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Su Marte c'era tanta acqua per la vita

Ultimo Aggiornamento: 08/03/2004 11:24
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07/03/2004 23:02

Ormai la quasi totalità degli scienziati è concorde nel considerare fondamentalmente corrette le teorie cosmogoniche del Sistema Solare cosiddette nebulari, cioè quelle che fanno riferimento ad un’origine comune del Sole e dei pianeti, origine riconducibile al frazionamento ed alla successiva evoluzione di un’unica nebulosa primordiale.
Tali teorie sono concordi nell'ipotizzare un accrescimento graduale, con ritmi evolutivi differenziati, sia del Sole che degli altri corpi celesti del Sistema Solare, ma non sempre nell'analisi dei processi coinvolti in questa fase si ha uniformità di vedute, soprattutto quando si tratta di dover identificare i meccanismi fisici responsabili dell'innesco e del rapido sviluppo del fenomeno dell'accrescimento.
Fino a qualche decennio fa, poi, la visione dell'origine e dell'evoluzione del Sistema era molto "tranquilla", nel senso che il meccanismo di accrescimento era inteso come un aggregarsi graduale di polveri che andavano a formare corpi di dimensioni via via crescenti, ed in questo quadro non era sufficientemente approfondita l'eventualità del manifestarsi di violente interazioni tra gli oggetti che si andavano formando o che già si erano formati. E' vero che, fin dall'inizio del secolo scorso, c'era la consapevolezza della natura extraterrestre del fenomeno meteoritico, ma esso era considerato quasi un meccanismo secondario, una caratteristica degenerativa occasionale dell'intero processo evolutivo, idea di fondo alla quale è possibile a grandi linee ricondurre l'ipotesi di Olbers (1805) del "pianeta distrutto" quale origine della Fascia Asteroidale (ed è proprio a tale ipotetico pianeta scomparso che si attribuiva la paternità della caduta delle "pietre dal cielo").
In questa visione, i crateri che costellano la superficie lunare costituivano un vero e proprio mondo a parte, una sorta di eccezione che male si adattava all'idea del lento e graduale aggregarsi dei planetesimali, tanto più che l'altra superficie planetaria conosciuta, quella della nostra Terra, di tali strutture ne presentava ben poche…
Il sorgere dei primi dubbi sul fatto che il meccanismo degli impatti fosse da considerare solamente un evento eccezionale si può già intravedere, a mio parere, negli studi di K. Hirayama sulle famiglie dinamiche degli asteroidi (il suo primo lavoro sull'argomento fu pubblicato nel 1918), geniale intuizione che spalancherà la strada alle più complesse ed approfondite elaborazioni successive.
L'idea corrente nell'ambiente scientifico era, però, quella che tale situazione anomala caratterizzasse unicamente la Fascia degli Asteroidi, vista come una zona particolarmente affollata e caotica, alla quale ben si adattava il ruolo di biliardo cosmico; per il resto del Sistema Solare, invece, il modello era quello del perfetto meccanismo a orologeria che si muoveva seguendo il rigore matematico racchiuso nelle leggi di Keplero.
Ad ogni modo, seppure lentamente, avanzava la consapevolezza che il meccanismo di accrezione planetaria non doveva consistere unicamente nell'aggregarsi di polveri, ma doveva prevedere la formazione di oggetti sempre più grandi che risultavano, quasi in un meccanismo a gradini, dall'unione dei corpi della precedente generazione.
E questa crescita gerarchica doveva inevitabilmente prevedere che oggetti di dimensioni ormai consistenti potessero scontrarsi, con la concreta eventualità che un tale contatto risultasse distruttivo.
Oggi questa idea costituisce un punto fermo e irrinunciabile della planetologia.

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