Oltre la polemica Dico-non Dico

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Bestionn
00venerdì 23 marzo 2007 17:03

di Vincenzo Marras

Ci dovrà essere lo spazio e il tempo per una riflessione pacata tra fratelli nella fede, dopo le polemiche aspre che hanno accompagnato il dibattito sulle coppie di fatto e sui "Dico". Uno spazio e un tempo in cui sia consentito a tutti i credenti un libero e sereno apporto di idee.

A suggerircelo sono tre interventi (che abbiamo inserito integralmente nel nostro sito): due recentissimi, dello storico Giorgio Campanini, cattolico di provata fedeltà, e di Enzo Bianchi, priore di Bose; e un terzo del cardinale Carlo Maria Martini, che già nell’anno 2000 affrontava la sfida dei modelli di convivenza che, diceva, «interpellano il legislatore diviso tra l’esigenza di fare i conti con l’evoluzione e la diffusione di nuovi costumi familiari e l’esigenza di un ancoraggio etico«sociale».

Campanini in un articolo apparso il 14 febbraio sul quotidiano Avvenire – e, forse, con troppa fretta rimosso quasi senza eccezioni dall’attenzione della comunità ecclesiale – invita a interrogarsi seriamente sui costi, pastorali, ecclesiali e politici, di questa "battaglia frontale" tra «le vistose e chiassose intemperanze di certa cultura laica» e «le ferme e talora rigide prese di posizione da parte cattolica», con il rinfocolarsi dell’«accusa alla Chiesa di assumere atteggiamenti impietosi e arcigni», e «di mancare di saggezza pastorale e, ancor più, di carità cristiana». Non sono questi costi, domanda Campanini, «sproporzionati rispetto all’obiettivo che si intende raggiungere»? Se è vero – lo scrisse sulle nostre pagine lo stesso Campanini – che spesso ciò che non è vietato per legge rischia di diventare ammissibile sul piano culturale ed etico, tuttavia «non è nel recinto della legislazione che si decide il futuro della fede». La cronaca sta ad indicarci che ancora oggi vivaci comunità cristiane, nonostante l’ostilità che le circonda, rendono una preziosa testimonianza al Vangelo.

A questa stessa testimonianza esorta Enzo Bianchi nel suo intervento su La Stampa del 18 febbraio: «Anche a dispetto di leggi avverse o addirittura persecutorie» i cristiani sono chiamati a essere «messaggeri adeguati e fedeli all’annuncio che recano», «con le loro parole, le loro azioni e soprattutto con la virtù cardinale della moderazione, cioè della "temperanza"». Perché, continua il priore di Bose, «non è misconoscendo la pluralità dei valori presenti anche nella società non cristiana che si può stare nella storia e tra gli uomini secondo lo statuto evangelico».

Al vertice delle preoccupazioni della Chiesa non vi deve essere, infatti, il proposito di penalizzare le unioni di fatto ma quello di sostenere positivamente e di promuovere le famiglie in senso proprio.
È quanto affermava il cardinale Martini nel suo discorso alla vigilia di Sant’Ambrogio del 2000. In quell’occasione il pastore della diocesi ambrosiana invitava la comunità dei credenti a «non lasciarsi dominare dal panico da accerchiamento e da recriminazioni senza frutto... Questo tempo va piuttosto interpretato come propizio per declinare le nostre ragioni in uno spirito di dialogo». Non certo per tacere e sminuire principi e valori cristiani («la parola pubblica della Chiesa deve pur segnalare la serietà della situazione», affermava) ma perché – e lo dice bene nel suo intervento Bianchi – «compito e dovere della Chiesa è mostrare attenzione alle sofferenze degli uomini, è far risaltare il bene e l’amore presenti anche in situazioni giudicate moralmente non conformi all’etica cattolica, è annunciare la buona notizia del Vangelo, che proclama l’amore più forte del peccato, la vita più forte della morte».



(Jesus - Marzo 2007)
Bestionn
00venerdì 23 marzo 2007 17:06
La tentazione cattolica di rinchiudersi nel recinto dell’Etica

di Giorgio Campanini


La fase di avvio della nuova legislatura è stata caratterizzata da un vivace dibattito su questioni di notevole rilevanza etica, dalla ricerca sugli embrioni alla disciplina delle forme di relazione diverse dal matrimonio. La Chiesa italiana è intervenuta a più riprese e in ambito cattolico (e laico) si è registrato su questi argomenti un dibattito assai vivace. Non vi è dubbio che i temi etici siano di fondamentale importanza per il futuro della società; né si può sottovalutare il ruolo che in questo campo svolge la legislazione civile, dal momento che è facile lo scivolamento dal piano di ciò che non è vietato dalla legge a ciò che è ammissibile sul piano etico. Si profila tuttavia il pericolo che la comunità cristiana si lasci confinare nel recinto dell’etica e, ancor più, in quello della legislazione, quasi che lì si decidesse il futuro della fede. Non è così. La storia sta lì a indicarci che vi sono stati lunghi periodi di totale divaricazione fra legislazione e valori evangelici e fra etica laica ed etica cattolica, senza che per questo la comunità cristiana si sia lasciata fagocitare da una società nella quale non si riconosceva. Ancora oggi esistono vivaci comunità cristiane che, nonostante l’ostilità che le circonda, continuano a rendere una preziosa testimonianza al Vangelo.

Vi è, oltre tutto, una sottile tentazione insita in questo pur necessario impegno per la salvaguardia delle fondamenta dell’etica cristiana nel suo rapporto con la società: la tentazione, che è poi un’illusione, di credere che l’eventuale successo sul piano legislativo sia anche un’acquisizione per la coscienza morale. Se si guarda alla storia si constata che non è così, perché l’etica evangelica non si lascia mai identificare pienamente con l’esteriorità della norma; né vincere le battaglie legislative significa necessariamente uscire vittoriosi dalla ben più difficile ed esigente contesa che ricorrentemente si apre sul piano dei valori. Del resto, potrebbe far comodo a certa cultura laica rinchiudere i cattolici nell’ambito – ampio, ma alla fine anche angusto – della sola etica, di fatto precludendo loro i ben più ampi orizzonti della coraggiosa proposta di fede.

Il caso della legislazione sul matrimonio è probabilmente il cuore di questa ricorrente dialettica. Pensare che al centro della sua difesa e della sua valorizzazione stia una battaglia frontale contro l’eventuale legalizzazione delle unioni di fatto, sarebbe compiere un grossolano errore di prospettiva. Non sono i conviventi coloro che attentano al futuro del matrimonio, ma gli sposati: gli sposati che finiscono per considerare il patto coniugale come un contratto revocabile a proprio piacimento anziché un definitivo impegno di fedeltà. "Evangelizzare la fedeltà" è, alla fine, assai più importante e più evangelico, che contrastare l’eventuale legalizzazione parziale delle convivenze.

Bestionn
00venerdì 23 marzo 2007 17:08
Per cattolici e laici la sfida dei giorni cattivi

di Enzo Bianchi

Per quelli che sono impegnati a favore del dialogo tra credenti cristiani e non cristiani, tra cattolici e "laici", per i cattolici stessi che credono al dialogo vissuto nell’ascolto dell’altro, nello sforzo di non disprezzare l’altro ma di operare con lui un confronto nella mitezza, questi sono – per usare un linguaggio biblico – "giorni cattivi". Sì, c’è molta sofferenza, molto disagio, e c’è anche un "silenzio" non vigliacco ma consapevole e responsabile da parte di chi non vuole in alcun modo ferire la comunione ecclesiale. D’altronde da anni si poteva intuire l’accrescersi di questo scontro, unico sbocco alternativo possibile rispetto alla vittoria dell’ipotesi della religione civile, ipotesi accarezzata e vagheggiata purtroppo anche nel nostro paese cattolico, così alieno da tali esiti di matrice protestante evangelicale.

Eppure ci sono parole autorevoli, dichiarazioni di Benedetto XVI che dovrebbero servire da deterrente rispetto a questa situazione in cui di fatto sembra rinata la dialettica polemica tra clericali e anticlericali. La distinzione tra le competenze della religione e quelle della società politica, sancita dal concilio Vaticano II e ribadita da Giovanni Paolo II, è stata precisata più volte dall’attuale papa: «La chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare una società più giusta», ma sempre, nella sua azione e nel suo magistero che vuole illuminare i cristiani e gli uomini che desiderano ascoltarlo, essa deve arrestarsi al "pre-politico e pre-economico". Solo così è infatti possibile la profezia ispiratrice di soluzioni tecniche che spettano alla società, cioè ai cittadini cristiani e non cristiani, tutti chiamati a pari titolo, con gli stessi diritti e doveri, a concorrere alla costruzione della polis.

Lo stesso Benedetto XVI ha detto e ripetuto che «la chiesa non deve imporre ai non credenti una prospettiva di fede», che essa «non vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono ad essa», ma che la chiesa intende ribadire quello che reputa un cammino di umanizzazione, un vero servizio all’uomo. Sì, la chiesa ha il dovere e il diritto di intervenire pubblicamente in difesa dell’umanesimo in cui crede e non deve essere zittita nel suo annunciare a tutti il messaggio del Vangelo!

Sovente però alcuni cattolici sembrano voler costituire gruppi di pressione in cui la proposta non avviene nella mitezza e nel rispetto dell’altro, ma diventa intransigenza arrogante, e contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori. No, non è con questo giudizio e disprezzo dell’altro ritenuto incapace di etica, non è misconoscendo la pluralità dei valori presenti anche nella società non cristiana che si può stare nella storia e tra gli uomini secondo lo statuto evangelico. Come ha ricordato di recente un cattolico di attestata fedeltà, Giorgio Campanini, da questo acuirsi della tensione tra cattolici e laici può solo derivare un costo altissimo: l’accusa verso la chiesa di atteggiamenti impietosi e arcigni, poco rispettosi delle scelte del singolo e dunque privi di saggezza pastorale.

Ma questa situazione provoca profonde divisioni nel corpo ecclesiale, elemento di cui non si tiene conto e che i laici peraltro non riescono a discernere. La nostra chiesa negli anni post-conciliari ha sofferto dapprima forti tensioni a causa della contestazione e della contrapposizione tra resistenze al concilio e posizioni rivoluzionarie, quindi scontri abbastanza nascosti ma reali e profondi nella stagione dei movimenti ecclesiali (anni ’80-’90); in questi ultimi anni si stava abbozzando una possibilità di convergenza, una volontà di comunione, ma ora tutto sembra precipitare, e questi beni acquisiti a fatica paiono realmente compromessi. L’abbiamo già detto: molti cattolici soffrono, non riescono a comprendere non tanto il fatto che vengano ribaditi principi che per la tradizione della chiesa non possono essere taciuti né sminuiti, ma il modo, lo stile che sembra prevalere in questo confronto tra cattolici e laici…

Ebbene, anche in questi "giorni cattivi" i cattolici ricordino che il futuro della fede non dipende mai da leggi dello stato, che anche a dispetto di leggi avverse ai cristiani o addirittura persecutorie verso di loro il cristianesimo ha conosciuto una grande crescita spirituale e numerica; ricordino che l’essere pusillus grex, "piccolo gregge" teso alla fedeltà al Vangelo ma anche attento agli uomini in mezzo ai quali vivono, e dunque ai segni dei tempi, permette loro di avere un "bel comportamento" e di essere messaggeri adeguati e fedeli all’annuncio che recano. I cristiani con le loro parole, le loro azioni e soprattutto con la virtù cardinale della moderazione, cioè della "temperanza", devono favorire l’emergere di «quella legge inscritta nel cuore di ogni uomo», l’emergere di quell’immagine di Dio che ogni essere umano, anche il non cristiano, porta in sé.

Anche nel suo difendere la famiglia, la chiesa, memore che proprio quella è immagine dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, non può e non deve fomentare inimicizia, né tanto meno far sentire di non essere vicina nella misericordia, a quanti percorrono sentieri difficili ed enigmatici in cerca dell’amore, sovente contraddetto nelle vicende della vita… Compito e dovere della chiesa è mostrare attenzione alle sofferenze degli uomini, è far risaltare il bene e l’amore presenti anche in situazioni giudicate moralmente non conformi all’etica cattolica, è annunciare la buona notizia del Vangelo, che proclama l’amore più forte del peccato, la vita più forte della morte. Quanto poi ai cattolici impegnati in politica, è verissimo che alcune volte sembrano dimenticare l’ispirazione evangelica che dovrebbe plasmare la loro azione. Tuttavia occorre mostrare di aver fiducia in loro, non umiliandoli, non tenendoli "sotto tutela", e senza mai prendere il loro posto: spetta infatti ad essi secondo la dottrina cattolica e l’etica della responsabilità cercare le soluzioni più adeguate, a livello più alto, al fine di costruire con gli altri cittadini non cristiani, in una situazione di pluralismo etico, culturale e religioso, la nostra società. La chiesa-gerarchia profetizza, annuncia, illumina, ma spetta poi ai fedeli cattolici operare le scelte politiche insieme agli altri cittadini.

Infine, vorrei ribadire l’invito ai cristiani a diffidare da chi sembra loro alleato nella difesa di valori in cui non crede, o da chi urla battagliero valori che sono centrali nel Vangelo, mentre in realtà smentisce ogni giorno con la propria vita quel che afferma. Come si fa ad accettare che qualcuno definisca "l’ascolto e l’accoglienza parole famigerate" e poi parli come cristiano in difesa della famiglia, per essenza luogo di accoglienza e di ascolto?

Nessuno dimentichi quanto, secondo la testimonianza contenuta nei diari del suo segretario, affermava Benito Mussolini: «Io sono cattolico e anticristiano».


Bestionn
00venerdì 23 marzo 2007 17:15
Famiglia e politica

di Carlo Maria Martini

Milano, 6.12.2000

Dal Vangelo secondo Matteo (12, 46-50)

Mentre Gesù parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti». Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli…; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre».

Il titolo del mio discorso per la vigilia della festa del nostro patrono s. Ambrogio - che ha saputo coniugare fedeltà alla Chiesa e attenzione al rilievo sociale del cristianesimo - è "Famiglia e politica". Non tratterò della famiglia dal punto di vista dottrinale, né da quello pastorale e neppure dal punto di vista etico o bioetico. In una sede e in una circostanza come questa, alla presenza di autorità con responsabilità civiche, politiche e istituzionali che toccano spesso da vicino il tema della famiglia e dei suoi membri, desidero proporre qualche spunto di riflessione sulla famiglia considerata quale comunità e istituzione sociale. Così inteso il tema è davvero di grande attualità; siamo infatti di fronte a mutazioni nella vita e nel costume concernenti il campo non solo dell’opinione pubblica e dell’esistenza quotidiana, ma delle scelte per il bene comune dei cittadini, a tutti i livelli.

Vorrei menzionare in particolare il livello dei territori municipali che fanno capo ai sindaci, consapevole come sono delle responsabilità che competono, a riguardo dell’argomento, al loro ufficio.

Mi incoraggia a parlare della famiglia anche il rilievo costituzionale assegnatole nel nostro ordinamento. E la Costituzione - merita di rimarcarlo - è la legge fondamentale della comunità nazionale; in essa sono scolpiti i principi e le regole che presiedono alla "casa comune". È un "patto di convivenza", assai più impegnativo di un semplice e fragile contratto, un patto tendenzialmente stabile nei suoi principi e diritti basilari, che obbliga al pratico rispetto, comporta che in esso ognuno si riconosca, da esso ci si senta interpretati e si stia a proprio agio nel suo quadro. Orienta, infatti, e disciplina la vita di una casa - la Repubblica, la comunità politica - che è giusto e doveroso vivere e sentire come la nostra casa, dove è bello abitare insieme, pur nel segno della "convivialità delle differenze".

Mi spinge infine a trattare questo tema il fatto che il matrimonio e la famiglia appaiono oggi al vertice dell’attenzione e delle premure della Chiesa. Nei discorsi dei Papi, nella riflessione teologica, nella letteratura spirituale, l’amore coniugale, la sua valenza oblativa e la sua fecondità sono spesso proposte, a partire dai dati biblici, quale espressione e figura dell’amore stesso di Dio e persino quale possibile riflesso del mistero trinitario. Matrimonio e famiglia rappresentano uno dei fuochi tematici privilegiati dell’attuale predicazione, del magistero e della cura pastorale.

Tuttavia non è sempre stato così. La dottrina sulla famiglia, proprio perché non veniva messa in questione dall’opinione pubblica, non ha ricevuto per lungo tempo se non un’attenzione implicita nella nostra tradizione. La prima Enciclica dedicata interamente al tema è di Leone XIII, poco più di un secolo fa (Arcanum divinae sapientiae, 1880). Da allora, e soprattutto con gli ultimi Pontefici, i documenti si sono moltiplicati.

L’Antico Testamento ci mette di fronte a una società nella quale il valore della famiglia va da sé. Una dottrina sulla famiglia emerge in maniera implicita nei racconti, a cominciare da quello della creazione (Gen 1 e 2), e in maniera un po’ più esplicita nei libri sapienziali, con varie indicazioni sui retti comportamenti dei singoli membri della famiglia. Non vi si trova però una trattazione sistematica su tale istituzione e sulle sue caratteristiche. Anzi ciò che sottostà alla parola "famiglia" è la famiglia patriarcale o famiglia allargata, certamente diversa da quanto intendiamo nel mondo occidentale moderno.

Il Nuovo Testamento (in cui non appare un vocabolo che corrisponda al nostro termine "famiglia") contiene indubbiamente parole di forte valorizzazione dei legami familiari, in particolare con l’esigente richiamo di Gesù alla situazione primitiva dell’unità indissolubile tra uomo e donna: «Quello dunque che Dio ha congiunto l’uomo non lo separi» (Mt 19,6). Ma sono messi in forte rilievo anche i limiti dell’istituto familiare e il bisogno di trascenderli per il regno di Dio. Il testo di Mt 12,46-50 va decisamente in tale linea: il legame spirituale tra coloro che compiono la volontà di Dio è superiore ai vincoli di parentela («Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»: 12,50). Gesù vuol essere amato più dei congiunti (cfr. Mt 10,37: «Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me»). Egli non è venuto a portare la pace ma una spada (cfr. Mt 10,35: «Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre»).

Una rigida cultura dei legami familiari e di clan viene dunque messa in questione dalla dottrina evangelica. Gesù e gli apostoli invitano a rivolgere lo sguardo alle cose ultime, quando lo stesso istituto familiare sarà superato (cfr. Mt 22,30: «Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito»). E in questo mondo la sequela di Gesù chiede di andare oltre le barriere dei legami di sangue (cfr. Mt 8,22: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti»).

Anche s. Ambrogio, che pure stima e sostiene con decisione l’istituto familiare, insiste nel sottolineare il valore della verginità consacrata. La sua proposta aveva un valore di provocazione e di segno: a una società tentata di afflosciarsi su se stessa venivano presentati il martirio e la verginità come stimoli per una conversione radicale al vangelo.

1. FORZA E DEBOLEZZA DELLA FAMIGLIA

Ma qual è la situazione odierna? Vorrei richiamarla brevemente nella sua debolezza e insieme nella sua forza.

La sua forza. La famiglia ha smentito i detrattori che, ancora una ventina di anni fa, ne profetizzavano, auspicandola, l’estinzione. Ha retto anzitutto perché, come testimonia la storia delle civiltà, corrisponde alla natura più intima e profonda della persona umana, alla sua struttura e dinamica relazionale. Essa è la prima, la più originaria e più fondamentale delle comunità naturali; neppure la straordinaria accelerazione dei processi storici che sta sperimentando la nostra generazione può reciderne il profondissimo radicamento. La famiglia ha resistito attingendo soprattutto alle risorse morali e affettive delle quali è custode. Risorse che si sono rivelate assai più efficaci delle barriere protettive messe da noi, uomini delle istituzioni, a sua difesa. Essa ha potuto contare specialmente su se stessa.

Alla luce di una comparazione con paesi a noi assimilabili, si può poi positivamente registrare una relativa, più alta tenuta della famiglia italiana, da ascrivere - è un secondo fattore - alla nostra peculiare indole, entro la quale il valore della tradizione e dei legami comunitari fanno tutt’uno col valore della famiglia intesa come istituzione sociale cardine della convivenza. La relativa forza della famiglia italiana in questo passaggio di millennio è documentabile sotto vari profili: penso al ristabilimento, pur con le sue contraddizioni e ambiguità, di un rapporto meno oppositivo e polemico tra genitori e figli; a un nuovo equilibrio - all’insegna di un rapporto più paritario - nelle relazioni tra i coniugi; al decisivo contributo della famiglia quale "ammortizzatore sociale" sia sul versante della precarizzazione del lavoro sia nella cura dei soggetti deboli (bambini, malati, anziani); allo stesso sviluppo della soggettività economica della famiglia, specie sotto forma di nuova imprenditorialità familiare, così caratteristica e vitale nell’economia italiana.

Sono indicatori di forza o quantomeno di tenuta della famiglia che convivono però con indizi di crisi e di debolezza, i quali spesso conducono a irrimediabili fallimenti familiari, come testimonia la diffusione delle separazioni e dei divorzi.

Una prima fonte di debolezza è la fragilità psicologica e affettiva delle relazioni di coppia; un impoverimento della qualità delle relazioni che convive con ménages all’apparenza stabili e "normali".

Una seconda è lo stress originato dalle abitudini e dai ritmi imposti dall’organizzazione sociale, dai tempi di lavoro, dall’esigenza della mobilità, dall’assetto urbano.

Una terza è la cultura di massa veicolata dai media che penetra e corrode le relazioni familiari, con la sua indiscreta invadenza entro le mura domestiche e con i suoi messaggi intrisi di decadimento e banalizzazione del costume coniugale e affettivo. E tutto ciò benché, nella cultura riflessa, si registri l’estenuazione di quell’ideologia ostile alla famiglia che la riteneva un’istituzione gerarchica, autoritaria, oppressiva, un ostacolo al dispiegamento della libertà affettiva e sessuale, in particolare dei giovani e delle donne. Anzi, è forse proprio l’aumentato carico di attese positive di cui è caricata la comunità familiare, che alla fine fa sentire gli sposi e i genitori nel contesto odierno un po’ soli e gravati da un peso che spaventa.

È stato sottolineato anche in documenti autorevoli dell’episcopato italiano che «agli uomini e alle donne del nostro tempo, in sincera e profonda ricerca di una risposta ai quotidiani e gravi problemi della loro vita matrimoniale e familiare, vengono spesso offerte visioni e proposte anche seducenti, ma che compromettono in diversa misura la verità e la dignità della persona umana e l’identità del matrimonio e della famiglia» (Direttorio di pastorale familiare, n. 4; cfr. Familiaris Consortio n.4).Bastino questi cenni per dare la misura delle sfide portate alla famiglia e per suggerire a me e a noi, uomini di Chiesa, sobrietà e comprensione. La sobrietà verso chi è alle prese con la prosa, talvolta con la durezza della vita familiare ordinaria che corre lungo binari lontani dai toni un po’ artificiali di certa nostra enfatica predicazione. La comprensione, per non incappare nella censura evangelica di chi disinvoltamente prescrive ad altri pesi soverchianti (cfr. Mt 23,4).

Nello spirito penitenziale del Giubileo riconosciamo pure che abbiamo contribuito - magari inconsapevolmente - allo sgretolamento della concezione della famiglia. Troppo a lungo forse si è lasciata prevalere un’idea giuridica ed economica del rapporto di convivenza, destinato quasi alla sola procreazione della prole, dando l’impressione che l’istituto familiare fosse non una convivenza di persone, bensì un fatto oggettivo a prescindere da esse. Dimentichi dunque di quella concezione interiore della famiglia che Ambrogio aveva ben colto, dicendo a commento del passo evangelico di Mt 12,46-50: «Non si propone [qui] il rifiuto offensivo dei parenti, ma si insegna che i legami spirituali sono più sacri di quelli dei corpi» (Exp. ev. Luc., VI,36). E, osservando che i parenti di Gesù se ne stavano «fuori in disparte» (Mt 12,46), Ambrogio ha un felice spunto antropologico: «i parenti non vengono riconosciuti proprio perché stanno fuori» (Exp. ev. Luc., VI,37). Non significa forse che, perché vi sia un’esperienza familiare vissuta in pienezza, a una parentela basata su un fatto biologico deve accompagnarsi, fino a esserne l’anima, una comunità interiore e una comunanza di valori?

Le enfasi giuridico-economiche hanno in realtà velato lungo i secoli l’immagine della famiglia come comunità d’amore, mistero dell’amore di Cristo e della Chiesa; esse le avevano assegnato una forte rilevanza esterna, ma una scarsa connotazione interiore. L’affetto coniugale costituiva troppe volte un dato accessorio che non entrava a formare l’universo del consenso, e l’educazione dei figli era non di rado frutto più del controllo sociale che della stessa famiglia. Non a caso qualcuno ha potuto sostenere che è meno difficile diventare persone muovendo dalla famiglia nucleare di quanto lo potesse essere a partire dalla famiglia patriarcale [1].

Prendendo atto d’una situazione difficile e ricca di sfide, è importante non lasciarsi dominare dal panico da accerchiamento e da recriminazioni senza frutto. Sappiamo infatti che il tentativo di imporre d’autorità e in maniera univoca e uniforme una nostra concezione della famiglia alla società civile europea sarebbe visto quale pretesa di parte e contribuirebbe probabilmente a radicalizzare i conflitti e a degradare ulteriormente il costume. Chi potrebbe oggi sostenere che, per affermare i valori per noi importanti, basterà un’opposizione frontale alle trasformazioni in atto e un’obiezione di coscienza di fronte a ogni intervento legislativo che accetti di misurarsi con le questioni poste da un nuovo e discutibile costume?

E tuttavia la parola pubblica della Chiesa deve pur segnalare la serietà della situazione e dare voce a una sofferenza che troppi vivono senza saper articolare; non può lasciarsi rinchiudere nel ruolo di voce vagamente umanistica e rassicurante, rimovendo le questioni serie che il singolo è poi costretto a vivere nella solitudine. Questo tempo va piuttosto interpretato come propizio per declinare le nostre ragioni in uno spirito di dialogo, anche se - lo ammettiamo - esso comporta grande difficoltà su realtà così originarie e cariche di emotività come, appunto, quella della famiglia.

2. IL RUOLO PUBBLICO DELLA FAMIGLIA

È chiaro da quanto detto che l’impressione oggi dominante è di una famiglia respinta sempre più nel privato, e ci si domanda: dopo secoli di riconoscimento sociale e univoco del suo ruolo, sarà possibile, senza suscitare conflitti o accuse di intolleranza, riproporla nei suoi valori tradizionali e pur sempre attuali, cioè come famiglia basata sul matrimonio, su un rapporto stabile e duraturo tra uomo e donna, aperto alla fecondità? Il problema non si poneva quando tale struttura veniva recepita come un fatto di "natura" fondato su una legge naturale riconosciuta che non esigeva dimostrazione. Oggi si ha l’impressione che la concezione tradizionale, romana e cristiana, della famiglia possa essere tutt’al più una tra le varie forme di convivenza alternative e che appartenga alle scelte puramente religiose. E così viene lasciato alla Chiesa il compito di strutturare al suo interno l’impianto di una pastorale familiare cristiana.

Nemmeno la recente "Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea", pur permeata dall’idea cristiana di persona, osa sbilanciarsi in una definizione, tanto meno univoca, di famiglia. E, con il suo dettato che distingue tra "diritto di sposarsi" e "diritto di costituire una famiglia", può prestarsi a legittimare forme di convivenza alternative. Forse la divergenza tra le concezioni e legislazioni nazionali europee in proposito ha reso difficile una dichiarazione univoca e perciò la Carta affida ad altre sedi il dibattito. Comunque, anche se non pregiudica di per sé il ruolo tradizionale della famiglia, tuttavia, insinuando possibilità diverse rende inevitabile, almeno a livello delle singole società nazionali, un confronto politico serrato su questa istituzione. È un confronto cui non ci si può sottrarre e auspichiamo che possa condurre a una argomentata riproposizione e condivisione del valore fontale della famiglia in ordine all’essere e al bene-essere della società intera.

Apro una breve parentesi, ricordando che domani ha inizio il vertice di Nizza tra i capi di Stato e di Governo della Unione Europea che tratterà della Carta dei diritti e di altri temi assai gravi per il futuro dell’Unione. È giusto sottolineare che l’Europa si aspetta molto da tale incontro e spera che, lungi dal fermarsi ad alcuni punti superficiali di consenso, si vada a fondo sui grandi problemi che riguardano i valori civili, l’allargamento dell’Unione e nel contempo una riforma effettiva delle istituzioni per il bene di tutti i cittadini dell’Europa.

Torniamo alla famiglia che, sia per la Chiesa sia per la nostra tradizione civile, non è istituto esclusivamente privatistico, ma uno snodo tra persona e società, e perfino tra persona e Stato, se già il pensiero romano antico la considerava principium urbis et quasi seminarium rei publicae, «principio della città e una specie di vivaio dello Stato» (Cicerone, De officiis, I,17,54). Le variazioni dello statuto familiare non possono quindi essere ininfluenti sulla visione che la società ha di se stessa, mentre a sua volta dobbiamo chiederci quale tipo di società intendiamo promuovere con l’attenzione giuridica data a nuovi modelli di convivenza.

In ogni caso già da qualche tempo la mobilità del costume, che precorre la legislazione, imponeva al cristiano l’obbligo di declinare e motivare più attentamente il valore sociale della sua concezione della famiglia.

Perciò, alla luce dei principi richiamati, mi propongo di affrontare brevemente tre punti nodali, tre sfide concernenti il ruolo pubblico della famiglia: la sfida dei modelli di convivenza, quella della debolezza economica della famiglia e la sfida del contesto sempre più multiculturale e multietnico.

3. LA SFIDA DEI MODELLI DI CONVIVENZA

La proliferazione dei modelli familiari e, principalmente, la diffusione delle unioni di fatto e delle unioni tra persone dello stesso sesso sono il prodotto di un più generale processo di privatizzazione e di secolarizzazione della cultura, del costume e delle forme della convivenza [2]. Esse interpellano il legislatore, diviso tra l’esigenza di fare i conti con l’evoluzione e la diffusione di nuovi costumi familiari e l’esigenza di un ancoraggio etico-sociale. Il primo e più fondamentale riferimento, per l’ordinamento italiano, e dunque per le pubbliche autorità, è rappresentato, come dicevo, dalla Costituzione, in particolare dagli art. 29, 30 e 31. «La famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio», recita l’art. 29.

Merita notare che la locuzione "società naturale" è stata voluta da Togliatti e furono poi Moro e Mortati a esplicitarne il senso. La famiglia è la prima e più originaria "formazione sociale" - come recita l’art. 2 - nella quale si sviluppa e si perfeziona la persona umana. Il suo carattere originario, precedente allo Stato, prescrive allo Stato stesso una "zona di rispetto", lo impegna a "inchinarsi" alla sua autonomia. Se ne ricava anche il cosiddetto favor familiae, confermato dalla giurisprudenza costituzionale. In una recente sentenza, la Corte registra «la trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza di questa Corte non è indifferente» e accenna alla convivenza di fatto «quale rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell’uso e comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale». Però «non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure», considerato che «la Costituzione stessa ha dato alle due situazioni una valutazione differenziatrice», la quale esclude «affermazioni omologanti». Una differenza così precisata dalla Corte: «il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale». Si può considerare cioè l’eventuale rilevanza giuridica di altre forme di convivenza, che tuttavia non possono pretendere l’equiparazione, quanto a status, alla famiglia.

L’autorità pubblica può quindi adottare un approccio pragmatico e deve testimoniare una sensibilità solidaristica. Del resto, lo fa già la Costituzione, informata da una tensione solidaristica nel suo complesso e sul punto specifico. Alludo agli art. 30 e 31, dove ci si impegna alla protezione della maternità e dell’infanzia e dei diritti dei figli nati fuori del matrimonio.

Ma bisogna accuratamente distinguere la famiglia da altre forme di unione non fondate sul matrimonio. Nella famiglia c’è un di più di stabilità e di dichiarata obbligazione sociale che va giuridicamente e socialmente premiata. Come ha notato il costituzionalista Emanuele Rossi, una volta fissata una nitida, inequivoca linea di demarcazione tra ciò che è famiglia e ciò che non lo è, secondo il chiaro paradigma costituzionale, «sul piano delle garanzie da riconoscere alle "non famiglie", la soluzione non può che essere di tipo pragmatico, valutando di fronte alle diverse misure (l’alloggio, l’assistenza, la possibilità di succedere nel patrimonio, e così via) le ipotesi in cui far prevalere le ragioni della differenza e quelle in cui dare preminenza alle ragioni dell’analogia (non tra diversi modelli di famiglia, ma tra famiglia e altre forme di convivenza)». Al vertice delle nostre preoccupazioni ci dev’essere il proposito di sostenere positivamente e di promuovere le famiglie in senso proprio, non di penalizzare le unioni di fatto.

Di fronte ai problemi di diritto stanno però le realtà concrete. La valorizzazione individualistica delle relazioni all’interno della famiglia ha certamente ottenuto lo scopo di sviluppare un rapporto di affetto e un riconoscimento della pluralità personale dei membri, ma ha indebolito la rilevanza sociale della famiglia e l’ha chiusa in un gioco di rapporti interni, spesso soltanto sentimentali e affettivi. L’individualismo è responsabile anche d’una concezione troppo e talora solo intimistica e sentimentale che scollega la famiglia dalla società e la rinchiude in un universo familistico di comunità chiusa. Si rischia così di riconoscere dignità relazionale unicamente all’affetto-sentimento e dunque - in ultima istanza - alle pulsioni instabili dei soggetti. Si dà allora dignità ai soggetti componenti della famiglia in quanto individui (uomo, donna, bambino) non in quanto membri del nucleo (sposo e padre, sposa e madre, figlio). L’enfasi sull’individuo ha dunque portato a miglioramenti sociali con una attenzione prevalentemente sviluppata nella direzione dei diritti individuali piuttosto che di quelli personali relazionali (e anche familiari). Per questo il processo positivo del superamento delle rigidità giuridico-economiche ha accresciuto l’irrilevanza sociale e civile della famiglia, con la conseguente nascita di rapporti basati sulla volontà libera e libertaria che non chiede autorizzazioni sociali né assume responsabilità di stabilità di fronte a chicchessia, se non alla propria libera volontà.

Non possiamo nasconderci che la genesi delle nuove forme relazionali dipende fortemente dalle manchevolezze di una età di chiusure individualistiche e di scarsa solidarietà a cui le nuove forme spesso cercano di opporsi, rimanendo tuttavia dentro una visione individualistico-atomistica dei rapporti. Viene non di rado affermato che alcune di queste forme di convivenza diverse dalla famiglia tradizionale, qualora siano espressione di esigenze di mutuo amore e di mutuo sostegno, possono rivestire, almeno nelle intenzioni, una funzione sociale. Nel momento però in cui chiedono autorizzazione e riconoscimento pubblico, i rapporti alternativi alla famiglia tradizionale (religiosa o civile che sia) devono sottoporsi anch’essi al giudizio sulla loro rilevanza sociale e civile, in riferimento cioè al bene comune.

Una società non può quindi non stabilire una graduatoria di rilevanza tra varie istituzioni che si richiamano a modelli familiari, sulla base delle funzioni sociali che svolgono, della natura relazionale che presentano e della forza esemplare che esercitano. In tale linea le nuove forme non possono pretendere le legittimazioni e la tutela che sono date alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Perché solo quest’ultima riveste una piena funzione sociale, dovuta al suo progetto e impegno di stabilità e alla sua dimensione di fecondità.

Le unioni omosessuali, pur potendo giungere, a determinate condizioni, a testimoniare il valore di un affetto reciproco, comportano la negazione in radice di quella fecondità (non solo biologica) che è la base della sussistenza della società stessa. Le cosiddette "famiglie di fatto", anche potendosi aprire alla fecondità, hanno un deficit radicale di stabilità e di assunzione di impegno che ne rende precaria la credibilità relazionale e incerta la funzione sociale; rischiano infatti costitutivamente di gettare a un certo punto sulla società i costi umani ed economici delle loro instabilità e inadempienze.

4. LA PRECARIETA’ ECONOMICA E LE POLITICHE DI SOSTEGNO ALLA FAMIGLIA

La seconda è la sfida della precarietà economica e di conseguenza la sfida delle politiche familiari e delle misure di sostegno alla famiglia.

Le forme di sostegno alla famiglia sono di due ordini: economico-monetarie e di prestazioni e servizi nell’alveo delle politiche di Welfare (per tacere della più generale esigenza di ripensare i tempi e l’organizzazione del lavoro in relazione ai tempi e all’organizzazione della vita familiare). È un fronte decisivo, insieme ai servizi per l’infanzia, per le famiglie con figli minori quando entrambi i genitori lavorano, e ha registrato di recente l’introduzione della possibilità di "congedi parentali" fruibili da ambedue i coniugi.

In nome del principio di sussidiarietà e per corrispondere di più e meglio ai bisogni delle famiglie, lo stesso Welfare si fa sempre più comunitario e locale, affidato alle istituzioni decentrate dello Stato: alla legislazione regionale e alle politiche locali, cui spetta fornire un’adeguata rete di servizi sociali, con la collaborazione del terzo settore, del volontariato, delle stesse famiglie che si autoorganizzano. Questo aspetto tocca anche il tema della scuola e della libertà di scelta delle famiglie nel campo scolastico.

Sarebbe sbagliato sottovalutare, per tutte le necessità sopra ricordate, il versante delle agevolazioni economico-monetarie di base a sostegno delle famiglie con figli minori. La loro misura è ancora irrisoria, specie se rapportata al rilevante costo economico dei figli, pur se negli ultimi anni gli interventi monetari a sostegno della famiglia, considerati nel loro complesso, sono aumentati. Aumentati tuttavia più attraverso le detrazioni fiscali - per loro natura applicate a tutti i contribuenti con carichi familiari, quale che sia il livello di reddito - che non attraverso gli assegni familiari, il cui valore reale è invece diminuito nel tempo. Sono state nell’insieme risorse ingenti, erogate però a una platea tanto estesa quanto indifferenziata, col risultato di dare a ciascun nucleo familiare cifre modeste, inutili per chi non ne ha bisogno e manifestamente inadeguate per le famiglie meno abbienti. Su questo tema complesso ha riflettuto con competenza anche la nostra Commissione diocesana Giustizia e Pace nel documento dal titolo Sulla questione fiscale del 20 maggio 2000, sia nel testo (in particolare i nn. 16 e 17, Sottovalutazione della famiglia), sia nell’appendice prima (Fisco e famiglia). Gli assegni familiari sono un istituto a torto deprezzato, idoneo a introdurre quel principio di selettività tra le famiglie destinatarie che corrisponde al criterio dell’equità sociale e della lotta contro la disuguaglianza. E qui ci si imbatte in una controversia ideologica. È vero che il carattere universalistico dello Stato sociale - dunque il superamento di un suo approccio assistenzialistico-pauperistico alle situazioni di bisogno - rappresenta una preziosa conquista, coerente con lo sviluppo della coscienza dei diritti sociali di cittadinanza, ma il carattere universalistico del Welfare non esclude affatto la selettività nell’erogazione di talune prestazioni. È importante non confondere lo strumento (il Welfare) con il fine (la tensione all’uguaglianza sostanziale e la realizzazione di una migliore giustizia distributiva). Un equivoco che in tema di assegni familiari rischia di originare la convergenza di posizioni ideologiche tra loro ostili e insieme collimanti nel deprezzamento di quell’istituto.

Là dove le risorse rimangono limitate, occorre selezionare e concentrare gli interventi economici di sostegno alle famiglie, adottando criteri selettivi che facciano perno sulle condizioni di reddito e tengano conto del dovere etico e costituzionale della solidarietà sociale.

Una volta data questa valutazione, a noi sembra che le attenzioni sociali debbano essere commisurate alle caratteristiche di pienezza dei vari rapporti, tenendo conto delle nuove forme relazionali con il positivo che possono introdurre in una società fortemente conflittuale, e però intervenendo con diversità di sostegni e di riconoscimenti a seconda del grado più o meno pieno di apporto alla costruzione sociale dato dall’unione familiare. La stessa Europa è chiamata a esprimere, sulla base di considerazioni di ragionevolezza "laica", se non una esclusività, almeno una chiara preferenza per la famiglia fondata sul matrimonio.

Non si tratta perciò di un "tutto o niente", inaccettabile e impossibile, bensì di una tolleranza che non rinuncia a giudicare le diversità. E se questo rendesse impossibile la unanimità di sentire europeo, bisogna continuare nelle sedi nazionali a tener desta l’idea di una unità nella distinzione, senza azioni e reazioni scomposte.

A sostegno della famiglia, fondata su un impegno stabile e aperta alla fecondità, c’è inoltre la ricerca e l’invenzione di più ampi provvedimenti politici che favoriscano stabilità e fecondità. Per esempio, non di rado una proclamazione solenne del valore della famiglia tradizionale sta insieme con un liberismo incontrollato della politica della casa; oppure con la carenza di azione efficace a favore del lavoro giovanile, carenza che rinchiude i giovani nel familismo domestico impedendo loro una famiglia propria e una assunzione piena di responsabilità relazionale. Spesso la deriva facile verso i rapporti prematrimoniali è conseguenza di una relazionalità che di fatto non può istituzionalizzarsi e resta affidata alla precarietà dell’attimo. I valori ideali rimangono in politica affermazioni moralistiche se sono sganciati dai processi di decisione, quasi che si sostengano da soli: anch’essi, come la colomba di Kant, hanno bisogno di una atmosfera per volare.

Ambrogio notava che durante la precarietà e la tragedia del diluvio gli uomini - e così gli animali - non esercitavano una vita familiare compiuta: «Era quello tempo di pianto, non di gioia, e quindi il giusto non si rallegrava dell’unione con la consorte e i figli del giusto non ricercavano l’amplesso coniugale: quanto sarebbe stato indecente che, nel tempo in cui i vivi morivano, allora essi generassero persone destinate alla morte!». Ci vuole una serenità sociale ed economica per favorire la famiglia: «dopo, giustamente, quando il diluvio si ritirò, si ebbe uso e cura del matrimonio, per spargere la semente di altri uomini» (de Noe, 76). Se la precarietà del diluvio è stata superata grazie alla solidarietà d’emergenza d’uno spazio accomunante - l’arca -, l’arcobaleno d’una società più pacificata permetterà di assumere con maggiore fiducia la stabilità, la responsabilità e la fecondità quali note impegnative della famiglia che la nostra tradizione ha conosciuto.

5. LA SFIDA DELLA SOCIETÀ MULTIETNICA

A produrre una sempre più variegata gamma di modelli familiari concorre l’irruzione tra noi della società multiculturale e multireligiosa, che in alcuni casi tocca in maniera rilevante l’istituto della famiglia e del matrimonio.

Spesso la civiltà e il diritto proprio di tradizioni religiose e civili diverse dalla nostra sono molto meno compatti e monolitici di quanto appaia a prima vista. In alcuni mondi religiosi resta comunque la costante, che si configura come uno spinoso problema, della sovrapposizione di religione e politica e dell’immediata derivazione del diritto positivo da istanze puramente religiose.

Se è vero che il matrimonio, presso probabilmente la maggioranza delle culture, fa perno sul consenso delle parti contraenti, alla stessa stregua del nostro costume civile e giuridico, in vari casi risulta costitutiva del costume e della legislazione una disparità di diritti e di doveri tra uomo e donna e un rilievo decisivo conferito alla fede religiosa in rapporto allo status giuridico coniugale e familiare.

Al profilo della disparità di diritti sono da ricondurre alcune prassi: il diritto dell’uomo ad avere contemporaneamente più mogli; il diritto, sempre del marito, al ripudio unilaterale della moglie; il diritto solamente maschile di esercitare la potestà sui figli ecc. Al profilo della fede religiosa si riconnette, per esempio, la prassi dello scioglimento automatico del matrimonio in caso di conversione del coniuge ad altra religione, la possibilità di sottrarre la custodia dei figli alla madre quando si ha il fondato sospetto che essa possa crescerli in un’altra religione, l’impedimento alla successione in caso di differenza di religione ecc.

Di qui potrebbero nascere molteplici elementi di contrasto con il nostro codice civile. Su tale fronte si richiede dunque un accorto discernimento. Il matrimonio e la famiglia sono il cuore stesso di una civiltà, lì è custodito il nucleo più intimo di una cultura e di una tradizione che fa tutt’uno con la nostra identità collettiva. La doverosa, cordiale apertura al pluralismo delle culture e dei modelli familiari deve convivere con la cura di custodire principi e valori di portata universalistica, retaggio della nostra tradizione europea e occidentale. Solo l’esercizio di tale discernimento, dentro la società multiculturale che sarà sempre più la nostra, può metterci al riparo per un verso dal relativismo-sincretismo, per altro verso dalle derive dello Stato etico.

Nel primo caso si favorirebbe l’emergere di un individuo decontestualizzato, sradicato da ogni patrimonio culturale e perciò in balia dei più diversi modelli di convivenza, tutti posti indifferentemente sullo stesso piano. Nell’altro caso avremmo di fronte comunità "blindate", inclini ad assolutizzare i propri modelli di convivenza, sino alla pretesa di imporli agli altri. Che è ben diverso, ripeto, dal dovere di vagliare con cura la compatibilità dei vari modelli familiari con quel nucleo di principi e di valori, di matrice illuministica e cristiana, cui non possiamo e non dobbiamo rinunciare. L’illuminismo e il cristianesimo che innervano la nostra civiltà, pur essendo entrati storicamente in contrasto, col tempo hanno prodotto una sintesi preziosa che fa perno sulla dignità della persona umana e sul carattere inalienabile dei suoi diritti fondamentali confluiti nella Dichiarazione universale del 1948. È in nome di essi e non dell’occidentalismo e di una sua pretesa superiorità che il nostro ordinamento, in materia di matrimonio, non può recepire acriticamente taluni istituti di un diritto matrimoniale diverso che sminuiscano il principio dell’uguaglianza, della pari dignità sociale e della libertà religiosa.

Si potranno e si dovranno mettere a punto, anche in tema di matrimonio e famiglia, modelli di integrazione giuridica atti a propiziare o sigillare, a livello di diritto positivo, i processi di integrazione sociale con comunità di tradizioni differenti; sempre, naturalmente, nel quadro degli irrinunciabili diritti fondamentali della persona, misconoscendo i quali verrebbero meno le precondizioni di una giusta integrazione rispettosa delle identità e capace di favorire la comunione. Dialogo e convivenza sono possibili se tutti si conviene su un unico e decisivo punto, cioè che l’altro da me, sebbene diversissimo, è come me persona, soggetto libero e titolare, in radice, di eguale dignità e dei medesimi diritti che in quanto persona gli competono. Può sembrare poco, ma in realtà qui, in nuce, è racchiuso tutto il patrimonio della nostra civiltà e la sua vocazione universalistica.

6. LA FAMIGLIA TRADIZIONALE DEVE RIPRESENTARE I SUOI VALORI ANCHE PUBBLICI

Vorrei esprimere un’ultima riflessione sul compito culturale che spetta oggi alla comunità familiare e a tutte le "agenzie" interessate a mantenere alto il significato della vita familiare.

Appare dalle precedenti osservazioni che la famiglia tradizionale non ha più dalla sua la forza di un’evidenza etica condivisa che le permetta di imporsi d’autorità. Ha bisogno di far emergere i suoi valori in forma comunicativa e accessibile di fronte al proliferare di nuove forme di legame, che forse sono frutto anche di reazioni parziali e polemiche a promesse mancate. In ogni caso la famiglia deve "dirsi" e "giocarsi" senza appoggiarsi unicamente alla forza della tradizione.

Oggi è possibile cogliere una rinnovata capacità dell’istituto familiare di rispondere proprio alle complesse richieste che la nostra società gli pone pur se insidia l’esclusiva della concezione della famiglia. Ricordiamo che gli attacchi alla famiglia non sono una novità; è stata insidiata fortemente altre volte nel corso della storia. E la storia mostra che ha tenuto più e meglio di altri istituti etici e giuridici al logorio del tempo, avendo in sé la duttilità inesausta di quell’amore oblativo che resiste alle stesse crisi epocali meglio e più ancora di ogni dimostrazione, di ogni ideologia o di ogni invenzione giuridica. Già il Concilio Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, notava che «non dappertutto la dignità di questa istituzione brilla con identica chiarezza [...] Tuttavia il valore e la solidità dell’istituto matrimoniale e familiare prendono risalto dal fatto che le profonde mutazioni dell’odierna società, nonostante le difficoltà che con violenza ne scaturiscono, molto spesso rendono manifesta in maniere diverse la vera natura dell’istituto stesso» (n. 47).

Che la famiglia non sia solo un istituto di tipo confessionale, ma che nel disegno di Dio e nella storia dell’uomo abbia avuto e abbia una rilevanza sociale è deducibile proprio dalle sue caratteristiche. Ne enunceremo alcune che sembrano di particolare rilevanza e utilità per creare una rinnovata evidenza intorno alla famiglia, e che restano tipiche, nella loro compiutezza, della sola famiglia, anche se l’una o l’altra di esse possa rinvenirsi in altri tipi di rapporto.

Intanto, il suo essere relazionale: non è puro ambiente in cui si muove la somma degli individui che la compongono, bensì sede in cui si apprendono e si sviluppano gesti di responsabilità interindividuali (cioè personali), perché toccano la sfera degli altri. La toccano primariamente dentro un rapporto di amore e di fedeltà liberamente accettata: così nasce la caratteristica di scuola di donazione, che si riversa sulla città e ne diminuisce la conflittualità; nasce l’accettazione, nella famiglia, di chi non è accolto dalla città o ne è stato respinto dalla impersonalità della legge. La famiglia è il luogo in cui il costume sociale filtra nell’individuo e viene fissato nella coscienza, diventando abitudine o ethos, attraverso la cogenza dell’amore prima che attraverso l’obbligatorietà della legge. Si può dire, con un fondatore del personalismo, Emmanuel Mounier, che la famiglia «socializza l’uomo privato e interiorizza i costumi» [3].

Ancora la famiglia è cellula del popolo in un senso verticale - non semplicemente orizzontale -, ossia intergenerazionale, e mette perciò in relazione uguaglianza e diversità originarie. La fecondità è mezzo della pienezza della famiglia: già nel libro della Genesi (1,28), all’affermazione che Dio creò l’uomo maschio e femmina, segue immediatamente l’invito alla moltiplicazione e quello a riempire la terra, quindi a umanizzare il mondo. La fecondità - dice Ambrogio - procura coltivatori e contemplatori del mondo, amplia la possibilità di crescita della fiducia in Dio: «Fiorisca a nuova primavera, a lode di Dio, la terra, perché trova coltivatori; il mondo, perché trova conoscitori; la Chiesa perché aumenta il numero del popolo che crede» (Exp. ev. Luc., 1,30).

Tutto questo diventa di fondamentale rilevanza sociale in quanto nella famiglia sussiste un patto di stabilità, altrimenti le sue note caratteristiche sono turbate dal sospetto della provvisorietà. Se non c’è sullo sfondo la volontà di stabilità, i benefici della famiglia perdono quel supplemento di valore che hanno rispetto a qualsiasi rapporto economicistico, anzi possono gettare in una più amara disperazione chi aveva su di essi investito o ne aveva assaporato i primi sorsi.

Naturalmente, per un’immagine di famiglia qual è nella nostra tradizione, è soprattutto importante, al di là di una declinazione di caratteri, che essa testimoni nei fatti la sua bontà e la sua natura, costitutivamente strutturata per superare i tempi di angoscia, in quanto luogo di amorevole medicazione delle debolezze dell’umano. La famiglia è istituzione relazionale destinata a imporsi più e meglio di altre dal momento che è costituita sull’amore; e se si indebolisce, il rammarico deve andare alla caduta della dimensione dell’amore, non soltanto alla perdita d’una possibilità di trasmissione d’un legame religioso.

Amore che è presente nella vasta gamma della sua intensità e qualità: c’è l’amore, per così dire, necessitato, insediato nelle profondità biologiche; l’amore di scelta; l’amore di solidarietà mutua. Tra tutti intercorrono scambi difficili da separare, per cui la famiglia è crocevia di fatti di natura e di cultura: «L’amore dei padri per i figli è una legge di natura. L’amore dei mariti per le loro mogli è una legge di Dio, che ha convertito in fatto di natura l’amore coniugale, in vista della formazione di un solo corpo e un solo spirito. L’amore tra fratelli è una tendenza tipica della natura che ha trasformato in capacità di amore il lungo calore goduto dentro il medesimo ricettacolo» (Ambrogio, Exp. ps. CXVIII, 15,17). Ci aiuti il nostro patrono a vivere ancora oggi della gioia e della forza di questa capacità di amore.


Note

[1] Cfr. ad es. G. Campanini, La famiglia fra "pubblico" e "privato", in Aa.Vv., La coscienza contemporanea tra "pubblico" e "privato": la famiglia crocevia della tensione, Milano 1979, p. 782.

[2] Cfr. il documento Famiglia, matrimonio e "unioni di fatto" del Pontificio Consiglio per la Famiglia, 26 luglio 2000.

[3] E. Mounier, Il personalismo, trad. it., Roma 1974.

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