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CRISTIANESIMO E CHIESA CATTOLICA

Ultimo Aggiornamento: 15/02/2016 17:26
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25/07/2008 20:13


"La Bibbia. I Profeti" vol. IV - Oscar Mondadori 2000



La terminologia in uso


Nell’ebraico biblico vi sono diversi modi di indicare un profeta. Vi è il veggente (ro'eh), conoscitore delle cose occulte, che di solito viene consultato e dà i suoi responsi dietro compenso. Vi è il visionario (hozeh), il cui mezzo di conoscenza è appunto la visione. E vi è il profeta (nabi'), termine che poggia sull’idea di "essere chiamato" e che, nell’uso biblico, in parte coincide con i due termini precedenti; esso viene inoltre utilizzato sia in positivo, per indicare i profeti autentici, sia in negativo, per i falsi profeti. La traduzione greca utilizza il termine profetes quasi sempre per tradurre l’ebraico nabi', interpretando quindi la figura del profeta come un uomo che parla "per conto di" un altro (pro-phemì). Il cuore della profezia biblica, comunque, non consiste tanto nel predire gli eventi futuri, quanto nel leggere la storia dal punto di vista di Dio, individuando la logica che presiede al suo svolgimento: "La caratteristica dei profeti non è la precognizione del futuro (al modo di veggenti o indovini), ma la cognizione profonda del presente pathos di Dio" (A.J. Heschel). A ogni modo, nella complessa figura del profeta biblico, tutti questi aspetti si compongono in misure diverse: la chiamata, la visione, la conoscenza di cose nascoste all’ordinario sapere, la consapevolezza di trasmettere il messaggio di un Altro.


La prima fase del profetismo biblico

Si può dire che il profetismo ha accompagnato tutto il cammino storico di Israele fin dalla sua origine nella persona di Abramo, definito "profeta" in Genesi 20,7. Il suo essere profeta va naturalmente circoscritto all’opera di mediazione che egli svolge nei confronti dei suoi discendenti, ai quali trasmette una certa conoscenza della volontà di Dio, insieme alle esigenze di una primitiva alleanza. Il vertice di mediazione tra Dio e il suo popolo viene raggiunto con la comparsa di Mosè, che il Deuteronomio non esita a considerare come il massimo dei profeti, paragonabile solo al Messia venturo (cf. Deuteronomio 18,18). Intorno a Mosè prende anche vita una diffusa esperienza carismatica nel collegio dei settanta anziani (cf. Numeri 11,24-25) dei quali si dice che "profetizzarono" dopo avere ricevuto lo spirito. Il soffio dello spirito suscita profeti anche dopo l’arrivo del popolo nella terra di Canaan e la sua sedentarizzazione. Nella fase anteriore alla nascita della monarchia, l’esperienza profetica è vissuta prevalentemente in ambito comunitario - si tratta infatti di gruppi di profeti e non di personaggi solitari - e ha un carattere estatico (cf. I Samuele 10,5). La musica e la danza sono elementi integranti della profezia estatica, mentre non abbiamo testimonianza di parole o di messaggi intelligibili risalenti a questo periodo. Non siamo in grado di ricostruire lo stile di vita di questi gruppi né le consuetudini della loro convivenza. A questa epoca appartiene la figura di Samuele, che però si distingue sotto diversi aspetti dagli altri profeti a lui coevi, in quanto assume diversi ruoli contemporaneamente: egli è a un tempo nazireo, sacerdote, giudice e veggente. Con lui si ha il trapasso storico dall’età dei giudici a quella dei re. Dopo di lui, i ruoli del sacerdote, del profeta e del condottiero si troveranno solitamente in individui distinti, in seguito alla specializzazione delle funzioni che caratterizzerà il periodo monarchico. La profezia dell’epoca dei re conosce un’esperienza di vita comune e di discepolato, come potrebbe essere quella di Elia ed Eliseo, ma conosce anche uomini che agiscono da soli, come Natan o Gad, che di fatto non sembrano collegati a determinati circoli profetici. Essi pronunciano degli oracoli che hanno dei destinatari, ma è un materiale che non giunge mai a formare un testo scritto, e quindi non supera i confini della tradizione orale.


La profezia diventa letteratura: i profeti scrittori

La profezia scritta compare nell’VIII secolo a.C., in prossimità della perdita dell’indipendenza del Regno del Nord. Il primo dei profeti scrittori è Amos. Egli predica al nord verso la metà dell’VIII secolo a.C. e si muove sulle tematiche della giustizia sociale e della purificazione del culto. Suo contemporaneo è Osea, un profeta che prende le mosse dal fallimento del suo matrimonio per annunciare l’incondizionata fedeltà di Dio come partner dell’alleanza. Pochi decenni dopo fanno la loro comparsa i profeti Michea, che segue perlopiù le stesse linee tematiche di Amos, e Isaia, che vive alla corte del re di Gerusalemme ed è araldo del messianismo davidico. Nel VII secolo a.C. troviamo il profeta Abacuc, anche se è incerta la data esatta del suo ministero. La sua profezia è singolare in quanto si esprime in forma di dialogo; essa si incentra sul mistero del male che funesta la società umana, mentre Dio non interviene, comportandosi come un semplice spettatore. Nel medesimo tempo abbiamo i profeti Sofonia, Geremia e Naum. Questi tre profeti vivono in un momento cruciale della storia di Israele: il re Giosia (640-609) promuove una riforma religiosa nei territori del suo regno, soprattutto a partire dal 622, anno in cui viene rinvenuto nel tempio di Gerusalemme un rotolo della Legge. L’esperienza religiosa di Israele conosce così una fase di grande fioritura, precocemente interrotta nel 597 dall’assedio di Gerusalemme compiuto da Nabucodonosor. La predicazione di questi tre profeti si inserisce nel fermento spirituale delle riforme di Giosia, insistendo sui temi della purificazione del culto, della fedeltà all’alleanza e della lotta contro l’idolatria. In questo contesto Geremia si pone anche come annunciatore dell’invasione babilonese, ormai imminente, attirandosi così l’accusa di nemico della patria. Dal suo punto di vista, quella sciagura nazionale va interpretata come una conseguenza delle ripetute infedeltà dei capi e del popolo. L’esilio segna così la conclusione di un’epoca. Tra i deportati, nei pressi del canale Chebàr, nel 592 la parola di Dio viene rivolta a un giovane sacerdote: Ezechiele. Sarà lui a consolare gli esiliati con oracoli che promettono la rinascita nazionale e l’edificazione di un nuovo tempio. A questo periodo appartiene anche il Deuteroisaia, il cui annuncio ruota intorno alla tematica del ritorno, concepito come un nuovo esodo. Nel 538 viene emanato l’editto di Ciro e gli esiliati sono finalmente liberi di rimpatriare. La ricostruzione del tempio ha luogo sotto Cambise (530-522) e Dario I (522-486). Tra le non piccole difficoltà che i rimpatriati devono affrontare, si levano le voci di due profeti che incoraggiano le fatiche della ricostruzione: Aggeo e Zaccaria. All’incirca nello stesso periodo vive Abdia, il cui annuncio si basa sulla condanna di Edom, simbolo dell’orgoglio umano. A questa epoca risale anche il Tritoisaia, che descrive la nuova gloria di Gerusalemme in termini piuttosto idealizzati. Gli altri profeti del periodo postesilico sono: Malachia, che è attivo nella metà del V secolo a.C., e insiste sulla purificazione del culto e del sacerdozio, come pure sulla condanna dei matrimoni misti; Gioele, probabilmente da collocarsi tra il V e il IV secolo, che prende le mosse da un’invasione di cavallette interpretata come l’annuncio di un’invasione straniera, e infine il secondo Zaccaria, attivo a ridosso dell’epoca ellenistica, che presenta una nuova immagine della figura messianica, caratterizzata dalla mansuetudine, e annuncia al tempo stesso la definitiva vittoria di Dio sui nemici di Israele con la conseguente inaugurazione di un’era di pace. Il periodo ellenistico vede la scomparsa da Israele del fenomeno carismatico, della profezia, la quale, tuttavia, ricomparirà sotto forme mutate nel Nuovo Testamento, a partire dall’annuncio di Giovanni il Battista, che, a rigore di logica, è il vero ultimo profeta dell’Antico Testamento, ponendosi come figura di confine tra le due alleanze.


Cenni sui generi letterari profetici

La tradizione orale, quando diventa testo letterario, tende naturalmente a fissarsi in forme stabili che vanno sotto il nome comune di "generi letterari". Ciò vale per ogni tradizione, e perciò anche per quella profetica. Sarà opportuno quindi gettare uno sguardo, anche se solo panoramico, sui nodi attraverso cui il profetismo ci ha trasmesso i suoi contenuti. La principale e più diffusa forma letteraria utilizzata dai resti profetici è certamente quella dell’oracolo. Di solito un oracolo profetico è facilmente riconoscibile, perché introdotto da formule ricorrenti come "Oracolo di Jhwh", oppure "Così dice Jhwh". Si tratta di formule che intendono sottolineare l’origine extraumana della parola che viene trasmessa in tale maniera. L’oracolo è utilizzato dal profeta in una molteplicità di circostanze. Esso può annunciare un atto salvifico decretato da Dio, come pure l’imminenza di un evento disastroso; può esprimere una condanna tanto verso una nazione quanto verso un individuo. Gli oracoli di salvezza sono spesso accompagnati da formule come "non temere", "io sono con te", "ti aiuto", "sono il tuo Dio", e altre simili (cf. Isaia 41,8-13). Gli oracoli di condanna, invece, sono caratterizzati di solito dalla sequenza "accusa/annuncio del castigo" (cf. Amos 2,6-15), che si presenta talvolta in forme brevi e sintetiche, talaltra in forme lunghe e ampie. Un tipo particolare di oracoli di condanna sono quelli che vanno sotto il nome tecnico di rib, che potremmo tradurre con "controversia". Questa forma letteraria si presenta con cinque elementi strutturali ricorrenti, che la rendono subito identificabile: la convocazione del cielo e della terra in qualità di testimoni del processo tra Dio e il suo popolo; l’interrogatorio degli accusati; la requisitoria che richiama i benefici di Dio lungo la storia di Israele; la dichiarazione di colpevolezza; la condanna (cf. Isaia 1,2-9; Michea 6,1-8). Un altro genere di oracoli di condanna è caratterizzato invece dalla formula introduttiva "Guai!", desunta dalle lamentazioni che si soleva intonare in occasione dei funerali (cf. Isaia 5,8-24; Amos 5,18-20). Vi sono infine, nei libri profetici, dei generi letterari minori, scelti secondo le finalità retoriche perseguite dal profeta stesso o dettate dalla circostanza specifica. In questo ambito possiamo ricordare, per esempio, l’allegoria (Ezechiele 17,1-10), la poesia d’amore (Isaia 5, 1-7), l’elegia (Amos 5,1-3), la preghiera (Isaia 25,1-5), l’esortazione (Geremia 3,12-13).
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