Natalie Merchant - 10,000 Maniacs
Una poetessa folk-rock
di Claudio Fabretti (tratto da OndaRock.it sito che consiglio di visitare per ulteriori info e link in merito)
Con i 10,000 Maniacs ha dato vita a una delle esprienze pop più raffinate degli anni Ottanta. Come cantautrice, è riuscita a costruire storie tanto delicate quanto avvincenti. Con testi complessi, che le sono valsi l'appellativo di "Emily Dickinson" del folk-rock. Storia e segreti di Natalie Merchant
I 10,000 Maniacs sono stati una delle band più gradevoli e raffinate degli anni Ottanta. Il loro peculiare folk-rock, fatto di ballate intimiste, arrangiamenti sobri e melodie delicate, si staccava nettamente dal pop elettronico in voga quegli anni per abbracciare una forma di cantautorato acustico che sarebbe poi venuta alla ribalta nel decennio successivo. Di quel gruppo, nato a Jamestown (New York) all'inizio degli anni '80, Natalie Merchant era la voce e la mente.
All'inizio, l'organico della band (il cui nome nasce da un film dell'orrore degli anni '60) era un sestetto, comprendente - oltre a una diciassettenne Merchant - anche Dennis Drew alle tastiere nonché Robert Buck e John Lombardo alle chitarre. Dopo l'Ep Human Conflict Number Five (1982), in cui era presente il loro primo successo, "Tension", i 10.000 Maniacs pubblicano un anno dopo l'album d'esordio Secrets of The I Ching, in cui si comincia ad avvertire la personalità della Merchant, autrice di ballate colte come "The Latin One", "Grey Victory" e "My Mother The War".
Ma è con il successivo The Wishing Chair (1985) che la band di Jamestown si fa notare presso la critica più attenta, grazie al fascino di ballate intense come "Can't Ignore The Train" o "Scorpio Rising", degne dei migliori Fairport Convention. Con l'abbandono di Lombardo, Merchant assume le redini del gruppo a partire da In My Tribe, l'album del 1987 che regala loro la fama internazionale. Merito di brani semplici, eterei e suggestivi, come "What's the Matter Here" e "Like the Weather", impreziositi dalla voce cristallina e malinconica della Merchant.
Il successivo Blind Man's Zoo (1989) lascia intravedere qualche segno di stanchezza, indugiando un po' troppo su litanie pop e ballate "estatiche", ma sfodera comunque un brano azzeccato come "Trouble Me". Tre anni dopo, i 10,000 Maniacs tornano con Our Time In Eden, che ne rilancia le sorti grazie a episodi freschi e seducenti, come la ballata di "Stockton Gala Days" (nel solco dei Rem) e la sonata atmosferica di "Noah's Dove" e la melodia accattivante di "These Are The Days" (uno dei loro massimi hit). All'apice della creatività, però, Natalie Merchant lascia i 100,000 Maniacs, celebrando l'ultimo atto insieme alla band con il fortunatissimo live Mtv Unplugged (1993), forte anche di un'ottima cover del classico di Bruce Springsteen e Patti Smith "Because The Night".
I 10,000 Maniacs proseguono con il ritrovato Lombardo e la violinista Mary Ramsey, pubblicando Love Among the Ruins (1997), ma la loro parabola creativa è ormai alla fine. Natalie Merchant nel frattempo intraprende la carriera solista e incide Tigerlily (1995), l'album che la lancia nell'olimpo del folk-rock femminile, sulla scia delle più grandi esponenti del genere, da Carole King a Joni Mitchell. Merchant costruisce canzoni colte e piene di consapevolezza sociale, che ne mettono in luce i testi complessi e il canto sempre più suggestivo: un contralto molto "gutturale" e severo, con il quale riesce a raccontare storie dal grande impatto emotivo. Nascono così brani come "San Andreas Fault", "Cowboy Romance", "Wonder" e "River" (la traccia che più riecheggia il repertorio dei Maniacs). Il vertice "intimista" del disco è però rappresentato da "I May Know The Word", in cui la Merchant dà vita a una confessione dolente e profonda, intonata al suono delicato di chitarra e organo.
Austera e sensibile, raffinata e graffiante, Natalie Merchant afferma definitivamente il suo stile con il successivo Ophelia, forte della drammatica title-track (che vede anche la partecipazione di Carmen Consoli), oltre che di ballate solenni come "My Skin", "Frozen Charlotte" e "Life Is Sweet". Rispetto ai 10,000 Maniacs, sono quasi scomparse le sonorità new wave, a vantaggio di un cantautorato acustico che si avvale di un set di strumenti tanto ricco quanto sobrio: violoncello, organo, pianoforte, corno francese, tromba, viola, violino.
I suoi testi provocatori l'hanno fatta paragonare più a personaggi letterari che a musicisti ("l'Emily Dickinson o la Flannery O'Connor del pop"). E Merchant continua anche a impegnarsi in molte battaglie civili per la difesa degli animali, in favore dei senzatetto e contro la violenza domestica. Al centro delle sue storie c'è sempre il racconto di un mondo femminile nascosto, segreto, che a tratti svela la propria vulnerabilità e assieme la propria forza. "La scrittura è essenziale per me - racconta la cantautrice di Jamestwon -. Leggere libri è una fonte inesauribile di idee. I due miei scrittori di riferimento sono Tolstoji e Dostoevskji. Adoro il loro modo di raccontare storie, di mostrare i rapporti tra madri e figli, di delineare personaggi. Li ho studiati per portare un po' del loro talento nelle mie canzoni".
Co-prodotto con T Bone Burnett (Elvis Costello, Wallflowers, Sam Philips e la colonna sonora di "Fratello dove sei"?), Motherland (2001) spazia da ballate folk a ritmi reggae, da aromi arabi a orchestrazioni da camera, da accenni gospel a sprazzi di tango e flamenco. Natalie Merchant getta uno sguardo politico sull'America oggi. "The House is On Fire", la "casa che va a fuoco", ad esempio, è una metafora degli Stati Uniti. Il testo è stato scritto durante le proteste anti-globalizzazione a Seattle e lo scandalo dei voti durante il ballottaggio elettorale in Florida. Ma il testo - letto alla luce degli ultimi eventi - diventa anche la testimonianza della rabbia di una popolazione ferita, che "vuole fuggire dalla realtà, e non si rende conto che l'11 settembre anche l'America ha avuto il suo Armageddon, il giorno del giudizio". "The House is On Fire" è sorretto da un arrangiamento ammaliante di archi e fiati arabeggianti e da un ritmo reggae, con i vocalizzi di Natalie che sembrano quasi evocare Natacha Atlas. La musica di Motherland si scompone in una serie di direzioni musicali, mantenendo sempre in primo piano i suoni "root", ma non disdegnando le contaminazioni "etniche". Come nell'accenno di tango di "The Worst Thing". Non mancano poi gli episodi che riportano alla mente i 10,000 Maniacs ("Tell yourself", "Just can't last"), ma anche incursioni nella musica nera, come "Build a levee". E la Merchant narratrice profonda di storie personali torna a emozionare con la meditazione sofferta di "Not in this life" e l'esausta invocazione finale di "I'm Not Gonna Beg" ("Non ti supplicherò per nessuna cosa/ Non ti supplicherò per il tuo amore"), una ballata austera che ricorda la miglior Joni Mitchell.
Negli anni successivi la Merchant scompare dalle scene, limitandosi a rilasciare solo un disco di cover, The House Carpenter's Daughter (2003).