliarono il pensiero di Platone e svilupparono intere cosmologie (spiegazioni del mondo) ricalcate sul suo pensiero. Questi pensatori sono chiamati di solito "medioplatonici" per differenziarli dai platonici più antichi, che vissero subito dopo Platone (morto nel IV secolo a.C.), e dagli ancora più celebri neoplatonici del III secolo d.C. e seguenti. Come gli gnostici, i medioplatonici pensavano che ci fosse una divinità suprema lontanissima da tutto ciò che possiamo pensare o immaginare, completamente ineffabile (cioè non descrivibile a parole, anche le più sublimi che si possano impiegare), assolutamente perfetta, completamente separata da questo mondo e dalle sue categorie. Questo Dio è completo ed eterno in se stesso, privo di relazione con qualsiasi altra cosa, non limitato nello spazio e nel tempo e non connesso intrinsecamente a nulla nello spazio e nel tempo. Non si può dire neanche che sia "potente", perché ciò vorrebbe dire che partecipa a qualcosa di diverso da se stesso chiamato "potenza"; per lo stesso motivo non si può neanche dire che sia "buono": non è "grande", perché ciò implicherebbe che ha una dimensione. Come gli gnostici, i medioplatonici erano ossessionati dal tentativo di capire come sia potuto nascere questo mondo materiale, visto che all'inizio l'unica cosa che esisteva era questo Uno perfetto ed esistente in sé. E così, per spiegare come ciò fosse accaduto, svilupparono interi sistemi mitologici secondo i quali l'unico Dio non aveva deciso di creare il mondo, ma da questo Uno si erano propagate innumerevoli serie di altri esseri divini, che emanavano verso l'esterno come gocce da una fonte, cosicché tra l'Unico Vero Spirito e questo mondo materiale si trovavano numerosi intermediari di ogni tipo che ci separano dall'Uno attraverso un baratro insormontabile. Questi medioplatonici erano legati in particolar modo al Timeo, il dialogo di Platone in cui il grande filosofo descrive la creazione del mondo materiale a partire dal mondo dell'immateriale. E' interessante che uno degli ebrei filosoficamente più ferrati del I secolo, Filone di Alessandria, abbia scritto un commento al libro della Genesi in cui provò a mostrare che, a ben vedere, Mosè era nella stessa linea di ininterrotta continuità con Platone. Filone stesso venne considerato un medioplatonico, visto che da quella scuola aveva ripreso le nozioni di unico Dio supremo spirituale e di regno di intermediari divini tra quel Dio e questo mondo, e le aveva applicate alla sua interpretazione della Scrittura. Forse gli gnostici si trovavano sulla stessa linea intellettuale e derivarono la loro interpretazione del mondo dal medioplatonismo, dopo che un'idea tradizionale dell'Ebraismo si trasformò perché le speranze apocalittiche non si erano avverate. La forma cristiana dello Gnosticismo, dunque, può essere stata influenzata dalla visione che i cristiani avevano di Cristo, cioè colui grazie al quale giunge la salvezza, colui che rivela la verità, colui che proviene dal Dio che è sopra tutti noi mortali (cfr. ad esempio Giovanni 3.12-13, 6.41-42, 8.32). Questo, dunque, è uno dei modi in cui si può spiegare l'origine della complessa visione del mondo dello Gnosticismo proto-cristiano.


LE FONTI DELLA NOSTRA "CONOSCENZA" DELLO GNOSTICISMO

Ma che cos'era più precisamente questo ideale gnostico? Una delle difficoltà nel riassumerlo è dovuta alle fonti antiche a nostra disposizione. Per secoli, anzi per tutto il tempo antecedente la scoperta di documenti gnostici originali, le nostre sole fonti di informazione sullo Gnosticismo furono le opere dei padri della chiesa ortodossi e proto-ortodossi che lo combatterono: Ireneo, vescovo di Lione, che attorno al 180 compose un'opera in cinque volumi, Smascheramento e confutazione della falsa gnosi (di solito chiamata semplicemente Contro le eresie), Tertulliano di Cartagine, che circa venti anni dopo scrisse diversi trattati contro gli eretici, e il suo contemporaneo Ippolito di Roma, la cui unica opera, Confutazione di tutte le eresie, venne scoperta anch'essa solo nel XIX secolo. Questi scrittori forniscono descrizioni complete e a volte prolisse dello Gnosticismo, ma non ne parlano certo bene: gli gnostici sono sistematicamente ridicolizzati per aver proposto miti assurdi e scioccamente complessi, per aver corrotto gli insegnamenti della Scrittura tanto chiari (almeno per i proto-ortodossi), per aver proposto teorie contraddittorie e per aver incoraggiato attività sfrenate e licenziose che rivelano la loro vera personalità di reprobi e devianti dalla verità. Esamineremo alcune di queste violente invettive in un capitolo successivo. Per ora basti notare che se vogliamo sapere che cosa fu davvero lo Gnosticismo non possiamo prestar fede alle affermazioni dei suoi nemici giurati. E' vero che questi autori proto-ortodossi talvolta hanno usato veri documenti gnostici e in alcuni casi sembrano averli riassunti più o meno accuratamente. Quand'è così, tanto meglio; ma non è sempre facile sapere se abbiamo sotto agli occhi resoconti affidabili o volgari attacchi o un'astuta mescolanza delle due cose. Per fortuna disponiamo anche di altre fonti per studiare il fenomeno del Cristianesimo gnostico. Vari documenti gnostici originali erano noti anche prima della scoperta della biblioteca di Nag Hammadi, essendo stati scoperti nel XVIII e XIX secolo. Ma quando vennero trovati non ebbero un grande impatto sul mondo della filologia (per non dire sul resto del mondo), anche perché ciò che vi si trovava scritto non coincideva perfettamente con quanto affermavano gli eresiologi proto-ortodossi come Ireneo e i suoi successori. Con una mossa curiosa cui sarà meglio abituarsi, gli studiosi del fenomeno decisero che questi testi gnostici originali erano meno degni di fede delle notizie fornite dai nemici proto-ortodossi dello Gnosticismo e che dovevano essere in qualche modo aberranti rispetto alla "norma" gnostica, e così li misero da parte. Questo non è più possibile dopo la scoperta dei testi nei pressi di Nag Hammadi, molti dei quali sono scritti da gnostici per gnostici e presuppongono ideali gnostici. Ma neanche questi documenti sono esenti da problemi quando li usiamo per capire il fenomeno. Innanzitutto, proprio il fatto che alcuni di questi testi presuppongano la conoscenza degli ideali gnostici li rende difficili da capire. E' un po' come leggere le pagine di sport: un articolo sulla finale della Champions League non si metterà certo a descrivere nel dettaglio la storia e le regole del calcio, perché è scritto per intenditori che hanno già tutte le informazioni necessarie che servono a capire l'articolo. Lo stesso vale per molti testi gnostici di Nag Hammadi: sono libri per iniziati che, a differenza di noi, hanno già tutte le informazioni necessarie. E poi ci sono altri problemi. Alcuni testi sono incompleti, perché dopo tanti secoli dalla loro stesura alcune loro parti sono andate perdute. Molti manoscritti sono danneggiati da lacune, e le parole che mancano devono essere reintegrate. A volte ricostruire questi testi non è troppo difficile, ma in altri casi non possiamo sapere con certezza che cosa ci fosse scritto nelle lacune. Nel Vangelo di Filippo, ad esempio (che come sappiamo è una serie casuale, a quanto pare, di riflessioni e dialoghi tra Gesù e i suoi discepoli sui segreti dell'universo, sul significato del mondo e sul nostro posto in esso), i discepoli sono indignati per la relazione di Gesù con Maria Maddalena e chiedono: "Perché la ami più di tutti noi?". Stanno rispondendo a qualcosa che Gesù ha fatto, ma che cosa? Il testo precedente è pieno di lacune; vediamolo: "E la compagna di [piccola lacuna nel manoscritto] Maddalena [piccola lacuna] lei più che [piccola lacuna] i discepoli [piccola lacuna] e la baciava [piccola lacuna] sulla [lacuna]" (Vangelo di Filippo 55). Malgrado la nostra curiosità, non possiamo davvero sapere che cosa ci fosse nelle lacune. Ma probabilmente il problema più grande dei testi di Nag Hammadi è quello di cui ho già parlato, cioè che non forniscono un quadro coerente su miti, credenze e pratiche gnostiche ma anzi rispecchiano interpretazioni fortemente divergenti e disparate sul mondo, sul regno divino, sugli uomini, su Cristo e così via. Probabilmente, più che di Gnosticismo, dovremmo parlare di Gnosticismi. Eppure tra molti di questi testi e tra i sistemi che sembrano presupporre sembra emergere un certo accordo di massima sui punti fondamentali, che possiamo ricostruire da questi testi e, insieme, dalle descrizioni forniteci dai loro nemici. Esporrò qui alcuni punti trasversali che sembrano riferirsi a questi particolari sistemi gnostici, poi discuterò alcune mitologie usate per esporre questi ideali e fornirò un riassunto di vari testi particolarmente interessanti tra quelli che sono stati scoperti.


I PUNTI FONDAMENTALI DELLO GNOSTICISMO

Come abbiamo visto, i cristiani gnostici affermavano che all'inizio c'era solo l'Uno. Questo Dio Uno era totalmente spirito, totalmente perfetto, impossibile da descrivere, al di là di ogni attributo e qualità. Questo Dio non è semplicemente sconosciuto agli uomini: è inconoscibile. I testi gnostici non spiegano perché sia inconoscibile, ma si limitano a suggerire che egli è talmente "altro" che le spiegazioni (per le quali è necessario rendere conosciuto qualcosa di sconosciuto paragonandolo a qualcos'altro) non funzionano. Secondo tutti i miti gnostici, quest'unico Dio inconoscibile ha generato a partire da se stesso, per qualche motivo anch'esso inconoscibile, un regno divino. In alcuni di questi miti le stesse essenze perfette di questo Uno diventano in qualche modo auto-esistenti. Ad esempio, l'Uno passa l'eternità a pensare, e ovviamente pensa solo a se stesso, visto che è l'unica cosa che esiste; ma il suo stesso pensiero deve esistere, visto che egli pensa; ed ecco che il suo pensiero diventa entità propria. Oppure: questo Uno esiste sempre, e così la sua esistenza eterna, la sua eternità, esiste; ed ecco che essa diventa entità propria. Questo Uno vive, anzi è Vita; e così la sua stessa vita esiste; ed ecco che la vita diventa entità propria. E così via. Dunque da questo Uno emanano altre entità divine, emanazioni dall'Uno, chiamate eoni (Pensiero, Eternità, Vita ecc.); a loro volta alcuni di questi eoni producono entità proprie, finché non sorge un intero regno di eoni divini, talvolta chiamato Completezza, o Pleroma per usare la parola greca. I miti gnostici intendono mostrare non solo come il Pleroma sia venuto alla luce nell'eternità passata, ma anche come sia sorto il mondo in cui viviamo e come vi siamo giunti noi. Ciò che questi miti sembrano avere in comune è l'idea che ci sia una sorta di movimento verso il basso, dallo spirito alla materia, e che la materia sia un deterioramento dell'esistenza, il risultato di una frattura del Pleroma, una catastrofe nel cosmo. In alcuni di questi sistemi il problema è l'eone finale, chiamato Saggezza, o Sophia in greco. I miti spiegano diversamente come la "caduta" di Sophia dal Pleroma abbia portato alle tremende conseguenze del mondo materiale. Uno dei più noti si trova nel Libro segreto di Giovanni, resoconto di una rivelazione comunicata a Giovanni di Zebedeo da Gesù dopo la sua resurrezione. Questo libro è uno di quelli scoperti (in varie versioni) vicino a Nag Hammadi nel 1945; se ne può leggere una versione anche nei riassunti di Ireneo. In questo mito gnostico, Sophia decide di generare un essere divino senza l'assistenza del suo consorte, il che porta a una generazione malformata e imperfetta. Temendo che il suo errore possa essere scoperto, caccia la sua prole dal regno divino in una sfera inferiore, dove nessuno lo può vedere, e lo abbandona a se stesso. Sophia lo ha chiamato Yaldabaoth, nome che ricorda "Jahvè, signore del sabato", come nel Vecchio Testamento, perché questo essere malformato e imperfetto è il Dio ebraico. Secondo questa versione del mito, Yaldabaoth riesce in qualche modo a rubare potere divino a sua madre. Poi si allontana da lei e usa il suo potere per creare altri esseri inferiori, le forze cosmiche maligne del mondo e il mondo materiale stesso. Poiché ne è il creatore, spesso viene chiamato il Demiurgo (in greco "fabbricatore"). Yaldabaoth ignora il regno sopra di lui, e così dichiara stoltamente: "Io sono Dio e non esiste altro Dio all'infuori di me" (Isaia 45.5-6). Ma lui e i suoi seguaci, che lo hanno aiutato a creare il mondo, ricevono una visione dell'unico vero Dio, perciò alla fine si dicono: "Creiamo un uomo a immagine di Dio" (cioè del vero Dio che hanno appena visto, cfr. Genesi 2.7), e così nasce Adamo; ma Adamo, non avendo spirito dentro di sé, è completamente immobile. Allora l'unico vero Dio induce Yaldabaoth a inserire il potere di sua madre in questo essere inanimato soffiando in esso il respiro della vita; così immette il potere di Sophia negli uomini, rendendoli animati e dando loro un potere più grande persino di quello delle forze cosmiche inferiori create da Yaldabaoth. Quando le forze cosmiche capiscono che l'uomo, che è stato creato, è più grande di loro, lo scagliano nel mondo della materia; ma l'unico vero Dio manda il proprio Pensiero nell'uomo per insegnargli la sua vera natura divina, il motivo per cui è sceso nel regno della materia e il modo in cui può risalire. Altri miti hanno altri modi di descrivere la creazione del mondo materiale e la creazione dell'uomo. Ciò che hanno in comune è il concetto che il mondo in cui viviamo non è stato un'idea o una creazione dell'unico vero Dio, ma il risultato di un disastro cosmico, e che dentro alcuni uomini è presente una scintilla di divino che deve essere liberata in modo che possa tornare alla sua vera casa. L'unico modo in cui questa salvezza può verificarsi è che la scintilla divina apprenda la conoscenza segreta che può portare alla liberazione dalla prigionia nel mondo della materia. Dunque per questi sistemi è fondamentale la conoscenza: la conoscenza della propria vera essenza. Come Gesù dice a suo fratello, Giuda Tommaso, in un uno dei trattati di Nag Hammadi: "Mentre mi accompagni, anche se non capisci, di fatto sei già giunto a capire, e sarai chiamato "colui che conosce se stesso". Poiché chi non ha conosciuto se stesso non sa nulla, ma colui che ha conosciuto se stesso ha già raggiunto automaticamente la conoscenza sulla profonditi del tutto" (Libro di Tommaso l'Atleta 2.138.14-18). Questa conoscenza può provenire solo per rivelazione. Non basta guardare il mondo e immaginare come salvarsi: questo mondo è cattivo, e ogni conoscenza acquisita al suo interno è semplice conoscenza materiale. La vera conoscenza giunge dall'alto, per mezzo di una rivelazione. Nei circoli cristiani gnostici è Cristo che offre questa conoscenza. Per usare le parole di un inno gnostico di un gruppo noto come Naasseni, citate dall'eresiologo Ippolito:

Ma Gesù disse: "Guarda, padre, / questo essere [cioè l'uomo], preda dei mali, sulla terra / vaga lontano dal tuo respiro; / cerca di fuggire dal Caos amaro / e non sa come riuscirci. / Perciò manda me, padre: / scenderò con i sigilli, / attraverserò tutti gli eoni; svelerò tutti i segreti, / gli mostrerò le forme degli dèi, / e gli rivelerò gli arcani della santa via, / che ho chiamato "gnosi"" (Confutazione 5.10.12).

Ma come può Cristo entrare in questo mondo materiale e non restarne contaminato? Questo è uno degli enigmi che gli gnostici dovettero risolvere, e diversi pensatori diedero risposte diverse. Alcuni si posero sulla stessa linea che abbiamo già visto in Marcione e altri, secondo la quale Gesù era un uomo in carne e ossa non in realtà ma solo in apparenza. Questi gnostici presero molto sul serio le parole dell'apostolo Paolo per cui Cristo era venuto "nella somiglianza della carne del peccato" (Lettera ai Romani 8.3): come fantasma inviato dal regno divino, giunse a portare la gnosi necessaria alla salvezza, e quando ebbe finito di farlo se ne tornò al Pleroma da cui era giunto. Molti gnostici, invece, assunsero un'altra posizione e affermarono che Cristo era un emissario divino giunto dall'alto, puro spirito, e che era entrato temporaneamente nell'uomo Gesù per portare la conoscenza che può liberare le scintille da questo carcere della materia. Per questi gnostici, Gesù era di fatto un uomo, anche se alcuni pensavano che non fosse fatto come tutti noi, cosicché poté ricevere l'emissario divino; alcuni, ad esempio, pensavano che avesse un "corpo-anima" invece che un "corpo-carne". In ogni caso, all'atto del battesimo Cristo entrò in Gesù (in forma di colomba, come nei Vangeli neotestamentari), e alla fine lo lasciò a patire la morte da solo. Ecco perché Gesù aveva gridato: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?" (letteralmente, "Perché mi hai lasciato indietro?"); oppure, come si dice nel Vangelo di Filippo (72): ""Mio Dio, mio Dio, perché, o Signore, mi hai abbandonato?". Egli ha detto queste parole sulla croce; perché si era ritirato da quel luogo". Secondo uno dei miti riferiti da Ireneo, una volta che Gesù morì, Cristo tornò indietro e lo resuscitò dai morti (Contro le eresie 1.30.13). In entrambi i sistemi, Cristo offre la conoscenza necessaria per la salvezza. Come afferma il Vangelo di Filippo, "Colui che possiede la conoscenza [gnosi] della verità è libero" (110). Ma non tutti si possono aspettare questa conoscenza liberatrice: molte persone ovviamente non l'hanno mai ricevuta e non la riceveranno mai. Alcuni gnostici affermavano che ci fossero tre tipi di uomini. Alcuni sono pure e semplici creazioni del Demiurgo, e come gli altri animali non hanno spirito dentro di sé; come loro, quando moriranno la loro intera esistenza sarà annullata. Altri hanno un'anima dentro di sé, ma non una scintilla di spirito divino. Costoro hanno una possibilità di vita ultraterrena, se hanno fede e compiono buone azioni; questi insomma sono i cristiani "normali", quelli che credono in Cristo ma non capiscono appieno la conoscenza segreta che porta alla salvezza suprema. Il terzo gruppo ha questa conoscenza: sono gli gnostici, coloro "che sanno", che hanno in sé una scintilla del divino, che hanno imparato chi sono davvero, come sono giunti qui e come possono tornare. Queste persone avranno una vita ultraterrena meravigliosa, perché torneranno al regno divino da cui sono giunti e vivranno eternamente nella presenza di Dio come parte del Pleroma. Si potrebbe pensare che i cristiani che sostenevano questo ideale di salvezza attraverso la fuga dal corpo potessero incitare, o almeno permettere, un approccio alquanto disinvolto nei confronti dell'esistenza corporea: se il corpo non conta, allora non conta che cosa si fa del proprio corpo! E infatti questa è proprio l'accusa rivolta agli gnostici dai loro avversari proto-ortodossi, come vedremo più avanti (CAP. 9). Ma in realtà i cristiani gnostici avevano a quanto pare un punto di vista del tutto opposto, e questo è un aspetto del loro pensiero che i loro avversari sembrano aver completamente frainteso o volutamente alterato. A quanto possiamo vedere dalle opere di Nag Hammadi, invece di contemplare un'etica libertina (tutto è concesso perché niente ha importanza), gli gnostici erano ascetici, controllavano il corpo in modo severo e lo trattavano con durezza. La loro logica era questa: visto che il corpo è malvagio, deve essere punito; poiché l'attaccamento al corpo è il primo problema dell'esistenza umana ed è facile restarvi attaccati per mezzo del piacere, bisogna negargli ogni piacere. Sembra dunque che il tipico atteggiamento gnostico sul trattamento del corpo fosse alquanto rigido. Prima di passare a esaminare i vari testi gnostici, che cosa possiamo dire sui vari cristiani gnostici in quanto gruppi sociali? A quanto pare, i marcioniti e gli ebioniti avevano le loro chiese, ovviamente separate tra loro, oltre che da quelle dei proto-ortodossi. E gli gnostici? Una delle caratteristiche più notevoli dello Gnosticismo cristiano è che sembra aver operato principalmente dall'interno delle chiese cristiane esistenti: gli gnostici si consideravano un'élite spirituale che poteva professare le credenze di altri cristiani, leggere le loro Scritture e condividere con loro il battesimo e l'eucaristia, ma credevano di avere una comprensione più profonda, spirituale e segreta di queste credenze, Scritture e sacramenti. Questo è probabilmente il motivo per cui i padri della chiesa proto-ortodossi li ritenevano tanto insidiosi e difficili da affrontare, come vedremo più avanti nel CAP. 10. Gli gnostici non erano "al di fuori", chiusi nelle loro comunità: erano "dentro", con noi e tra di noi, e non li si riconosceva a prima vista. Sembra probabile che in alcune aree del Cristianesimo questi "circoli interni" gnostici fossero predominanti. Oltre alle Scritture usate dal resto della chiesa, che loro interpretavano in modo gnostico (ad esempio reinterpretando la Genesi, come ho ricordato sopra), usavano opere proprie, tra cui alcuni dei trattati mitologici e delle riflessioni mistiche scoperti a Nag Hammadi. Forse avevano sacramenti aggiuntivi: il Vangelo di Filippo, ad esempio, allude a cinque di questi, senza spiegare che cosa fossero o come funzionassero: battesimo, unzione (con olio), eucaristia, redenzione e camera nuziale (cap. 68). E' difficile sapere che cosa prevedessero, soprattutto il sacramento della "camera nuziale"; purtroppo il Vangelo di Filippo si limita a menzionarlo, forse perché i suoi lettori sapevano bene di che cosa si trattava.
Nikki72
00lunedì 2 febbraio 2009 21:57
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L'ARSENALE DEI CONFLITTI: TRATTATI POLEMICI E DENIGRAZIONI PERSONALI

Le dispute dottrinali del primo Cristianesimo non vennero combattute con picconi e spade, ma con le parole. La parola parlata aveva un’importanza vitale, perché come si può immaginare le conversazioni quotidiane, l’insegnamento catechistico, le conversazioni settimanali, i sermoni, le discussioni private e i dibattiti pubblici influenzavano l’opinione in un senso o nell’altro. Purtroppo solo raramente possiamo sapere che cosa venne davvero detto nell’ardore della battaglia, a meno che qualcuno non si sia preso la briga di registrarlo all’epoca; ma anche la parola scritta era importante, perché due avversari teologici potevano incrociare le spade anche solo metaforicamente, attaccando le idee dell’altro, gettando ombre sulla personalità del nemico, richiamandosi alle autorità scritte precedenti a sostegno delle proprie tesi, falsificando documenti a nome di quelle autorità quando era necessario o utile, raccogliendo libri sacri nei canoni e conferendo loro uno status divino. Da molto tempo conosciamo nel dettaglio gli attacchi scritti sferrati dai proto-ortodossi contro i cristiani di orientamento diverso: le opere di eresiologi come Ireneo e Tertulliano, per esempio, sono sempre state disponibili, anche se quelle di altri autori del II secolo, come Egesippo e Giustino sono andate in gran parte perdute. Ma fino a un’epoca recente non conoscevamo altrettanto bene gli attacchi degli "eretici" nei confronti dei proto-ortodossi e disponevamo solo di qualche indizio frammentario su come dovessero svolgersi i dibattiti veri. Dato che la letteratura contraria è andata quasi interamente distrutta o perduta, le opere polemiche di quel periodo ci fanno sentire solo la voce di una parte, tanto che molti lettori hanno accettato tranquillamente l’idea che gli "eretici" non fossero in grado di difendersi e che alla fine furono più o meno obbligati a sottomettersi a una fustigazione letteraria dalla quale non furono mai in grado di risollevarsi. Ma un’analisi più ravvicinata dei resti superstiti, alcuni dei quali scoperti solo di recente, suggerisce un’idea più realistica: quelli che pensavano di avere ragione (cioè tutti, come in ogni disputa) seppero lottare per le loro tesi, e la guerra di parole venne condotta ovunque all’ultimo sangue. Il fatto che solo una fazione sia risultata vincitrice non deve farci pensare che la sua vittoria sia stata scontata fin dall’inizio o che sia stato facile sconfiggere gli avversari. Anche se il nome, la circonferenza toracica, la forza e l’agilità non vengono trasmesse ai posteri, può darsi che ai suoi tempi lo sconfitto di un incontro di pesi massimi sia stato un vero colosso.


GLI EBIONITI CONTRO IL PROTO-ORTODOSSO PAOLO: LA LETTERATURA PSEUDO-CLEMENTINA

Una delle prove che nei primi secoli del Cristianesimo si svolse una vigorosa battaglia letteraria anziché un massacro univoco ci giunge da una serie di opere note già da molti anni, ma di cui solo relativamente di recente si è capito il carattere di polemica contro il Cristianesimo proto-ortodosso. Abbiamo già visto che i cristiani del II e III secolo amavano narrare storie sugli apostoli, cioè episodi delle loro avventure missionarie dopo l’ascesa di Gesù poi redatte in testi apocrifi come gli Atti di Giovanni e gli Atti di Pietro. Talvolta circolavano anche storie sui compagni degli apostoli, come abbiamo visto a proposito degli Atti di Tecla; tra queste troviamo anche storie leggendarie su Clemente, il vescovo di Roma e presunto autore della Prima lettera di Clemente. Ci restano due raccolte di questo tipo, oltre a varie altre opere. La prima è una serie di venti Omelie attribuite direttamente a Clemente, in cui il vescovo parla suoi viaggi, delle sue avventure e soprattutto dei suoi lunghi contatti con l’apostolo Pietro, che lo aveva convertito alla fede in Cristo La seconda è una storia in dieci libri dei viaggi di Clemente, la cui cornice è costituita dalla ricerca dei suoi parenti perduti; la ricerca ha un lieto fine e dà origine al titolo della raccolta, Recognitiones ("riconoscimenti"). La relazione tra le Omelie e i Riconoscimenti è molto complessa ed è una delle questioni più spinose di cui si debbano occupare gli studiosi di letteratura cristiana antica. Entrambe le opere sembrano risalire a un documento più antico che venne modificato e redatto in varie versioni nel corso del tempo; in ogni caso, alcune di queste opere su Clemente abbracciano idee giudaico-cristiane, e nel farlo talvolta criticano alquanto esplicitamente altre forme di Cristianesimo, tra cui la proto-ortodossia. Queste opere sono chiamate nel loro complesso letteratura pseudo-clementina. La linea narrativa di base di questi libri è la ricerca da parte di Clemente della sua famiglia e della verità. Clemente è membro di una famiglia romana aristocratica; quando è ancora giovane, sua madre ha una misteriosa visione che la spinge a lasciare la città portando con sé i suoi due gemelli, i fratelli maggiori di Clemente; qualche tempo dopo suo padre parte alla loro ricerca e anche lui non torna più. Intanto Clemente diventa grande e si dedica a una ricerca religiosa che lo porta ad attraversare varie forme di filosofia pagana, nessuna delle quali soddisfa la sua curiosità intellettuale, ma poi sente dire che il Figlio di Dio è comparso in Giudea e parte per trovarlo. Ma è troppo tardi: quando arriva a destinazione, Gesù è già stato giustiziato. Clemente incontra l’apostolo Pietro, si converte alla fede in Cristo e accompagna l'apostolo nei suoi viaggi missionari. Questi viaggi sono pieni di avventure durante le quali si verificano molti confronti tra Pietro e Simone Mago, che Pietro sconfigge grazie al miracoloso potere di Dio. Alla fine Clemente si riunisce con tutta la sua famiglia e così torna l’armonia: oltre ai suoi genitori e ai suoi fratelli, ha trovato anche la vera fede. L’eretico Simone Mago occupa un posto importante in questa storia, ma almeno in alcune occasioni sembra che l’avversario di Pietro non siail mago di cui sappiamo dagli Atti degli Apostoli e dalle prime opere eresiologiche. Qui Simone sembra piuttosto una maschera nientemeno che dell’apostolo Paolo, e da certi punti di vista il nemico attaccato in quest’opera sembra proprio lui. Il Vangelo di Pietro, per cui la validità della Legge di Mosè continua a essere valida per tutti (cristiani, ebrei e gentili), viene contrapposto alle tesi eretiche di Paolo, visto come predicatore di una versione del messaggio cristiano che risulta letteralmente priva di legge. La controversia tra Pietro e Paolo prefigurata in queste pagine romanzesche è basata su un vero conflitto storico tra i due leggibile anche nelle opere di Paolo. In particolare nella Lettera ai Galati (2.11-14), Paolo parla di uno scontro pubblico con Pietro nella città di Antiochia su una questione importante: i gentili che sono diventati cristiani devono osservare la Legge ebraica? Nel riferire il confronto, Paolo afferma in termini nettissimi la sua idea per cui i gentili non sarebbero tenuti a farlo in nessun caso. Come gli studiosi hanno notato da tempo, Paolo però non parla del risultato dello scontro, il che ha fatto spesso pensare che ne sia uscito sconfitto, almeno agli occhi dei presenti. La letteratura pseudo-clementina riprende questo dibattito per mostrare come Pietro sostenesse la continua vitalità della Legge contro Paolo, malamente mascherato da Simone Mago. I libri sono preceduti da una prefazione che sarebbe una lettera spedita da Pietro a Giacomo, fratello di Gesù e capo della chiesa di Gerusalemme (una delle molte lettere false a nome di Pietro), in cui l’apostolo parla del suo "nemico" che insegna ai gentili a non obbedire alla Legge e gli contrappone la sua autorevole tesi:

Alcuni tra i gentili hanno rifiutato la mia predicazione legale e hanno preferito una dottrina illegale e assurda dell’uomo che è mio nemico. Anzi, alcuni hanno anche cercato, pur essendo io ancora in vita, di distorcere le mie parole con interpretazioni di ogni sorta, come se io avessi insegnato la dissoluzione della Legge. [...] Dio ce ne scampi! Una cosa simile significherebbe agire in modo contrario alla Legge di Dio che venne data a Mosè e confermata nella Sua eterna continuità dal nostro Signore. Egli infatti ha detto: "finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge" (Lettera di Pietro a Giacomo, 2.3-5).

La Legge di Mosè va dunque sempre osservata da ebrei e gentili. Non ci vuole molto a riconoscere chi sia qui il "nemico" di Pietro, chi si oppone alle sue tesi "tra i gentili": l’apostolo Paolo si mostrava sempre come apostolo dei gentili e affermava che non dovevano osservare la Legge (ad esempio Lettera ai Galati 2.15, 5.2-5). Anche riguardo al responsabile dell'affermazione che Pietro stesso esortasse alla "dissoluzione della Legge", non c’è bisogno di cercare lontano: il libro neotestamentario degli Atti, attribuito a Luca, il compagno di viaggio di Paolo, ritrae Pietro proprio in questa posizione (10-11.15). Anche se alla fine Paolo e gli Atti entrarono a far parte del canone ortodosso, per questo autore entrambi sono eretici. Dunque la letteratura pseudo-clementina sembra inglobare una polemica ebionitica contro le idee poi incluse nel Cristianesimo proto-ortodosso. Gli attacchi a Paolo e le sue posizioni sono ancora più chiari in alcuni passi delle Omelie. In particolare in una sezione si afferma che Pietro sviluppò l’idea che nel piano di Dio per gli uomini il peggiore compare sempre prima del migliore. E così Adamo ebbe due figli, l’omicida Caino e il pio Abele, due ne ebbe anche Abramo, il reietto Ismaele e il prescelto Isacco, e da Isacco nacquero l’empio Esaù e il divino Giacobbe. Applicando il principio a epoche più recenti, comparvero due uomini nel campo della missione, Simone (Paolo) e Pietro, che ovviamente fu il più grande dei due, "che comparve dopo l’altro e venne su di lui come la luce sulle tenebre, come la conoscenza sopra l’ignoranza, come la cura sopra la malattia" (Omelie 2.17). Un ultimo esempio di questa polemica proviene da una scena immaginaria in cui Pietro attacca un malcelato Paolo per aver pensato che il suo breve incontro visionario con Cristo lo autorizzi a proporre un messaggio evangelico in contrasto con quello di chi ha passato molto tempo con Gesù mentre era ancora vivo e operante tra gli uomini.

E se il nostro Gesù è comparso anche a te e lo hai conosciuto in una visione e ti ha incontrato come chi è irato con un nemico [si ricordi che Paolo ebbe la sua visione mentre ancora perseguitava i cristiani, Atti 9], comunque egli ha parlato solo tramite visioni e sogni o rivelazioni esterne. Ma si può diventare abili alla predicazione grazie a una visione? E se pensi che sia possibile, perché il nostro maestro avrebbe passato un anno intero con noi che eravamo svegli? Come possiamo crederti, anche se lui ti è apparso? [...] Ma se sei stato visitato da lui per un’ora e sei stato istruito da lui e così sei diventato un apostolo, allora proclama almeno le sue parole, esponi ciò che lui ha insegnato, sii amico dei suoi apostoli e non lottare con me, che sono suo confidente; tu infatti ti sei contrapposto in modo ostile a me, che sono una roccia salda, la pietra angolare della chiesa (Omelie 17.19).

Pietro, non Paolo è la vera autorità per capire il messaggio di Gesù. Paolo ha corrotto la vera fede basandosi su una breve visione, che sicuramente ha inventato. Dunque Paolo è il nemico degli apostoli, non il loro capo: è al di fuori della fede, un eretico da condannare, non un apostolo da seguire. E così la letteratura pseudo-clementina, soprattutto nella forma più antica, poi modificata nel corso del tempo, sembra mostrare una forma di polemica ebionita contro il Cristianesimo paolino e contro i proto— ortodossi del II e III secolo che continuano a seguire Paolo rifiutando la Legge di Mosè. Per questi cristiani ebioniti la Legge è stata data da Dio, e al contrario di quanto affermano Paolo e i suoi successori proto-ortodossi, continua a essere necessaria per la salvezza in Cristo.


ATTACCHI GNOSTICI ALLA PROTO-ORTODOSSIA

Di tutta la letteratura polemica che venne prodotta contro i proto-ortodossi dai loro avversari, quella che conosciamo meglio è uella gnostica. Questo grazie alla scoperta della biblioteca d Nag Hammadi, che contiene diversi trattati che attaccano le posizioni proto-ortodosse; prima del ritrovamento sapevamo che la lotta era stata dura, ma conoscevamo solo i prolissi attacchi di Ireneo, Tertulliano, Ippolito e dei loro successori, pagine su pagine di aspra polemica con l’intento di distruggere i nemici gnostici e cancellare le loro idee. Esamineremo questa tattica proto-ortodossa tra poco; per ora vediamo che cosa aveva da dire l’altra sponda. La polemica gnostica è alquanto diversa da quello che ci si potrebbe aspettare. Gli gnostici, almeno quelli che conosciamo meglio, non affermavano che le idee proto-ortodosse fossero pienamente sbagliate, ma che fossero inadeguate e superficiali, anzi ridicolmente inadeguate e superficiali. Gli gnostici, cioè, non negavano la validità delle affermazioni dottrinarie proto-ortodosse, ma le reinterpretavano in un modo che ritenevano più spirituale e profondo. Gli gnostici potevano professare credenze proto-ortodosse, leggere Scritture proto-ortodosse e accettare sacramenti proto-ortodossi, ma intendevano tutte queste cose in modo molto diverso, basandosi sulla loro capacità di guardarvi più a fondo garantita dalla loro superiore conoscenza (gnosis) della verità divina. E così, come temevano anche gli eresiologi proto-ortodossi, gli gnostici non erano nemici esterni ma interni, che pregavano nelle chiese proto-ortodosse ma si consideravano un'élite spirituale, una cerchia interna che riconosceva il significato spirituale più profondo di dottrine, Scritture e rituali che i proto-ortodossi prendevano solo per il loro valore di facciata. Tra gli attacchi gnostici alla superficialità delle idee proto-ortodosse, nessuno è più spietato dell'Apocalisse copta di Pietro scoperta a Nag Hammadi, che non va confusa con la proto-ortodossa Apocalisse di Pietro, in cui Pietro compie una visita guidata in paradiso e all’inferno. L’"apocalisse" o "rivelazione" di Nag Hammadi ritrae la vera natura di Cristo e biasima l’ignoranza dei semplici (i proto-ortodossi) che non la riconoscono. Il libro inizia con gli insegnamenti del "Salvatore", che informa Pietro che ci sono molti falsi maestri che sono "ciechi e sordi", bestemmiano la verità e insegnano cose malvagie; Pietro, invece, riceverà la conoscenza segreta (Apocalisse di Pietro 73). Gesù procede dicendo al discepolo che i suoi avversari sono "privi di percezione", perché "si attaccano al nome di un uomo morto": in altre parole, pensano che sia la morte di Gesù a essere importante per la salvezza. Questa, ovviamente, era stata un’idea proto—ortodossa fin dall’inizio; ma per questo autore quelli che pensano una cosa simile "bestemmiano la verità e proclamano un insegnamento malvagio" (74). Insomma, quelli che professano la fede in un morto si aggrappano alla morte, non alla vita immortale. Queste anime sono morte e sono state create per la morte.

Non tutte le anime vengono dalla verità o dall'immortalità. Ogni anima di questa èra infatti ha la sua morte assegnata; di conseguenza è sempre una schiava. Viene creata per i suoi desideri e per la loro distruzione eterna, per la quale e nella quale esistono. Esse [le anime] amano le creature materiali che sono venute alla luce con loro. Ma le anime immortali non sono come queste, o Pietro. Però, finché non giungerà l’ora, essa [l'anima immortale] sembrerà proprio un’anima mortale (75).

Nel mondo gli gnostici possono sembrare uguali agli altri uomini, ma in realtà sono diversi: non si aggrappano alle cose materiali e non vivono seguendo i loro desideri. Le loro anime sono immortali, anche se pochi lo sanno: "Gli altri non capiscono i misteri, anche se parlano di queste cose che non comprendono. Malgrado ciò, si vanteranno che il mistero della verità sia solo loro" (76). Come è possibile che quelli che non capiscono e che non insegnano la verità comprendano? "E ci saranno altri di quelli che non sono nel nostro numero che si chiamano "vescovi" e "diaconi", come se avessero ricevuto la loro autorità da Dio. [...] Questi uomini sono canali secchi" (79). Decisamente questo non è un complimento per i capi delle chiese cristiane: non sono fontane di conoscenza e saggezza ma letti di fiume essiccati. Ma che cos’è questa conoscenza accessibile alle anime immortali che sono invischiate nelle cose materiali? E' la conoscenza della vera natura di Cristo e della sua crocifissione, che è erroneamente intesa (dai proto-ortodossi) come riferita alla morte di Cristo per i peccati. In realtà il vero Cristo non può essere toccato da dolore, sofferenza e morte, ma è al di là di queste cose. Ciò che venne crocifisso non era il Cristo divino ma il suo involucro fisico. In un'affascinante scena, Pietro assiste alla crocifissione e ammette di sentirsi confuso da ciò che vede:

Quando ebbe detto quelle cose, lo vidi chiaramente catturato da loro e dissi: "Che cosa vedo, o Signore? Sei tu quello che stanno prendendo? [...] Chi è quello ai di sopra della croce, felice e ridente? È un altra persona quello cui inchiodano le mani e i piedi?".

Allora Gesù dà la risposta indimenticabile che spiega il vero significato della crocifissione:

Il Salvatore mi disse: "Quello che vedi al di sopra della croce, felice e ridente, è il Gesù vivente, ma quello alle cui mani e piedi piantano i chiodi è la sua parte fisica, il sostituto. Stanno disonorando ciò che gli somiglia. Ma guarda lui e me" (81).

Solo la parvenza fisica di Cristo è messa a morte. Il Cristo vivente trascende la morte, trascende letteralmente la croce: sta lì, al di sopra di essa, a ridere di quelli che pensano di potergli fare male, di quelli che pensano che lo spirito divino dentro di lui possa soffrire e morire. Ma lo spirito di Cristo è al di là del dolore e della morte, così come gli spiriti di quelli che capiscono chi lui sia veramente e sanno chi sono veramente, spiriti intrappolati in una parvenza fisica ma che non possono soffrire o morire. La visione continua:

E vidi qualcuno venirci incontro, che sembrava lui e anche quello che rideva al di sopra della croce, ed era pieno di un puro spirito, ed era il Salvatore. [...] E mi disse: "Sii forte! Tu sei colui cui sono stati rivelati questi misteri, in modo che attraverso la rivelazione tu sappia che colui che crocifiggono è il primo nato, e la casa dei demoni, e il vaso di argilla in cui abitano, che appartiene a Elohim [cioè il Dio di questo mondo] e alla croce che è sottoposta alla legge. Ma colui che sta in piedi accanto a lui è il Salvatore vivente, la parte più importante dentro colui che hanno catturato; ed è stato liberato. Se ne sta lì a guardare con gioia quelli che lo hanno perseguitato. [...] Perciò ride della loro mancanza di comprensione. Anzi, è per questo che colui che soffre deve restare, poiché il corpo è il sostituto. Ma ciò che è stato liberato era il mio corpo incorporeo" (82).

Il corpo è solo un involucro che appartiene al creatore di questo mondo (Elohim, la parola ebraica usata a significare "Dio" nel Vecchio Testamento). La vera natura è dentro e non può essere toccata dal dolore fisico. Quelli che non hanno questa vera conoscenza pensano di poter uccidere Gesù, ma il Gesù vivente si innalza su tutto e li schernisce ridendo. Ma chi è veramente l’oggetto della derisione? I proto-ortodossi, che pensano che la morte di Gesù sia la chiave della salvezza. Per questo autore si tratta di un'idea ridicola: la salvezza non viene di corpo, ma dalla fuga da esso; non è la morte di Gesù a salvare, ma il Gesù vivente. I cosiddetti credenti che non capiscono non sono i beneficiari della morte di Gesù, ma le vittime del suo scherno.

Un attacco motto simile ai proto-ortodossi si legge in un altro trattato di Nag Hammadi, il Secondo trattato del grande Seth, che, come l’Apocalisse copta di Pietro, ridicolizza quelli che hanno una visione superficiale e letterale della morte di Gesù:

Infatti la mia morte, che loro credono sia avvenuta, è [invece] accaduta per loro nel loro errore e nella loro cecità. Hanno inchiodato il loro uomo alla [loro] morte. Le loro menti infatti non mi videro, perché erano sordi e ciechi. [...] Quanto a me, da un lato mi hanno visto e mi hanno punito. Un altro, il loro padre, fu colui che bevve il fiele e l’aceto, non io. Mi colpivano con la canna; un altro, che era Simone, fu quello che sollevò la croce sulla spalla. Un altro fu quello cui misero la croce di spine. Ma io mi rallegravo in alto di tutte le ricchezze degli arconti [...] ridendo della loro ignoranza. [...] Infatti continuavo a cambiare le mie forme dall’alto, trasformandomi di parvenza in parvenza (Secondo trattato del grande Seth 55-56).

Questa idea di Gesù che cambia forma richiama una delle versioni più inquietanti della crocifissione mai proposta da un maestro gnostico, non presente nei testi di Nag Hammadi ma nelle opere oggi perdute di Basilide e riferita da Ireneo. Il testo del Nuovo Testamento dice che sulla strada verso la crocifissione Simone di Cirene venne costretto a portare la croce di Gesù (cfr. Marco 14.21). Secondo Basilide, Gesù sfruttò l’occasione per attuare un cambio soprannaturale, trasformando se stesso in Simone e Simone in se stesso, cosicché i Romani crocifissero l’uomo sbagliato mentre Gesù se ne stava in disparte a ridere della sua trovata (Contro le eresie 1.24.3). Probabilmente Simone non la trovava altrettanto divertente. Ma la risata di Gesù non riguarda solo i trucchi che riesce a giocare. In questi testi la risata è rivolta contro quelli che non hanno occhi per vedere, che non capiscono la vera natura di Gesù o il significato della sua presunta morte sulla croce. Invece i veri "gnostici", sapendo da dove vengono, capiscono come sono giunti qui e come torneranno. Dopo la dissoluzione di questo involucro mortale, torneranno alla loro casa celeste, avendo trovato la salvezza non in questo corpo o in questo mondo ma lontano da questo corpo e da questo mondo. Chi non riesce a capire la natura di questa salvezza e guarda solo alla superficie delle cose e al lato esterno e materiale della realtà è giustamente oggetto di scherno da parte di Gesù e di quelli che hanno ricevuto la sua verità.


I PROTO-ORTODOSSI ALL'ATTACCO

Ma alla fine a ridere furono i proto-ortodossi. Con i loro attacchi polemici riuscirono a sradicare gli gnostici dalle proprie chiese, a distruggere le loro Scritture particolari, ad annientare il loro seguito. La distruzione fu talmente efficace che solo di recente siamo riusciti a farci un’idea di quanto sia stato importante lo Gnosticismo nei primi secoli del Cristianesimo e di come abbia cercato di contrattaccare, mentre prima la nostra unica fonte sul dibattito era stata la violenta opposizione scritta dei loro avversari proto-ortodossi. Certo, questa opposizione, realizzata sul piano letterario, ci aveva già fatto sospettare che i proto-ortodossi si trovassero di fronte a qualcosa che temevano sinceramente, e avevamo buoni motivi per pensare che le loro paure fossero radicate in una concreta realtà sociale, ma prima della scoperta della biblioteca di Nag Hammadi eravamo alquanto ignari delle strategie polemiche degli avversari gnostici. Dall’altro lato della barricata, le strategie degli eresiologi proto-ortodossi erano fin troppo note, e vennero ripetute in continuazione in tutta la letteratura finché non divennero praticamente stereotipi.


UNITA' E DIVERSITA'

Pane della strategia proto-ortodossa consisteva nell’accentuare il concetto di "unità" a tutti i livelli. Innanzitutto l’unità di Dio con la sua creazione: c’è un Dio che ha creato il mondo; poi l’unità di Dio con Gesù: Gesù è l’unico figlio di Dio; poi l’unità di Gesù con Cristo: egli è "uno e medesimo"; poi l’unità della chiesa: le divisioni sono causate dagli eretici; infine l’unità della verità: la verità non è contraddittoria o in contrasto con se stessa. Inoltre, come abbiamo visto, gli autori proto-ortodossi affermavano che le loro idee erano state trasmesse così fin dall’inizio: c’era dunque una continuità nella storia della loro fede, radicata nell’unità di Gesù con i suoi apostoli e degli apostoli con i loro successori, i vescovi delle varie chiese. Pertanto, ovunque ci fosse disunità c’era un problema. E il problema non era solamente al livello sociale della comunità, ma andava più a fondo, tanto a fondo quanto la verità del Vangelo. La disunità mostra divisione, e la divisione non è di Dio. Questa visione venne ben presto applicata alle "eresie", poiché si affermava che esse portavano non unità ma divisione. Dividevano Dio dalla sua creazione, il creatore da Gesù, Gesù da Cristo; dividevano la chiesa, dividevano la verità. Inoltre, il fatto che gli eretici fossero divisi anche tra di loro era una chiara prova che le loro idee non potessero provenire da Dio. In un passo Ireneo lamenta la propria incapacità di capire qualcosa nelle sette interne degli gnostici valentiniani: "Poiché differiscono tanto tra loro stessi, sia per dottrina che per tradizione, e poiché quelli di loro che sono riconosciuti come più moderni si sforzano ogni giorno di inventare qualche nuova opinione e di proporre ciò a cui nessuno ha mai pensato prima, è impresa difficile descrivere tutte le loro opinioni (Contro le eresie 1.21.5). Non solo era difficile descrivere tutte le loro opinioni, ma la grande eterogeneità degli stessi gnostici valentiniani provava a Ireneo che l’intero sistema conteneva solamente bugie: "Gli stessi padri di questa favola [il mito gnostico] differiscono tra di loro, come se fossero stati ispirati di diversi spiriti di errore. Questo stesso fatto costituisce una prova a priori che la verità proclamata dalla chiesa è immutabile e che le teorie di questi uomini non sono altro che un tessuto di falsità" (Contro le eresie 1.9.5). Oppure, per dirla più sinteticamente con Tertulliano: "Dove si trova diversità di dottrina, lì si deve credere che ci sia corruzione tanto delle Scritture quanto della loro esposizione" (Prescrizione 38).


SENSATEZZA E ASSURDITA'

Ma a essere attaccate non erano solo le contraddizioni interne degli eretici: venivano prese di mira anche le contraddizioni con ciò che i proto-ortodossi ritenevano buon senso e logica, molte delle quali riguardavano i complessi miti alla base delle dottrine dei vari gruppi gnostici. Prima di esaminare nel dettaglio alcune di queste obiezioni proto-ortodosse, vorrei osservare che alcuni studiosi hanno sospettato che i cristiani gnostici in realtà non trattassero i propri miti come descrizioni letterali del passato, cioè come un fondamentalista cristiano di oggi tratterebbe i capitoli iniziali della Genesi. Nel mondo moderno, molte chiese cristiane non integraliste concordano sull'idea che la Genesi contenga elementi mitici e leggendari, e non c'è bisogno di credere a una creazione letterale in sei giorni o all’esistenza di Adamo ed Eva come persone storiche per appartenere a queste comunità. I cristiani gnostici evidentemente avevano un approccio simile ai propri miti, mentre gli eresiologi proto-ortodossi li interpretavano in modo letterale, trattandoli come affermazioni logiche sul passato e quindi mostrando quanto fossero ridicoli. Questo poteva servire quando bisognava sferrare un attacco fulminante e che al tempo stesso risultasse retoricamente convincente per un pubblico profano. Soltanto raccontare i miti in tutta la loro estensione, uno dopo l’altro, può avere l’effetto di farli sembrare assurdi, e a quanto pare Ireneo e i suoi successori lo sapevano. Era impossibile che tutte quelle descrizioni della creazione, così complesse e involute, fossero giuste! Inoltre, come abbiamo detto, un insieme di miti non può essere conciliato con un altro, premesso che entrambi contengano affermazioni "logiche" su quanto è avvenuto nel passato. Ma gli eresiologi non si limitarono a fornire dettagli su dettagli, pagina dopo pagina: si misero a esaminare i miti separatamente per dimostrare che non potevano essere veri. Ad esempio, parlando della teogonia (spiegazione della nascita del regno divino) degli gnostici valentiniani, Ireneo osserva che in uno dei miti principali, tra il primo gruppo di eoni a emergere dall’unico vero Dio ci sono sia Silenzio (sige) sia Parola (logos): ma questo non ha senso, perché se c’è una parola, non può più esserci silenzio (Contro le eresie 2.12.5). Un altro esempio tra molti: in una spiegazione di come avvenne il disastro cosmico che portò alla creazione del mondo, il dodicesimo eone, Sophia (saggezza), frustrato dalla propria ignoranza, cerca di comprendere il Padre di Tutto, esagera e cade. Ma questo è un’assurdità, dice Ireneo, perché Saggezza, per la sua stessa natura, non può essere ignorante (Contro le eresie 2.18.2). Alcune obiezioni proto-ortodosse alla logica dei sistemi ereticali non riguardavano dettagli tanto secondari ma cercavano di andare dritte al nocciolo della questione. I cinque libri scritti da Tertulliano contro Marcione, ad esempio, iniziano col chiedersi direttamente se sia logicamente possibile avere due Dèi. Tertulliano fissa il principio cui si atterrà: "Dio, se non è uno, non è" (Contro Marcione 3). La sua premessa logica è che per poter realizzare una discussione teologica bisogna prima mettersi d’accordo sulla definizione di "Dio", e chiunque sia dotato di coscienza riconoscerà che la definizione è: "Dio è il grande Supremo che esiste eternamente, non generato, non creato, senza principio né fine". Ma una volta ammesso ciò (e ovviamente Tertulliano suppone che ognuno lo ammetta, altrimenti non sarebbe una persona "di coscienza"), ad avere più di un Dio c’è una difficoltà insormontabile. E' impossibile avere due esseri supremi, perché se ne esistono due, nessuno dei due è supremo; e se uno dì loro è più grande dell’altro, allora l'altro non può essere Dio, perché non è supremo. Tertulliano prosegue affermando che non è possibile sostenere che i due Dèi possono essere supremi ciascuno nella sua sfera (ad esempio uno nella bontà e uno nella giustizia), perché ciò vorrebbe dire che nello schema generale ogni Dio è supremo solo parzialmente, e Dio, per essere Dio, deve essere completamente supremo. Il fatto che i loro avversari eretici non sapessero o volessero vedere la logica porta talvolta gli eresiologi proto-ortodossi al sarcasmo e allo scherno. Le più vivaci alla lettura sono spesso le battute di Tertulliano. I due Dèi di Marcione, sostiene, derivano dal fatto che egli vede doppio: "Agli uomini malati agli occhi anche una lucerna sembra come molte" (Contro Marcione 1.2). La realtà fisica smentisce le idee di Marcione (ormai morto) per cui si è salvati dal Dio creatore: "Come fai a immaginare di essere liberato dal suo regno, se le sue mosche ti volano ancora sulla faccia?" (1.24). Il Cristo-fantasma di Marcione è come l’intelligenza-fantasma di Marcione: "Vi assicuro, è più facile trovare un uomo nato senza cuore o senza cervello, come Marcione, che senza un corpo, come il Cristo di Marcione" (4.1).


VERITA' ED ERRORE

Un’argomentazione alquanto più sostanziale consiste nell’affermazione proto-ortodossa che la verità precede sempre l’errore, e ricorre in varie forme. Al livello più basilare, gli eresiologi osservano che le idee fondamentali di ogni eresia sono state create dal fondatore: Marcione per i marcioniti, Valentino per i valentiniani, Ebion per gli ebioniti (almeno secondo Tertulliano). Ma se questi maestri furono i primi a proporre un'interpretazione corretta della verità del Vangelo, che dire di tutti i cristiani vissuti prima di loro? Avevano torto e basta? Per i proto-ortodossi questo è assurdo: per loro "la verità precede la sua copia, la somiglianza vien dopo la realtà" (Tertulliano, Prescrizione 29). Un altro modo di presentare questa argomentazione prevedeva una specie di teoria della "contaminazione", ripetuta più volte nelle opere proto-ortodosse. Secondo questa idea, la fede originaria del messaggio cristiano è stata corrotta da elementi stranieri che vi sono stati aggiunti in un secondo momento in modo da alterarla in maniera talvolta irriconoscibile. In particolare questi autori non potevano sopportare gli eretici che utilizzavano la filosofia greca per spiegare la vera fede; soprattutto Tertulliano ne era infastidito:

Le eresie stesse sono anzi istigate dalla filosofia. Da questa fonte provengono gli eoni [gnostici] e non so quali infinite forme e la trinità dell’uomo [cioè la divisione tripartita dell’uomo in corpo, anima e spirito, corrispondente a uomini animali, "psichici" e spirituali] nel sistema di Valentino, che era della scuola di Platone. Dalla stessa fonte è giunto il dio migliore di Marcione, con tutta la sua tranquillità: proviene dagli stoici (Prescrizione 7).

Tertulliano rifiutava completamente l’intrusione della filosofia nella verità del Vangelo cristiano, secondo la sua famosa domanda: "Che cosa ha a che fare Atene con Gerusalemme? Che concordia esiste tra l’Accademia e la chiesa? E quale tra eretici e cristiani?" (Prescrizione 7). Anche Ireneo trova reprensibile l’uso delle idee filosofiche, e paragona quelli che prendono "le cose dette da tutti quelli che erano ignoranti di Dio e che sono chiamati filosofi" a quelli che "hanno cucito insieme un abito variopinto a partire da un ammasso di miserabili stracci [...] facendosi un mantello che non è veramente loro" e che in realtà è "vecchio e inutile". Se la filosofia potesse davvero rivelare la verità su Dio, chiede Ireneo, che bisogno c’era di mandare Cristo nel mondo? (Contro le eresie 2.14.6-7). Nessuno fu più strenuo nel combattere l’elemento filosofico nell’eresia d Ippolito di Roma, i cui dieci libri di Confutazione di tutte le eresie sono interamente dedicati a dimostrare che l’eresia deriva dalla tradizione filosofica greca. I primi quattro volumi dell’opera parlano infatti dei filosofi greci con i loro termini, mentre gli ultimi sei mostrano come ogni eresia, nessuna esclusa, prenda in prestito da loro le sue idee fondamentali. Ad alcuni lettori questo è sembrato eccessivo, soprattutto perché Ippolito, per continuare nella metafora usata da Ireneo, talvolta si trova a dover cucire varie eresie tra loro per adattarle al loro presunto tracciato filosofico. Gli eresiologi proto-ortodossi usarono un altro aspetto della teoria della contaminazione, cioè l’idea per cui con il passare del tempo un eretico corrompe le idee già di per sé corrotte del suo predecessore, cosicché nelle cerchie eretiche le variazioni diventano sempre più devianti e la verità sempre più lontana a mano a mano che il tempo passa. Questa idea della progressiva perversione della verità spiega perché gli eresiologi si interessassero tanto alle radici genealogiche dell’eresia. Per Ireneo e i suoi successori, Simone Mago è stato il padre di tutti gli eretici, poi gli successe Menandro, che a sua volta fu seguito da Saturnino e Basilide e così via (cfr. Ireneo, Contro le eresie 1.23ss). Secondo questa teoria, gli eretici sono tanto creativi che nessuno di loro si accontenta di ereditare il falso sistema del suo maestro: ognuno vuole corrompere ancora di più la verità secondo la sua immaginazione. E così le eresie iniziano a germogliare con riproduzioni e permutazioni incontrollate, come un’idra dalle molte teste che ne genera di nuove più velocemente di quanto le si riesca a tagliare. Questo grande numero di dottrine eretiche poteva forse sembrare scoraggiante per gli eresiologi, ma d’altra parte si consolavano con la certezza di lottare per la verità rivelata una volta per tutte ai santi e per l’ortodossia insegnata da Gesù ai suoi discepoli e tramandata senza cambiamenti e corruzioni fino ai loro giorni.


LA SUCCESSIONE APOSTOLICA

Come abbiamo visto più volte, affermare che la verità proveniva dagli apostoli era fondamentale nei dibattiti sull’eresia. I proto-ortodossi avevano molte strategie per ricollegare le loro idee a quelle degli apostoli. L’argomentazione più semplice prevedeva la "successione apostolica", già visibile in forma abbastanza embrionale nella Prima lettera di Clemente. Qui i Romani affermavano che i Corinzi dovevano reinsediare i loro presbiteri deposti perché i capi delle chiese (tra cui quei presbiteri) erano stati nominati da vescovi che erano stati selezionati dagli apostoli che erano stati scelti da Gesù che era stato mandato da Dio; opporsi ai capi delle chiese voleva dunque dire opporsi a Dio (Prima lettera di Clemente 42-44). Nelle mani di Tertulliano il concetto di successione apostolica venne sviluppato in modo leggermente diverso, cioè riferendosi all’autorizzazione a esercitare non solo le cariche ecclesiastiche ma anche l’insegnamento catechistico. Come osserva l’eresiologo, dopo la resurrezione Cristo ordinò agli apostoli di predicare il suo Vangelo a tutte le nazioni, ed essi lo fecero fondando in tutto il mondo importanti chiese basate sulla stessa predicazione dello stesso vangelo in ogni luogo. Queste fondazioni inviarono poi missionari a fondare altre chiese ancora: "Perciò le chiese, anche se sono tanto numerose e grandi, comprendono solamente l’unica chiesa primitiva fondata dagli apostoli, dalla quale sorsero. In questo modo tutte sono originarie e tutte apostoliche" (Prescrizione 20). La conclusione è la seguente:

Da ciò deriviamo dunque la nostra regola. Poiché il Signore Gesù ha inviato gli apostoli a predicare, la nostra regola è che nessun altro debba essere considerato predicatore al di fuori di quelli che Cristo ha nominato. [...] Se dunque le cose stanno così, è altrettanto chiaro che ogni dottrina che concorda con le chiese apostoliche [...] deve essere riconosciuta come veritiera, in quanto contiene senza alcun dubbio ciò che le sopraddette chiese hanno ricevuto dagli apostoli, gli apostoli da Cristo, Cristo da Dio (Prescrizione 21).

Tertulliano passa poi a nominare le chiese che possono far risalire la loro linea diretta agli apostoli, anche se forse è sorprendente e forse significativo che ne nomini solo due: Smirne, il cui vescovo Policarpo fu nominato dall’apostolo Giovanni, e Roma, il cui vescovo Clemente venne nominato da Pietro. Egli sfida comunque gli eretici a citargli come esenpio una qualsiasi loro chiesa di cui si possa dire lo stesso, e si mostra sicuro ch nessuno raccoglierà la sfida (cap. 32). L’argomentazione suona convincente, ma vale la pena di notare che anche altri gruppi oltre ai proto-ortodossi potevano vantare una discendenza diretta del loro insegnamento dagli apostoli. Sappiamo ad esempio da Clemente di Alessandria che Valentino era discepolo di Teuda, di cui si diceva fosse stato seguace di Paolo; e che lo gnostico Basilide studiò presso Glaucia, supposto discepolo di Pietro (Stromateis, 7.17.106). Per lo più i proto-ortodossi si limitarono a screditare queste connessioni.


LA REGOLA DELLA FEDE E DEL CREDO

Il vanto dei proto-ortodossi di rappresentare l’insegnamento apostolico sfociò in una serie di affermazioni dottrinali con cui espressero quella che secondo loro era la vera natura della religione. Entro il II secolo, prima che esistessero credi universali che ogni cristiano potesse pronunciare, questo insieme di dottrine venne chiamato regula fidei, letteralmente "regola della fede". Questa regola includeva le credenze fondamentali e basilari che tutti i cristiani dovevano condividere, in quanto erano stati insegnati dagli apostoli in persona. Vari autori proto-ortodossi, tra cui Ireneo e Tertulliano, espongono la regula fidei, che pure non fu mai fissata in una forma ben definita (in ogni caso essa era diretta contro chi non ne accettava uno o più aspetti). Di solito nelle varie forme della regola c’è la fede in un solo Dio, creatore del mondo, che ha creato tutto dal nulla, in suo figlio, Gesù Cristo, predetto dai profeti e nato dalla Vergine Maria, nella sua miracolosa vita, morte e resurrezione, e nello Spirito Santo, che sarà presente sulla terra fino alla fine, quando ci sarà un giudizio finale in cui i giusti saranno premiati e gli ingiusti condannati al tormento eterno (così ad esempio Tertulliano, Prescrizione 13). Alla fine oltre alla regula fidei si svilupparono vari credi cristiani che i convertiti dovevano recitare forse all’inizio, nell’intraprendere un programma di educazione cristiana (catechesi), cioè al momento del battesimo. Forse in origine i credi erano una serie di domande e risposte in tre parti, in conformità con la triplice immersione nell’acqua, come suggerisce Matteo 28.19-20: "Insegnate a tutte Le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e insegnando loro a seguire quanto vi ho ordinato". Poi il credo divenne tripartito, incentrandosi maggiormente sulla retta dottrina relativa a Padre, Figlio e Spirito Santo, e come la regula fidei era diretto contro le dottrine erronee proposte dagli altri gruppi. Alla fine, entro il IV secolo, il credo familiare ai cristiani di oggi si era ormai sviluppato in una forma rudimentale, soprattutto nella forma del "Credo apostolico" e del "Credo niceno". Vale la pena di notare che queste formulazioni sono mirate contro specifici gruppi eretici. Prendiamo l’inizio del Credo niceno: "Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio". In tutta la storia del pensiero cristiano queste parole sono state non solo solenni, ma anche foriere di serie riflessioni teologiche; allo stesso tempo, dobbiamo ricordare che rappresentano la reazione contro affermazioni dottrinali fatte da gruppi cristiani che non erano d’accordo con loro, come quelli che credevano che ci fosse più di un Dio, che il vero Dio non fosse il creatore, che Gesù non fosse il figlio del creatore o che Gesù Cristo non fosse una sola persona ma due. Si noti soprattutto che, essendo state formulate in un certo contesto, molte delle idee esposte in questi credi sono profondamente paradossali. Cristo è Dio o uomo? Entrambi. Se è entrambi, sono due persone? No, egli è l’"unico" Signore Gesù Cristo. Se Cristo è Dio e suo padre è Dio, ci sono due Dèi? No: "Credo in un solo Dio". La causa dei paradossi dovrebbe risultare chiara da ciò che abbiamo visto. I cristiani proto-ortodossi furono costretti a combattere da un lato gli adozionisti e dall'altro i docetisti, da un lato Marcione e dall’altro le varie sette gnostiche. Quando si afferma contro gli adozionisti che Gesù è divino, si rischia di sembrare docetisti, perciò si deve anche affermare contro i docetisti che Gesù è umano, ma a questo punto si rischia di sembrare adozionisti. Allora l'unica soluzione è affermare entrambe le cose in una volta: Gesù è divino e Gesù è umano. E si devono anche negare le implicazioni potenzialmente eretiche di entrambe le affermazioni: Gesù è divino, ma questo non significa che non sia anche umano; Gesù è umano, ma questo non significa che non sia anche divino. Dunque egli è divino e umano allo stesso tempo. Lo stesso vale per le paradossali affermazioni proto-ortodosse contenute nei credi su Dio creatore di tutte le cose ma non del male e della sofferenza che si trovano nel creato; su Gesù completamente umano e insieme completamente divino, e non metà dell’uno e metà dell’altro, ma entrambi allo stesso tempo, senza che ciò comporti essere due, perché egli è uno; su Padre, Figlio e Spirito Santo come tre persone separate eppure formanti un solo Dio.


L'INTERPRETAZIONE DELLA SCRITTURA

Un aspetto importante della polemica proto-ortodossa contro i vari eretici consisteva nell’affermare non soltanto le dottrine da seguire, ma anche l'interpretazione dei testi sacri su cui queste dottrine si basavano. Certo, c’era qualche disaccordo sul numero dei libri da accettare come sacri; ma c’era anche la questione di come interpretare i testi accettati. Questo era stato un punto importante fin dall'inizio del Cristianesimo, poiché Gesù e i suoi seguaci, come Paolo, citavano abbondantemente le Scritture e le interpretavano nei loro insegnamenti. Nel mondo antico non c'era maggiore unanimità di oggi su come leggere un testo. Se il significato dei testi fosse tanto evidente, non avremmo bisogno di commentatori, esperti legali, critici letterari o teorie dell’interpretazione: tutti potremmo leggere e capire subito. Si potrebbe pensare che basti il buon senso per decodificare un testo, ma provate a chiudere una decina di persone in una stanza con un testo della Bibbia o di Shakespeare o della Costituzione e vedrete quante interpretazioni ne usciranno fuori. Nell’antichità non era diverso. Ben presto nelle controversie su eresia e ortodossia si capì che avere un testo sacro non è lo stesso che interpretarlo. Per poter raggiungere un accordo unanime sul significato di un testo dovevano esistere precisi vincoli testuali imposti dall’alto, regole di lettura, pratiche accettare di interpretazione, modi di legittimazione e così via. La cosa divenne sempre più importante a mano a mano che maestri di diversi orientamenti teologici interpretavano gli stessi testi in modo diverso e poi si appellavano a questi testi a sostegno dei loro punti di vista. Marcione, per fare un esempio importante, sosteneva un’interpretazione letterale del Vecchio Testamento che lo condusse a concludere che il Dio del Vecchio Testamento era inferiore al Vero Dio. Il Dio del Vecchio Testamento, notava Marcione, non sapeva dove trovare Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, fu convinto a non distruggere Sodoma e Gomorra per un certo periodo, ordinò il massacro di tutti gli innocenti di Gerico, uomini, donne e bambini, e promise punizioni severe contro chiunque infrangesse la sua legge; in altre parole, leggendo le Scritture ebraiche semplicemente in modo letterale, in alcune occasioni il Dio ebraico si mostra ignorante, indeciso, iracondo e vendicativo. Per Marcione questo non era il Dio di Gesù, e poteva affermare questa tesi semplicemente prendendo il testo per il suo valore di facciata. Ma l’avversario proto-ortodosso di Marcione, Tertulliano, affermò che i brani che parlano dell’ignoranza o delle emozioni di Dio andavano presi in senso non letterale ma figurato. Poiché Dio non poteva essere veramente ignorante, indeciso o malevolo, questi passi andavano interpretati alla luce della piena conoscenza di come Dio è veramente, e così Tertulliano reinterpretò un gran numero di brani in modo figurato per provare la sua visione di Dio e Cristo. Facciamo solo un esempio: c’è un passo importante nel Levitico (16) che descrive due capri offerti dai sacerdoti ebrei il Giorno dell’Espiazione; secondo il testo, un capro deve essere mandato nel deserto e l’altro deve essere offerto in sacrificio. Tertulliano afferma che i due capri si riferiscono ai due avventi (cioè le venute sulla terra) di Cristo: la prima volta viene come colui che è maledetto (abbandonato nel deserto), la volta successiva (la sua "seconda venuta") come portatore di salvezza per quelli che appartengono al suo tempio spirituale (Contro Marcione 3.7). Si veda anche come Ireneo interpreta i cibi "puri e impuri" della Legge di Mosè. I figli di Israele sono autorizzati a mangiare animali che hanno lo zoccolo fesso e che ruminano, ma non animali che non hanno lo zoccolo fesso o che non ruminano (Levitico 11.2, Deuteronomio 14.3 ecc.). Che cosa significa questo? Per Ireneo, la norma indica i tipi di persone con cui i cristiani sono associati. Gli animali con lo zoccolo fesso sono puri perché rappresentano le persone che avanzano costantemente verso Dio e il Figlio per mezzo della fede (Dio + Figlio = zoccolo fesso); gli animali che ruminano ma non hanno lo zoccolo fesso sono impuri perché rappresentano gli ebrei che hanno in bocca le parole della Scrittura ma non avanzano costantemente verso la conoscenza di Dio (Contro le eresie 5.8.4). Scegliendo un’interpretazione figurativa dei passi, Tertulliano e Ireneo seguivano precedenti ben precisi tra i loro antenati proto-ortodossi: si ricordi l’ampio uso dell’interpretazione figurativa da parte di Barnaba per attaccare gli ebrei, che seguono solo il significato letterale delle loro leggi. Ma in altri casi, quando gli autori proto-ortodossi affrontavano avversari come alcuni gnostici, che già di loro usavano l’interpretazione figurativa, allora affermavano decisamente che solo l’interpretazione letterale del testo era ammissibile. In particolare Ireneo obietta contro le modalità interpretative che gli gnostici usano a sostegno delle loro tesi e esempi precisi. Gli gnostici che credevano in trenta eoni divini si appellavano all’affermazione del Vangelo di Luca per cui Gesù iniziò la sua missione all’età dì trent’anni e alla parabola della vigna, nella quale il proprietario recluta i lavoratori alla prima, terza, sesta, nona e undicesima ora (numeri che sommati insieme danno trenta). Inoltre essi affermavano che questi trenta eoni erano divisi in tre gruppi, il terzo dei quali consisteva in dodici eoni, l’ultimo dei quali era Sophia, l'eone che cadde dal regno divino portando alla creazione dell’universo. La nozione di Sophia (in greco "saggezza"), il dodicesimo eone, sarebbe stata evidenziata dalla comparsa di Gesù nel Tempio a dodici anni per discutere della Legge (mostrando così la sua "saggezza") e dal fatto che Giuda Iscariota, il dodicesimo degli apostoli, cadde e diventò un traditore (cfr. Contro le eresie 2.20-26). Ireneo considerava ridicole queste interpretazioni. Secondo lui, gli gnostici non facevano altro che far dire ai testi ciò che volevano loro e ignoravano i "chiari e piani" insegnamenti del testo, tra i quali per Ireneo c'era anche l'dea che esista un solo Dio, creatore buono di una creazione buona, macchiata non dalla caduta di un eone divino ma dal peccato di un uomo. Usando un’immagine brusca ma efficace, Ireneo paragona il capriccioso uso della scrittura da parte degli gnostici a una persona che, osservando un bel mosaico che raffigura un re, decide di staccare le pietre preziose e di ricomporle nella forma di un cane bastardo, sostenendo poi che quello era il vero intento dell'artista (Contro le eresie 1.8). All’osservatore moderno di questi dibattiti antichi può sembrare un problema che i proto-ortodossi insistessero sull’affermazione letterale del testo e poi, quando faceva loro più comodo, usassero quella figurativa. Eppure probabilmente è giusto affermare che questi autori proto-ortodossi ritenevano primaria l’interpretazione letterale del testo, mentre quella figurativa andava usata solo per supportare idee stabilite su base letterale. Questo vale anche per il più famoso allegorista proto-ortodosso, Origene di Alessandria, che era notevolmente propenso a fornire ricche e profonde interpretazioni figurative della Scrittura ma affermava che i metodi andavano applicati solo quando il significato letterale del testo sembrava disperatamente contraddittorio o assurdo (Origene, I princìpi, libro IV). In ogni caso, che l'insistenza sulla superiorità dell’interpretazione letterale abbia convinto gli gnostici o meno, nei dibattiti i proto-ortodossi ebbero una certa forza di convinzione nei confronti degli altri, soprattutto tra i simpatizzanti proto-ortodossi. Per loro la Scrittura doveva essere interpretata seguendo metodi letterali, cioè lasciando dire alle parole ciò che vogliono dire normalmente e seguendo pratiche largamente accettate di costruzione grammaticale. Se interpretate così, le parole rendono le intenzioni dell’autore; e poiché questi autori erano ritenuti tutti apostoli, questo tipo di pratica interpretativa poteva rivelare l'insegnamento apostolico trasmesso una volta per tutte alle chiese che si collocavano nella tradizione ortodossa di Gesù.
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