Bart D. Ehrman "I cristianesimi perduti. Apocrifi, sette ed eretici nella battaglia per le Sacre Scritture" – Carocci editore 2005
L’arsenale dei conflitti: trattati polemici e denigrazioni personali
Le dispute dottrinali del primo Cristianesimo non vennero combattute con picconi e spade, ma con le parole. La parola parlata aveva un’importanza vitale, perché come si può immaginare le conversazioni quotidiane, l’insegnamento catechistico, le conversazioni settimanali, i sermoni, le discussioni private e i dibattiti pubblici influenzavano l’opinione in un senso o nell’altro. Purtroppo solo raramente possiamo sapere che cosa venne davvero detto nell’ardore della battaglia, a meno che qualcuno non si sia preso la briga di registrarlo all’epoca; ma anche la parola scritta era importante, perché due avversari teologici potevano incrociare le spade anche solo metaforicamente, attaccando le idee dell’altro, gettando ombre sulla personalità del nemico, richiamandosi alle autorità scritte precedenti a sostegno delle proprie tesi, falsificando documenti a nome di quelle autorità quando era necessario o utile, raccogliendo libri sacri nei canoni e conferendo loro uno status divino. Da molto tempo conosciamo nel dettaglio gli attacchi scritti sferrati dai proto-ortodossi contro i cristiani di orientamento diverso: le opere di eresiologi come Ireneo e Tertulliano, per esempio, sono sempre state disponibili, anche se quelle di altri autori del II secolo, come Egesippo e Giustino sono andate in gran parte perdute. Ma fino a un’epoca recente non conoscevamo altrettanto bene gli attacchi degli "eretici" nei confronti dei proto-ortodossi e disponevamo solo di qualche indizio frammentario su come dovessero svolgersi i dibattiti veri. Dato che la letteratura contraria è andata quasi interamente distrutta o perduta, le opere polemiche di quel periodo ci fanno sentire solo la voce di una parte, tanto che molti lettori hanno accettato tranquillamente l’idea che gli "eretici" non fossero in grado di difendersi e che alla fine furono più o meno obbligati a sottomettersi a una fustigazione letteraria dalla quale non furono mai in grado di risollevarsi. Ma un’analisi più ravvicinata dei resti superstiti, alcuni dei quali scoperti solo di recente, suggerisce un’idea più realistica: quelli che pensavano di avere ragione (cioè tutti, come in ogni disputa) seppero lottare per le loro tesi, e la guerra di parole venne condotta ovunque all’ultimo sangue. Il fatto che solo una fazione sia risultata vincitrice non deve farci pensare che la sua vittoria sia stata scontata fin dall’inizio o che sia stato facile sconfiggere gli avversari. Anche se il nome, la circonferenza toracica, la forza e l’agilità non vengono trasmesse ai posteri, può darsi che ai suoi tempi lo sconfitto di un incontro di pesi massimi sia stato un vero colosso.
Gli Ebioniti contro il proto-ortodosso Paolo: la letteratura pseudo-clementina
Una delle prove che nei primi secoli del Cristianesimo si svolse una vigorosa battaglia letteraria anziché un massacro univoco ci giunge da una serie di opere note già da molti anni, ma di cui solo relativamente di recente si è capito il carattere di polemica contro il Cristianesimo proto-ortodosso. Abbiamo già visto che i cristiani del II e III secolo amavano narrare storie sugli apostoli, cioè episodi delle loro avventure missionarie dopo l’ascesa di Gesù poi redatte in testi apocrifi come gli Atti di Giovanni e gli Atti di Pietro. Talvolta circolavano anche storie sui compagni degli apostoli, come abbiamo visto a proposito degli Atti di Tecla; tra queste troviamo anche storie leggendarie su Clemente, il vescovo di Roma e presunto autore della Prima lettera di Clemente. Ci restano due raccolte di questo tipo, oltre a varie altre opere. La prima è una serie di venti Omelie attribuite direttamente a Clemente, in cui il vescovo parla suoi viaggi, delle sue avventure e soprattutto dei suoi lunghi contatti con l’apostolo Pietro, che lo aveva convertito alla fede in Cristo La seconda è una storia in dieci libri dei viaggi di Clemente, la cui cornice è costituita dalla ricerca dei suoi parenti perduti; la ricerca ha un lieto fine e dà origine al titolo della raccolta, Recognitiones ("riconoscimenti"). La relazione tra le Omelie e i Riconoscimenti è molto complessa ed è una delle questioni più spinose di cui si debbano occupare gli studiosi di letteratura cristiana antica. Entrambe le opere sembrano risalire a un documento più antico che venne modificato e redatto in varie versioni nel corso del tempo; in ogni caso, alcune di queste opere su Clemente abbracciano idee giudaico-cristiane, e nel farlo talvolta criticano alquanto esplicitamente altre forme di Cristianesimo, tra cui la proto-ortodossia. Queste opere sono chiamate nel loro complesso letteratura pseudo-clementina. La linea narrativa di base di questi libri è la ricerca da parte di Clemente della sua famiglia e della verità. Clemente è membro di una famiglia romana aristocratica; quando è ancora giovane, sua madre ha una misteriosa visione che la spinge a lasciare la città portando con sé i suoi due gemelli, i fratelli maggiori di Clemente; qualche tempo dopo suo padre parte alla loro ricerca e anche lui non torna più. Intanto Clemente diventa grande e si dedica a una ricerca religiosa che lo porta ad attraversare varie forme di filosofia pagana, nessuna delle quali soddisfa la sua curiosità intellettuale, ma poi sente dire che il Figlio di Dio è comparso in Giudea e parte per trovarlo. Ma è troppo tardi: quando arriva a destinazione, Gesù è già stato giustiziato. Clemente incontra l’apostolo Pietro, si converte alla fede in Cristo e accompagna l'apostolo nei suoi viaggi missionari. Questi viaggi sono pieni di avventure durante le quali si verificano molti confronti tra Pietro e Simone Mago, che Pietro sconfigge grazie al miracoloso potere di Dio. Alla fine Clemente si riunisce con tutta la sua famiglia e così torna l’armonia: oltre ai suoi genitori e ai suoi fratelli, ha trovato anche la vera fede. L’eretico Simone Mago occupa un posto importante in questa storia, ma almeno in alcune occasioni sembra che l’avversario di Pietro non siail mago di cui sappiamo dagli Atti degli Apostoli e dalle prime opere eresiologiche. Qui Simone sembra piuttosto una maschera nientemeno che dell’apostolo Paolo, e da certi punti di vista il nemico attaccato in quest’opera sembra proprio lui. Il Vangelo di Pietro, per cui la validità della Legge di Mosè continua a essere valida per tutti (cristiani, ebrei e gentili), viene contrapposto alle tesi eretiche di Paolo, visto come predicatore di una versione del messaggio cristiano che risulta letteralmente priva di legge. La controversia tra Pietro e Paolo prefigurata in queste pagine romanzesche è basata su un vero conflitto storico tra i due leggibile anche nelle opere di Paolo. In particolare nella Lettera ai Galati (2.11-14), Paolo parla di uno scontro pubblico con Pietro nella città di Antiochia su una questione importante: i gentili che sono diventati cristiani devono osservare la Legge ebraica? Nel riferire il confronto, Paolo afferma in termini nettissimi la sua idea per cui i gentili non sarebbero tenuti a farlo in nessun caso. Come gli studiosi hanno notato da tempo, Paolo però non parla del risultato dello scontro, il che ha fatto spesso pensare che ne sia uscito sconfitto, almeno agli occhi dei presenti. La letteratura pseudo-clementina riprende questo dibattito per mostrare come Pietro sostenesse la continua vitalità della Legge contro Paolo, malamente mascherato da Simone Mago. I libri sono preceduti da una prefazione che sarebbe una lettera spedita da Pietro a Giacomo, fratello di Gesù e capo della chiesa di Gerusalemme (una delle molte lettere false a nome di Pietro), in cui l’apostolo parla del suo "nemico" che insegna ai gentili a non obbedire alla Legge e gli contrappone la sua autorevole tesi:
Alcuni tra i gentili hanno rifiutato la mia predicazione legale e hanno preferito una dottrina illegale e assurda dell’uomo che è mio nemico. Anzi, alcuni hanno anche cercato, pur essendo io ancora in vita, di distorcere le mie parole con interpretazioni di ogni sorta, come se io avessi insegnato la dissoluzione della Legge. [...] Dio ce ne scampi! Una cosa simile significherebbe agire in modo contrario alla Legge di Dio che venne data a Mosè e confermata nella Sua eterna continuità dal nostro Signore. Egli infatti ha detto: "finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge" (Lettera di Pietro a Giacomo, 2.3-5).
La Legge di Mosè va dunque sempre osservata da ebrei e gentili. Non ci vuole molto a riconoscere chi sia qui il "nemico" di Pietro, chi si oppone alle sue tesi "tra i gentili": l’apostolo Paolo si mostrava sempre come apostolo dei gentili e affermava che non dovevano osservare la Legge (ad esempio Lettera ai Galati 2.15, 5.2-5). Anche riguardo al responsabile dell'affermazione che Pietro stesso esortasse alla "dissoluzione della Legge", non c’è bisogno di cercare lontano: il libro neotestamentario degli Atti, attribuito a Luca, il compagno di viaggio di Paolo, ritrae Pietro proprio in questa posizione (10-11.15). Anche se alla fine Paolo e gli Atti entrarono a far parte del canone ortodosso, per questo autore entrambi sono eretici. Dunque la letteratura pseudo-clementina sembra inglobare una polemica ebionitica contro le idee poi incluse nel Cristianesimo proto-ortodosso. Gli attacchi a Paolo e le sue posizioni sono ancora più chiari in alcuni passi delle Omelie. In particolare in una sezione si afferma che Pietro sviluppò l’idea che nel piano di Dio per gli uomini il peggiore compare sempre prima del migliore. E così Adamo ebbe due figli, l’omicida Caino e il pio Abele, due ne ebbe anche Abramo, il reietto Ismaele e il prescelto Isacco, e da Isacco nacquero l’empio Esaù e il divino Giacobbe. Applicando il principio a epoche più recenti, comparvero due uomini nel campo della missione, Simone (Paolo) e Pietro, che ovviamente fu il più grande dei due, "che comparve dopo l’altro e venne su di lui come la luce sulle tenebre, come la conoscenza sopra l’ignoranza, come la cura sopra la malattia" (Omelie 2.17). Un ultimo esempio di questa polemica proviene da una scena immaginaria in cui Pietro attacca un malcelato Paolo per aver pensato che il suo breve incontro visionario con Cristo lo autorizzi a proporre un messaggio evangelico in contrasto con quello di chi ha passato molto tempo con Gesù mentre era ancora vivo e operante tra gli uomini.
E se il nostro Gesù è comparso anche a te e lo hai conosciuto in una visione e ti ha incontrato come chi è irato con un nemico [si ricordi che Paolo ebbe la sua visione mentre ancora perseguitava i cristiani, Atti 9], comunque egli ha parlato solo tramite visioni e sogni o rivelazioni esterne. Ma si può diventare abili alla predicazione grazie a una visione? E se pensi che sia possibile, perché il nostro maestro avrebbe passato un anno intero con noi che eravamo svegli? Come possiamo crederti, anche se lui ti è apparso? [...] Ma se sei stato visitato da lui per un’ora e sei stato istruito da lui e così sei diventato un apostolo, allora proclama almeno le sue parole, esponi ciò che lui ha insegnato, sii amico dei suoi apostoli e non lottare con me, che sono suo confidente; tu infatti ti sei contrapposto in modo ostile a me, che sono una roccia salda, la pietra angolare della chiesa (Omelie 17.19).
Pietro, non Paolo è la vera autorità per capire il messaggio di Gesù. Paolo ha corrotto la vera fede basandosi su una breve visione, che sicuramente ha inventato. Dunque Paolo è il nemico degli apostoli, non il loro capo: è al di fuori della fede, un eretico da condannare, non un apostolo da seguire. E così la letteratura pseudo-clementina, soprattutto nella forma più antica, poi modificata nel corso del tempo, sembra mostrare una forma di polemica ebionita contro il Cristianesimo paolino e contro i proto— ortodossi del II e III secolo che continuano a seguire Paolo rifiutando la Legge di Mosè. Per questi cristiani ebioniti la Legge è stata data da Dio, e al contrario di quanto affermano Paolo e i suoi successori proto-ortodossi, continua a essere necessaria per la salvezza in Cristo.
Attacchi gnostici alla proto-ortodossia
Di tutta la letteratura polemica che venne prodotta contro i proto-ortodossi dai loro avversari, quella che conosciamo meglio è uella gnostica. Questo grazie alla scoperta della biblioteca d Nag Hammadi, che contiene diversi trattati che attaccano le posizioni proto-ortodosse; prima del ritrovamento sapevamo che la lotta era stata dura, ma conoscevamo solo i prolissi attacchi di Ireneo, Tertulliano, Ippolito e dei loro successori, pagine su pagine di aspra polemica con l’intento di distruggere i nemici gnostici e cancellare le loro idee. Esamineremo questa tattica proto-ortodossa tra poco; per ora vediamo che cosa aveva da dire l’altra sponda. La polemica gnostica è alquanto diversa da quello che ci si potrebbe aspettare. Gli gnostici, almeno quelli che conosciamo meglio, non affermavano che le idee proto-ortodosse fossero pienamente sbagliate, ma che fossero inadeguate e superficiali, anzi ridicolmente inadeguate e superficiali. Gli gnostici, cioè, non negavano la validità delle affermazioni dottrinarie proto-ortodosse, ma le reinterpretavano in un modo che ritenevano più spirituale e profondo. Gli gnostici potevano professare credenze proto-ortodosse, leggere Scritture proto-ortodosse e accettare sacramenti proto-ortodossi, ma intendevano tutte queste cose in modo molto diverso, basandosi sulla loro capacità di guardarvi più a fondo garantita dalla loro superiore conoscenza (gnosis) della verità divina. E così, come temevano anche gli eresiologi proto-ortodossi, gli gnostici non erano nemici esterni ma interni, che pregavano nelle chiese proto-ortodosse ma si consideravano un'élite spirituale, una cerchia interna che riconosceva il significato spirituale più profondo di dottrine, Scritture e rituali che i proto-ortodossi prendevano solo per il loro valore di facciata. Tra gli attacchi gnostici alla superficialità delle idee proto-ortodosse, nessuno è più spietato dell'Apocalisse copta di Pietro scoperta a Nag Hammadi, che non va confusa con la proto-ortodossa Apocalisse di Pietro, in cui Pietro compie una visita guidata in paradiso e all’inferno. L’"apocalisse" o "rivelazione" di Nag Hammadi ritrae la vera natura di Cristo e biasima l’ignoranza dei semplici (i proto-ortodossi) che non la riconoscono. Il libro inizia con gli insegnamenti del "Salvatore", che informa Pietro che ci sono molti falsi maestri che sono "ciechi e sordi", bestemmiano la verità e insegnano cose malvagie; Pietro, invece, riceverà la conoscenza segreta (Apocalisse di Pietro 73). Gesù procede dicendo al discepolo che i suoi avversari sono "privi di percezione", perché "si attaccano al nome di un uomo morto": in altre parole, pensano che sia la morte di Gesù a essere importante per la salvezza. Questa, ovviamente, era stata un’idea proto—ortodossa fin dall’inizio; ma per questo autore quelli che pensano una cosa simile "bestemmiano la verità e proclamano un insegnamento malvagio" (74). Insomma, quelli che professano la fede in un morto si aggrappano alla morte, non alla vita immortale. Queste anime sono morte e sono state create per la morte.
Non tutte le anime vengono dalla verità o dall'immortalità. Ogni anima di questa èra infatti ha la sua morte assegnata; di conseguenza è sempre una schiava. Viene creata per i suoi desideri e per la loro distruzione eterna, per la quale e nella quale esistono. Esse [le anime] amano le creature materiali che sono venute alla luce con loro. Ma le anime immortali non sono come queste, o Pietro. Però, finché non giungerà l’ora, essa [l'anima immortale] sembrerà proprio un’anima mortale (75).
Nel mondo gli gnostici possono sembrare uguali agli altri uomini, ma in realtà sono diversi: non si aggrappano alle cose materiali e non vivono seguendo i loro desideri. Le loro anime sono immortali, anche se pochi lo sanno: "Gli altri non capiscono i misteri, anche se parlano di queste cose che non comprendono. Malgrado ciò, si vanteranno che il mistero della verità sia solo loro" (76). Come è possibile che quelli che non capiscono e che non insegnano la verità comprendano? "E ci saranno altri di quelli che non sono nel nostro numero che si chiamano "vescovi" e "diaconi", come se avessero ricevuto la loro autorità da Dio. [...] Questi uomini sono canali secchi" (79). Decisamente questo non è un complimento per i capi delle chiese cristiane: non sono fontane di conoscenza e saggezza ma letti di fiume essiccati. Ma che cos’è questa conoscenza accessibile alle anime immortali che sono invischiate nelle cose materiali? È la conoscenza della vera natura di Cristo e della sua crocifissione, che è erroneamente intesa (dai proto-ortodossi) come riferita alla morte di Cristo per i peccati. In realtà il vero Cristo non può essere toccato da dolore, sofferenza e morte, ma è al di là di queste cose. Ciò che venne crocifisso non era il Cristo divino ma il suo involucro fisico. In un'affascinante scena, Pietro assiste alla crocifissione e ammette di sentirsi confuso da ciò che vede:
Quando ebbe detto quelle cose, lo vidi chiaramente catturato da loro e dissi: "Che cosa vedo, o Signore? Sei tu quello che stanno prendendo? [...] Chi è quello ai di sopra della croce, felice e ridente? È un altra persona quello cui inchiodano le mani e i piedi?".
Allora Gesù dà la risposta indimenticabile che spiega il vero significato della crocifissione:
Il Salvatore mi disse: "Quello che vedi al di sopra della croce, felice e ridente, è il Gesù vivente, ma quello alle cui mani e piedi piantano i chiodi è la sua parte fisica, il sostituto. Stanno disonorando ciò che gli somiglia. Ma guarda lui e me" (81).
Solo la parvenza fisica di Cristo è messa a morte. Il Cristo vivente trascende la morte, trascende letteralmente la croce: sta lì, al di sopra di essa, a ridere di quelli che pensano di potergli fare male, di quelli che pensano che lo spirito divino dentro di lui possa soffrire e morire. Ma lo spirito di Cristo è al di là del dolore e della morte, così come gli spiriti di quelli che capiscono chi lui sia veramente e sanno chi sono veramente, spiriti intrappolati in una parvenza fisica ma che non possono soffrire o morire. La visione continua:
E vidi qualcuno venirci incontro, che sembrava lui e anche quello che rideva al di sopra della croce, ed era pieno di un puro spirito, ed era il Salvatore. [...] E mi disse: "Sii forte! Tu sei colui cui sono stati rivelati questi misteri, in modo che attraverso la rivelazione tu sappia che colui che crocifiggono è il primo nato, e la casa dei demoni, e il vaso di argilla in cui abitano, che appartiene a Elohim [cioè il Dio di questo mondo] e alla croce che è sottoposta alla legge. Ma colui che sta in piedi accanto a lui è il Salvatore vivente, la parte più importante dentro colui che hanno catturato; ed è stato liberato. Se ne sta lì a guardare con gioia quelli che lo hanno perseguitato. [...] Perciò ride della loro mancanza di comprensione. Anzi, è per questo che colui che soffre deve restare, poiché il corpo è il sostituto. Ma ciò che è stato liberato era il mio corpo incorporeo" (82).
Il corpo è solo un involucro che appartiene al creatore di questo mondo (Elohim, la parola ebraica usata a significare "Dio" nel Vecchio Testamento). La vera natura è dentro e non può essere toccata dal dolore fisico. Quelli che non hanno questa vera conoscenza pensano di poter uccidere Gesù, ma il Gesù vivente si innalza su tutto e li schernisce ridendo. Ma chi è veramente l’oggetto della derisione? I proto-ortodossi, che pensano che la morte di Gesù sia la chiave della salvezza. Per questo autore si tratta di un'idea ridicola: la salvezza non viene di corpo, ma dalla fuga da esso; non è la morte di Gesù a salvare, ma il Gesù vivente. I cosiddetti credenti che non capiscono non sono i beneficiari della morte di Gesù, ma le vittime del suo scherno.
Un attacco motto simile ai proto-ortodossi si legge in un altro trattato di Nag Hammadi, il Secondo trattato del grande Seth, che, come l’Apocalisse copta di Pietro, ridicolizza quelli che hanno una visione superficiale e letterale della morte di Gesù:
Infatti la mia morte, che loro credono sia avvenuta, è [invece] accaduta per loro nel loro errore e nella loro cecità. Hanno inchiodato il loro uomo alla [loro] morte. Le loro menti infatti non mi videro, perché erano sordi e ciechi. [...] Quanto a me, da un lato mi hanno visto e mi hanno punito. Un altro, il loro padre, fu colui che bevve il fiele e l’aceto, non io. Mi colpivano con la canna; un altro, che era Simone, fu quello che sollevò la croce sulla spalla. Un altro fu quello cui misero la croce di spine. Ma io mi rallegravo in alto di tutte le ricchezze degli arconti [...] ridendo della loro ignoranza. [...] Infatti continuavo a cambiare le mie forme dall’alto, trasformandomi di parvenza in parvenza (Secondo trattato del grande Seth 55-56).
Questa idea di Gesù che cambia forma richiama una delle versioni più inquietanti della crocifissione mai proposta da un maestro gnostico, non presente nei testi di Nag Hammadi ma nelle opere oggi perdute di Basilide e riferita da Ireneo. Il testo del Nuovo Testamento dice che sulla strada verso la crocifissione Simone di Cirene venne costretto a portare la croce di Gesù (cfr. Marco 14.21). Secondo Basilide, Gesù sfruttò l’occasione per attuare un cambio soprannaturale, trasformando se stesso in Simone e Simone in se stesso, cosicché i Romani crocifissero l’uomo sbagliato mentre Gesù se ne stava in disparte a ridere della sua trovata (Contro le eresie 1.24.3). Probabilmente Simone non la trovava altrettanto divertente. Ma la risata di Gesù non riguarda solo i trucchi che riesce a giocare. In questi testi la risata è rivolta contro quelli che non hanno occhi per vedere, che non capiscono la vera natura di Gesù o il significato della sua presunta morte sulla croce. Invece i veri "gnostici", sapendo da dove vengono, capiscono come sono giunti qui e come torneranno. Dopo la dissoluzione di questo involucro mortale, torneranno alla loro casa celeste, avendo trovato la salvezza non in questo corpo o in questo mondo ma lontano da questo corpo e da questo mondo. Chi non riesce a capire la natura di questa salvezza e guarda solo alla superficie delle cose e al lato esterno e materiale della realtà è giustamente oggetto di scherno da parte di Gesù e di quelli che hanno ricevuto la sua verità.
I proto-ortodossi all'attacco
Ma alla fine a ridere furono i proto-ortodossi. Con i loro attacchi polemici riuscirono a sradicare gli gnostici dalle proprie chiese, a distruggere le loro Scritture particolari, ad annientare il loro seguito. La distruzione fu talmente efficace che solo di recente siamo riusciti a farci un’idea di quanto sia stato importante lo Gnosticismo nei primi secoli del Cristianesimo e di come abbia cercato di contrattaccare, mentre prima la nostra unica fonte sul dibattito era stata la violenta opposizione scritta dei loro avversari proto-ortodossi. Certo, questa opposizione, realizzata sul piano letterario, ci aveva già fatto sospettare che i proto-ortodossi si trovassero di fronte a qualcosa che temevano sinceramente, e avevamo buoni motivi per pensare che le loro paure fossero radicate in una concreta realtà sociale, ma prima della scoperta della biblioteca di Nag Hammadi eravamo alquanto ignari delle strategie polemiche degli avversari gnostici. Dall’altro lato della barricata, le strategie degli eresiologi proto-ortodossi erano fin troppo note, e vennero ripetute in continuazione in tutta la letteratura finché non divennero praticamente stereotipi.
UNITA' E DIVERSITA'
Pane della strategia proto-ortodossa consisteva nell’accentuare il concetto di "unità" a tutti i livelli. Innanzitutto l’unità di Dio con la sua creazione: c’è un Dio che ha creato il mondo; poi l’unità di Dio con Gesù: Gesù è l’unico figlio di Dio; poi l’unità di Gesù con Cristo: egli è "uno e medesimo"; poi l’unità della chiesa: le divisioni sono causate dagli eretici; infine l’unità della verità: la verità non è contraddittoria o in contrasto con se stessa. Inoltre, come abbiamo visto, gli autori proto-ortodossi affermavano che le loro idee erano state trasmesse così fin dall’inizio: c’era dunque una continuità nella storia della loro fede, radicata nell’unità di Gesù con i suoi apostoli e degli apostoli con i loro successori, i vescovi delle varie chiese. Pertanto, ovunque ci fosse disunità c’era un problema. E il problema non era solamente al livello sociale della comunità, ma andava più a fondo, tanto a fondo quanto la verità del Vangelo. La disunità mostra divisione, e la divisione non è di Dio. Questa visione venne ben presto applicata alle "eresie", poiché si affermava che esse portavano non unità ma divisione. Dividevano Dio dalla sua creazione, il creatore da Gesù, Gesù da Cristo; dividevano la chiesa, dividevano la verità. Inoltre, il fatto che gli eretici fossero divisi anche tra di loro era una chiara prova che le loro idee non potessero provenire da Dio. In un passo Ireneo lamenta la propria incapacità di capire qualcosa nelle sette interne degli gnostici valentiniani: "Poiché differiscono tanto tra loro stessi, sia per dottrina che per tradizione, e poiché quelli di loro che sono riconosciuti come più moderni si sforzano ogni giorno di inventare qualche nuova opinione e di proporre ciò a cui nessuno ha mai pensato prima, è impresa difficile descrivere tutte le loro opinioni (Contro le eresie 1.21.5). Non solo era difficile descrivere tutte le loro opinioni, ma la grande eterogeneità degli stessi gnostici valentiniani provava a Ireneo che l’intero sistema conteneva solamente bugie: "Gli stessi padri di questa favola [il mito gnostico] differiscono tra di loro, come se fossero stati ispirati di diversi spiriti di errore. Questo stesso fatto costituisce una prova a priori che la verità proclamata dalla chiesa è immutabile e che le teorie di questi uomini non sono altro che un tessuto di falsità" (Contro le eresie 1.9.5). Oppure, per dirla più sinteticamente con Tertulliano: "Dove si trova diversità di dottrina, lì si deve credere che ci sia corruzione tanto delle Scritture quanto della loro esposizione" (Prescrizione 38).
SENSATEZZA E ASSURDITA'
Ma a essere attaccate non erano solo le contraddizioni interne degli eretici: venivano prese di mira anche le contraddizioni con ciò che i proto-ortodossi ritenevano buon senso e logica, molte delle quali riguardavano i complessi miti alla base delle dottrine dei vari gruppi gnostici. Prima di esaminare nel dettaglio alcune di queste obiezioni proto-ortodosse, vorrei osservare che alcuni studiosi hanno sospettato che i cristiani gnostici in realtà non trattassero i propri miti come descrizioni letterali del passato, cioè come un fondamentalista cristiano di oggi tratterebbe i capitoli iniziali della Genesi. Nel mondo moderno, molte chiese cristiane non integraliste concordano sull'idea che la Genesi contenga elementi mitici e leggendari, e non c'è bisogno di credere a una creazione letterale in sei giorni o all’esistenza di Adamo ed Eva come persone storiche per appartenere a queste comunità. I cristiani gnostici evidentemente avevano un approccio simile ai propri miti, mentre gli eresiologi proto-ortodossi li interpretavano in modo letterale, trattandoli come affermazioni logiche sul passato e quindi mostrando quanto fossero ridicoli. Questo poteva servire quando bisognava sferrare un attacco fulminante e che al tempo stesso risultasse retoricamente convincente per un pubblico profano. Soltanto raccontare i miti in tutta la loro estensione, uno dopo l’altro, può avere l’effetto di farli sembrare assurdi, e a quanto pare Ireneo e i suoi successori lo sapevano. Era impossibile che tutte quelle descrizioni della creazione, così complesse e involute, fossero giuste! Inoltre, come abbiamo detto, un insieme di miti non può essere conciliato con un altro, premesso che entrambi contengano affermazioni "logiche" su quanto è avvenuto nel passato. Ma gli eresiologi non si limitarono a fornire dettagli su dettagli, pagina dopo pagina: si misero a esaminare i miti separatamente per dimostrare che non potevano essere veri. Ad esempio, parlando della teogonia (spiegazione della nascita del regno divino) degli gnostici valentiniani, Ireneo osserva che in uno dei miti principali, tra il primo gruppo di eoni a emergere dall’unico vero Dio ci sono sia Silenzio (sige) sia Parola (logos): ma questo non ha senso, perché se c’è una parola, non può più esserci silenzio (Contro le eresie 2.12.5). Un altro esempio tra molti: in una spiegazione di come avvenne il disastro cosmico che portò alla creazione del mondo, il dodicesimo eone, Sophia (saggezza), frustrato dalla propria ignoranza, cerca di comprendere il Padre di Tutto, esagera e cade. Ma questo è un’assurdità, dice Ireneo, perché Saggezza, per la sua stessa natura, non può essere ignorante (Contro le eresie 2.18.2). Alcune obiezioni proto-ortodosse alla logica dei sistemi ereticali non riguardavano dettagli tanto secondari ma cercavano di andare dritte al nocciolo della questione. I cinque libri scritti da Tertulliano contro Marcione, ad esempio, iniziano col chiedersi direttamente se sia logicamente possibile avere due Dèi. Tertulliano fissa il principio cui si atterrà: "Dio, se non è uno, non è" (Contro Marcione 3). La sua premessa logica è che per poter realizzare una discussione teologica bisogna prima mettersi d’accordo sulla definizione di "Dio", e chiunque sia dotato di coscienza riconoscerà che la definizione è: "Dio è il grande Supremo che esiste eternamente, non generato, non creato, senza principio né fine". Ma una volta ammesso ciò (e ovviamente Tertulliano suppone che ognuno lo ammetta, altrimenti non sarebbe una persona "di coscienza"), ad avere più di un Dio c’è una difficoltà insormontabile. È impossibile avere due esseri supremi, perché se ne esistono due, nessuno dei due è supremo; e se uno dì loro è più grande dell’altro, allora l'altro non può essere Dio, perché non è supremo. Tertulliano prosegue affermando che non è possibile sostenere che i due Dèi possono essere supremi ciascuno nella sua sfera (ad esempio uno nella bontà e uno nella giustizia), perché ciò vorrebbe dire che nello schema generale ogni Dio è supremo solo parzialmente, e Dio, per essere Dio, deve essere completamente supremo. Il fatto che i loro avversari eretici non sapessero o volessero vedere la logica porta talvolta gli eresiologi proto-ortodossi al sarcasmo e allo scherno. Le più vivaci alla lettura sono spesso le battute di Tertulliano. I due Dèi di Marcione, sostiene, derivano dal fatto che egli vede doppio: "Agli uomini malati agli occhi anche una lucerna sembra come molte" (Contro Marcione 1.2). La realtà fisica smentisce le idee di Marcione (ormai morto) per cui si è salvati dal Dio creatore: "Come fai a immaginare di essere liberato dal suo regno, se le sue mosche ti volano ancora sulla faccia?" (1.24). Il Cristo-fantasma di Marcione è come l’intelligenza-fantasma di Marcione: "Vi assicuro, è più facile trovare un uomo nato senza cuore o senza cervello, come Marcione, che senza un corpo, come il Cristo di Marcione" (4.1).
VERITA' ED ERRORE
Un’argomentazione alquanto più sostanziale consiste nell’affermazione proto-ortodossa che la verità precede sempre l’errore, e ricorre in varie forme. Al livello più basilare, gli eresiologi osservano che le idee fondamentali di ogni eresia sono state create dal fondatore: Marcione per i marcioniti, Valentino per i valentiniani, Ebion per gli ebioniti (almeno secondo Tertulliano). Ma se questi maestri furono i primi a proporre un'interpretazione corretta della verità del Vangelo, che dire di tutti i cristiani vissuti prima di loro? Avevano torto e basta? Per i proto-ortodossi questo è assurdo: per loro "la verità precede la sua copia, la somiglianza vien dopo la realtà" (Tertulliano, Prescrizione 29). Un altro modo di presentare questa argomentazione prevedeva una specie di teoria della "contaminazione", ripetuta più volte nelle opere proto-ortodosse. Secondo questa idea, la fede originaria del messaggio cristiano è stata corrotta da elementi stranieri che vi sono stati aggiunti in un secondo momento in modo da alterarla in maniera talvolta irriconoscibile. In particolare questi autori non potevano sopportare gli eretici che utilizzavano la filosofia greca per spiegare la vera fede; soprattutto Tertulliano ne era infastidito:
Le eresie stesse sono anzi istigate dalla filosofia. Da questa fonte provengono gli eoni [gnostici] e non so quali infinite forme e la trinità dell’uomo [cioè la divisione tripartita dell’uomo in corpo, anima e spirito, corrispondente a uomini animali, "psichici" e spirituali] nel sistema di Valentino, che era della scuola di Platone. Dalla stessa fonte è giunto il dio migliore di Marcione, con tutta la sua tranquillità: proviene dagli stoici (Prescrizione 7).
Tertulliano rifiutava completamente l’intrusione della filosofia nella verità del Vangelo cristiano, secondo la sua famosa domanda: "Che cosa ha a che fare Atene con Gerusalemme? Che concordia esiste tra l’Accademia e la chiesa? E quale tra eretici e cristiani?" (Prescrizione 7). Anche Ireneo trova reprensibile l’uso delle idee filosofiche, e paragona quelli che prendono "le cose dette da tutti quelli che erano ignoranti di Dio e che sono chiamati filosofi" a quelli che "hanno cucito insieme un abito variopinto a partire da un ammasso di miserabili stracci [...] facendosi un mantello che non è veramente loro" e che in realtà è "vecchio e inutile". Se la filosofia potesse davvero rivelare la verità su Dio, chiede Ireneo, che bisogno c’era di mandare Cristo nel mondo? (Contro le eresie 2.14.6-7). Nessuno fu più strenuo nel combattere l’elemento filosofico nell’eresia d Ippolito di Roma, i cui dieci libri di Confutazione di tutte le eresie sono interamente dedicati a dimostrare che l’eresia deriva dalla tradizione filosofica greca. I primi quattro volumi dell’opera parlano infatti dei filosofi greci con i loro termini, mentre gli ultimi sei mostrano come ogni eresia, nessuna esclusa, prenda in prestito da loro le sue idee fondamentali. Ad alcuni lettori questo è sembrato eccessivo, soprattutto perché Ippolito, per continuare nella metafora usata da Ireneo, talvolta si trova a dover cucire varie eresie tra loro per adattarle al loro presunto tracciato filosofico. Gli eresiologi proto-ortodossi usarono un altro aspetto della teoria della contaminazione, cioè l’idea per cui con il passare del tempo un eretico corrompe le idee già di per sé corrotte del suo predecessore, cosicché nelle cerchie eretiche le variazioni diventano sempre più devianti e la verità sempre più lontana a mano a mano che il tempo passa. Questa idea della progressiva perversione della verità spiega perché gli eresiologi si interessassero tanto alle radici genealogiche dell’eresia. Per Ireneo e i suoi successori, Simone Mago è stato il padre di tutti gli eretici, poi gli successe Menandro, che a sua volta fu seguito da Saturnino e Basilide e così via (cfr. Ireneo, Contro le eresie 1.23ss). Secondo questa teoria, gli eretici sono tanto creativi che nessuno di loro si accontenta di ereditare il falso sistema del suo maestro: ognuno vuole corrompere ancora di più la verità secondo la sua immaginazione. E così le eresie iniziano a germogliare con riproduzioni e permutazioni incontrollate, come un’idra dalle molte teste che ne genera di nuove più velocemente di quanto le si riesca a tagliare. Questo grande numero di dottrine eretiche poteva forse sembrare scoraggiante per gli eresiologi, ma d’altra parte si consolavano con la certezza di lottare per la verità rivelata una volta per tutte ai santi e per l’ortodossia insegnata da Gesù ai suoi discepoli e tramandata senza cambiamenti e corruzioni fino ai loro giorni.
LA SUCCESSIONE APOSTOLICA
Come abbiamo visto più volte, affermare che la verità proveniva dagli apostoli era fondamentale nei dibattiti sull’eresia. I proto-ortodossi avevano molte strategie per ricollegare le loro idee a quelle degli apostoli. L’argomentazione più semplice prevedeva la "successione apostolica", già visibile in forma abbastanza embrionale nella Prima lettera di Clemente. Qui i Romani affermavano che i Corinzi dovevano reinsediare i loro presbiteri deposti perché i capi delle chiese (tra cui quei presbiteri) erano stati nominati da vescovi che erano stati selezionati dagli apostoli che erano stati scelti da Gesù che era stato mandato da Dio; opporsi ai capi delle chiese voleva dunque dire opporsi a Dio (Prima lettera di Clemente 42-44). Nelle mani di Tertulliano il concetto di successione apostolica venne sviluppato in modo leggermente diverso, cioè riferendosi all’autorizzazione a esercitare non solo le cariche ecclesiastiche ma anche l’insegnamento catechistico. Come osserva l’eresiologo, dopo la resurrezione Cristo ordinò agli apostoli di predicare il suo Vangelo a tutte le nazioni, ed essi lo fecero fondando in tutto il mondo importanti chiese basate sulla stessa predicazione dello stesso vangelo in ogni luogo. Queste fondazioni inviarono poi missionari a fondare altre chiese ancora: "Perciò le chiese, anche se sono tanto numerose e grandi, comprendono solamente l’unica chiesa primitiva fondata dagli apostoli, dalla quale sorsero. In questo modo tutte sono originarie e tutte apostoliche" (Prescrizione 20). La conclusione è la seguente:
Da ciò deriviamo dunque la nostra regola. Poiché il Signore Gesù ha inviato gli apostoli a predicare, la nostra regola è che nessun altro debba essere considerato predicatore al di fuori di quelli che Cristo ha nominato. [...] Se dunque le cose stanno così, è altrettanto chiaro che ogni dottrina che concorda con le chiese apostoliche [...] deve essere riconosciuta come veritiera, in quanto contiene senza alcun dubbio ciò che le sopraddette chiese hanno ricevuto dagli apostoli, gli apostoli da Cristo, Cristo da Dio (Prescrizione 21).
Tertulliano passa poi a nominare le chiese che possono far risalire la loro linea diretta agli apostoli, anche se forse è sorprendente e forse significativo che ne nomini solo due: Smirne, il cui vescovo Policarpo fu nominato dall’apostolo Giovanni, e Roma, il cui vescovo Clemente venne nominato da Pietro. Egli sfida comunque gli eretici a citargli come esenpio una qualsiasi loro chiesa di cui si possa dire lo stesso, e si mostra sicuro ch nessuno raccoglierà la sfida (cap. 32). L’argomentazione suona convincente, ma vale la pena di notare che anche altri gruppi oltre ai proto-ortodossi potevano vantare una discendenza diretta del loro insegnamento dagli apostoli. Sappiamo ad esempio da Clemente di Alessandria che Valentino era discepolo di Teuda, di cui si diceva fosse stato seguace di Paolo; e che lo gnostico Basilide studiò presso Glaucia, supposto discepolo di Pietro (Stromateis, 7.17.106). Per lo più i proto-ortodossi si limitarono a screditare queste connessioni.
LA REGOLA DELLA FEDE E DEL CREDO
Il vanto dei proto-ortodossi di rappresentare l’insegnamento apostolico sfociò in una serie di affermazioni dottrinali con cui espressero quella che secondo loro era la vera natura della religione. Entro il II secolo, prima che esistessero credi universali che ogni cristiano potesse pronunciare, questo insieme di dottrine venne chiamato regula fidei, letteralmente "regola della fede". Questa regola includeva le credenze fondamentali e basilari che tutti i cristiani dovevano condividere, in quanto erano stati insegnati dagli apostoli in persona. Vari autori proto-ortodossi, tra cui Ireneo e Tertulliano, espongono la regula fidei, che pure non fu mai fissata in una forma ben definita (in ogni caso essa era diretta contro chi non ne accettava uno o più aspetti). Di solito nelle varie forme della regola c’è la fede in un solo Dio, creatore del mondo, che ha creato tutto dal nulla, in suo figlio, Gesù Cristo, predetto dai profeti e nato dalla Vergine Maria, nella sua miracolosa vita, morte e resurrezione, e nello Spirito Santo, che sarà presente sulla terra fino alla fine, quando ci sarà un giudizio finale in cui i giusti saranno premiati e gli ingiusti condannati al tormento eterno (così ad esempio Tertulliano, Prescrizione 13). Alla fine oltre alla regula fidei si svilupparono vari credi cristiani che i convertiti dovevano recitare forse all’inizio, nell’intraprendere un programma di educazione cristiana (catechesi), cioè al momento del battesimo. Forse in origine i credi erano una serie di domande e risposte in tre parti, in conformità con la triplice immersione nell’acqua, come suggerisce Matteo 28.19-20: "Insegnate a tutte Le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e insegnando loro a seguire quanto vi ho ordinato". Poi il credo divenne tripartito, incentrandosi maggiormente sulla retta dottrina relativa a Padre, Figlio e Spirito Santo, e come la regula fidei era diretto contro le dottrine erronee proposte dagli altri gruppi. Alla fine, entro il IV secolo, il credo familiare ai cristiani di oggi si era ormai sviluppato in una forma rudimentale, soprattutto nella forma del "Credo apostolico" e del "Credo niceno". Vale la pena di notare che queste formulazioni sono mirate contro specifici gruppi eretici. Prendiamo l’inizio del Credo niceno: "Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio". In tutta la storia del pensiero cristiano queste parole sono state non solo solenni, ma anche foriere di serie riflessioni teologiche; allo stesso tempo, dobbiamo ricordare che rappresentano la reazione contro affermazioni dottrinali fatte da gruppi cristiani che non erano d’accordo con loro, come quelli che credevano che ci fosse più di un Dio, che il vero Dio non fosse il creatore, che Gesù non fosse il figlio del creatore o che Gesù Cristo non fosse una sola persona ma due. Si noti soprattutto che, essendo state formulate in un certo contesto, molte delle idee esposte in questi credi sono profondamente paradossali. Cristo è Dio o uomo? Entrambi. Se è entrambi, sono due persone? No, egli è l’"unico" Signore Gesù Cristo. Se Cristo è Dio e suo padre è Dio, ci sono due Dèi? No: "Credo in un solo Dio". La causa dei paradossi dovrebbe risultare chiara da ciò che abbiamo visto. I cristiani proto-ortodossi furono costretti a combattere da un lato gli adozionisti e dall'altro i docetisti, da un lato Marcione e dall’altro le varie sette gnostiche. Quando si afferma contro gli adozionisti che Gesù è divino, si rischia di sembrare docetisti, perciò si deve anche affermare contro i docetisti che Gesù è umano, ma a questo punto si rischia di sembrare adozionisti. Allora l'unica soluzione è affermare entrambe le cose in una volta: Gesù è divino e Gesù è umano. E si devono anche negare le implicazioni potenzialmente eretiche di entrambe le affermazioni: Gesù è divino, ma questo non significa che non sia anche umano; Gesù è umano, ma questo non significa che non sia anche divino. Dunque egli è divino e umano allo stesso tempo. Lo stesso vale per le paradossali affermazioni proto-ortodosse contenute nei credi su Dio creatore di tutte le cose ma non del male e della sofferenza che si trovano nel creato; su Gesù completamente umano e insieme completamente divino, e non metà dell’uno e metà dell’altro, ma entrambi allo stesso tempo, senza che ciò comporti essere due, perché egli è uno; su Padre, Figlio e Spirito Santo come tre persone separate eppure formanti un solo Dio.
L'INTERPRETAZIONE DELLA SCRITTURA
Un aspetto importante della polemica proto-ortodossa contro i vari eretici consisteva nell’affermare non soltanto le dottrine da seguire, ma anche l'interpretazione dei testi sacri su cui queste dottrine si basavano. Certo, c’era qualche disaccordo sul numero dei libri da accettare come sacri; ma c’era anche la questione di come interpretare i testi accettati. Questo era stato un punto importante fin dall'inizio del Cristianesimo, poiché Gesù e i suoi seguaci, come Paolo, citavano abbondantemente le Scritture e le interpretavano nei loro insegnamenti. Nel mondo antico non c'era maggiore unanimità di oggi su come leggere un testo. Se il significato dei testi fosse tanto evidente, non avremmo bisogno di commentatori, esperti legali, critici letterari o teorie dell’interpretazione: tutti potremmo leggere e capire subito. Si potrebbe pensare che basti il buon senso per decodificare un testo, ma provate a chiudere una decina di persone in una stanza con un testo della Bibbia o di Shakespeare o della Costituzione e vedrete quante interpretazioni ne usciranno fuori. Nell’antichità non era diverso. Ben presto nelle controversie su eresia e ortodossia si capì che avere un testo sacro non è lo stesso che interpretarlo. Per poter raggiungere un accordo unanime sul significato di un testo dovevano esistere precisi vincoli testuali imposti dall’alto, regole di lettura, pratiche accettare di interpretazione, modi di legittimazione e così via. La cosa divenne sempre più importante a mano a mano che maestri di diversi orientamenti teologici interpretavano gli stessi testi in modo diverso e poi si appellavano a questi testi a sostegno dei loro punti di vista. Marcione, per fare un esempio importante, sosteneva un’interpretazione letterale del Vecchio Testamento che lo condusse a concludere che il Dio del Vecchio Testamento era inferiore al Vero Dio. Il Dio del Vecchio Testamento, notava Marcione, non sapeva dove trovare Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, fu convinto a non distruggere Sodoma e Gomorra per un certo periodo, ordinò il massacro di tutti gli innocenti di Gerico, uomini, donne e bambini, e promise punizioni severe contro chiunque infrangesse la sua legge; in altre parole, leggendo le Scritture ebraiche semplicemente in modo letterale, in alcune occasioni il Dio ebraico si mostra ignorante, indeciso, iracondo e vendicativo. Per Marcione questo non era il Dio di Gesù, e poteva affermare questa tesi semplicemente prendendo il testo per il suo valore di facciata. Ma l’avversario proto-ortodosso di Marcione, Tertulliano, affermò che i brani che parlano dell’ignoranza o delle emozioni di Dio andavano presi in senso non letterale ma figurato. Poiché Dio non poteva essere veramente ignorante, indeciso o malevolo, questi passi andavano interpretati alla luce della piena conoscenza di come Dio è veramente, e così Tertulliano reinterpretò un gran numero di brani in modo figurato per provare la sua visione di Dio e Cristo. Facciamo solo un esempio: c’è un passo importante nel Levitico (16) che descrive due capri offerti dai sacerdoti ebrei il Giorno dell’Espiazione; secondo il testo, un capro deve essere mandato nel deserto e l’altro deve essere offerto in sacrificio. Tertulliano afferma che i due capri si riferiscono ai due avventi (cioè le venute sulla terra) di Cristo: la prima volta viene come colui che è maledetto (abbandonato nel deserto), la volta successiva (la sua "seconda venuta") come portatore di salvezza per quelli che appartengono al suo tempio spirituale (Contro Marcione 3.7). Si veda anche come Ireneo interpreta i cibi "puri e impuri" della Legge di Mosè. I figli di Israele sono autorizzati a mangiare animali che hanno lo zoccolo fesso e che ruminano, ma non animali che non hanno lo zoccolo fesso o che non ruminano (Levitico 11.2, Deuteronomio 14.3 ecc.). Che cosa significa questo? Per Ireneo, la norma indica i tipi di persone con cui i cristiani sono associati. Gli animali con lo zoccolo fesso sono puri perché rappresentano le persone che avanzano costantemente verso Dio e il Figlio per mezzo della fede (Dio + Figlio = zoccolo fesso); gli animali che ruminano ma non hanno lo zoccolo fesso sono impuri perché rappresentano gli ebrei che hanno in bocca le parole della Scrittura ma non avanzano costantemente verso la conoscenza di Dio (Contro le eresie 5.8.4). Scegliendo un’interpretazione figurativa dei passi, Tertulliano e Ireneo seguivano precedenti ben precisi tra i loro antenati proto-ortodossi: si ricordi l’ampio uso dell’interpretazione figurativa da parte di Barnaba per attaccare gli ebrei, che seguono solo il significato letterale delle loro leggi. Ma in altri casi, quando gli autori proto-ortodossi affrontavano avversari come alcuni gnostici, che già di loro usavano l’interpretazione figurativa, allora affermavano decisamente che solo l’interpretazione letterale del testo era ammissibile. In particolare Ireneo obietta contro le modalità interpretative che gli gnostici usano a sostegno delle loro tesi e esempi precisi. Gli gnostici che credevano in trenta eoni divini si appellavano all’affermazione del Vangelo di Luca per cui Gesù iniziò la sua missione all’età dì trent’anni e alla parabola della vigna, nella quale il proprietario recluta i lavoratori alla prima, terza, sesta, nona e undicesima ora (numeri che sommati insieme danno trenta). Inoltre essi affermavano che questi trenta eoni erano divisi in tre gruppi, il terzo dei quali consisteva in dodici eoni, l’ultimo dei quali era Sophia, l'eone che cadde dal regno divino portando alla creazione dell’universo. La nozione di Sophia (in greco "saggezza"), il dodicesimo eone, sarebbe stata evidenziata dalla comparsa di Gesù nel Tempio a dodici anni per discutere della Legge (mostrando così la sua "saggezza") e dal fatto che Giuda Iscariota, il dodicesimo degli apostoli, cadde e diventò un traditore (cfr. Contro le eresie 2.20-26). Ireneo considerava ridicole queste interpretazioni. Secondo lui, gli gnostici non facevano altro che far dire ai testi ciò che volevano loro e ignoravano i "chiari e piani" insegnamenti del testo, tra i quali per Ireneo c'era anche l'dea che esista un solo Dio, creatore buono di una creazione buona, macchiata non dalla caduta di un eone divino ma dal peccato di un uomo. Usando un’immagine brusca ma efficace, Ireneo paragona il capriccioso uso della scrittura da parte degli gnostici a una persona che, osservando un bel mosaico che raffigura un re, decide di staccare le pietre preziose e di ricomporle nella forma di un cane bastardo, sostenendo poi che quello era il vero intento dell'artista (Contro le eresie 1.8). All’osservatore moderno di questi dibattiti antichi può sembrare un problema che i proto-ortodossi insistessero sull’affermazione letterale del testo e poi, quando faceva loro più comodo, usassero quella figurativa. Eppure probabilmente è giusto affermare che questi autori proto-ortodossi ritenevano primaria l’interpretazione letterale del testo, mentre quella figurativa andava usata solo per supportare idee stabilite su base letterale. Questo vale anche per il più famoso allegorista proto-ortodosso, Origene di Alessandria, che era notevolmente propenso a fornire ricche e profonde interpretazioni figurative della Scrittura ma affermava che i metodi andavano applicati solo quando il significato letterale del testo sembrava disperatamente contraddittorio o assurdo (Origene, I princìpi, libro IV). In ogni caso, che l'insistenza sulla superiorità dell’interpretazione letterale abbia convinto gli gnostici o meno, nei dibattiti i proto-ortodossi ebbero una certa forza di convinzione nei confronti degli altri, soprattutto tra i simpatizzanti proto-ortodossi. Per loro la Scrittura doveva essere interpretata seguendo metodi letterali, cioè lasciando dire alle parole ciò che vogliono dire normalmente e seguendo pratiche largamente accettate di costruzione grammaticale. Se interpretate così, le parole rendono le intenzioni dell’autore; e poiché questi autori erano ritenuti tutti apostoli, questo tipo di pratica interpretativa poteva rivelare l'insegnamento apostolico trasmesso una volta per tutte alle chiese che si collocavano nella tradizione ortodossa di Gesù.