Led Zeppelin live

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ziva
00venerdì 14 settembre 2007 17:23

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GABRIELE FERRARIS


Venti milioni di richieste per ventimila biglietti. Tre sessantenni inglesi - Robert Plant, Jimmy Page e John Paul Jones: il quarto compagno della combriccola, il batterista «Bonzo» Bonham, è assente giustificato in quanto passato a miglior vita nel 1980 - tornano a suonare insieme, rispolverando quel nome, Led Zeppelin, che li rese celebri quarant’anni fa; e si scatena l’inferno. Una caccia al tesoro planetaria per gli orfani del rock, una musica del Ventesimo Secolo che conobbe il suo periodo aureo tra gli Anni Sessanta e gli Ottanta. Orfani che oggi, padri e nonni di famiglia, possono pagare senza batter ciglio 185 euro per assistere all’unico concerto dei Led Zeppelin riuniti dopo decenni; e regalarsi così il sapore dulcamaro della nostalgia.

Era nell’aria da tempo: mancavano soltanto i Led Zeppelin, dopo le reunion di Police, Genesis, Who e infinite altre band che ci fecero impazzire di gioia e di musica quando i cellulari e Internet non erano neppure un’ipotesi. Ed è facile giustificare tanto successo e tanta passione per quelle venerabili cariatidi del rock d’antan con la miseria del pop dell’oggidì.

E con l’ovvio struggimento di chi s’avvia verso l’autunno dell’esistenza e vuole ritrovare i simboli di quei tempi formidabili, come sono sempre formidabili i tempi in cui capita d’avere vent’anni. Ma esiste un’altra spiegazione a tanta bramosia di antiquariato rock. Ed è il rock stesso: che - con buona pace dei gazzettieri che s’ostinano a usare il termine riferendosi agli inutili dischi delle inutili band contemporanee - s’è esaurito giustappunto negli Anni Ottanta. È una musica, direbbe un intellettuale, «storicizzata». Nel senso che è finita lì. Come Mozart, Beethoven o Frescobaldi. Non a caso si parla di «rock classico». Con una differenza: Mozart, Beethoven, Frescobaldi vivono oggi in virtù delle esecuzioni di musicisti contemporanei. Ma il rock non può essere «eseguito» come uno spartito d’opera. Esistono migliaia e migliaia di cover band che rifanno con precisione calligrafica, e spesso con passione interpretativa, i brani dei Led Zeppelin, o di qualsiasi altro gruppo «classico». Ma non sono i Led Zeppelin. Sono tarocchi. Whole lotta love esiste soltanto se la suonano i titolari. I tre sessantenni inglesi. È arte non riproducibile. Non dal vivo. Ci sono i dischi. Oppure gli originali. Nessuno si strapperebbe i capelli per ascoltare Yesterday da altri che i Beatles; neppure dai Wiener Philharmoniker con Riccardo Muti. Conta l’emozione. L’emozione che provammo allora, l’emozione di sapere che quelli che oggi suonano - invecchiati, magari imbolsiti, forse incapaci di riprodurre davvero quei suoni, quel fuoco che ci sedussero - sono però gli originali, gli unici. Finché ci saranno loro. Finché ci saremo noi. E dopo? Fatti vostri, cari giovanottelli: dopo di noi, il diluvio. O un benefico, pietoso oblio. In fondo, siamo qualcosa che non resta: musiche, stagioni, ricordi, illusioni. E il cuore pieno di eroi che non potete neppure immaginare.

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