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CRISTIANESIMO E CHIESA CATTOLICA

Ultimo Aggiornamento: 15/02/2016 17:26
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25/07/2008 19:59


John Riches "La Bibbia. Una breve introduzione" - Universale Laterza 2002



La Bibbia nel mondo dei credenti

Una volta inseriti nel canone, i testi cambiano. Diventano testi sacri. I credenti delle comunità che ne riconoscono il nuovo status li considerano come messi a parte, testi speciali che non possono essere trattati alla stregua di qualsiasi altro testo. Le aspettative nei loro confronti sono pertanto piuttosto diverse da quelle che i lettori hanno rispetto ad altri testi. Proprio perché sacri, è impensabile che i testi canonici possano essere in conflitto con il più profondo senso del sacro posseduto dai credenti. Ogni seria dissonanza fra l'esperienza della comunità e il mondo riflesso nel testo sacro esige di essere risolta. O il mondo del testo dev'essere elaborato in maniera tale da risultare conforme all'esperienza della comunità, o è la comunità che deve cambiare per conformarsi a quanto dichiarato nel testo. Si accende, dunque, una potente dialettica. I credenti leggono i testi alla luce della loro esperienza; e, allo stesso tempo, guardano ai testi per dare senso alla loro esperienza e costruirla. E' facile quindi aspettarsi che le diverse comunità di credenti leggano lo stesso testo in maniere molto diverse. Nella loro lettura troveremo un riflesso sia delle loro diverse credenze sia delle loro storie diverse. In questo non c'è grande differenza da quello che accade con i testi classici, non sacri; è l'intensità delle reazioni che è diversa. Se - poniamo - Shakespeare e Goethe arrivano a essere qualificati come classici da una rispettabile società borghese, ci saranno di quelli che vorranno eliminare dai loro scritti certi aspetti considerati scioccanti, o anche solo disdicevoli, da quella società. Le antologie di Goethe ometteranno parti della sua più sboccata poesia d'amore; e ci sarà un qualche Bowdler che appronterà le sue versioni purgate di Shakespeare. Il confronto è istruttivo: i conflitti fra alcune opere letterarie ed estetiche e il gusto e le sensibilità correnti provocano per lo più uno scandalo soltanto temporaneo; raramente creano fratture durature dentro una comunità, anzi a volte portano a mutamenti nella sensibilità della gente. E' largamente ammesso che gli scrittori e gli artisti possono aiutare la gente comune a familiarizzarsi con le altezze e le profondità dell'esperienza che la società benpensante semplicemente ignora o rimuove. Analoghi mutamenti di sensibilità si verificano anche, come vedremo, nelle comunità religiose. A volte tali mutamenti incontrano una resistenza molto maggiore per affermarsi, in quanto le comunità combattono per difendere modi di vedere il mondo che sono consacrati dalle letture tradizionali della scrittura. Prendiamo in esame un testo particolare, che ha avuto profonde risonanze sia nella tradizione giudaica sia in quella cristiana, e vediamo qualcuno dei modi in cui esso ha formato le diversissime esperienze di queste due famiglie di comunità e ne è stato a sua volta formato.


L'Akedah

L'Akedah - cioè l'episodio di Isacco che viene legato ('aqad = legare) da Abramo in vista del sacrificio, raccontato da Genesi 22 - tocca un nervo delicato delle sensibilità giudaica e cristiana. È una storia di strana violenza e tenerezza, di un padre che riceve dal suo Dio l'ordine di sacrificare "il suo unico figlio". Solo all'ultimo momento Abramo e Isacco vengono salvati dall'imminente orrore con l'intervento di un angelo. La vicenda è raccontata con tutto il vigore, la sobrietà e il realismo della narrativa biblica nei suoi momenti migliori. Lasciati i servi ai piedi del monte, Abramo e Isacco iniziano il cammino: "Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme" (Genesi 22,6). L'ultima proposizione ("proseguirono tutt'e due insieme"), ripetuta due versetti dopo, e il breve dialogo successivo sottolineano il forte legame fra i due; ma l'obbedienza di Abramo a Dio li spinge a salire sul monte del sacrificio. Qui Abramo allunga la mano armata di coltello per uccidere il figlio. Solo in quel momento interviene l'angelo. Ma dalla tragedia sfiorata viene fuori la benedizione divina e la promessa di una nuova nazione che sorgerà dal padre e dal figlio. Il fascio di emozioni ed esperienze racchiuso in questo breve racconto, così incisivo nella sua formulazione, è molto denso, come dimostra la ricchezza delle sue successive letture. Una delle prime interpretazioni dell'episodio è quella che si trova nel libro dei Giubilei, che è costituito in gran parte da una riproposizione della storia d'Israele che viene narrata a Mosè dall'"angelo della presenza". Grazie a questo artificio, l'autore ha la possibilità di integrare la storia con dettagli relativi ai retroscena celesti, che mancano nel racconto biblico. Così, ci viene detto ora perché mai Dio mise alla prova Abramo (Genesi 22,1). Circolavano in cielo dicerie che mettevano in dubbio la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo. Questo aveva spinto Satana, qui chiamato col nome di Principe Mastema, a lanciare una sfida a proposito della genuinità dell'amore per Dio da parte di Abramo, sostenendo che questi amava di più il suo figlio Isacco. L'angelo afferma che Dio sapeva bene che l'amore di Abramo era genuino, avendolo messo alla prova già molte volte, ma ciononostante accetta di apprestare una prova finale. Questo tema dell'ultima prova attraverserà tutte le discussioni giudaiche sulla vicenda. Il motivo della prova di Abramo è presente già in Genesi, ma in Giubilei riscontriamo un sottile ma significativo slittamento di accento. In Giubilei la prova non è per Dio un mezzo per scoprire se Abramo lo ama e gli obbedisce; questo, Dio (e il lettore) lo sa fin dall'inizio, e nel momento cruciale Dio interviene proprio sulla base di questa conoscenza. In Genesi, invece, è solo dopo che Abramo ha impugnato il coltello che Dio, per il tramite dell'angelo, dice: "Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio" (Genesi 22,12). In Giubilei lo scopo dell'azione di Dio è di dimostrare a Mastema la fedeltà e l'amore per Dio da parte di Abramo, come si capisce bene dalle parole finali che Dio rivolge ad Abramo: "E io ho reso noto a tutti che tu sei fedele a me in ogni cosa che io ti dico". Questo diventa un messaggio per i giudei, i quali pure hanno dovuto subire di recente un'analoga prova satanica. Lo scopo della prova di Abramo e, per estensione, delle prove che gli stessi giudei si trovavano ad affrontare era di rendere nota la fedeltà di Israele a Dio, così che "tutte le nazioni possano essere benedette per mezzo di lui" (Giubilei 18,16). L'introduzione di Satana sulla scena aggiunge un'ulteriore dimensione alla vicenda, oltre al fatto di essere una prova dell'obbedienza di Abramo messa in atto da Dio. Con la presenza di Satana si vedono all'opera nel mondo potenze oscure che cercano di fuorviare la gente e pretendono che anche i più giusti fra gli uomini siano loro vittime. In una qualche maniera oscura, parte almeno della responsabilità della sofferenza umana ricade su Satana, mentre Dio e i suoi angeli sono lì pronti a sostenere e a proteggere il fedele. Nella vicenda specifica, essi sono presenti a far sì che Isacco non riceva alcun danno (almeno alcun danno fisico). Ma come si accorda questo con le esperienze dei giudei nel corso delle epoche di persecuzione e martirio, che avevano portato molti di loro alla morte? La consapevolezza di questi problemi è evidente nello scrittore giudaico del primo secolo d.C., Filone Alessandrino. La comunità giudaica di Alessandria all'epoca di Filone si stava dando da fare per ottenere che si ponesse fine alla discriminazione e alla persecuzione nei suoi confronti. Nel suo trattato De Abrahamo, Filone risponde prima di tutto a quelli che dicevano che la prova sostenuta da Abramo non era poi di gran peso se messa a paragone con quella di tanti pagani che avevano di propria volontà immolato i propri figli per la conservazione della loro città o dei loro popoli. Ma - afferma Filone - per Abramo, per il quale il sacrificio umano era un abominio, l'immolazione del suo figlio fu una prova ben più terribile, dal momento che per i principi pagani questa era invece quasi secondo natura (De Abrahamo, 177-199). Filone, però, non si ferma qui, ma approfitta della vicenda di Isacco per fare pure una riflessione sulla sofferenza e l'afflizione umana, e lo fa mettendo in evidenza il significato allegorico della storia. Il nome di Isacco significa risata. Abramo sacrifica la risata, o piuttosto "la buona emozione del comprendere, ossia la gioia", in nome del suo senso del dovere nei confronti di Dio. Il che è giusto, perché una vita di pura gioia e felicità è esclusiva di Dio. Ciononostante, Dio vuole permettere ai suoi fedeli di partecipare in qualche misura di una simile gioia, anche se essa sarà mescolata con il dispiacere (De Abrahamo, 200-207). Viene alla mente quella battuta giudaica che dice: Perché i giudei non possono ubriacarsi? Perché quando uno beve dimentica le preoccupazioni. Ma che dire delle grandi sofferenze sopportate in tante occasioni dagli stessi giudei? La terribile persecuzione inflitta loro al tempo di Antioco Epifane (175 a.C.) produsse propri episodi e relativi racconti sulla fedeltà dei giudei a Dio in condizioni di crudelissima tortura. Uno di questi (in 2 Maccabei 7) parla di una madre che assiste di persona al raccapricciante martirio dei suoi sette figli - e li incoraggia - prima di essere lei pure uccisa. In una successiva versione rabbinica dell'episodio, la vicenda viene trasposta dal suo contesto originale al tempo di Antioco Epifane nella situazione del II secolo d.C., quando i giudei furono perseguitati sotto l'imperatore romano Adriano. Il racconto è pieno della pena per tanta sofferenza ma anche di orgoglio per i martiri della fede. "La madre piangeva e diceva [ai suoi figli]: Figli miei, non siate angustiati, poiché per questo foste creati - per santificare nel mondo il Nome del Santissimo, che benedetto egli sia. Andate a dite al Padre Abramo: Non si gonfi il tuo cuore di orgoglio! Tu costruisti un altare, ma io ho costruito sette altari e su quelli ho immolato i miei sette figli. Cosa conta di più? La tua fu una prova; la mia è stata un fatto compiuto" (Yalkut, Deuteronomio 26,938). Una risposta ancora più angosciata alla vicenda di Isacco si trova nei riferimenti medievali, che rispecchiano la situazione delle persecuzioni dei giudei al tempo delle crociate. Le cronache giudaiche del tempo registrano il fatto che in molti casi, quando i crociati attaccavano, i giudei, piuttosto che rischiare di doversi piegare a una conversione forzata sotto tortura, si immolavano l'un l'altro in sacrificio, facendo attenzione a che il coltello non avesse difetti - come richiesto dal rituale del sacrificio, pena l'invalidità del sacrificio stesso - e recitando le appropriate formule sacrificali. La poesia sinagogale del tempo paragona simili sacrifici all'Akedah di Isacco:

O Signore, Onnipotente, che abiti nei cieli!
Un tempo, per una Akedah gli Ariel gridarono davanti a Te,
Ma ora quanti sono massacrati e bruciati!
Perché non hanno elevato un grido per il sangue di bambini?

Prima che il patriarca nella sua fretta potesse sacrificare il suo unico figlio,
Si udì dal cielo: Non stendere la tua mano per distruggere!
Ma quanti figli e figlie di Giuda sono assassinati -
E ancora Egli non si affretta a salvare coloro che sono massacrati o dati alle fiamme.
(R. Eliezer bar Joel ha-Levi, Fragment from a Threnody, in Spiegel, pp. 20-21)

O ancora:

Un tempo potevamo contare sul merito dell'Akedah,
Protetti per la salvezza di età in età -
Ora un'Akedah segue l'altra, non si contano più.
(R. David Meshullam, Selihot, 49, 66b, in Spiegel, p. 21)

Ma la più interessante interpretazione della vicenda dell'Akedah in questo periodo viene dalla penna di Rabbi Ephraim ben Jacob di Bonn, nel cui poema leggiamo che Abramo non soltanto portò in effetti a compimento l'uccisione rituale del figlio, ma anche che, quando Dio immediatamente dopo riportò in vita Isacco, egli tentò di ripetere il sacrificio.

Egli [Abramo] si affrettò, lo [Isacco] puntò sulle ginocchia,
Fece forza sulle due braccia,
Con mano ferma lo immolò secondo il rito,
Compì il sacrificio nella maniera giusta.

Cadde sopra di lui la rugiada di resurrezione, ed egli tornò in vita
[Il padre] lo prese [allora] per ucciderlo di nuovo.
Ne è testimone la scrittura! Il fatto è ben fondato:
E il Signore chiamò Abramo, anche una seconda volta dal cielo.
(Spiegel, pp. 148-149)

E' da notare come il poeta affermi che il suo riferimento al tentativo di Abramo di sacrificare il figlio una seconda volta trova sostegno nella scrittura. Nel racconto del libro della Genesi, è vero, l'angelo chiama Abramo due volte, la prima per fermare il sacrificio, la seconda per comunicare ad Abramo la promessa che egli sarà padre di una grande nazione. Rabbi Ephraim fornisce invece una versione molto diversa delle due chiamate. Abramo evidentemente non ascolta, o ignora, la prima. Nel suo commento profondamente simpatetico a questo poema, Spiegel spiega efficacemente la frase "il fatto è ben fondato": "Se non lo è nella Scrittura, lo è nell'esperienza dei giudei del Medioevo" (p. 138). Le terribili esperienze di persecuzione dei giudei nel Medioevo devono trovare una eco nei loro testi sacri. L'interpretazione cristiana dell'Akedah è filtrata, al contrario, attraverso il fatto centrale della crocifissione di Gesù. Ma è interessante osservare come, nonostante le evidenti somiglianze fra le due vicende, nei racconti evangelici ci sono pochi veri e propri riferimenti letterari alla Akedah. In Gesù che prega Dio nel giardino del Getsemani prima della crocifissione, possiamo avvertire lontani echi delle domande di Isacco al padre e delle successive tradizioni circa la sua volontaria accettazione dei disegni del padre. Naturalmente il contesto è diverso: nel caso di Gesù non c'è un padre umano come mediatore dei disegni di Dio; non c'è intenerimento da parte del Padre celeste; non si tratta di una semplice prova per il padre della vittima. Anzi, è la vittima stessa che deve lottare per accettare liberamente la ferma volontà del Padre celeste (un motivo che in effetti è presente in alcune versioni dell'Akedah). È troppo vedere qualcuno di questi punti riflesso nel modo in cui i vangeli raccontano la preghiera di Gesù nel Getsemani? Matteo e Luca in qualche modo inciampano nel secco "tutto è possibile a te" di Marco, che era un tradizionale riconoscimento di onnipotenza. Matteo, messo di fronte all'enormità del fatto che Dio uccida il proprio figlio, sembra chiedersi se non ci sia una qualche superiore necessità che controlla l'azione. Luca sembra più interessato alla questione dell'unità o costanza della volontà divina: come può il Figlio di Dio pregare Dio perché cambi i suoi disegni? Giovanni omette completamente l'episodio della preghiera di Gesù nel Getsemani e lo sostituisce con un'analoga scena di angoscia immediatamente prima dell'Ultima Cena (12,27). Ne fa una scena più pubblica, alla quale assistono non soltanto giudei ma anche greci. L'accettazione della sua missione da parte di Gesù glorificherà il nome di Dio, esattamente come aveva fatto in precedenza l'obbedienza di Abramo. Questa accettazione è riecheggiata in quello che Gesù dice a Pietro al momento del suo arresto (18,11); qui non rimane altro che la netta affermazione di Gesù della sua completa accettazione della volontà del Padre: non aveva detto in precedenza "mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Giovanni 4,34)? In tutto ciò, non c'è alcun ondeggiamento nella volontà del Padre. Solo in un punto l'enfasi sulla inflessibilità della volontà del Padre viene precisata, ed è nel vivace ritratto che gli evangelisti fanno degli attori umani che cospirano per portare ad effetto la morte di Gesù. Il racconto di Marco dell'arresto di Gesù è introdotto dalle parole dello stesso Gesù: "Basta, è venuta l'ora: ecco, il Figlio dell'uomo viene consegnato (paradìdotai) nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce (paradisùs) è vicino" (Marco 14,41-42). In effetti c'è qui una certa ambiguità nell'uso del verbo greco paradìdomi, che vuol dire sia semplicemente "consegnare"sia anche "tradire". Si riferisce solo al tradimento di Giuda alla banda spedita dai capi dei sacerdoti, o non suggerisce forse anche il disegno divino dietro gli eventi che ora travolgono Gesù, con la consegna di lui nelle mani dei suoi distruttori? (La stessa parola greca si ritrova in Isaia 53,6: "Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti"; letteralmente: il Signore lo consegnò ai peccati di noi tutti). Probabilmente l'ambiguità è intenzionale; ma nel quadro successivo è l'azione violenta della plebaglia che compie l'arresto ad essere sottolineata con quattro occorrenze del verbo "prendere" e due riferimenti a "spade e bastoni" della gente accorsa a prenderlo. Gesù viene catturato per essere ucciso secondo i piani dei capi dei sacerdoti e degli scribi, i quali, dopo un affrettato processo, "lo legano" e lo "consegnano" a Pilato. È allettante vedere qui un'inversione dei temi del racconto di Genesi. In Genesi, Abramo prende Isacco, lo lega e lo immola in obbedienza al comando di Dio. Qui invece sono i peccatori che prendono Gesù, lo legano e lo consegnano al tiranno straniero per l'esecuzione. In entrambi i casi, tuttavia, come la scena del Getsemani rende chiaro, è Dio che vuole questi eventi. Nel caso dell'Akedah, la prova del sacrificio di Isacco rappresenta l'atto finale di un dramma fra Dio e il patriarca in cui la volontà di Abramo viene saggiata ed egli viene preparato a essere il padre di una moltitudine di nazioni, secondo la promessa di Dio (Genesi 17,4); Abramo dev'essere il tipo del monoteismo etico, della radicale obbedienza alla volontà di Dio. Abramo diventa il tipo del giudeo fedele, e anzi, al di là di qualsiasi confine etnico, il tipo di ogni persona giusta. Nell'altro caso, Gesù, che è stato proclamato "figlio prediletto" (Marco 1,11) di Dio, è prescelto come strumento della volontà di Dio nel conflitto con la malvagità umana. Il sacrificio di Gesù non è tanto una dimostrazione di obbedienza (benché sia anche questo) quanto il punto di scontro fra l'agente divino e le forze della distruzione e della morte nel mondo. È il punto di svolta dal mondo di morte alla nuova età della vita, che è anticipata nella resurrezione di Gesù. Le successive ripetute narrazioni cristiane della Passione di Gesù ricalcano questo modello di allusione indiretta e di variazioni. Nel racconto giovanneo della Passione, Gesù "portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio" (19,17). Questo contrasta con il racconto dei vangeli sinottici, secondo il quale i soldati costringono Simone di Cirene a portare la croce fino al Golgota. Nel vangelo di Giovanni, dunque, Gesù, al pari di Isacco, porta con sé sul cammino lo strumento della sua morte. È intrigante notare come questo elemento venga rispecchiato a sua volta nelle riscritture rabbiniche della vicenda di Isacco, in cui si dice che Isacco porta la legna come uno che porta la sua croce. La successiva esegesi cristiana mise in risalto questo motivo e lo collegò all'esperienza cristiana della sofferenza. La disponibilità cristiana a sopportare la sofferenza è vista come in continuità con la fede di Abramo: "Giustamente anche noi, che possediamo la stessa fede di Abramo e prendiamo su di noi la croce così come Isacco portò la legna, Lo seguiamo" (Ireneo, Contro le eresie, IV 5,4). La devozione successiva ha elaborato questo motivo nelle "stazioni" della Via Crucis che si allineano lungo i muri delle chiese cattoliche e raffigurano Gesù che cade tre volte sotto il peso della croce. Nell'interpretazione cristiana, tuttavia, la storia di Isacco non sempre viene messa direttamente in relazione con la morte di Cristo. Nella sua acquaforte intitolata "Il sacrificio di Isacco", Rembrandt raffigura l'angelo che non solo chiama Abramo ma interviene attivamente a trattenerlo, mettendogli intorno il suo braccio. La storia si trasforma così, nel dipinto, in una rappresentazione della protezione divina, simboleggiata dalla tenera cura dell'angelo custode; siamo ben lontani dai rabbi medievali che leggono la stessa vicenda attraverso le loro esperienze di persecuzione e genocidio. Il filosofo danese Kierkegaard, al contrario, torna a celebrare in Abramo l'uomo di fede. Egli definisce la disponibilità di Abramo a sacrificare il suo figlio come "la sospensione teologica dell'etico". Nella fede religiosa le leggi e le norme etiche normali sono sospese, in quanto uomini e donne abbracciano scopi e obiettivi di livello superiore. Il vero "cavaliere della fede" è uno che si muove al di là del mondo dell'etica ed entra in un mondo che è governato da comandi e promesse di provenienza divina. La grandezza di Abramo sta nel perseverare della sua fiducia e fede in Dio contro tutte le apparenze: non era solo una fede nella vita ultraterrena, in una risoluzione finale delle cose, ma una fede nel qui e ora, la sicurezza che le promesse di Dio si sarebbero realizzate anche di fronte alla manifesta impossibilità che Sara potesse concepire un figlio alla sua età, e poi, dopo la nascita di Isacco, di fronte al comando di Dio di sacrificarlo. Gli scritti di Kierkegaard esprimono una protesta profonda, e personalmente costosa, contro la banalizzazione borghese del cristianesimo. La sospensione da lui affermata degli standard etici "normali" rimane pericolosa e inquietante e mette in evidenza qualcosa della stranezza e della natura provocatoria del racconto originale, con la sua testimonianza a una fede prodigiosa. Se Abramo non avesse avuto fede, dice Kierkegaard, avrebbe potuto sacrificare eroicamente se stesso invece di Isacco. "Sarebbe stato ammirato nel mondo e il suo nome non sarebbe stato dimenticato; ma una cosa è essere ammirati e un'altra essere una stella che guida, che salva chi è angosciato" (Kierkegaard, pp. 42-43).


La perenne vitalità dei testi biblici

La storia della ricezione dei testi biblici fornisce un fondo quasi inesauribile di dimostrazioni della vitalità di questi antichi scritti. Essi sono stati letti dalle più diverse comunità di fede in circostanze largamente differenti e hanno generato letture di notevole divergenza come pure di notevole convergenza. Non è facile fornire spiegazioni di questo tipo di fecondità. La ragione va ricercata in parte nella diversità dei contesti in cui simili testi vengono letti; non sorprende che la vicenda di Isacco che viene preparato per essere sacrificato susciti echi diversi in gente che si trova esposta agli attacchi di soldati dediti a scorrerie e in gente che, poniamo, deve affrontare i rigori della vita in un villaggio di montagna della cattolica Austria. C'è anche un'importante differenza nel contesto letterario della storia di Isacco, quale è letta dai giudei e dai cristiani. Per i cristiani, con la forte concentrazione sulla croce di Gesù negli scritti del Nuovo Testamento, è inevitabile che i temi dell'Akedah vengano ricondotti nel quadro della loro lettura della Passione. Isacco diviene il "tipo di colui che doveva venire" (Epistola di Barnaba 7,3) e i vari motivi della storia vengono assunti e usati, a volte per contrasto, nella narrazione e nelle riflessioni sulla Passione. I giudei, invece, hanno più ragione di riflettere sul significato della vicenda raccontata dal libro della Genesi alla luce della storia dei discendenti di Abramo. Ma la diversità del contesto non spiega tutto: c'è nei testi stessi una ricchezza e un'ambiguità che invita a una varietà di interpretazioni. Immagini come quella di Abramo che allunga sul figlio la mano armata, o che depone il figlio sopra la legna, toccano corde profonde dei successivi scrittori o interpreti. La ricchezza di figure, immagini e metafore degli scritti della Bibbia - nella sua narrativa, nella sua poesia e nei suoi testi più discorsivi - è tale da consentire senz'altro letture che corrispondono liberamente all'esperienza dei lettori. In essa sono contenuti storie e testi che comunità largamente diverse fra loro hanno potuto fare propri, proprio grazie alla loro natura evocativa. Né si tratta di testi chiusi, strettamente bloccati. Essi lasciano spazi aperti che chiedono di essere riempiti e contengono ambiguità che chiedono di essere risolte. Alcuni dei testi più fecondi, come vedremo, sono quelli più ambigui. Il carattere canonico dei testi deve dar conto non soltanto della diversità e ricchezza delle letture, ma anche del modo in cui le narrazioni e i discorsi stessi sono stati rielaborati e rimodellati. Nell'esempio così impressionante che abbiamo esposto, abbiamo visto come alcune versioni medievali della Akedah affermino di fatto che il racconto della scrittura parla della morte di Isacco. Più spesso, è una questione di enfasi, di lettura selettiva: gli elementi degli scritti biblici che suscitano echi più forti in una particolare comunità e in un particolare periodo di tempo saranno sottolineati, mentre altri elementi saranno esclusi o trascurati. I risultati di tale lettura selettiva possono essere altrettanto fortemente differenziati quanto la diretta alterazione della storia di Isacco. Ma, nell'un caso e nell'altro, ciò che spinge il processo di interpretazione è la medesima convinzione: che questi testi sono normativi per l'esperienza della comunità e che perciò l'esperienza della comunità deve in qualche modo essere riflessa e rappresentata in essi.
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