ODO GELLI FAR FESTA/9
– L’IRRESISTIBILE ASCESA AI VERTICI DELLA LOGGIA
– L’AMBIGUO RUOLO NEL TENTATO GOLPE BORGHESE: PERCHÉ FALLÌ?
“PROBABILMENTE SONO VENUTE A MANCARE CERTE PROMESSE, UN SOSTEGNO”.
QUELLO AMERICANO? “PER ESEMPIO”…
Tratto da “Licio Gelli – Parola di Venerabile”, di Sandro Neri, Aliberti Editore
Torniamo alla P2. Con l’arrivo di Allavena le sue attenzioni si concentrano sugli uomini dei servizi di sicurezza. E infatti nel 1968 entra anche il generale Vito Miceli, capo del Sios dell’esercito. Perché viene avvicinato?
Era un personaggio di grande spessore. Medaglia d’argento nella Campagna d’Etiopia, aveva frequentato la scuola di alta strategia della Nato, passando poi allo Stato maggiore dell’esercito. Nel 1970 sarebbe stato poi nominato capo del Sid, il servizio informazioni difesa, quindi al vertice dei servizi segreti.
Che opinione ha conservato dei servizi segreti italiani? Erano efficienti allora?
Molto. Quando i loro uomini non erano conosciuti, quando i loro capi non rilasciavano interviste, quando le loro foto non finivano sui giornali, erano molto efficienti. I servizi – lo dice la loro stessa denominazione – devono essere segreti. Tanto per fare un esempio, il tenente colonnello Antonio Viezzer, anche lui iscritto alla P2 e oggi scomparso, in casa risultava professore di scuola media. Era un agente segreto ma nemmeno sua moglie sapeva quale fosse il suo vero lavoro. L’ha scoperto solo al momento della sua morte.
Lei, invece, lo sapeva.
Certo. Invitavo lui e la moglie a colazione e in quelle occasioni spesso scherzavo su quest’ambiguità. Ma la moglie, nonostante le mie battute, era convinta che lui fosse un insegnante. Viezzer partecipava alle gite scolastiche e ne approfittava per esaminare certi impianti. Per esempio i ripetitori della Rai. Andava, vedeva, ascoltava. E poi presentava la sua relazione ai servizi.
Il reclutamento dei vertici dei servizi nella loggia, immagino rientrasse nella vocazione atlantista della P2…
Miceli, Maletti, Viezzer, Grassini, tutti i vertici dei servizi di sicurezza di allora hanno fatto parte della P2 perché erano loro stessi a segnalare i propri collaboratori o il proprio vice, che infatti si iscrivevano alla loggia. Era normale. Noi scartavamo solo gli estremisti: non accettavamo né comunisti né fascisti.
Lei, però, che era a capo dell’organizzazione, si è sempre professato fascista.
Vero, ma lasci stare il mio caso. Nella P2 c’era un regolamento e veniva rispettato. Un’associazione senza statuto non ha vita.
Lo statuto definiva la P2 un baluardo dell’anticomunismo e questa immagino fosse la missione che vi prefiggevate al momento di scegliere chi far entrare e chi no. Giusto?
Giustissimo. Alla base del nostro statuto c’erano due principi fondamentali: meritocrazia e gerarchia. Se c’è gerarchia, non c’è democrazia. Chi, in seno alla Commissione parlamentare sulla P2, ha cercato di accusarmi sulla base di testimonianze dei cosiddetti massoni democratici ha dimostrato di non conoscere l’istituzione massonica. Perché in massoneria c’è cieca e assoluta obbedienza. La democrazia era forse da intendere in senso lato. Le logge professano fratellanza, uguaglianza, libertà. E in questo senso la massoneria è democratica. Ma tutto deve avere un fine. Ci vuole una metrica, e da questa non si deve mai uscire. Come sanno bene i poeti, senza conoscere la metrica non si può poetare.
E qual era la metrica della P2?
Operare in silenzio. Lavorare per il Paese, cercando di essere utile alla causa. Fornire contributi ai vari settori: dalla cultura all’economia alla tecnologia. Poi c’era la solidarietà, che prevedeva l’obbligo di aiutare un fratello nei limiti dell’utile e dell’onesto.
Colpisce la sua irresistibile ascesa in seno alla massoneria. Il 15 giugno 1970 il Gran Maestro, nel frattempo divenuto Lino Salvini, le concede la delega a rappresentarlo presso i “fratelli” della loggia. E nel settembre 1971 la nomina segretario organizzativo della P2.
Erano due modi per consegnarmi la gestione, piuttosto gravosa, della loggia e tutelarne le caratteristiche di assoluta riservatezza. Lo richiedevano, ora più che mai, il gran numero di domande di iscrizione presentate da elementi di altissimo livello. Mi piace ricordare che la delega avuta dal Gran Maestro costituisce un documento unico nella storia della massoneria. Serviva a conferirmi tutti i poteri di un Maestro Venerabile, quando io non lo ero ancora diventato.
Il primo a spaventarsi del potere e delle attività segrete della loggia sembra che sia lo stesso Salvini che, meno di un anno dopo la sua elezione al vertice del Grande Oriente, emette un decreto per costituire un’altra loggia coperta, la Propaganda 1 che faceva scadere di rango la numero due. Con l’intento, forse, di condannare all’estinzione il gruppo da lei guidato. Era il primo atto di un lungo braccio di ferro interno alla massoneria?
Salvini era convinto che il Grande Oriente, grazie al cresciuto numero dei suoi iscritti, dovesse arrivare a contrattare con la politica. Il Goi annoverava allora almeno 12.000 persone, che Salvini pensava di poter manovrare e indirizzare politicamente. Socialista, pensava di poter garantire consensi al suo partito. Io ero scettico, e glielo dicevo. In massoneria c’erano, sì, socialisti, ma era pieno di liberali, repubblicani, democristiani. Chi poteva garantire che, nel segreto dell’urna elettorale, avrebbero seguito i suggerimenti del Gran Maestro? La Propaganda 1 fu una sorta di esperimento, della durata molto breve. Un contenitore per personaggi privilegiati o massoni che io non ritenevo idonei per la P2. Salvini pensava inoltre che una seconda loggia coperta fosse un’utile precauzione. Non deve meravigliare: quel tipo di contenitori esistevano (ed esistono tuttora) anche all’interno dei grandi partiti che contavano iscritti che era meglio non comparissero ufficialmente. La P1, però, non ha mai operato; per renderla effettiva serviva una bolla costitutiva e Salvini non l’ha mai emessa. Alla fine decise lui stesso di sciogliere la sua creatura e di passarmi, con una lettera rimasta agli atti, i nominativi degli iscritti perché li accogliessi nella P2.
Il 10 luglio 1971, all’indomani della scoperta del tentato golpe Borghese del 7 dicembre ’70, in una riunione della Giunta esecutiva del Goi, Salvini la accusa di preparare un colpo di stato.
Avvenne nell’ambito di un’accesa discussione, frutto delle voci che avevano iniziato a girare dopo l’avvio delle indagini sui fatti della Notte dell’Immacolata.
Mi furono chiesti chiarimenti, visto che queste voci mi tiravano in ballo, e li fornii. In qualsiasi organizzazione ci sono persone che possono rivelarsi in disaccordo con altre. Il contraddittorio, all’interno di un’associazione, è vita. E poi era ovvio che un gruppo di persone che si distacca attirasse su di sé sospetti e riserve.
L’iniziativa di Borghese, denominata Tora-Tora, in ricordo dell’attacco a sorpresa sferrato dai giapponesi a Pearl Harbor esattamente 29 anni prima, scatta la sera del 7 dicembre 1970, mentre Roma è flagellata dalla pioggia.
L’ex capo della X Mas, dalla sede del Fronte nazionale, guida una colonna di 14 automezzi proveniente da Cittaducale, con a bordo 197 guardie forestali e diretta alla Rai di via Teulada. Un altro gruppo di militanti, composto da elementi di Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale ed Europa Civiltà, muove dalla palestra dell’Associazione paracadutisti d’Italia. L’obiettivo è impadronirsi dei ministeri della Difesa e dell’Interno, della Tv di Stato, delle centrali telefoniche, per poi leggere un proclama agli italiani, non appena preso il potere. Il blitz – per motivi tuttora oscuri – fallisce; Borghese fuggirà all’estero per evitare l’arresto ma nel 1971, tramite un’intervista alla Televisione svizzera, rivendicherà la paternità dell’operazione. Paolo Aleardi, militante di destra e collaboratore di Alfredo De Felice, nonché tra i testimoni chiave dell’inchiesta, parlerà però anche di un suo ruolo nel tentato golpe.
Si è sostenuto che fossi stato io a telefonare, a mezzanotte, per bloccare l’operazione.
Per la precisione, Aleardi dichiara: «Ci fu una sorta di contrordine che De Felice attribuiva a Gelli». Da dove effettuò quella chiamata?
Non feci alcuna telefonata.
La verità è che il gruppo che entrò al Viminale per impossessarsi delle armi, le portò via davvero.
Il commando, penetrato nell’armeria del Ministero, si impossessò di duecento mitra da distribuire alle forze rimaste in attesa.
Quegli uomini non erano lì per fare uno scherzo. Se poi tutto si è bloccato è perché è venuto a mancare qualche appoggio – io almeno credo sia andata così – ma la storia della telefonata è falsa.
È stato però dichiarato che lei avesse caldeggiato l’azione di Borghese, che vedesse il principe nero di buon occhio, almeno all’inizio.
Lo si è detto, forse, perché conoscevo Borghese, e anche da lungo tempo. Era un mio caro amico. L’unico progetto che ho condiviso con lui, però, era quello di un piano di fuga dal carcere, durante i lunghi giorni che trascorremmo in cella, a Roma, subito dopo la guerra.
Che rapporti aveva con Junio Valerio Borghese negli anni Sessanta e Settanta?
Ci vedevamo la sera, qualche volta, seduti sui gradini della chiesa della Santissima Annunziata, a Roma, vicino all’Ambasciata argentina, dove in seguito mi sarebbe stato allestito l’ufficio di consigliere economico del governo di Buenos Aires. Con Borghese, dicevo, ci vedevamo sui gradini della chiesa e parlavamo.
Le parlò della Notte dell’Immacolata?
Se lo fece, non lo presi sul serio. L’impresa non mi sembrava plausibile. E poi Borghese era molto prudente, non era il ribelle che si crede. Stava attento perché sapeva di essere controllato.
Lei nega il suo coinvolgimento diretto nel tentato golpe. Come spiega che anni dopo anche il suo nome sia finito nell’inchiesta?
Ai tempi dell’inchiesta si parlò del ruolo dei forestali. E Gaetano Vita, generale della Forestale, era iscritto alla loggia. Poi per i miei contatti con Umberto Federico D’Amato, capo della Sezione servizi segreti del ministero dell’Interno, e col questore Giovanni Fanelli, segretario amministrativo della P2, anche lui in servizio al Viminale. Per tutto questo hanno attribuito a me un ruolo nell’operazione.
Un ruolo di grande responsabilità: sembra toccasse a lei il compito di arrestare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Un teorema, anche questo. Io con Saragat ho sempre mantenuto buoni rapporti, anche confidenziali. Il presidente era stato anche qui ad Arezzo per una battuta di caccia, nel novembre ’69. Una sera, dopo aver conosciuto i fratelli Lebole, mi chiese anche chi fra i due, secondo me, sarebbe dovuto diventare cavaliere del lavoro. «Mi porti un dossier» disse. E alla fine nominò Mario, sulla base delle indicazioni che io gli avevo fornito. Avevo un accesso privilegiato al Quirinale, è vero; lo testimoniano anche tutti gli inviti che mi venivano recapitati in vista di ricevimenti o visite di personaggi importanti. Ho conosciuto e frequentato, anche in occasioni informali, tutti i familiari del presidente. Se qualcuno avesse dovuto arrestarlo, io non ero certo la persona più idonea. E poi non credo che Saragat fosse inviso agli ambienti conservatori. I governi, allora, duravano poco ma si susseguivano mantenendosi tutti sulla stessa linea. Inoltre Saragat aveva saputo circondarsi di persone capaci e affidabili. Aveva dei difetti, certo, ma come tutti.
Eppure lei riceverà un avviso di garanzia per attentato alla libertà del capo dello Stato…
Ma l’inchiesta nei miei confronti si è fermata lì. Su questa vicenda non sono mai stato neppure interrogato.
Perché, secondo lei, a operazione già scattata i congiurati si fermarono?
Probabilmente qualcosa non ha funzionato. Sono venute a mancare certe promesse, un sostegno.
Per esempio quello americano?
Per esempio.
9 - Continua
Dagospia 29 Novembre 2006