Nakba, esodo palestinese (1948).
Noi siamo abituati a guardare ad Israele come a una democrazia occidentale. Ma quello di Israele, come diceva, è uno stato molto eterogeneo. Lo storico Benny Morris in una recente intervista racconta di come Israele venga visto dai paesi arabi dell’area come un paese arabo – culturalmente e politicamente. Quali sono le basi della democrazia israeliana?
Quali sono le fondamenta della democrazia in Israele? Da dove proviene questa identità israeliana? Beh, questo è un discorso un po’ problematico. In Israele, abbiamo detto, una metà della popolazione arrivava da paesi afro-asiatici, musulmani, in cui la democrazia proprio non esisteva: c’era l’imam, c’era lo sceicco, c’era il colonialismo francese o inglese. Gli ebrei europei invece arrivavano in gran parte dall’Europa orientale dove, dopo la Rivoluzione russa del 1917, non c’era una democrazia di tipo – diciamo – “occidentale”. E in Polonia e in altri paesi dell’Europa orientale la democrazia era un concetto abbastanza discutibile.
Rimane un piccolo circolo di ebrei occidentali europei: britannici, francesi, tedeschi della Repubblica di Weimar, qualche centinaio di Italiani (divenuti nel corso degli anni molte migliaia), che erano però una minoranza. Allora, se vogliamo essere forse un po’ spietati, possiamo dire che per il 90% dei genitori degli israeliani la democrazia non l’hanno mai vista, è vero. Ma possiamo dire anche che tra i genitori degli arabi l’hanno vista lo 0%.
La democrazia israeliana è un miracolo perché si è creata a partire da persone che la democrazia non l’avevano mai esperita nella loro vita. Però evidentemente l’avevano letta sui libri e assimilata nel corso delle loro attività poitiche, anche Ben Gurion, il Primo Ministro fondatore, che proveniva da Plonsk, in Polonia. Golda Meir, la mitologica prima donna Primo Ministro, proveniva dall’Ucraina, dopo un passaggio da ragazza negli Stati Uniti. Chaim Weizmann, il primo Presidente della Repubblica, era nato a Motal in Bielorussia ma aveva studiato in Germania, e poi lavorato in Inghilterra.
Nonostante queste origini, in Israele si è creato un sistema multipartitico, pluralistico, proporzionale e parlamentare, con un forte sustema giudiziario guidato da una Corte Suprema indipendente. Sono state create forti strutture universitarie, ospedaliere e industriali con una foete presewnza nell hi-tech. Anche l’agricoltura è all’avanguardia. Tutto quello che serve per creare un paese moderno, efficiente e funzionante, si è creato con le premesse teoriche del Sioismo, un movimento nazionale molto simile al Risorgimento Mazziniano, di ispirazione laica e liberale. Israele, nel panorama internazionale, è indubbiamente dalla parte delle democrazie avanzate.
E questo naturalmente si manifesta in un sistema di partiti molto articolato, con una democrazia parlamentare in cui ovviamente chi vince le elezioni poi governa e con ripetute alternanze al potere. Questi spostamenti sono determinati, in parte dai cambiamenti demografici delle popolazioni sottostanti. E quindi chi è cresciuto in un ambiente più tradizionalista, più nazionalista e più religioso, voterà in un certo modo. Chi è cresciuto in un ambiente più laico, più occidentalizzato, voterà in un altro modo. E poi ci sono le vicende della vita e le vicende della vita spostano il voto.
Io sono nato in Italia e per molti anni ho anche votato in Italia. Il voto in Italia oggi è molto diverso dal voto di molti anni fa, prima della mia emigrazione per Israele nle 1966. Oggi, il sistema dei partiti in Italia è cambiato completamente perché anche l’italia è cambiata completamente.
E secondo lei come mai in Israele oggi c’è una componente conservatrice così forte? Ha a che fare con la composizione eterogenea della popolazione di cui abbiamo parlato?
Quello che è avvenuto in Israele è sorprendentement simile a quello che è avvenuto in Italia con la Democrazia Cristiana. Dov’è finito oggi il partito che aveva quasi la maggioranza assoluta in Parlamento e dov’è finito oggi il Partito Laburista Israeliano, che aveva quasi la maggioranza assoluta in Parlamento? E come mai questo è successo?
Con tutte le cautele del caso, credo che questo dipenda da meccanismi che hanno a che fare con determinate trasformazioni intellettuali, sociali, economiche, di fronte alle quali il potere arriva in ritardo finendo per gestirle male. Inoltre il potere, gestito rroppo a lungo finisce col corrompersi. Quindi abbiamo due fenomeni che sono speculari, in Italia e in Israele: il crollo di due egemonie politiche. E visto che non esiste il vuoto in politica, qualcuno lo doveva riempire.
Come in Italia è emersa una forza politica nuova che per alcuni anni ha gestito la politica nazionale, lo stesso, in parte, è avvenuto anche in Israele. Naturalmente, se guardiamo ai dettagli, le modalità sono diverse, i contenuti specifici sono diversi. Ma voglio insistere sui meccanismi, che sono simili, anche per togliere a Israele questa aura di stranezza e di unicità che la circonda. Israele non è affatto unica, non è affatto particolare, salvo che ovviamente ci sono delle contingenze uniche. Il popolo ha una certa tendenza conformista a seguire delle ondate, senza magari porsi delle domande critiche rispetto a cosa sia il meglio e cosa si possa migliorare. Ma l’economia ha le stesse regole, e in parte anche la politica. Quello che è molto diverso è che Israele si trova sempre sotto la spada di Damocle di forze cfondamentaliste e genocide che lo voglioni distruggere. Questo per fortuna in Italia non esiste.
C’è stato indubbiamente in Israele uno spostamento a destra dell’asse politico. Lo spostamento ha una evidente componente legata al conflitto. Certo, , al di là delle stratificazioni sociali e i paesi di origine, c’è una decisiva influenza del conflitto. Il terrorismo palestinese ha causato una radicalizzazione dell’opinione pubblica in Israele. Il movimento pacifista ne ha sofferto.
A Gaza due terzi della popolazione ha vissuto sotto la soglia di povertà. Metà della popolazione è disoccupata, e si ritrova nelle mani di Hamas, che è un gruppo terroristico. Ora, l’impressione è che sia molto difficile per una società crescere senza una borghesia autoctona. Mi sembra che in questo momento non esista una borghesia a Gaza. Mi chiedo: Israele oltre il ritiro del 2005 ha creato le condizioni affinché una società che sicuramente ha degli elementi potenzialmente positivi potesse creare una sua borghesia, una classe dirigente in grado di trattare con la controparte israeliana?
Sono perfettamente in linea sul fatto che un elemento cruciale dello sviluppo degli Stati è l’emergere della classe media, della piccola borghesia e di un certo quadro anche di impiegati statali. Nella West Bank questo in parte è avvenuto. A Gaza molto meno – c’è anche una composizione sociologica-antropologica completamente diversa. Sono due sezioni di un popolo che hanno un profondo contenzioso fra di loro, ma non solo politico, anche antropologico.
Però tornando all’emergere di questa borghesia: per chiarire, gli arabi israeliani, che sono appunto un po’ più del venti per cento della popolazione, sono circa al livello di un paese come la Polonia, che non è un paese completamente sottosviluppato. Israele è a un livello più alto, quindi esiste un certo gap. Ma questo gap estiste anche fra le provincie italiane del nord e del sud, a 162 anni dall’Unità d’Italia.
Il gap non fa piacere, però le disparità esistono in qualunque stato, e naturalmente andrebbero corrette, eppure spesso non è possibile o non è facile farlo. Nei territori occupati la situazione è meno buona, anche se, secondo l’indice di sviluppo umano pubblicato dall’ONU, scopriamo con stupore che la situazione dei territori occupati è migliore rispetto a una buona parte dei paesi arabi: meglio che in Iraq, meglio che in Siria, meglio che in Libano, meglio che in Marocco, meglio che in Egitto. E naturalmente è molto peggio che negli Emirati, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita dove grazie ai redditi dle petrolio sono state messe in atto delle trasformazioni sociali.
Detto questo ora la domanda è: è possibile attribuire a Israele il fallimento economico di Gaza? Io temo che ci sia un problema molto più profondo. Il problema vero è il fanatismo irriducibile che porta a scavare una incredibile città sotterranea fatta di trincee e di fabbriche e depositi di armi e munizioni, con una spesa di miliardi di dollari (che si cono), invece di preoccuparsi della sanità, dell’istruzione e del lavoro della popolazione locale.
Certo, bisognerebbe sviluppare la classe media: per sviluppare la classe media occorre una mano, e se questa non arriva dall’interno occorre una mano esterna che guidi. Però così, paradossalmente, chiediamo la mano di Israele, che occupi il territorio e guidi la crescita delle classi medie. Ma così non se ne esce: non si può incolpare Israele di tutto, di aver fatto e anche di non aver fatto. Ci sono dei problemi non risolti, ed è molto complesso risolverli, in Israele come altrove. Ma l’aggravante è che in questa regione c’è un conflitto che deriva da forze fanatiche che emanano soprattutto dall’Iran ma anche da altri centri, come il Qatar e perfino la Turchia. E ciò che spesso viene eluso nell’analisi degli occidentali è la presenza di Hamas, che, almeno a leggere lo Statuto vuole distruggere non solo Israele, ma anche tutti gli ebrei, e dedica a questo progetto tutti gli investimenti, tutte le energie, tutte le forze.