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La primavera del cinema civile

Ultimo Aggiornamento: 31/03/2012 17:02
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31/03/2012 17:02

La primavera del cinema civile italiano è iniziata sotto la neve di Berlino, durante l'ultimo FilmFest, quando Cesare deve morire dei fratelli Taviani ha vinto l'Orso d’oro e Diaz di Daniele Vicari si è aggiudicato il Premio del Pubblico.
Qualche settimana prima era arrivato nelle sale L'industriale di Giuliano Montaldo, con Pierfrancesco Favino manager in crisi, sullo sfondo di una recessione economica che stravolge affetti e rapporti umani. Ora tocca a Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, e al Primo uomo di Gianni Amelio, tratto dal libro di Camus sulla guerra in Algeria. Intanto, a Roma, Marco Risi ha appena finito di girare il suo nuovo film (titolo ancora da definire) scritto con Andrea Purgatori e Jim Carrington, interpretato da Luca Argentero, Claudio Amendola e Pippo Delbono. Al centro del «giallo politico», la figura di un ex-poliziotto dal passato oscuro. Nel mare delle cinecommedie sbancabotteghino si intravedono, per la prima volta dopo anni, segnali di cambiamento. L'Italia torna a parlare di se stessa, lo fa attraverso le voci di autori appartenenti a generazioni diverse, con linguaggi differenti, con opere che non hanno niente in comune se non la voglia di mettere il dito nelle piaghe aperte. Una voglia antica, che un tempo si chiamava denuncia.
«C'è una classe di autori - dice Purgatori - che non ha mai smesso di pensare che bisognava raccontare i misteri di questo Paese. Sono sommerso da soggetti, suggerimenti, proposte, che hanno a che fare con le nostre storie vere». Eppure sul grande schermo, per un bel po', se ne sono viste poche: «Nelle sale continua a funzionare soprattutto la commedia, più banale o più costruita, ma comunque commedia, e i produttori continuano a puntare su quella». Ma non è tutto: «L'altro giorno mi è capitato di presentare a una platea di studenti Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto , un film di una potenza straordinaria, per me quello resta il paradigma, l'esempio da rifare. Petri descriveva la degenerazione del potere, e il coraggio con cui, in quegli anni, raccontò quel disagio, lo portò all’Oscar. Eppure se uscisse oggi e finisse in un multiplex, avrebbe molte difficoltà ad essere visto. Il grande ostacolo che questo genere di film si trova a dover superare sta nella progressiva cancellazione dei cinema di città, proprio quelli frequentati dal suo pubblico ideale».
Poi c'è un altro problema: «Per troppo tempo le nostre sono state storie ripiegate su noi stessi, insomma, o si supera il confine dell'autoreferenzialità oppure non se ne esce. Il divo di Sorrentino vince a Cannes perchè trasforma Andreotti in un caso emblematico, dietro la sua faccia ci può essere chiunque, anche un inquilino del Cremlino... Salvatore Giuliano è dirompente perchè esce in un Paese in cui ancora nessuno si azzardava a parlare in quel modo di mafia».
C'era una forza, una maniera temeraria di fare arte. In seguito, dice Vicari, si è affermato il principio dell'«auto-censura»: «I film che parlano della contemporaneità non sono amati dai produttori, il nostro è un mercato ristretto e molto legato alla politica, certi temi sono considerati indigesti, e così è successo che lo sviluppo di certe storie, ancora prima di vedere la luce, sia stato bloccato da freni potentissimi. Questo vale per i registi affermati, figuriamoci per i più giovani». Oggi, però, qualcosa è cambiato: «La realtà socio-politica torna ad essere interessante, parlandone si ristabilisce il rapporto con il pubblico e, a volte, come sta accadendo in questo periodo, la verità irrompe, i temi s'impongono. Una cinematografia che non affronta argomenti profondi è inutile». Diaz (in uscita il 13) è il frutto di queste convinzioni: «Le polemiche non mi spaventano dice Vicari -, l'unica cosa inaccettabile sarebbe il silenzio, il film nasce proprio con l'obiettivo di romperlo. Dobbiamo abituarci ad affrontare le cose che ci accadono, se si lascia morire tutto, se le vicende si chiudono con la prescrizione, continueremo a trovarci nel disastro in cui stiamo vivendo».
Il cinema civile serve a questo, tenere sveglie le coscienze: «Abbiamo vissuto per troppo tempo dentro una specie di reality-show, sotto una cappa pesante di moralismo generico, in un clima anti-culturale, anti-filosofico, tutto questo è servito a mettere da parte la naturale conflittualità di un sistema sociale». Un sonno ottuso, che il cinema può interrompere.



di FULVIA CAPRARA
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