Tuscia, territorio di antichissime origini
La religione degli Etruschi
Un giorno un contadino di Tarquinia, mentre era intento al lavoro quotidiano nei campi, arando la bianca terra con solchi lunghi e dritti, vide uscire fuori dal sottosuolo un fanciullo...
Secondo la tradizione etrusca
il bimbo era Tagete, il profeta bambino saggio e venerato, le cui parole vennero ascoltate da una folla di persone che, con il tempo, sarebbe aumentata a dismisura.
Tagete insegnò agli Etruschi la difficile disciplina dell'
aruspicina, l'arte di predire il futuro mediante l'osservazione dei visceri, il fegato in particolare, degli animali sacrificati.
L'haruspex, l'aruspice cioè, era un sacerdote molto considerato da questo popolo, tanto importante nel prevedere il futuro che, come "professione", sopravvisse per secoli alla civiltà etrusca stessa dopo essere stata assorbita in quella romana.
I Libri Tagetici erano parte della tradizione sacra del popolo etrusco, celebre nel mondo antico per la sua profonda religiosità:
in essi erano contenute le norme e le indicazioni per comprendere al meglio la volontà ed i segni del divino, e comportarsi di conseguenza con azioni quali
sacrifici, libagioni, riti diversi.
La letteratura religiosa etrusca, ed in particolare questi libri, ebbero un grande successo nella Roma antica, apprezzati soprattutto dal II e III secolo d.C. quando cioè si diffusero delle dottrine esoteriche analoghe e contrapposte al nascente Cristianesimo.
Altro testo celebre erano i Libri Vegonici, dettati dalle indicazioni di
Vegoia, la ninfa che dettava le norme per la perimetrazione dei campi, delle proprietà fondiarie, del territorio delle città.
Un breve passo ci è stato tramandato da
Tarquizio, scrittore del I secolo a.C. che aveva avuto la possibilità di leggerne alcuni passi nel tempio di Apollo a Roma, ove era conservata una copia assieme ad altri testi "pagani" che sarebbero poi stati bruciati da Stilicone:
questo brano riportava
la celebre profezia della durata del popolo, della nazione etrusca, di nove secoli.
Anche a non voler credere alle profezie effettivamente la durata del periodo di indipendenza politica degli Etruschi, se consideriamo l'arco di tempo che va dalla fase villanoviana all'inizio del I secolo a.C., quando cioé agli Etruschi viene concessa la cittadinanza romana, è proprio di nove secoli.
Il rapporto degli Etruschi con le divinità era assai diverso di quello che avevano gli altri popoli del mondo antico:
se per i Greci le divinità vivevano in un loro mondo, spesso noncuranti del mondo degli uomini ed avvezzi alle stesse passioni e debolezze di questi,
per i Romani il rapporto si risolveva con norme di carattere giuridico.
I Romani avevano una rigida serie di norme che si concretizzavano spesso in una sorta di mero scambio:
"se ricevo una grazia particolare dedico questo ex-voto alla divinità", sembravano dire alcuni di essi.
Gli Etruschi avevano invece un rapporto di sottomissione con gli dei:
essi vivevano nel cielo o nel sottosuolo ed era necessario capire i loro voleri dall'osservazione degli ostenta, dei segni che, tramite i sacerdoti aruspici ed auguri, davano indicazioni sul comportamento da tenersi.
Questo senso di profonda religiosità, quasi di inferiorità nei confronti di tutto ciò che rientrava nella sfera del divino, ci comunica quasi una sensazione di oppressione.
Ogni azione dell'uomo era "controllata" da divinità preposte, similmente alla religiosità popolare degli altri popoli dell'Italia antica, in particolare dei Latini.
Dunque tutte le pratiche religiose, i riti, i sacrifici, la
divisione dello spazio in "case", in ognuna delle quali vi era una particolare divinità,
erano talmente importanti nella vita e nella cultura di questo popolo da farlo ammirare per dedizione e devozione dagli altri popoli;
gli scrittori cristiani invece finirono col deprecare la religione etrusca, come Arnobio (IV secolo d.C.) che avrebbe accusato
l'Etruria stessa di essere la
"patria di tutte le superstizioni".
Nella letteratura religiosa etrusca, di cui ci è pervenuto assai poco, oltre alle indicazioni della pratica divinatoria, erano contenute norme e pratiche relative anche alla vita civile, politica e militare di questo popolo.
Molte erano le divinità del pantheon etrusco, alcune delle quali introdotte ex novo con la profonda ellenizzazione della cultura, altre identificate con divinità omologhe, altre precedenti l'arrivo degli dei greci.
Per conoscerne
i nomi e la dislocazione nel cosmo, ci viene in aiuto un modello in bronzo di fegato di pecora, il celebre
"fegato di Piacenza" (II-I secolo a.C.), su cui sono iscritti, in apposite caselle, i nomi delle divinità
del cielo come
Tinia (Giove) ed
Uni (Giunone),
solari come
Catha,
marine come
Nethuns (Nettuno),
terrestri come
Fufluns e Selvans,
ed infernali come
Cel, Culsu, Vetis, Cilens, Vanth, Charun (Caronte).
Ricordiamo inoltre, tra le divinità mutuate dalla cultura ellenica,
Menerva (Minerva), Aplu (Apollo), Artumes (Artemide), Maris (Marte), Turms (Mercurio), Hercle (Ercole).
Divinità importante era
Voltumna, onorata presso un santuario situato ad Orvieto, l'antica Volsinii distrutta dai Romani nel 264 a.C.,
divenuto santuario federale degli Etruschi e, di conseguenza, anche il dio divenne divinità principale.
E' stata proposta l'identificazione con
Vortumnus, dio venerato a Roma sull'Aventino dopo la distruzione di Volsinii. Forse il nome non è riferito ad un dio in particolare, ma si potrebbe trattare di un appellativo di Tinia, di Giove cioè, la divinità principale.
Tra
i templi principali di cui restano i resti visibili nella provincia di Viterbo segnaliamo quello di
Artemide a Tarquinia, nell'area della città antica e di cui esiste un plastico all'interno del Museo Archeologico della città stessa: vi sono conservati anche i celeberrimi cavalli alati in terracotta dipinta.
Di fondamentale importanza per lo studio dell'architettura templare sono poi i diversi
templi dell'antica Falerii, oggi visibili a Civita Castellana ed i cui reperti sono nel Museo Archeologico dell'Agro Falisco nella cittadina stessa.
Numerose piccole aree sacre sono sparse un po' in tutta la Tuscia:
ricordiamo il grande altare cilindrico in pietra vulcanica di Grotta Porcina a
Vetralla, ed anche tutte le terrazze delle tombe a dado e semidado delle necropoli rupestri, in cui i sacerdoti etruschi svolgevano
riti e cerimonie in onore delle divinità dell'oltretomba ed in memoria dei defunti.
Per conoscere le modalità con cui si svolgevano alcuni di questi riti ci vengono in aiuto le fonti epigrafiche e, in particolare due documenti di eccezionale valore:
la tegola di Capua, un grosso tegolone in terracotta con le norme per le offerte agli dei, e
la mummia di Zagabria, un libro costituito da rotoli di lino iscritti, riutilizzati in Egitto nel I secolo a.C. per avvolgere il corpo di un defunto.
Quest'ultima fu portata da un mercante ottocentesco in Occidente, precisamente nella cittadina croata, attorno alla metà del secolo scorso, ma solo alla fine dello stesso ne fu riconosciuta l'importanza.
Il libro giunse in Egitto al seguito di un gruppo di etruschi, forse dell'Etruria settentrionale ormai romanizzata, recatisi in Africa, anch'essa territorio coloniale romano, in cerca di fortuna.
Sulle bende di lino è iscritto, in inchiostro nero, una sorta di calendario di festività religiose ed offerte e preghiere da dedicare di volta in volta alla divinità del giorno. Non tutto il testo è stato compreso.
Un popolo dunque, quello etrusco, che ha stupito i contemporanei per la meticolosità, il rispetto, la precisione della religiosità, e che continua a stupire noi per la
complessità del mondo del sacro, e forse anche per la forte spiritualità che emanano gli antichi sepolcri, i luoghi della vita, i suoli sacri dei nostri progenitori.
Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.