Laos & Cambogia: il tempo si ferma

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killing zoe
00domenica 29 gennaio 2012 09:46
Per entrare in Laos dalla remota frontiera a nord con il Vietnam serve un giorno intero. I cento chilometri che separano l'ultima città vietnamita dalla prima città laotiana, Muang Khua, si percorrono in dieci ore. La strada è sterrata, rossa. La vegetazione così rigogliosa da render gradevoli le centinaia di curve che scavano i fianchi delle montagne. Il viaggio termina a Muang Khua perché termina la strada.

Il fiume Nam Ou non ha ponti, solo acqua marrone e piroghe che aspettano passeggeri diretti a sud. In tre ore di navigazione si arriva al villaggio nella giungla che tutti immaginano: Muang Noi. Montagne maestose, palme da cocco, case di legno. Nessuna macchina perché nessuna strada lo raggiunge. Niente elettricità, il cellulare non prende. All'alba regna la nebbia, le montagne sono velate da nubi basse che si alzano rapidamente per dissolversi in cielo. Solamente silenzio e suoni della natura, farfalle così grosse che sembrano disegni dei fumetti. Se ci si stufa di spiare i bimbi che si tuffano in acqua e le donne che lavano le vesti, si può andare a pescare insieme agli uomini del villaggio. E scoprire che in Laos non si pesca oziando con il filo d'erba tra le labbra, ma in piedi, con l'acqua del fiume alla cintola e reti pesantissime da lanciare a mano, un cappello a cono per ripararsi dal sole.

Un'ora di navigazione porta alla strada per Luang Prabang, principale località turistica del Laos e antica capitale del regno. Patrimonio dell'Unesco dal 1995, 32 templi buddhisti costruiti nei secoli sono arrivati ai giorni nostri. Le case coloniali e il pan aux raisin delle caffetterie donerebbero alla cittadina un'aria da provincia francese, se non fosse per le centinaia di monaci per le strade in tunica color zafferano.

In poche ore di sawngthaew, un furgoncino con due panche nel cassone a far da sedili, si arriva a Vang Vieng. Il paese è noto per il tubing (lasciarsi trasportare dal fiume con una camera d'aria di camion come salvagente) e la droga, in vendita come merce qualsiasi. I bar sono affollati da occidentali che mangiano spaghetti e hamburger, ma la regina dei piatti è l'happy pizza, una margherita ritoccata con marijuana (venduta in ogni bar), oppio e metanfetamine. A coronare le folli bramosie dei turisti si trovano ovunque bar con secchielli di cocktail a 2$, comodi divanetti e televisori che trasmettono episodi dei Simpson senza sosta.

La capitale del Laos, Vientiane, è a quattro ore di autobus. La "città del legno di sandalo" ha soli 230 mila abitanti, stupisce il silenzio, incanta il Mekong che la separa dalla Thailandia. Stride il contrasto tra il comunismo e le aperture al capitalismo, tra le discoteche affollate da ragazzi vestiti all'occidentale e le canzoni con i testi censurati dal governo.

Una giornata di viaggio e si arriva nel sud del paese, alle "Quattromila isole". In questa zona il Mekong raggiunge la sua massima larghezza, 14 chilometri durante i monsoni. Durante la stagione secca si ritira e affiorano migliaia di isole, lembi di terra, lingue di sabbia. Da qualche anno è arrivata l'elettricità, ma le giornate nei villaggi di palafitte sembrano procedere uguali dalla notte dei tempi. Gli uomini chini nei campi di riso, gli anziani a dondolarsi sulle amache, i bimbi a lanciarsi nel fiume o a giocare con i polli.
A pochi chilometri di distanza la Cambogia. La regione Preah Vihear non è molto sicura, meglio prendere un autobus diretto per la capitale Phnom Penh. Il suo palazzo reale è affascinante, ma la città è povera e un po' desolata. Nei campi di sterminio dei Khmer rossi vi sono teche colme di teschi umani, e sul terreno rimangono i segni delle fosse comuni. Come monito per il futuro non tutte sono state svuotate, e dal terreno emergono ossa e vestiti degli assassinati.

Meglio riposare nelle splendide spiagge del Golfo del Siam. Sihanoukville è il principale porto cambogiano, il paesaggio incantevole convive con le misere condizioni della popolazione. La spiaggia ornata di palme è affollata dai mutilati dalle mine antiuomo che vendono collanine o gamberi ai turisti. I ristoranti grigliano carne di barracuda o di squalo, ma di sera le vie sono buie e deserte, rischiarate dai neon di locali squallidi dove anziani occidentali si accompagnano con ragazzine troppo giovani. Le ore che separano la costa da Battambang, seconda città del paese, svelano paesaggi meravigliosi, palafitte di legno, risaie color smeraldo, palme, piantagioni di frutti tropicali. Nel centro di Battambang le strade asfaltate sono poche e solo tre hanno un nome (uno, due e tre!). Nella città esiste un centro chirurgico di Emergency, la più grande attrattiva è il treno di bambù. Sfruttando le rotaie della ferrovia francese - i treni sono dei rottami in una stazione ormai conquistata dalla selva - gli abitanti si spostano con trabiccoli fatti di canne di bambù spinti da un motore a scoppio.

A poche ore di autobus si trova l'anima della Cambogia e, forse, dell'Indocina: Angkor. L'antico centro dell'impero Khmer è una delle destinazioni più visitate del pianeta. Le sue centinaia di templi sono lo scheletro sacro di una città che, intorno all'anno 1000, aveva una popolazione di un milione di abitanti. Le case, gli edifici pubblici e i palazzi, ormai scomparsi, furono costruiti in legno. Solo gli dei potevano risiedere in strutture di mattoni o pietra. L'Angkor Wat, il tempio dei templi, è l'edificio religioso più grande sulla Terra. Dal 1200 la città si avviò verso il declino e cadde lentamente nell'oblio, sino a essere inghiottita dalla giungla. Nel 1860 fu riscoperta da un esploratore francese, che addentrandosi nella selva a colpi di machete scoprì l'impensabile. I resti di una città estesa decine di chilometri, templi di arenaria vestiti di muschio, strozzati dalle radici, invasi dalle scimmie. Il romanticismo dell'impresa appassionò da subito i viaggiatori, ammaliati dalla conquista di una civiltà nascosta dalla natura, casa degli dei scolpita nella pietra, riportata alla luce dopo secoli di silenzio.



di Massimiliano Salvo
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