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CRISTIANESIMO E CHIESA CATTOLICA

Ultimo Aggiornamento: 15/02/2016 17:26
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25/07/2008 20:10


"La Bibbia. La Sapienza di Israele. Salmi, Giobbe, Proverbi, Cantico dei cantici" vol. III - Oscar Mondadori 2000



All'interno di quello che i cristiani chiamano Antico Testamento esiste un gruppo dì libri senz'altro singolare, noto come letteratura sapienziale: si tratta, per la precisione, dei libri dei Proverbi, di Giobbe, del Qohelet, del Siracide e della Sapienza (disposti secondo l'ordine cronologico tradizionale). Questi due ultimi libri, occorre notare, non fanno parte della Bibbia ebraica né sono accettati come canonici dalle chiese cristiane riformate; fanno però parte della tradizione sapienziale d'Israele e sono stati accolti come canonici dalla chiesa cattolica. Una prima caratteristica che accomuna questi libri è l'essere poco conosciuti: Proverbi, Siracide e Sapienza sono spesso ignorati; Giobbe e Qohelet si crede talora di conoscerli, ma ci sfuggono sempre di mano. Ci addentriamo all'interno di un territorio nuovo, che deve essere esplorato con attenzione; l'esplorazione ci riserverà interessanti sorprese. Ci troviamo di fronte a cinque libri di epoche diverse, composti in un arco di tempo che va dal periodo monarchico (buona parte del libro dei Proverbi) sino alla fine del I secolo a.C. (il libro della Sapienza). Eppure, questi libri hanno molti elementi in comune: il primo e il più evidente è l'argomento, la sapienza. A questo punto, è necessario cercare di comprendere che cosa sia questa "sapienza" di cui stiamo parlando. La letteratura sapienziale non nasce, in realtà, in Israele: le sue radici remote si rinvengono in Egitto a partire dal I millennio a.C. e, poco più tardi, in Mesopotamia. Nell'antico Vicino Oriente, la sapienza è, prima di tutto, l'arte del vivere, che costituisce la virtù imprescindibile per coloro che dovranno ricoprire incarichi di responsabilità all'interno del loro stato; la sapienza è pertanto un cammino di educazione integrale dell'uomo; questa prospettiva pedagogica della sapienza non verrà mai persa, neppure in Israele. La sapienza è, lo ripetiamo, la capacità di mettere a frutto la propria esperienza e imparare così a vivere; è dunque una virtù profondamente umana, anche se non esclude la sfera religiosa. La sapienza mediorientale non è, perciò, quella "conoscenza delle cose divine e umane" che, nella definizione data dai greci, è dote intellettuale che si conquista con lo studio. In Israele la sapienza non è niente di diverso: già nel libro dei Proverbi emerge come il saggio sia colui che sa vivere, l'uomo che ha saputo mettere a frutto la propria esperienza e che ha criticamente riflettuto sulla realtà della sua esistenza quotidiana. Una sapienza laica, dunque? Il termine "laico" è solo parzialmente corretto. Alla base della riflessione del saggio israelita c'è, infatti, una convinzione profonda: la sapienza è possibile solo se l'esperienza del vivere, che ne è alla base, ha un senso; ora, questo senso esiste perché esiste un Dio che ha creato e ordinato il mondo. I saggi sono fondamentalmente ottimisti; a loro riguardo è stato detto che, per Israele, ogni esperienza del mondo è un'esperienza di Dio e ogni esperienza di Dio passa attraverso l'esperienza del mondo. La forma letteraria usata dai saggi è quella del mashal, del "proverbio", che, più precisamente, è un tentativo di scoprire il senso dell'esperienza attraverso la ricerca di costanti e di confronti tra realtà apparentemente lontane; ma tale ricerca, molto umana, è possibile perché esiste un Dio che nel mondo ha posto quel senso che l'uomo va cercando; e questo Dio è colui che il saggio incontra continuamente nella sua ricerca. Qui sta la peculiarità della sapienza d'Israele: il punto di partenza del saggio non è mai il trascendente, ma l'umano e il quotidiano. Lo sguardo del saggio è sempre limitato a ciò che l'uomo può vedere e sperimentare; eppure il saggio resta un uomo di fede, perché l'ordine delle cose che egli cerca di comprendere è garantito da Dio e a lui conduce. Nasce così, curiosamente, una personificazione della sapienza che, dal capitolo 8 del libro dei Proverbi, proseguirà attraverso altri testi sapienziali sino al libro della Sapienza. La sapienza non è più un concetto: è una persona, una donna della quale innamorarsi, che viene però da Dio ed è in relazione con lui. La Signora Sapienza - l'esperienza del mondo! - diviene così il punto di contatto tra Dio e gli uomini o, detto con un linguaggio più filosofico, la mediatrice tra ragione e fede, la via per esprimere allo stesso tempo la lontananza e la presenza di Dio, in termini teologici la sua trascendenza e la sua immanenza.

Leggendo molte parti del libro dei Proverbi o del Siracide si ha quasi l'impressione di una certa neutralità del saggio di fronte ai problemi del mondo, se non, addirittura, di una vena di cinismo. Il mondo è quello che è, e il saggio deve saper cogliere il momento opportuno per agire, consapevole che il ricco e il potente resteranno tali e che l'ingiustizia e il dolore non possono essere completamente eliminati, così come dalla mente degli uomini non può scomparire la stoltezza. In realtà, questa apparente ricerca di una felicità terrena da parte dei saggi d'Israele, accusata da alcuni di pragmatismo e di utilitarismo, va piuttosto chiamata realismo: al saggio, infatti, non interessa cambiare il mondo al modo dei profeti. Al saggio sta a cuore, invece, capire il mondo in cui vive: solo dopo averlo capito potrà pensare a cambiarlo; ma la cosa più importante, per l'uomo che insegue la sapienza, è imparare a viverci. Non dimentichiamo che lo scopo originario della sapienza è "politico": si tratta di formare persone responsabili in grado di comprendere il mondo e di imparare a governarlo; anche in questo sta l'attualità della sapienza biblica. Ma cosa accade quando il mondo diventa incomprensibile? Quando le spiegazioni legate alla fede non bastano più? Già la sapienza antica è consapevole dei propri limiti; l'ottimismo dei saggi è affiancato dalla certezza che il vero limite della sapienza sta proprio nel non credere di essere saggi. Tuttavia la letteratura sapienziale d'Israele conosce una svolta decisiva nel momento in cui il saggio viene a confrontarsi con il grande problema del dolore e della morte, con il quale si erano già misurati i saggi dei popoli vicini. In Egitto o a Babilonia la soluzione oscillava tra la rassegnazione disperata, il fideismo oppure la ribellione alla volontà incomprensibile e capricciosa degli dei. In Israele tutto ciò non era possibile: il saggio sa bene che esiste un unico Dio, il Signore creatore del mondo, buono e provvidente. Che fare, allora, quando l'esperienza del vivere quotidiano contraddice questa fede? Il libro di Giobbe dà il via a questo scontro: il protagonista, Giobbe, non accetta di soffrire senza motivo e contesta con forza i canoni della teologia tradizionale della retribuzione, secondo la quale il giusto sarà sempre felice, mentre il malvagio sarà inesorabilmente punito. L'esperienza della vita dimostra esattamente il contrario. E proprio in nome di quest'esperienza Giobbe chiama in causa Dio stesso; egli, alla fine, interverrà di persona dando sorprendentemente ragione a Giobbe. L'esperienza del dolore porta il saggio a interrogarsi su Dio e a scoprirlo, allo stesso tempo, più misterioso e più presente. La conclusione del libro di Giobbe è in realtà sulla linea della sapienza antica: Dio vuole che l'uomo continui a cercarlo attraverso le esperienze della vita, anche a costo di metterlo in discussione. La vicenda del Qohelet è ancora più radicale: di fronte alla morte tutto appare come un soffio; la vita è una sequenza di assurdità senza fine di cui la morte, appunto, è la tragica conclusione. Eppure, qualcosa rimane e anche in questo caso la tradizione sapienziale d'Israele non viene abbandonata; Dio, infatti, si rende presente all'uomo nelle piccole gioie del vivere quotidiano e, in queste gioie, l'uomo può apprendere l'unico atteggiamento possibile nei confronti di un tale Dio così difficile da capire: il timore, ovvero il rispetto del suo mistero. Di questo mistero di Dio, lontano ma presente, il saggio, dopo Qohelet, sarà sempre più consapevole. Giobbe e Qohelet rivelano il segreto della grandezza e della forza dei saggi d'Israele: la loro appassionata difesa dell'uomo, la loro voglia di cercare e di capire criticamente il valore dell'esperienza li ha condotti, attraverso lo scontro con il muro della sofferenza e della morte, a confrontarsi con quel Dio che, del resto, non aveva mai abbandonato il loro orizzonte. La saggezza come arte del vivere è dunque, per Israele, uno degli aspetti della fede. Questa dimensione religiosa sarà approfondita dai due ultimi testi sapienziali: il Siracide e il libro della Sapienza, che dovranno confrontarsi ormai da vicino con la cultura greca. Il libro del Siracide accosta la sapienza alla Legge mosaica; così facendo, mostra chiaramente come la saggezza, intesa quale arte del vivere nata dall'esperienza, non debba essere posta in contrasto con l'osservanza della Legge, data all'uomo da Dio. Per il Siracide la ricerca sapienziale dell'uomo non contraddice la rivelazione che Dio fa della sua volontà, espressa nella Legge. Nel libro della Sapienza, infine, alle soglie del Nuovo Testamento, la sapienza non è più soltanto l'esperienza della creazione che ogni uomo può fare; la "Signora Sapienza" diviene il segno di una presenza di Dio all'interno del cuore stesso dell'uomo; seguire la sapienza è, ormai, accogliere un dono di Dio e trovare così la vita eterna. L'attenzione dei saggi dunque inizia a spostarsi anche al di là di questa vita: Giobbe e Qohelet hanno così trovato una risposta. In conclusione, la sapienza d'Israele è davvero la risposta che i saggi cercano di dare al confronto tra il dato della loro fede nel Signore Dio d'Israele e l'esperienza concreta della vita quotidiana, spesso contraddittoria e deludente. La sapienza è dunque il tentativo di esprimere criticamente la propria umanità collegandola con la fede in Dio. La sapienza israelita valorizza, in particolare, la riflessione critica dell'uomo sul suo agire di ogni giorno e sul mondo intero quale realmente si presenta ai nostri occhi: il saggio è una sorta di sentinella che riesce a comprendere a fondo la realtà nella quale vive. In tal modo, per il saggio, tutto ciò che è autenticamente umano può servire a far crescere la sapienza, anche ciò che in apparenza potrebbe sembrare estraneo; ecco perché Israele ha scoperto la sapienza in seguito ai contatti con le tradizioni sapienziali dei popoli vicini. Tutto ciò che è autenticamente umano è assunto dal saggio: ecco perché la letteratura sapienziale d'Israele può diventare, ancora oggi, l'ultimo aggancio con la Bibbia da parte di chi non ha fede in Dio, pur credendo profondamente nell'uomo. La sapienza d'Israele, però, vuole rendere i saggi coscienti dei propri limiti e invitarli a considerare come ogni sapienza umana, per restare fedele a se stessa, non può che condurre a Dio.

Una storia a parte è quella rappresentata da due altri libri biblici, che solo in parte possono essere posti in relazione con la letteratura sapienziale. Il primo è il libro dei Salmi, il secondo, il Cantico dei cantici. Il libro dei Salmi è il monumento più celebre della preghiera d'Israele, fatto proprio, da duemila anni, anche da tutte le chiese cristiane e amato, come libro di preghiera, da intere generazioni di credenti. L'introduzione specifica ai Salmi metterà in luce tutta la ricchezza e, allo stesso tempo, la complessità del Salterio; a tale introduzione rimandiamo, limitandoci qui ad alcune note molto generali. Prima di tutto, che cosa sono i Salmi? I 150 Salmi che compongono il libro possono essere definiti, con due sole, semplici parole, come poesia e preghiera. Scritti in forma poetica, i Salmi si presentano come dialogo tra Israele e il suo Dio, Jhwh. Da un lato debbono essere letti come poesie, con tutto ciò che questo comporta, dall'altro non possono essere pienamente compresi se non sintonizzandosi sull'atmosfera di preghiera che essi presuppongono. Il libro dei Salmi ha conosciuto una storia redazionale molto lunga; singoli Salmi potrebbero risalire anche agli inizi dell'epoca monarchica, quella davidico-salomonica per intendersi, ma si tratta di casi rari. La maggior parte dei Salmi ruota invece intorno al periodo immediatamente posteriore all'esilio (V-IV secolo a.C.), cioè intorno all'epoca persiana. Ma soltanto verso la fine del III secolo, o forse anche dopo, già durante l'epoca dei Maccabei (prima metà del II secolo), il Salterio ha assunto la sua forma attuale, acquistando anche una logica interna che ne fa un vero e proprio libro, e non solo una serie di 150 testi sparsi (anche su questo punto si rimanda all'introduzione al libro dei Salmi). Nella Bibbia ebraica il Salterio è collocato all'inizio della sezione detta degli Scritti (Ketubim) e posto così in relazione con i primi due libri sapienziali, i Proverbi e Giobbe. Il libro dei Salmi, tuttavia, non presenta le caratteristiche proprie di questo tipo di letteratura, se non in piccola parte e solo in relazione ad alcuni singoli testi. Per quale motivo, dunque, il libro ha questa collocazione singolare, rimasta anche nel canone greco usualmente seguito dalle Bibbie cattoliche (Giobbe - Salmi - Proverbi)? Il libro dei Salmi è prima di tutto, come si è detto, un libro di preghiere, libro cioè del dialogo tra Dio e l'uomo, o meglio tra Dio e il suo popolo: in questo dialogo, Jhwh, il Dio d'Israele, è prima di tutto oggetto della preghiera che il suo popolo gli rivolge, mentre l'uomo è soggetto di quelle parole che lui stesso intende rivolgere a Dio. Vale la pena di aggiungere, a questo punto, che nella prospettiva di un credente, ebreo o cristiano, se la Bibbia - e quindi anche il libro dei Salmi - è da credersi ispirata da Dio, ciò significa che i Salmi sono anche le preghiere che Dio vuole sentirsi rivolgere dall'uomo; Jhwh, dunque, non è soltanto oggetto, ma anche soggetto della preghiera del Salterio. Ma torniamo al motivo per il quale è possibile accostare i Salmi alla letteratura sapienziale. In questi testi abbiamo visto come la sapienza, pur nascendo e sviluppandosi in un contesto profondamente umano e pur identificandosi in gran parte con l'esperienza critica della realtà, è anche, allo stesso tempo, un dono di Dio: "principio della sapienza è il timore del Signore" è un ritornello che segna l'intera teologia sapienziale (cf. Proverbi 1,7; 9,10; Siracide 1,14). Si tenga presente, comunque, che il "timore del Signore" non va inteso come "paura": è qualcosa che include rispetto, venerazione, più vicino alla nostra idea di "fede". In questa prospettiva, il libro dei Salmi serve come inizio ideale di tutta la riflessione dei saggi, in modo da far comprendere che ogni sapienza umana acquista il suo pieno valore soltanto se riferita alla fonte dalla quale proviene e alla meta verso la quale si dirige: il Signore. Un caso diverso è rappresentato da un piccolo ma celebre libro, gli otto capitoletti che compongono il Cantico dei cantici. Si tratta di un poema con il quale due giovani d'Israele cantano l'un l'altro il loro reciproco amore e celebrano la loro unione. Per molto tempo ha pesato sulla lettura del Cantico la cappa dell'interpretazione allegorica, posta concordemente dalla tradizione rabbinica e da quella patristica. In tal modo il Cantico è divenuto allegoria ora dell'esilio o dell'esodo, ora dell'amore tra Cristo (o Dio) e la chiesa (o la vergine o l'anima o Maria...). Il testo del Cantico è invece molto chiaro e, sorprendentemente, molto profano, tanto da aver scandalizzato con il suo linguaggio esplicito (ma poetico!) non pochi lettori. Solo in 8,6, quasi di passaggio, è nominato Jhwh, il Signore, come sorgente dell'amore dei due ragazzi. Ma proprio questa apparente profanità del Cantico ci permette di accostarlo alla letteratura sapienziale: al centro del poema, infatti, non c'è un interesse diretto verso Dio, ma verso l'uomo; in questo caso, verso l'amore di coppia di due ragazzi. Se è vero, inoltre, che il Cantico, come molti ritengono, è stato composto verso il III secolo a.C., quando cioè Israele aveva iniziato a venire a contatto con la cultura ellenistica, tutto questo acquista un senso anche maggiore. Il Cantico può essere considerato come la risposta di un saggio israelita alla visione greca di un amore ridotto a eros e, in qualche modo, considerato una realtà divina che l'uomo non riesce a governare. L'amore, per il Cantico, è invece una stupenda realtà umana, cantata in tutta la sua profanità e persino fisicità; realtà che, tuttavia, ha un senso perché proviene dal Signore e della sua opera nel mondo diviene simbolo vivente. Il centro d'interesse non è una pretesa allegoria di un amore sovrannaturale, che escluderebbe il senso più ovvio del Cantico: l'amore di Salomone e della "Sulammita" cantato dal poeta è l'amore di ogni coppia umana che dell'amore di Dio diviene un segno, quello che per Paolo (Efesini 5,32) è un "sacramento" (mysterion) dell'amore di Cristo per la sua chiesa.
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