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Loggia delle Libertà

Ultimo Aggiornamento: 24/10/2008 15:23
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24/10/2008 12:06

SE LO DICE IL GATTOSARDO: “NELLA MAGGIORANZA CI SONO EMINENTI FIGURE DELLA MASSONERIA” (TOSCANA COL GREMBIULINO VOTA PDL)
– DI PIETRO È UN FASCISTA
– TREMONTI SENZA SUD - D’ALEMA È PIÙ SVEGLIO DI LETTA…

Fabrizio d'Esposito per "il Riformista"


Francesco Cossiga ha ottant'anni e un piccone come simbolo esistenziale. Il Riformista festeggia oggi il suo sesto compleanno ed è munito di solo cannocchiale. Il gigante e il bambino.

Presidente lei è giornalista?
Sì, sono un pubblicista dell'ordine del Lazio e Molise. Mi consegnò il tesserino quel giornalista di Repubblica che rapirono... come si chiama?

Mastrogiacomo.
Sì, lui. Era il segretario dell'ordine. Io sono diventato giornalista grazie al Riformista.

A dire il vero, presidente, non è facile ricostruire la sua carriera da pubblicista: lei usa pseudonimi a iosa.
Quando ho iniziato con voi e ‘Libero' ho scelto Franco Mauri per il centrodestra e Mauro Franchi per il centrosinistra. Mauri è figlio di un maresciallo dei carabinieri che è riuscito a laurearsi in filosofia. Franchi è un mio allievo universitario.

Poi c'è il teologo.
Sì, Jansenius e anche altri che non ricordo. Io scrivo da quando avevo 15 anni. Il primo articolo lo feci per una rivista della mia città, Sassari. Un saggio sul realismo cinematografico sovietico di Eisenstein. Mi vergognavo di firmare col mio nome, usai Franco Mauri. Lei deve sapere che io mi chiamo Francesco Maurizio Cossiga.

Perché si vergognava?
Ero il più bravo a scuola in tutta Sassari. Non stava bene scrivere articoli.


Il Riformista fa sei anni.
Lei sa dove è nata l'idea di fare un giornale del genere?

No.
È stato qui, in questa casa. Eravamo nel salotto io, Polito e il suo editore di allora, Velardi. E sa pure chi ha inventato l'arancione?

No. Ma l'intervista la sta facendo lei, presidente.
Sono stato io. Suggerii questo colore perché era inusuale, non era mai stato adoperato da nessuno.

Erano i tempi di Cofferati in piazza San Giovanni. Poi è finito a piazza Grande, nel centro di Bologna dove non si perde neanche un bambino.
E adesso è in Liguria a fare il papà. Mi sembra tutto naturale.

Naturale?
Cofferati è diventato un legalitario assoluto dopo essere stato un leader rivoluzionario. E adesso in Genova si troverà bene. I liguri sono stati fedeli sudditi del Regno di Sardegna, hanno il senso dell'ordine.

L'opposizione torna in piazza sabato prossimo. Anche sei anni fa era lo stesso. Sembra il gioco dell'oca.
Questo paese diventerà una democrazia normale quando Berlusconi non sarà più accusato di essere il mandante degli omicidi di Cesare e Lincoln.

Andrà al Quirinale?
No. E poi oggi si è completamente innamorato della politica estera. Ma non deve esagerare.

In che senso?
Dare del tu a Putin e Bush non implica considerarli amici.

Lei ha votato Pd. È ancora il suo partito?
Per rispondere dovrei sapere che cos'è il Pd. Ma non lo so. Doveva essere un partito riformista anche a costo di non vincere le elezioni. Oggi invece ha rispolverato l'antiberlusconismo. Allora aveva ragione Prodi: che senso aveva rompere con la sinistra radicale?

Poi c'è Di Pietro.
Non si capisce che c'entrino i riformisti con lui. Di Pietro è un fascista. Appartiene alla grande famiglia dei fascisti italiani.

Veltroni dura?
Sì. Per un semplice motivo: non sanno chi mettere al posto suo. In verità, un leader ci sarebbe.
francesco cossiga

Scommettiamo che è D'Alema.
Sì è lui. Io ero in aula quando alla Camera Togliatti difese Giolitti da Salvemini. D'Alema è l'unico vero antigiustizialista del centrosinistra. In questo è il vero erede di Togliatti. Uno che ha frequentato le Frattocchie non avrebbe mai comprato una casa a New York.

A proposito di successione: chi dopo Berlusconi?
Nessuno. Non vedo nessuno. L'unico in grado sarebbe Tremonti, ma al sud si scatenerebbe la rivoluzione. Mi faccia però parlare ancora di D'Alema e della sua intelligenza.

Ma non è una notizia.
No, le devo raccontare una cosa.

Prego.
Riguarda le elezioni di quest'anno. Mancava un quarto d'ora alla chiusura delle urne e chiamai Gianni Letta. Era preoccupato. Mi disse: «Vinceremo con uno scarto minimo, tra l'uno e il due per cento. Al Senato sarà dura». Poi telefonai a D'Alema. Aveva già tutto chiaro: «Prenderemo una di quelle legnate che non dimenticheremo».

Dopo sei mesi il governo ha un consenso alle stelle. Almeno così dicono i sondaggi.
Da perfetto uomo di spettacolo, Berlusconi ha messo su una magnifica e grande compagnia di teatro, in cui mi colpisce soprattutto una cosa.

Quale?
Per la prima volta in questo paese ci sono solo due ministri cattolici di peso, Gelmini e Scajola.

A che cosa vuole alludere?
Per esempio, alla mole di voti che il centrodestra ha preso in posti come la Toscana.

Massoneria?
Sì. Nella maggioranza ci sono eminenti figure della massoneria. Ma di più non dico.



[23-10-2008]

_________________


Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.
24/10/2008 15:23

Ci credi che ogni volta che Cossiga parla o scrive qualcosa mi vengono i brividi? questo sa TUTTO e dice le cose a spizzichi e bocconi, quasi come se lanciasse messaggi [SM=x44474]





Prima di tentare una definizione oggettiva e dogmatica riassuntiva del concetto cristiano di fraternità sembra necessario allineare, in primo luogo, molto semplicemente gli uni accanto agli altri i dati storici del Nuovo Testamento e della patristica. Essi forniranno poi i mattoni per la definizione oggettiva del concetto cristiano di fratello, cui miriamo. Se cerchiamo di passare in rassegna il corrispettivo materiale del Nuovo Testamento, vediamo per prima cosa che, almeno nella terminologia, non esiste inizialmente un concetto unitario di fratello. I primi testi adottano semplicemente la terminologia ebraica; ma accanto a ciò comincia a farsi strada, anche se in maniera titubante e un po' faticosa, un linguaggio cristiano sempre più autonomo, che alla fine nei testi più recenti del libro sacro - in Giovanni - appare già come un dato ovvio. Qui ci imbattiamo nel problema del linguaggio cristiano peculiare antico, messo in luce soprattutto da filologi olandesi, e possiamo concretamente osservarlo a proposito del concetto di fratello, che a poco a poco assume un preciso significato specificamente cristiano, significato che sarà in un primo momento ulteriormente sviluppato nella patristica, ma che sarà poi di nuovo demolito relativamente in fretta. Questo processo linguistico è di grande interesse, perché in esso diventa direttamente afferrabile e perspicuo l'evento nascosto, o comunque individuabile solo e sempre con difficoltà, della progressiva trasformazione della comunità cristiana in una chiesa autonoma, l'evento dello sviluppo e del consolidamento del cristianesimo primitivo. Cominciamo anzitutto con il concetto di fratello dello stesso Gesù. Secondo Schelkle Gesù usa il termine fratello principalmente in tre modi. Un primo gruppo di testi riprende semplicemente il linguaggio veterotestamentario e ebraico. Fratello indica qui semplicemente il correligionario ebreo. Tutte le parole di Gesù da interpretare in questo modo ricorrono nel vangelo di Matteo. "Avete inteso che fu detto agli antichi: non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna" (Mt 5,21s.). "Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (5,23s.). "Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?" (7,3; cfr. 7,4.5). "Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano" (18,15s.; cfr. il versetto 21: quante volte perdonare, e il versetto 35: il Padre celeste vi perdonerà, se perdonerete di cuore ai vostri fratelli). Almeno nel caso del grande testo di Mt 18,15s. bisogna ammettere un forte influsso del linguaggio della comunità sulla formulazione del testo matteano, e la stessa cosa va probabilmente ammessa anche nel caso degli altri testi. Ma allora questi testi non ci testimoniano direttamente la terminologia di Gesù, bensì quella della comunità giudeocristiana, quindi uno stato già relativamente consolidato di un linguaggio cristiano specifico. Ciononostante, in questo contesto il termine "fratello" può senza dubbio risalire allo stesso Gesù, come lascerebbe intendere il confronto tra Mt 18,15ss. e Lc 17,3. In tal caso la sviluppata comunità del vangelo di Matteo avrebbe semplicemente percepito nella parola di Gesù, sulla base della sua nuova situazione, qualcosa di diverso da quello che essa originariamente significava, vale a dire la nuova fratellanza comunitaria cristiana al posto dell'antica fratellanza religiosa e etnica ebraica. Questa diversa interpretazione fu possibile sulla base della analogia esistente tra le due entità: nella scia di Gesù si era formata una nuova comunità religiosa, che assomigliava strutturalmente all'antica comunità religiosa ebraica. Comunque sia, in questo primo gruppo di testi provenienti dalle labbra di Gesù non percepiamo ancora il nuovo messaggio fraterno specificamente suo, bensì percepiamo o il linguaggio di una comunità cristiana già abbastanza sviluppata, oppure parole di Gesù, nelle quali egli adotta semplicemente il linguaggio del suo ambiente ebraico. Un secondo gruppo di testi è costituito da quelle parole di Gesù in cui il Signore non adotta il linguaggio ebraico comune, bensì il concetto speciale di fratello dei rabbini, che amavano apostrofare i loro discepoli come "fratelli". Schelkle annovera qui le note parole dette da Gesù nel cenacolo a Pietro: "Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli". Sempre in questa categoria rientrano due affermazioni del Risorto. Una, tramandata da Matteo, è indirizzata alle donne a cui per prime il Risorto era apparso e a cui affida questo compito: "Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno" (Mt 28,10). La seconda, ricorrente in Giovanni, lascia già intravedere prospettive teologiche molto più profonde e supera pertanto già di molto la cornice rabbinica. In essa Gesù affida questo compito alla Maddalena: "Va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20,17b). La fratellanza dei discepoli fra di loro e con Cristo è qui strettamente collegata con la paternità di Dio e possiede di conseguenza una profondità del tutto diversa da quella comportata dal semplice rapporto maestro-discepoli, a cui il concetto rabbinico di fratello pensa. Formalmente con pieno diritto Schelkle annovera qui anche le grandiose parole di Gesù riportate in Mt 23,8, che abbiamo posto come motto all'inizio delle nostre considerazioni: "Non fatevi chiamare "rabbi", perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli". Ma è anche innegabile che, oggettivamente, proprio questa frase significa il superamento del rabbinismo, la rivoluzione cristiana, la minimizzazione di tutte le distinzioni intramondane di fronte all'incontro con il solo realmente grande, con il solo realmente altro, vale a dire con Cristo. Perciò questa frase, che va formalmente ascritta al linguaggio rabbinico, lascia già trasparire, per il suo contenuto, il concetto cristiano indubbiamente nuovo di fratello. Anzi, dobbiamo domandarci se tutti i testi di questo secondo gruppo non costituiscano, in linea generale, già un importante passo in avanti sul terreno propriamente cristiano. Ripetiamolo: sotto il profilo formale si tratta di linguaggio rabbinico, quando il maestro ("rabbi") chiama i discepoli suoi fratelli. Ma per misurare la portata che questo evento doveva necessariamente avere in futuro, è importante valutare l'autocoscienza di questo maestro e la coscienza che egli aveva del significato dei suoi discepoli. Proprio a proposito di quest'ultimo punto i vangeli non ci lasciano all'oscuro: Gesù, limitando la cerchia più ristretta dei suoi al numero di dodici, scelse un numero simbolico, il cui significato è chiaro a ogni lettore della Sacra Scrittura. Egli si pose così in parallelo con Giacobbe e con i suoi dodici figli, che erano diventati i dodici capostipiti del popolo eletto Israele, e diede così ad intendere che qui cominciava a formarsi un nuovo e più reale "Israele". I Dodici, che inizialmente non si chiamano ancora "apostoli", bensì solo hoi dodeka, sono caratterizzati dal loro numero come i capostipiti spirituali di un nuovo popolo spirituale di Dio. Quando Gesù apostrofa questi suoi discepoli come "fratelli", ciò è in partenza qualcosa di diverso dal caso del rabbi che chiama così i suoi discepoli. Si tratta di una decisione in ordine al futuro. In questi Dodici, infatti, è apostrofato il nuovo popolo di Dio, che si delinea in essi come un popolo di fratelli, come una nuova grande fratellanza. Detto in altre parole: agli occhi di Gesù i Dodici non corrispondono a un gruppo di discepoli rabbinici (in modo simile a come neppure Gesù si considerò un rabbi), bensì corrispondono al popolo d'Israele e lo reiterano su un piano più elevato. In tal modo, però, essi reiterano al loro livello anche la fratellanza di Israele, di cui abbiamo parlato all'inizio delle nostre considerazioni. La riflessione sul retroterra oggettivo del linguaggio rabbinico di Gesù ci ha portato molto lontano dal semplice linguaggio. E' perciò tempo di tornare indietro per rilevare anche il terzo gruppo di testi, in cui Gesù adopera il termine fratello. Adesso si tratta finalmente di un linguaggio tipicamente cristiano. Schelkle rinvia qui soprattutto a Mc 3,31-35. Il Signore, a cui viene annunciata la visita di sua madre, dei suoi fratelli e delle sue sorelle, domanda: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". E indicando coloro che gli siedono attorno dice: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre". Il posto della parentela carnale è qui preso e superato in dignità dalla parentela spirituale. Fratelli sono per Gesù coloro che sono uniti a lui nella comune accettazione della volontà di Dio. La comune sottomissione alla volontà di Dio crea quindi l'intimissima parentela di cui qui si tratta. La differenza dall'ideologia illuministica e dalla fratellanza universale della Stoa è evidente: la fratellanza non è concepita in maniera naturalistica, come un fenomeno naturale originario, bensì poggia su una decisione spirituale, sul sì detto alla volontà di Dio. Più influenzato dalla terminologia della comunità è il secondo testo, a cui Schelkle rinvia in questo contesto. Si tratta di Mc 10,29s., ove Gesù promette a chi abbandona fratelli, sorelle, padre, madre, figli e campi per amor suo e per annunciare la buona novella una ricompensa centuplicata già in questo mondo, rispetto alle cose lasciate, anche se tra le persecuzioni. Possiamo considerare come cosa certa che la nuova e più grande parentela, che viene così prospettata al missionario, consiste nei membri delle comunità cristiane da lui servite, quindi nei correligionari. Si tratta oggettivamente della stessa concezione esaminata sopra, solo più influenzata dall'idea di una comunità cristiana già esistente. Ciò ha naturalmente come conseguenza che anche la comunanza di volontà con il Padre è già presentata in maniera più concreta, appunto come accettazione della fede cristiana.
Una concezione del tutto diversa del concetto cristiano di fratello troviamo invece nella grande parabola del giudizio di Mt 25,31-46. La differenza è così grande che non è possibile far rientrare questo testo in uno dei gruppi precedenti. Il giudice del mondo dichiara qui ai radunati davanti al suo tribunale che le opere di misericordia, che furono fatte o non fatte ai bisognosi, furono fatte o rifiutate a lui stesso. E chiama questi bisognosi suoi "fratelli più piccoli" (25,40). Nulla lascia presagire che qui si intendano solo credenti, seguaci del messaggio di Gesù, come avviene in un testo simile, ma è piuttosto chiaro che ci si riferisce indistintamente a tutti i bisognosi. D'altro canto, non sembra neppure lecito concludere dal discorso dei "fratelli più piccoli" che il giudice del mondo indica tutti gli uomini e tra di essi anche i non bisognosi come suoi fratelli. Tutta una serie di testi mostra piuttosto che Cristo si sia rappresentato, in linea del tutto generale, in modo particolare nei poveri e nei piccoli, i quali (indipendentemente dalla loro qualità etica, semplicemente per la loro piccolezza e attraverso l'appello ivi insito rivolto all'amore degli altri) rendono presente il maestro. Invece di parlare dei fratelli più piccoli, tradurremmo perciò in maniera senz'altro più giusta se dicessimo: i miei fratelli, (cioè) i più piccoli. Gli elachistoi sono, in quanto tali, i fratelli del Signore, che si è fatto il più piccolo degli uomini. La fratellanza con Cristo non è perciò qui fondata, come sopra, sulla comunanza, liberamente scelta, di volontà e di convinzione, bensì sulla comunanza della bassezza e del bisogno. Questo testo è perciò tanto importante perché esprime una universalità che quanto fin qui detto non lasciava ancora presagire. Se la comunità dei discepoli fonda un nuovo Israele e, di conseguenza, una nuova comunità fraterna, possiamo per prima cosa presumere che qui si ripeterà anche la fraternità chiusa verso l'esterno di Israele. La domanda: "Chi è il mio prossimo?" riceverebbe allora una risposta sì nuova sotto il profilo del contenuto, ma che somiglierebbe strutturalmente a quella vecchia. Il prossimo non sarebbe adesso più il connazionale o il correligionario aderente a una religione sostanzialmente nazionale, bensì colui che condivide la stessa fede non politica e spirituale in Cristo. Chi ha letto la parabola del giudizio di Mt 25 capisce perché la risposta data da Gesù nella parabola del samaritano di Lc 10,30-37 è diversa. Prossimo è anzitutto il bisognoso che incontro, perché egli è semplicemente come tale, un fratello del maestro che mi diventa sempre presente nei più piccoli tra gli uomini. Viene da domandarsi: in questi testi (Mt 25,31-46 e Lc 10,30-37), che percepiamo spontaneamente come i più sublimi, non troviamo la fratellanza illimitata dell'Illuminismo, perlomeno nelle sue forme più pure quali quelle descritte nel Nathan di Lessing? Vero è che qui si verifica un'ultima cancellazione dei confini, quale quella che con la medesima radicalità troviamo soltanto nello stoicismo e nell'Illuminismo. Tuttavia, nel vangelo esiste un legame cristologico dell'idea di fratellanza, legame che crea un'atmosfera spirituale del tutto diversa rispetto all'ideologia dell'Illuminismo. Inoltre, anche astraendo da questo, rimane l'esistenza degli altri testi prima menzionati, testi che contrappongono al concetto aperto di fratellanza analizzato per ultimo un concetto più o meno chiuso. Perciò i testi sulla fratellanza, derivanti dalle labbra di Gesù, ci congedano con una questione irrisolta. Da un lato, è assodato che tutti i bisognosi sono, al di là di tutti i confini, fratelli di Gesù precisamente a motivo del loro bisogno di aiuto. Dall'altro lato, è innegabile che la futura comunità dei credenti formerà, come tale, una nuova comunità fraterna distinta dai non credenti. Una pretesa limitata si affianca perciò a una universale. Rimane irrisolta la questione del loro reciproco rapporto.


Esaminando adesso lo sviluppo del concetto di fratello nella comunità lasciata da Gesù, ci imbattiamo anzitutto di nuovo nella semplice adozione della formula nazional-religiosa ebraica. Sia Pietro che Stefano apostrofano nei loro discorsi gli ebrei come andres adelphoi (At 2,29.37; 7,2); Paolo è così apostrofato da ebrei (13,15) e li apostrofa nello stesso modo (13,26; 22,1; 22,5; 28,17; cfr. l'interessante testo di Rm 9,3, in cui la trasformazione è già chiara). Accanto a ciò gli Atti degli Apostoli, da cui desumiamo questi testi, conoscono già con ovvietà la reciproca denominazione dei cristiani come fratelli, allorché a parlare è il redattore (14,2; 28,15). Del linguaggio ebraico fanno parte, secondo Schelkle, anche quei testi della lettera di Giacomo che adoperano il termine adelphos (Gc 1,9; 2,15; 4,11). Al riguardo dobbiamo dire che con "fratello" qui si intende senza dubbio il con-cristiano, ma che in effetti la comunità di Giacomo adottò chiaramente, senza soluzione di continuità, questo linguaggio dalla madre chiesa giudaica, e che essa non era chiaramente arrivata a sganciarsi in modo completo dall'ebraismo. Di conseguenza, manca per forza di cose anche una accezione accentuatamente cristiana del concetto di fratello. La trasformazione decisamente cristiana di tale concetto è opera di Paolo, per il quale essa fu il risultato ovvio dell'autonomizzazione del cristianesimo nei confronti dell'ebraismo, autonomizzazione per cui egli si era appassionatamente sempre battuto. Anzi, la neo-coniazione del concetto di fratello è, in ultima analisi, un necessario fenomeno linguistico concomitante di questa lotta per un "discernimento" storico concreto "dell'elemento cristiano". "Fratello" è per Paolo la denominazione ovvia del correligionario cristiano, in cui ci imbattiamo in molti passi; il termine pseudadelphos (falso fratello) è addirittura un neologismo paolino, in cui Paolo esprime le tristi esperienze fatte durante il suo lavoro missionario e traccia i confini della fratellanza cristiana. Invano cerchiamo anche in lui una teoria esplicita della fraternità cristiana, però egli ci fornisce a questo scopo alcune importanti nuove idee. Molto importante è qui soprattutto Rm 8,11-17.29. "Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!". Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo...". "Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli". Affine a questo testo è una affermazione della lettera agli Ebrei: "Colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da uno solo; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli" (2,11). Questi testi ancorano teologicamente in modo rigoroso il concetto cristiano di fratello. Se la fratellanza di Israele poggiava sulla particolare paternità di Dio, che si era stabilita con l'evento dell'elezione, adesso nel campo cristiano l'idea della paternità è approfondita trinitariamente: la paternità di Dio si riferisce in primo luogo a "il" Figlio, a Cristo, e attraverso di lui a noi, dal momento che il suo Spirito è in noi e dice in noi "Padre". La paternità di Dio è quindi una paternità mediata da Cristo nello Spirito: Dio è anzitutto Padre di Cristo, ma noi siamo "in Cristo" e precisamente per mezzo dello Spirito Santo. Vediamo come qui l'idea
ebraica della paternità è trasformata e intensificata cristianamente: la paternità e, con essa, la fratellanza acquistano un significato molto più denso e pieno e rinviano adesso al di là dell'atto di volontà dell'elezione in direzione di una unione "ontica". Accanto all'idea di Dio-padre, quale ancoraggio dall'alto del concetto di fratello, abbiamo constatato l'esistenza, nel pensiero ebraico, della dottrina di Adamo-Noè-Abramo quale suo ancoraggio dal basso. Pure tale dottrina è ripensata in Paolo in senso cristiano, con inevitabili conseguenze, anche questa volta, per il concetto di fratello. Al posto della semplice dottrina di Adamo della Genesi (che del resto era rimasta dottrina di un solo Adamo anche nelle sue versioni gnostiche), Paolo pone in 1 Cor 15 e Rm 5 la sua dottrina dei due Adamo. Nella risurrezione Cristo diventa, attraverso la morte del primo Adamo, un nuovo e secondo Adamo, il capostipite di un'altra e migliore umanità. Perciò grazie a Cristo nasce, con la nuova umanità, anche una nuova fratellanza umana che supera e sostituisce la vecchia. La vecchia fratellanza in Adamo, infatti, è stata agli occhi di Paolo, che guarda retrospettivamente ad essa a partire dal nuovo Adamo Cristo, solo una comunione nel male e quindi una comunione per nulla desiderabile. Soltanto la nuova fratellanza, che è del resto tendenzialmente senza dubbio universale, significa una reale unità salvifica. Come si vede, la dottrina dei due Adamo include oggettivamente una decisa critica del concetto illuministico di umanità, dal momento che riconosce come valida soltanto la seconda umanità, quella dell'"ultimo uomo" (1 Cor 15,45) Cristo. La sua fratellanza non è ancora universale, ma deve e vuole diventarlo. Gli uomini non sono ancora, in linea generale, fratelli in Cristo, ma possono e devono diventarlo. Pertanto mentre la dottrina dei due Adamo ha, come conseguenza in concreto, malgrado la sua tendenza universale, una certa limitazione della fratellanza effettiva (che però non può mai concepirsi, su questa base, come fratellanza chiusa, bensì sempre e solo come fratellanza aperta), nella nuova concezione della dottrina di Abramo prevale l'impressione della soppressione dei confini. Questa dottrina, infatti, aveva affermato fino ad allora la peculiarità esclusiva d'Israele, ma appunto tale peculiarità Paolo fa saltare e dichiara figli reali di Abramo, eliminando il privilegio nazionale, tutti coloro che hanno lo spirito di fede di Abramo, cioè coloro che sono in Cristo Gesù. Naturalmente neppure qui la cancellazione dei confini è illimitata; al posto del confine nazionale subentra il confine spirituale tra fede e mancanza di fede. Importante è osservare che né Paolo né alcun altro autore neotestamentario fondò la fraternità cristiana, nel senso delle religioni misteriche, sulla rinascita. Tale fondazione è senz'altro una visuale possibile in seno al modo neotestamentario complessivo di pensare, e noi la troveremo infatti nei Padri, però il Nuovo Testamento non la formula. Possiamo vedere in ciò un caso, ma per il giudizio sul tipo neotestamentario di religione esso non è insignificante. Esso, infatti, ci dice che né Paolo né alcun'altra parte del Nuovo Testamento concepirono la nascente comunità cristiana in analogia a una comunità misterica. La comunità cristiana avanza piuttosto la pretesa di essere pubblica in una maniera del tutto diversa dalla pretesa che poteva avere una comunità misterica. Essa non si concepisce in analogia alle comunità misteriche più o meno private, bensì in analogia al popolo d'Israele, anzi in analogia all'umanità. Essa pretende di essere il vero Israele e la cellula germinale della nuova umanità. In base a questa rivendicazione va concepita la sua nuova fratellanza. Con quanto abbiamo fin qui detto è già pure chiaro che il vecchio problema dell'idea di fraternità, vale a dire la questione delle due zone del comportamento etico, si pone di nuovo anche nel caso di Paolo. Nonostante tutta la cancellazione dei confini e tutto l'universalismo, il concetto di fratellanza non è affatto universalizzato, come abbiamo visto, in maniera totale. Ogni uomo può diventare cristiano, ma solo chi lo diventa realmente è fratello. Questo fatto si ripercuote, come possiamo vedere, anche nella terminologia etica dell'Apostolo. Verso ogni uomo bisogna avere l'atteggiamento dell'agape (amore), ma solo verso il fratello, verso il con-cristiano, bisogna praticare la philadelphia (amore fraterno). L'uso di questo termine al di là della parentela carnale sembra del resto essere un uso nuovo cristiano specifico. Ma proprio questo fatto mostra molto chiaramente che i correligionari cristiani formano insieme una specie di anello interno nel campo dell'éthos, che essi sono uniti (o devono essere uniti) da uno spirito di amore fraterno che supera anche lo spirito dell'agape universale. Questa concezione si manifesta chiaramente pure in una serie di testi, specialmente in Gal 6,10: "Operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede". Molto affine a questo passo è un'affermazione che ricorre nella prima lettera di Pietro (2,17): "Onorate tutti, ma amate i vostri fratelli". La fratellanza dei cristiani, che nasce inizialmente come eliminazione dei confini della fratellanza ebraica, stabilisce con crescente chiarezza, sull'onda del progressivo consolidamento della giovane chiesa, i suoi propri confini. All'interno della fratellanza questo ha come conseguenza un ampio abbattimento di tutte le barriere che separano. I ceti sociali esistenti non vengono certo aboliti, però la lettera a Filemone (e in modo simile la 1 Tm) ci mostra come essi perdano importanza all'interno: il padrone cristiano deve riconoscere nello schiavo cristiano il suo fratello (Fm 16), e gli schiavi cristiani sono esortati a non disprezzare i loro padroni cristiani perché sono fratelli (1 Tm 6,2). Se confrontiamo questi testi con passi simili di Epitteto, il vantaggio della fratellanza limitata rispetto all'idea generale di umanità, diventa indubbiamente chiaro: essa crea un vincolo reale, mentre quest'ultima rimane un vuoto ideale. Negli scritti giovannei il processo fin qui descritto di un progressivo consolidamento del concetto cristiano di fratello arriva chiaramente a conclusione. In essi il termine "fratello" è definitivamente limitato al correligionario cristiano e, soprattutto, Giovanni richiede solo e sempre l'amore fraterno, l'amore dei cristiani fra di loro, mentre non parla mai dell'amore per gli uomini in generale. Le comunità, che adesso sono definitivamente distinte come qualcosa di diverso e di nuovo da tutti gli altri precedenti raggruppamenti, tendono evidentemente a una certa esclusività, come mostra con molta chiarezza un testo come quello di 3 Gv 5-8: "Carissimo, tu ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché forestieri. Essi hanno reso testimonianza della tua carità davanti alla [nostra] chiesa, e farai bene a provvederli nel viaggio in modo degno di Dio, perché sono partiti per amore del nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani. Noi dobbiamo perciò accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità". Questo testo ricorda alle singole comunità di fratelli la loro reciproca fraternità e le mette in guardia dal chiudersi le une verso le altre, mentre accetta la loro chiusura verso i pagani, chiusura che del resto non era senza dubbio priva di una certa giustificazione storica. In ogni caso qui percepiamo che il concetto cristiano di fratello corre un pericolo. Esso ha sì superato lo stadio critico dell'indeterminatezza, ma in compenso corre il pericolo di consolidarsi troppo e di perdere quella apertura che deve avere proprio in virtù del messaggio di Gesù.


Fino al III secolo il nome di fratello rimane frequente, anzi ovvio nella patristica. La teoria della fraternità cristiana è ulteriormente sviluppata in varie direzioni, e vengono adottati dei materiali provenienti dall'ambiente pagano sopra descritto. Così adesso il battesimo è riconosciuto come il momento preciso in cui un individuo diventa fratello. Esso comunica, nella sua qualità di rinascita, l'accoglimento nella "fraternità" cristiana, come la comunità si denomina. La chiesa è la madre in questa rinascita, in cui Dio è il padre. Il collegamento tra fratellanza e rinascita equivale - in un primo momento forse inconsciamente - a una certa assimilazione alle comunità misteriche, da cui viene poi desunta, quale ulteriore importante elemento formale, la disciplina dell'arcano. Questo comporta naturalmente una ulteriore chiusura della comunità di fratelli verso l'esterno, cosa a cui contribuì per la sua parte senza dubbio anche la situazione di persecuzione, situazione che, viceversa, favorì nella maniera più decisa l'intima unione sino a formare una fraternità veramente viva. Quale punto cardine della fraternità cristiana riconosciamo dappertutto quello che è il nucleo della disciplina cristiana dell'arcano e che, nello stesso tempo, è stato lasciato da Gesù come punto centrale del suo nuovo popolo, vale a dire il pasto eucaristico fraterno. Come la chiesa perseguitata fu e rimase simultaneaente in altissima misura una chiesa missionaria, così assistiamo, parallelamente alla chiusura del concetto di fratello or ora brevemente descritto, a un completo movimento di apertura. Ignazio di Antiochia accentua con forza la fratellanza verso i persecutori: ad imitazione del Signore ingiustamente perseguitato i cristiani devono dimostrare, con la loro bontà, la loro fratellanza proprio verso gli oppressori. Pure Tertulliano distingue espressamente le due forme della fratellanza: l'una poggia sulla comune derivazione e abbraccia tutti gli uomini, l'altra poggia sulla comune conoscenza di Dio e sullo Spirito di santità bevuto insieme. Per quanto riguarda l'idea della fratellanza universale Tertulliano dovrebbe essere stato influenzato dal pensiero stoico. Ma almeno a partire dal III secolo il termine "fratello", usato dai cristiani per denominarsi a vicenda, passa sempre più in secondo piano. Molto istruttivo per comprendere lo sviluppo interno della chiesa è vedere il duplice esito della parola. Il primo lo constatiamo quando Cipriano, parlando al singolare, non adopera più il termine "fratello" per indicare il cristiano in generale, bensì lo adopera sempre e solo per indicare i vescovi e i chierici. Quello a cui qui assistiamo non è più la vecchia fratellanza dei credenti, ma ricorda piuttosto il noto motivo mondano della fraternità reciproca dei prìncipi, che si manifesterà con molta chiarezza in seguito nella gradazione dei titoli che vescovi, presbiteri e laici si daranno a vicenda. L'altro esito è quello di una sua riduzione ascetica: sono le comunità monastiche quelle in cui il termine fratello e sorella continua adesso a vivere, dopo essersi inaridito nella grande chiesa divenuta troppo vasta. Assistiamo perciò a una riduzione del concetto di fratello alla gerarchia e agli asceti, a cui adesso si riduce la vita autenticamente ecclesiale. E' evidente che questa situazione è rimasta in vigore fin nel nostro secolo, con tutte le dannose conseguenze che essa necessariamente comporta. L'analisi storica ci conduce perciò, di per sé, nel punto in cui la riflessione oggettiva sul significato odierno e sulle odierne possibilità del concetto cristiano di fratello deve cominciare.
[Modificato da Nikki72 15/12/2008 15:11]
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