Diva dorata: l'attrice sudafricana Charlize Theron in uno scatto sul Magazine del Corriere
su «a»
«Dai 20 ai 30 anni ho rivoltato
la mia vita. E ora me la godo»
Un presente da produttrice e superstar, un passato da top model: tutte le conquiste di Charlize Theron
Charlize Theron sulla copertina di «A»
Charlize sembra essere abbonata alla Mostra del Cinema di Venezia.
«Forse sono “abbonata” all’Italia - dice, mentre il suo sorriso si accende - È stato il primo Paese in cui mi sono trasferita.
Ero poco più che adolescente, e lasciai il Sudafrica per lavorare a Milano, come modella.
All'epoca non avevo nulla, se non una piccola frase preziosa che mi aveva insegnato mia madre: “Qualsiasi cosa accada, pensa che potrai sopportarlo, superarlo, quindi scegliere ciò che vuoi davvero”».
Charlize, che sugli schermi del Lido sarà presente per la quarta volta - dopo La maledizione dello scorpione di giada di Woody Allen, La valle di Elah di Paul Haggis, The Burning Plan di Guillermo Arriaga - in The Road di John Hillcoat appare quasi sempre nei flashbacks. I veri protagonisti sono Viggo Mortensen e il loro bambino, interpretato da Kodi Smith McPhee, che, in un universo devastato da una apocalisse nucleare, vagano cercando di sopravvivere. Il film è tratto dal romanzo The road di Cormac McCarthy, premio Pulitzer, e autore saccheggiato da Hollywood. Dai suoi libri sono stati tratti Non è un paese per vecchi e Cavalli selvaggi. Charlize nel film presentato a Venezia è spesso un’apparizione, «la memoria di un tempo diverso» dice, nel disperato girovagare di Mortensen con il figlio: il suo personaggio si chiama semplicemente Wife e porta il ricordo, di una vita diversa e irrecuperabile, dell’amore, della bellezza. «Nel film, il pianeta devastato – racconta – è un efficace artificio per porsi degli interrogativi sulla violenza, sulla fragilità della vita e della civiltà di fronte a un’apocalisse. Ci fa riflettere sulla provvisorietà della nostra condizione, e sulla superficialità che l’uomo ha dimostrato nei confronti della natura».
Charlize non ci sta ripetendo una lezione imparata a memoria. Lei non ha mai potuto permettersi il lusso della superficialità. Tutto ciò che ha l’ha conquistato con il lavoro caparbio e intelligente, e non ha mai dilapidato alcunché. Pietra dopo pietra ha costruito le sue sicurezze, picconata dopo picconata ha demolito le sue insicurezze. Nessuna immagine stereotipata è riuscita a ingabbiare il suo spirito. Ha solo 34 anni, ma i suoi successi e la sua esperienza sono quelli di una star matura e di una persona avveduta: ha un Oscar (conquistato per Monster) su uno scaffale della libreria, e un ufficio da produttrice che si affaccia sul leggendario Sunset Boulevard.
«Arrivai a Los Angeles poco più che ventenne. Avevo già vissuto a Milano e a New York, dove era andata a studiare danza. Quasi subito ottenni una parte in Two Days in the Valley. Dovevo guidare l'auto lungo il Sunset. Per me quel viale era leggendario, ma anche spaventoso. Avevo sempre timore di attraversare le sue immense carreggiate. Comunque all’epoca io non sapevo quanto sarei rimasta a Hollywood: oggi è la mia casa e di Los Angeles amo molte cose. E a dire la verità ne detesto molte altre». Già, “a dire la verità”. Charlize della franchezza ha fatto una corazza, una consuetudine e una cifra personale: gli “wow” e i “great” utilizzati come intercalare li lascia a chi non ha talento. Lei è figlia del brusco Sudafrica, e non della plasticosa California. Ed è proprio grazie alla solida reputazione di attrice, produttrice e donna coraggiosa che è riuscita a superare i limiti che lo star system di regola impone alle attrici bionde e glamour, soprattutto se di stupefacente bellezza. E lei, incredibilmente bella, lo è: sia che tu l’incontri al Sundance festival, dove arrivò in giaccone e capelli innevati per presentare il piccolo, forte e sentito film Sleepwalking, sia che tu la riveda grassa e sfatta dall’alcol e da una vita brutale in Monster o elegante e spontanea, vestita dai suoi stilisti preferiti sui tappeti rossi o in New Mexico con il volto dolente e segnato di Sylvia nel film di Arriaga.
Ma anche al suo ruolo da top model Charlize ha dedicato una riflessione: «Ho un’immagine bionda, ma un animo da donna “brunette”: io sono sempre pronta all’avventura». Anche all’avventura di vivere. Charlize, che non vuole subordinare i suoi affetti al successo e al lavoro, che pure ama e in cui si impegna in profondità, dopo il film con Damon, si è presa tempo per se stessa e il suo amatissimo compagno: l’attore e regista di origine irlandese Stuart Towsend. Sono legati da quando si conobbero sul set del film Trapped, nel 2002, e sono appena tornati da una vacanza nelle Isole Vergini, dove sono andati a festeggiare il compleanno dell’attrice. Una stagione impegnativa la prossima... «Il 2010 sarà un anno di grande lavoro. E poi sarò su molti fronti anche per i movimenti animalisti e per il mio Sudafrica. Laggiù la vita per le donne non è mai facile». Così, essenziale e asciutta, liquida il suo dramma. Quando era ancora una ragazzina, Gerda, la madre, uccise suo padre, alcolizzato e violento e poi si prese cura di lei». Sua madre è stata una figura chiave. «Mi ha convinto a inseguire ciò che volevo, a fuggire da un paesino sperduto dell’Africa. In casa non c’era la tv, e nella città più vicina non c’era nemmeno un cinema. Laggiù Hollywood era una leggenda, non un quartiere di Los Angeles. Nonostante questo isolamento mia madre è stata capace di insegnarmi il coraggio. Mi ha regalato uno spirito indipendente. Ha reso possibile il mio, anzi, il nosto, viaggio».
Lei non fa proclami, eppure sembra il manifesto di un nuovo femminismo. «Ho una vita serena e stabile con il mio uomo senza averlo sposato. Per ora non ne vedo il motivo. Viviamo insieme, siamo sempre vicini. Diciamo che noi ci sentiamo sposati, e che lo siamo per le persone che abbiamo vicine, che contano veramente. Ogni tanto mi concedo qualche viaggio con le mie amiche. Ma senza mai sentirmi “single”» conclude ridendo. È andata a Cuba con Jauretsi Saizarbitoria e ne è uscito un bel documentario... «Jauretsi ed io, quando eravamo davvero giovani, abbiamo diviso un appartamento nella zona del Tribeca, prima che io mi trasferissi a Los Angeles e la mia amica diventasse un importante editor di giornali. Io arrivavo da Milano e avevo il sogno di diventare una ballerina. Jaure, che è nata a Miami, sognava di dirigere un giornale. Parlavamo di Cuba, del Sudafrica, di ciò che la vita ci avrebbe riservato. Ho sempre scelto come compagne di vita persone appassionate, capaci di affrontare le sfide. La realtà spesso ci mostra il suo lato oscuro e non dobbiamo spaventarci». Anche il film che ha girato con Viggo Mortensen non descrive un futuro roseo. «Certo, e io ho lavorato sul set con grande slancio. Era un progetto nel quale credevo profondamente. Racconta di una realtà cupa e desolata. Però indica anche la via del possibile riscatto, che può essere percorsa solo con il coraggio e l’amore. Ero una delle poche donne sul set. È un film di uomini, ma parla al cuore di tutti. Io comunque ho un buon rapporto coi maschi di un set. Stimolano il mio lato da “ragazzaccio”. Mi piace farmi una birra con gli amici o mangiare una pizza tutti insieme».
I suoi personaggi parlano di forza, ma anche di vulnerabilità. «Non credo che possano esistere forza e determinazione senza vulnerabilità e viceversa. Per questo ho davvero amato e sentito il personaggio di Burning Plain e sono felice che ora questo bel film esca in America, dopo essere stato tenuto a battesimo da Venezia. E fragile ma forte è anche Wife, la moglie, l’immagine nel ricordo, una presenza del passato in The Road». Quali ricordi conserva del suo primo incontro con l’Italia. E cosa pensa ora, ogni volta che torna, da vincitrice? «In Italia ho molti amici e amiche, e non certo soltanto nel mondo della moda. Nel vostro paese ho trascorso momenti duri e splendide giornate. Ho scoperto Milano, Roma, Positano, antichi villaggi. Ho visto i colori dei paesaggi cambiare con il passare delle ore. Ho assaporato il vostro cibo, ho osservato la creatività straordinaria di artisti, stilisti, donne e uomini. È stata la tappa giusta prima del mio sbarco in Usa. E stato il periodo che ha preceduto il doloroso incidente che mi ha impedito, di diventare una ballerina, come avrei voluto».
Ha qualche rimpianto. Per esempio non aver interpretato il musical Chicago? «Pochi per raccontarli, come cantava una canzone di Frank Sinatra. La danza però la porto ancora dentro. Mi ha forgiata, mi ha insegnato a misurarmi con le mie forze, con la necessità di un ordine. È a lei che devo la disciplina con cui lavoro. Fu duro doverla lasciare per un incidente al ginocchio, ma è stata la mia forza motrice e lo è ancora. Oggi mi tengo ancora in forma con la danza, con lunghe camminate, con gli esercizi Pilates. E amo sempre andare a vedere i balletti». Lei sembra vivere bene a Los Angeles, nella sua grande casa con giardino, con i suoi cani. I tappeti rossi li frequenta solo se necessario. «È vero. Los Angeles è una città di grandi spazi e io sono cresciuta nei grandi spazi.Sono nata in una fattoria. Amo gli animali, tutti, non solo i miei “kids”. Randagi o di razza, non importa, biondi cockers o intelligenti meticci. I bambini, come gli adulti, devono sempre stare con animali: si imparano molte cose, come la vulnerabilità della vita e la dedizione. Le mie serate sono tranquille, mi piace invitare a casa amici, guardare programmi storici e geografici in televisione, pianificare con Stuart viaggi e avventure, andare alla scoperta di antichi villaggi in Brasile o nella sua terra, l’Irlanda». Ripete spesso: “non pianifico, ma sono pronta a molte cose e anche a un figlio, quando arriverà e sarà il benvenuto”. «Verissimo. Non pianifico, ma sono pronta a quello che la vita mi darà e da essa voglio prendere molto e dare altrettanto. Anche alla mia carriera penso in termini di longevità. Non ho mai voluto fermarmi in ruoli standard, mi sono divertita con film come The Italian Job, mi sono molto impegnata per capire a fondo la vita, i sentimenti, gli squarci di dolore e di colpe di altri miei personaggi. Forse uno di quelli che più mi è vicino, è proprio quello del film di Arriaga di cui ho sentito tutto, proprio tutto».
Nel film di Arriaga lei si accende una sigaretta, guarda un uomo nudo nel suo letto e gli dice: “alzati e vai”… «Sylvia lo dice, ma con tutto il dolore e le difese segrete che c’erano dietro alla sua frase. È un personaggio che mi è rimasto dentro, contiene i drammi, i distacchi, le lacerazioni di diverse generazioni ed etnie. Io sono sempre aperta agli “altri”. Sono orgogliosa di essere nata in Sudafrica, di aver guardato negli occhi e stretto la mano a Mandela. Così come mi sento partecipe di questa America guidata da Obama, un uomo al quale va la mia fiducia». C’è dolore anche nel suo sguardo in The Road, quando riappare come un miraggio lontano e perduto a Viggo Mortensen… «Io credo che il cinema possa dare molto oggi, come ieri, alla platea. E in alcuni fotogrammi ci sono immagini, sguardi, personaggi che restano poi con te, che ti spingono a cercare, a meditare, a capire. È questa convinzione che mi motiva nel lavoro, nelle scelte. Però, a volte mi piace anche divertirmi. Ero ragazzina e guardavo Flashdance, Dirty Dancing, e mi divertivo, fantasticavo. Poi ho visto tanti altri film, scoperto altre cose, ma il cinema è stato in fondo una costante della mia vita e la determinazione del mio carattere si è riversata in questo mio mondo di interessi».
A lei piace anche essere una produttrice in un mondo non facile di uomini hollywoodiani... «Non penso al cinema come a un giocattolo, ma come a uno strumento di divertimento, di informazione, di approfondmento. Ho voluto produrre Monster con la stessa determinazione che avevo messo nell’imparare l’inglese senza accento, io che avevo sempre parlato afrikaaner a casa con mia madre e con gli amici. La mia società di produzione è attiva, ne sono fiera, sviluppiamo sceneggiature, e, oltre a produrre, realizzeremo un serial tv, abbiamo i diritti di vari libri in cui credo moltissimo. Il cinema per me è anche produzione, su questo non ho dubbi. Mi ha dato molte soddisfazioni il documentario East of Havana realizzato con una amica, che per anni mi aveva raccontato la scena hip-hop a Cuba. Lei, come me per l’Africa, non aveva mai perso l’interesse per il Paese che era nel suo sangue. Perché puoi anche andare a vivere altrove, cercare speranza nei tuoi nuovi mondi, ma le tue radici sono piantate dove sei nata e le radici fertili ti possono davvero nutrire a lungo. Ho avuto un’infanzia difficile, ma felice in Sudafrica, immersa nella natura a confronto con tante realtà politiche e sociali: questo ha forgiato il mio carattere». Quanto è cambiata Charlize, la vera Charlize, da allora? «Cambi sempre nella vita, ogni giorno, ogni momento, ma nella sostanza, se hai imparato ad accettarti, resti quella che eri e anche quella che la sofferenza ti ha insegnato a diventare. Credo di aver messo gioia e sofferenza al servizio del mio lavoro e dei miei rapporti sentendomi a volte una locomotiva e altre, quando ho bisogno di riposo con Stuart, i miei “kids”, un treno al rallentatore in movimento verso un’altra fermata, un altro capitolo della tua road, strada. Un bellissimo titolo per un film e non soltanto».
Fonte: Corriere della Sera
Giovanna Grassi
01 settembre 2009
Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.