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CRISTIANESIMO E CHIESA CATTOLICA

  • Messaggi
  • Nikki72
    00 25/07/2008 20:52

    Giordano Bruno Guerri "Povera santa, povero assassino. La vera storia di Maria Goretti" - Oscar Mondadori Storia 2000



    Maria Teresa Goretti nacque a Corinaldo (Ancona) il 16 ottobre del 1890. Sua madre Assunta era stata abbandonata neonata nella "ruota" della Casa degli Esposti di Senigallia e affidata in seguito ad una coppia di Corinaldo, persone indigenti ma di "buona condotta", erano "rigorosi in fatto di morale e la salvaguardavano dai divertimenti cattivi e dalla vita cattiva, abituandola ai dolori e alle privazioni della vita". Assunta sposò Luigi, garzone di un podere lì vicino e ben presto arrivarono i figli, sei, uno dopo l'altro: Maria Teresa, da sempre chiamata Maria, fu la seconda. All'epoca la media di figli era di 4-5 per matrimonio, a fronte di una mortalità infantile elevatissima: un bambino su cinque moriva prima di compiere 5 anni. Nelle Marche la percentuale saliva ad uno su quattro, e ciò era dovuto più all'ignoranza dei genitori che all'arretratezza della medicina. Data la situazione, la Chiesa aveva stabilito che i neonati dovessero essere battezzati "entro le 24 ore": che almeno l'anima si salvasse. Scriveva un medico lombardo alla fine dell'Ottocento: "Io veggo ne' miei paesi essere immensa la mortalità de' bambini nella stagione invernale e penso che l'egoistico pregiudizio comandato dai preti ai nostri villici, di farli trasferire al sacro fonte battesimale appena usciti alla luce e sotto qualsiasi rigore atmosferico, sia la principal sorgente della strage loro". In quell'epoca un individuo su due era analfabeta (molti di più se si considerano solo le donne), la vita media era di 17 anni, comprese le morti infantili; arrivava a 60 anni se valutiamo la vita media di chi sopravviveva ai primi 5 anni. Il mondo dorato, tutto trine e galanterie della Belle Epoque, era un mondo riservato a pochissimi, isole circondate da un popolo lacero e aggressivo. Alcuni dati: nel decennio 1891-1900, con una popolazione che era metà di quella attuale, gli omicidi volontari furono quasi 4000 all'anno contro i 1400 dei nostri "feroci" anni Settanta; i "fatti di sangue" fra il 1890 e il 1911 raggiunsero i 2 milioni; alle voci "rapine, estorsioni e sequestri di persona" abbiamo il 25 per cento in più di oggi, e assai di più erano i galeotti. Era questa la bella epoca di Maria. I Goretti si trasferirono ben presto nel Lazio, a Paliano (Frosinone), nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita, e qui conobbero un'altra famiglia marchigiana, i Serenelli, originari di Torrette, vicino ad Ancona, famiglia composta dal padre Giovanni e dai due figli Vincenzo e Alessandro. Ma la vita era durissima, si lavorava dall'alba al tramonto e a cena non si riusciva a mettere insieme una fetta di polenta. Dopo varie proteste con conseguente licenziamento da parte del padrone del terreno, i Goretti e i Serenelli si trasferirono nell'Agro Pontino (Roma). Le Paludi Pontine, un'estensione di circa 50 chilometri per 30 fra Anzio, Cisterna, Terracina e il Circeo, avevano resistito a numerosi tentativi di bonifica nel corso dei secoli. La zona, con l'acqua stagnante brulicante di miliardi di insetti, l'aria malarica, il caldo insopportabile in estate, la totale mancanza di igiene e la fame, era un autentico inferno: le statistiche parlano di circa 1500 morti all'anno su una popolazione di poche migliaia. Questo era il mondo di Maria, un mondo di silenzi e duro lavoro nei campi, di disperazione e abbrutimento, di miseria e ignoranza. In queste condizioni non si può parlare di "fede" ma di credenze popolari, di superstizioni, divieti e fobie: Assunta aveva trasmesso a Maria una profonda avversione per qualunque contatto fisico, considerato peccato: "Più volte io avevo raccomandato alla Maria di tenere bene coperta la Teresa [appena nata] specialmente quando c'erano i fratelli, e le avevo detto che stesse attenta, perché altrimenti si offendeva il Signore, come pure avevo detto che essa non guardasse i fratelli, perché era peccato". D'altronde era questa la concezione del sesso e del corpo umano che si aveva all'epoca, di cui abbiamo testimonianza in un noto manuale per confessori nel quale si legge: "E' peccato mortale il dilettarsi deliberatamente in qualsiasi emozione carnale, ancorché eccitata casualmente. Pericolosi sono anche i movimenti disordinati. E' lussuria: i pensieri voluttuosi, i baci, i contatti e gli sguardi impudichi, gli abbigliamenti femminili, le pitture e le sculture che sono indecenti; le danze, i balli e gli spettacoli. Non v'ha dubbio che mortalmente peccherebbe quella donna che anche senza passione di libidine, permettesse che la si toccasse nelle parti genitali, o vicine ad esse, o nelle mammelle, imperocché evidentemente si esporrebbe a pericolo venereo e certo prenderebbe parte alla libidine altrui; è perciò tenuta a respingere subito chi la tocca, rimproverarlo, percuoterlo, allontanare con forza le di lui mani, fuggire, o gridare se potesse mai avere speranza di soccorso". Il mezzo migliore per sfuggire ai pericoli della carne è "pensare alla morte, al giudizio di Dio, all'inferno, all'eternità". Nel 1901-1902 Alessandro Serenelli aveva 18-19 anni e non aveva mai toccato una donna. Sfogava la sua voglia di sesso masturbandosi di continuo ma era allo stesso tempo terrorizzato dagli ammonimenti dei confessori scatenati contro i giovani "che si toccano": gli dicono che potrà più generare, che il suo midollo spinale diventerà acqua, che ingobbirà e che forse rimarrà anche paralizzato: "Non vi ha vizio più nocivo, sotto qualunque aspetto, ai giovani, e specialmente se maschi" dice il manuale per i confessori "perché presi da questa prava consuetudine, indurano lo spirito, inebetiscono, dispregiano la virtù, disdegnano la religione; la loro indole diventa malinconiosa, incapace di energia, inetta a qualsiasi proposito tenace; le forze del corpo mancano, gravi infermità sopravvengono, si appalesa una caducità prematura, e spesso si muore di morte vergognosa". Alessandro era un ragazzo chiuso, silenzioso, con evidenti problemi di personalità; diverse volte aveva tentato di avvicinare Maria, senza riuscire nel proprio intento. Fino al fatale 5 luglio 1902, quando prende dalla cassetta degli attrezzi una specie di lungo chiodo quadrangolare lungo 23 centimetri e mezzo, con il manico d'osso, e va in cerca della ragazzina, la vede, l'afferra, la trascina in casa e la costringe a sdraiarsi su un basso panchetto di legno lungo un metro. E qui la vista, per la prima volta forse, della cucca (o pentecana) fa impazzire l'adrenalina del ragazzo: finalmente farà scarpetta, il suo sogno si avvera, deve solo mettere u' cellu lì dentro. Ma non ci riesce e non per la resistenza di Maria ma per una sua incapacità organica a farlo, e allora afferra il punteruolo e la colpisce quattordici volte di cui cinque proprio sotto l'ombelico. Per Alessandro fu, come sanno bene gli psichiatri che si occupano di questi delitti, un coito traslato, una scarpetta col punteruolo nell'impossibilità di usare lo strumento apposito. Il punteruolo che sfonda e riemerge, che sfonda e riemerge nelle carni gli dà un'estasiante sensazione di possesso, fino a portarlo all'orgasmo. Poi si placa, getta il punteruolo dietro il cassone e, convinto di averla uccisa, va in camera sua e si sdraia sul letto. I soccorsi per Maria arrivano dopo alcune ore, viene trasportata al più vicino ospedale ma le sue condizioni appaiono subito disperate: viene operata per due ore (senza anestesia e senza nessuna protezione antisettica) al polmone sinistro, al diaframma, all'intestino: morirà dopo altre lunghe ore di atroce agonia. La prima preoccupazione di Assunta è di sapere se "oltre l'averla ammazzata non l'avrà anche disonorata". Il medico la rassicura: "Sta' tranquilla, che essa è proprio come è nata". Assunta ringrazia il Signore. Intanto l'Italia viveva anni di cambiamenti: le prime automobili, la luce elettrica, il cinema, la psicoanalisi e perfino riviste e romanzi avevano contenuti sempre più "turpi e immorali", secondo la Chiesa. Inoltre il pericolo che le idee degli anticlericali toccassero e corrompessero perfino le masse popolari, la cui religiosità si basava proprio sul rispetto dell'autorità ecclesiastica e su forme di superstizione (culto dei santi patroni, processioni, miracoli), spinse gli esponenti della chiesa locale a promuovere la causa di Maria, scelta come rappresentante della "più sublime delle virtù" contro "le virtù di bagasce sacrificatesi turpemente sull'ara di Venere". Il processo di beatificazione, molto lungo e travagliato, rallentato dalla mancanza di qualsiasi elemento che provasse la santità della ragazzina, subì una improvvisa accelerazione nel 1943, dopo lo sbarco degli americani a Roma: i liberatori portano nella capitale della cristianità i chiari segni del loro accompagnarsi col demonio, tra cui danze oscene e musiche scostumate, anticoncezionali, nuovi modelli di vita e allora occorrono degli argini, la religione ha bisogno di esempi e una vergine e martire è quel che ci vuole per dare l'esempio contro la corruzione dei costumi. Tutto fu quindi fatto con velocità estrema: le testimonianze in favore della sua santità furono ampiamente "aggiustate" e molti fatti inventati di sana pianta, i ricordi di Alessandro e Assunta, interrogati più volte, modificati e manipolati al fine di dare di Maria l'immagine che si voleva. Si trovarono anche dei malati guariti per la sua intercessione. Maria fu proclamata beata il 27 aprile 1947 da Pio XII. La successiva canonizzazione avvenne il 24 giugno 1950. Alessandro, dopo il delitto, venne subito arrestato e condannato a 30 anni di carcere con un processo velocissimo, scontò una parte della pena a Regina Coeli, poi a Noto, nel sud della Sicilia, in seguito in Sardegna. Passava il tempo a masturbarsi e non è difficile credere che, ancora illibato, in lui esplose di nuovo il bisogno della carne. Il carcere lo portò all'omosessualità e probabilmente, data la sua impotenza, il suo destino fu quello di diventare la donna dei suoi compagni di cella. Fu liberato con due anni di anticipo, per buona condotta, aveva 47 anni ma ne dimostrava 70. Quando ottenne il permesso di lavorare, cominciò a girare di fattoria in fattoria, ovunque ce ne fosse bisogno. Più tardi sacerdoti e passionisti gli trovarono lavoro come domestico in vari santuari e monasteri, per ultimo il convento dei cappuccini di Macerata. Morì senza conoscere donna, a 89 anni.
  • Nikki72
    00 25/07/2008 20:54

    Giordano Bruno Guerri "Io ti assolvo. Etica, politica, sesso: i confessori di fronte a vecchi e nuovi peccati" - Baldini&Castoldi 1993



    Dalla penitenza al "rito della penitenza": storia della confessione


    La pratica della "confessione" esisteva già in civiltà anteriori al cristianesimo o estranee al suo influsso: era in uso nei culti di Iside, Orfeo e Cerere, e avveniva davanti allo ierofante e agli iniziati; monaci buddisti o jainisti dicono le proprie colpe al loro maestro, come il sikh si confessa al suo guru: è una forma di purificazione della coscienza per liberarla dalle forze maligne. Il rito della penitenza ha origini antichissime anche nella cultura ebraica precristiana: ogni sciagura - dalla sconfitta militare al cattivo raccolto - veniva considerata un segno dell'ira divina, da placare con suppliche collettive: digiuni, pianti, gesti di umiliazione come cospargersi la testa di cenere. L'intero popolo, attraverso le parole dei sacerdoti, si riconosceva colpevole e chiedeva perdono. Il perdono veniva concesso, ma non senza un'espiazione: benché Davide confessi la sua colpa, Dio lo punisce ugualmente con la morte del figlio. Alla severa giustizia divina si aggiungeva la severità degli uomini, perché il "popolo di Dio" non voleva rendersi complice della rottura dell'Alleanza, e puniva con la morte il colpevole: per i peccati più gravi, come l'idolatria e la bestemmia, c'era la lapidazione. In tempi più vicini alla nascita di Gesù, a questa severità si affianca - per peccati meno gravi - una più lieve penitenza individuale, ovvero l'espulsione dalla Sinagoga, che poteva essere definitiva o temporanea. Gesù partecipa alla cultura penitenziale e più volte annuncia la necessità della "conversione" e della "penitenza"; la parabola del figliol prodigo, l'incontro con la "peccatrice" e molti altri episodi del Vangelo testimoniano che il Padre sarà benevolo anche con il peccatore pentito. Cristo non "confessò" mai nessuno, ma "nessun'altra Chiesa cristiana e nessun'altra religione ha dato tanta importanza quanto il cattolicesimo alla confessione dettagliata e ripetuta dei peccati". Secondo l'interpretazione cattolica, il sacramento fu istituito da Gesù: nei Vangeli ci sono tre versetti che sembrano offrire alla Chiesa la possibilità di assolvere i peccatori: in Matteo 16,19 Gesù dice a Pietro: "A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli"; in Matteo 18,18 Gesù ripete ai discepoli: "Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo". Le più moderne interpretazioni filologiche (anche cattoliche) dell'espressione "legare e sciogliere" sottolineano che la lettura corretta è "dichiarare una cosa proibita e permessa", e solo secondariamente "scomunicare, togliere la scomunica"; oppure l'espressione si riferirebbe solo all'esclusione o alla riammissione nella comunità della Chiesa, per cui non si tratta di "assolvere o non assolvere", ma di un unico processo penitenziale. Secondo l'interpretazione più recente, infine, l'espressione rabbinica "legare e sciogliere" ha il significato di "vincolare con un sortilegio e rompere il sortilegio", cioè abbandonare il peccatore a Satana o liberarlo. In definitiva, legare e sciogliere indicherebbe solo l'esclusione dalla Chiesa e la riconciliazione, non la remissione dei peccati. Il recente Catechismo della Chiesa Cattolica, però, ha ribadito e precisato: "Le parole legare e sciogliere significano: colui che voi escluderete dalla vostra comunione, sarà escluso dalla comunione con Dio; colui che voi accoglierete di nuovo nella vostra comunione, Dio lo accoglierà anche nella sua. La riconciliazione con la Chiesa è inseparabile dalla riconciliazione con Dio". Il testo sul quale il concilio di Trento si appoggiò maggiormente per sancire l'origine divina della confessione è in Giovanni, 20,23: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi". La frase in Giovanni è meno equivocabile, ma anche secondo alcuni Padri della Chiesa - e scismatici come Calvino - indica solo il potere di rimettere i peccati attraverso il battesimo. Il dibattito verte intorno ai verbi afiemi e krateo, di difficile interpretazione in questo contesto, perché si tratta dell'unico versetto nel Nuovo Testamento in cui vengono riferiti al peccato. In definitiva, la lettura del versetto come istituzione divina della confessione è tutt'altro che pacifica, e anzi contestatissima dalla maggior parte degli autori protestanti. Ad ogni modo il perdono dei peccati venne interpretato in maniera estremamente restrittiva nei primi secoli del cristianesimo, fino al VI. San Paolo esclude dalla comunità cristiana, consegnandoli a Satana, tutti i peccatori notori, che danno scandalo alla comunità, ovvero gli "impudici", gli avari, gli idolatri, i maldicenti, gli ubriaconi, i ladri. A parte il rigore di Paolo, sembra accertato che in gran parte della cristianità non venissero perdonati i colpevoli di idolatria, omicidio, adulterio e fornicazione: solo verso il 220 papa Callisto ammise alla riconciliazione anche gli adulteri; tre decenni dopo fu la volta dei lapsi, ovvero di coloro che durante le persecuzioni tornavano al paganesimo, e soltanto con il concilio di Andra (314) furono ammessi al perdono anche gli omicidi. A quell'epoca i peccati gravi dovevano essere sottoposti alla penitenza pubblica, mentre quelli leggeri venivano estinti privatamente con la preghiera, la carità, il digiuno. Quasi tutto però veniva considerato peccato mortale, compresi i balli, l'invidia, la collera, l'orgoglio, l'ubriachezza (mentre - a differenza di oggi - veniva considerato peccato leggero avere rapporti sessuali con il coniuge evitando di procreare). Però "è lecito dubitare che, nella pratica, la penitenza ecclesiastica si sia estesa molto al di là dei casi notori di peccati capitali", soprattutto perché la penitenza era davvero penosa. Il peccatore poteva sia essere convocato dal vescovo, se notorio, sia presentarsi spontaneamente a dire le proprie colpe. Il vescovo stabiliva la penitenza, e se il colpevole non la accettava veniva escluso dalla Chiesa; se la accettava iniziava una diversa odissea: anche se non sempre doveva dichiarare in pubblico i propri peccati, la sua umiliazione veniva esibita a tutti i fedeli. Spesso lo stesso vescovo gli faceva indossare il cilicio, e da quel momento il peccatore entrava a far parte dell'"ordine dei penitenti". Ma, a differenza degli ordini religiosi, quello dei penitenti aveva caratteristiche infamanti ed esibite: a seconda dei luoghi bisognava radersi i capelli, oppure barba e capelli dovevano essere lunghi e incolti. Oltre ciò il peccatore pentito doveva iniziare la lunga catena delle opere penitenziali, private e pubbliche. Le prime consistevano in digiuni, dormire su un giaciglio cosparso di cenere, non lavarsi, piangere e pregare; pubblicamente doveva vestire il cilicio. I penitenti vennero distinti in quattro categorie: i flentes, che dovevano stare fuori dalla chiesa a implorare che i fedeli pregassero per loro, ma spesso venivano insultati e derisi; gli audientes potevano assistere alla messa, ma dovevano uscire al momento dell'eucaristia; i substrati potevano assistere, prostrati, alla celebrazione eucaristica; infine i consistentes dovevano assistere in piedi. I passaggi da una categoria all'altra erano molto lenti, fra i due e i sette anni. San Basilio il Grande (IV secolo) stabilì che si dovesse rimanere quattro anni tra i flentes e i consistentes, cinque tra gli audientes e sette tra i substrati. Fra il IV e il VI secolo le penitenze vennero sempre più codificate e rese severe: comprendevano fra l'altro l'astinenza dalle carni, l'obbligo di trasportare in chiesa i defunti e seppellirli, e vere e proprie espulsioni dalla vita civile, che duravano anche dopo la "riconciliazione": era proibito ricoprire cariche pubbliche, svolgere attività commerciali, fare il servizio militare; infine, "per tutta la durata del tempo di espiazione, è vietato al coniuge sposato di vivere maritalmente con l'altro coniuge. La continenza totale è obbligatoria anche dopo la riconciliazione". Chiunque non accettasse tutte queste penitenze o le interrompesse, veniva scomunicato per sempre. Alla fine della laboriosa e angosciante penitenza il fedele veniva reintegrato nella comunità, ma non poteva più peccare: la confessione era possibile una sola volta nella vita, essendo considerata alla stregua di un nuovo battesimo. Una seconda assoluzione non veniva concessa, neanche in punto di morte, a coloro che "ritornano, come cani e maiali, ai loro primi vomiti": così si espresse, nel 385, papa San Siricio. Dati questi presupposti, pochi confessavano volentieri i loro peccati. La stessa Chiesa - in concili, testi di papi e santi dottori - finì per consigliare una scappatoia di astuzia e opportunismo destinata a incidere nel carattere dei cattolici, e degli italiani in particolare. Sant'Ambrogio, per esempio, raccomanda di confessarsi quando "defervescat luxuria", sbollisca la lussuria. Fu così che si finì per confessarsi quasi solo da vecchi e in punto di morte, tanto che "alla fine del VI secolo si era giunti ad una situazione quanto mai insostenibile: la penitenza, di fatto e di diritto, era inaccessibile proprio a coloro che ne avevano più bisogno, cioè alle persone adulte e piene di vita. L'Ordo paenitentiarum si era ridotto praticamente ad essere una specie di terz'ordine religioso riservato a vecchi invalidi e a vedovi o celibatari senza speranza". Molti, piuttosto che affrontare la penitenza, preferivano prendere i voti, perché la vita monastica "malgrado il suo rigore, era più confortevole della penitenza pubblica e non infamante. Per questa ragione finì col soppiantarla. Aumentò il numero dei "conversi", non sempre a vantaggio della qualità della vita religiosa". Era ormai indispensabile un ripensamento della penitenza. Già da secoli era invalso l'uso di confessarsi anche ai presbiteri, per esserne confortati e sapere se quei peccati dovessero essere espiati nell'Ordo paenitentiarum o con la semplice preghiera. A partire dal IV secolo questa prassi prese sempre più piede, e i presbiteri divennero sempre più tolleranti, a mano a mano che si ampliava la schiera dei cristiani battezzati da piccoli e che quindi avevano ereditato, non scelto, il cristianesimo. Oltretutto la severità delle penitenze impediva a quasi tutti di ricevere l'eucaristia: proprio per combattere questo fenomeno il concilio di Agdes (506) impose ai cristiani di comunicarsi almeno a Natale, Pasqua e Pentecoste. I fedeli, stretti tra i due fuochi del rigidissimo Ordo paenitentiarum e dell'obbligo della comunione, presero - specialmente in Spagna - un'abitudine stigmatizzata dal concilio di Toledo (589): "Ogni volta che peccano, chiedono al sacerdote di essere riconciliati". Nonostante la condanna del concilio, i sacerdoti divennero di anno in anno più inclini al compromesso, sull'esempio dei monaci irlandesi che alla fine del VI secolo cominciarono a sciamare in Europa: nelle selvagge isole di Gran Bretagna e Irlanda non era mai esistita la penitenza pubblica, ma solo quella privata. In breve l'uso della confessione auricolare, ripetibile quante volte si vuole nel corso della vita, prevalse a tal punto che il concilio di Chalon-sur-Saone (647-653) definì "della massima utilità" la nuova pratica. Questa confessione venne chiamata tariffata, o tassata, perché il sacerdote aveva un elenco di peccati, cui corrispondeva una penitenza precisa. Al termine di un lungo interrogatorio-confessione, il fedele riceveva le penitenze, e solo quando le aveva adempiute poteva tornare a ricevere l'assoluzione, parola che da ora in poi sostituisce progressivamente la primitiva riconciliazione. A ricevere il nuovo tipo di sacramento sono anche i chierici (che prima non potevano pentirsi, e in caso di peccato grave venivano espulsi), e a esercitarlo ufficialmente non sono più soltanto i vescovi. L'elencazione schematica dei peccati contribuì in modo determinante a svuotare di reale contenuto il senso della confessione, e a renderla un fatto privato tra sacerdote e fedele, togliendo alla penitenza il suo originario significato anche sociale. Quanto alle tariffe, vennero il più possibile codificate, in modo che le penitenze fossero uguali per tutti. Consistevano specialmente in digiuni (di vino, carne, grassi eccetera) che potevano durare anche decenni. Ecco alcuni esempi dal Penitenziale di San Colombano, uno dei più diffusi: "Per il peccato di masturbazione, un anno di digiuno, se il colpevole è ancora giovane", altrimenti di più. "L'omicida digiunerà per tre anni a pane e acqua, senza portare armi, e vivrà in esilio. Dopo questi tre anni, ritornerà in patria e si metterà al servizio dei parenti della vittima, sostituendo colui che ha ucciso". "Se un laico avrà avuto un figlio dalla moglie di un altro, cioè avrà commesso adulterio, faccia penitenza per tre anni, astenendosi dai cibi grassi e dall'uso del matrimonio, rendendo inoltre il prezzo del disonore al marito della moglie violata". "Se un laico avrà fornicato in modo sodomitico, faccia penitenza per sette anni: i primi tre nutrendosi di solo pane, acqua e sale, e legumi secchi; gli altri quattro si astenga dal vino e dalle carni". Le tariffe per i chierici erano tanto più salate quanto più si saliva di grado. Poiché le tariffe dei singoli peccati si sommavano, finivano per diventare insopportabili od oltrepassare la durata della vita. Fu quindi necessario istituire una complessa serie di tabelle di commutazione, in modo da sostituire pene lunghe con altre più brevi ma più rigide. Esempi dai Canones Hibernenses: "Commutazione per un digiuno di tre giorni: stare in piedi un giorno e una notte senza dormire (o molto poco), oppure la recita di 50 salmi con i cantici corrispondenti". "Commutazione per un digiuno di un anno: passare tre giorni nella tomba di un santo senza bere e senza mangiare, senza dormire e senza togliersi gli abiti; durante questo tempo canterà salmi". Oppure: "Passare tre giorni in una chiesa, senza bere né mangiare, né dormire, completamente nudo, senza sedersi. Durante questo tempo il peccatore canterà salmi con i cantici e reciterà l'officio corale. Durante questa preghiera farà dodici genuflessioni". Piano piano cominciò a prendere piede anche la pratica di riscattare le pene con il denaro. Per evitare che i ricchi venissero favoriti, si studiarono pene differenti: a un povero basta "il prezzo di uno schiavo" per riscattare un anno di digiuno, mentre con la stessa cifra il ricco riscatta soltanto un mese. Ma la distinzione durerà poco. La confessione si trasforma in un grosso affare, soprattutto quando si comincia a stabilire che le penitenze possono essere commutate in messe, da pagare ai sacerdoti. Così, secondo il Penitenziale dello Pseudo-Teodoro, "una messa riscatta tre giorni di digiuno, tre messe riscattano una settimana di digiuno". Le messe si vendono anche a pacchetti: 100 soldi d'oro danno diritto a 120 messe. Per far fronte all'esorbitante numero di messe, nel IX secolo molti monaci vennero fatti sacerdoti; qualche codice cercò invano di arginare l'arricchimento del clero ponendo un limite di sette messe al giorno per sacerdote: ma - dietro richiesta del penitente - il sacerdote poteva celebrare anche più di venti messe al giorno. Finalmente si arrivò all'abuso più scandaloso, riservato ai ricchi, ovvero pagare qualcuno perché compisse al proprio posto la penitenza, come sancisce il Penitenziale dello Pseudo-Teodoro: "Chi non conosce i salmi e, a causa della sua debolezza, non può digiunare né vegliare né fare genuflessioni né tenere le braccia alzate né prostrarsi per terra, costui scelga qualcuno che compia la penitenza al suo posto e lo paghi per questo, poiché sta scritto: "Portate gli uni i pesi degli altri"". Per il povero invece sta scritto: "Ognuno porti il proprio fardello". Ecco come, secondo un altro canone, "l'uomo potente che ha molti amici" può riscattare sette anni di penitenza in tre giorni: "Prenderà 12 uomini che faranno digiuno al suo posto durante 3 giorni, mangiando solo pane, acqua e legumi secchi. Cercherà subito per 7 volte altri 120 uomini che facciano digiuno al suo posto durante 3 giorni. I giorni di digiuno così sommati sono uguali al numero di giorni contenuti in 7 anni". In genere erano i monaci a fare le penitenze a pagamento, e fu una delle cause dell'arricchimento dei monasteri, tanto più da quando - come "composizione" - prevalse l'uso di chiedere ai più ricchi il dono di terre o la costruzione di chiese e conventi. I tentativi della Chiesa di combattere questa prassi furono pochi e più che altro formali. Ci provarono con maggiore energia, ma invano, i re carolingi fra l'VIII e il X secolo. L'uso della penitenza tariffata si esaurì da solo, nel XII-XIII secolo. A partire dal IX secolo, infatti, l'assoluzione viene data sempre più spesso non dopo, ma prima della penitenza, perché consiste quasi sempre in un'offerta alla chiesa o allo stesso confessore, più qualche preghiera. Diventa quotidiano e comune, fino al Seicento, lo scandalo dei confessori estremamente sbrigativi nell'ascoltare e assolvere, per fare quante più confessioni possibile. Verso la fine del X secolo viene introdotta anche una nuova forma di "penitenza pubblica non solenne", ovvero il pellegrinaggio. I pellegrinaggi, che si tenevano in gran numero, erano riservati ai peccati pubblici "meno scandalosi" dei laici, ovvero quelli che non implicassero la sfera sessuale o teologica (furti, omicidi eccetera), oppure ai peccati scandalosi commessi da diaconi, presbiteri, vescovi. "I pellegrini penitenti erano dei peccatori forse pentiti, certamente dei criminali e, in gran parte, dei chierici criminali. Per questa ragione i pellegrinaggi penitenziali sono stati lo scandalo permanente della cristianità medievale: le bande di pellegrini, che in teoria passavano da un santuario all'altro per espiare i loro peccati, commettevano in realtà ogni tipo di abuso immaginabile". A lungo poi continuò - fino al Seicento e oltre - lo scandalo dei sacerdoti che approfittavano del confessionale per procacciarsi avventure galanti, e le novelle di Boccaccio sono buona testimonianza della interminabile lotta tra penitenti e confessori per ingannarsi a vicenda: particolarmente significativa la vicenda di ser Cepparello, peccatore impenitente, che con una magistrale e falsissima confessione senile riesce a farsi proclamare santo. Nel 1215 Innocenzo III, durante il concilio Laterano IV, rese obbligatoria la confessione almeno una volta l'anno, e contemporaneamente cominciò ad affermarsi, con le crociate, l'uso delle "assoluzioni generali", che poi furono alla base dello scandalo ancora più grave delle indulgenze, a sua volta determinante nel provocare lo scisma luterano. Anche riguardo alla confessione, in definitiva, "i riformatori resero pubblica una contestazione tenuta sino ad allora nascosta", per opportunismo, nel mondo cristiano. Per Lutero la confessione è un sacramento di importanza minore, perché non è stato esplicitamente istituito e regolato da Gesù, come il battesimo e l'eucaristia. Ancora più radicali sono calvinisti e anglicani, per i quali non è un sacramento. Lutero ritiene che la contrizione perfetta - ovvero l'odio per il peccato commesso e il serio proposito di non commetterlo più - sia impossibile all'uomo, mentre quella imperfetta (attrizione), dovuta soprattutto alla paura dell'inferno, è un'ipocrisia, un nuovo peccato che si aggiunge agli altri. Del resto, per Lutero, l'uomo non può essere del tutto cosciente del male, né il sacerdote ha il diritto di intromettersi nella sua coscienza. Inoltre la giustizia divina non può essere soddisfatta con opere umane, sia pure vantaggiose per il clero. Di conseguenza Lutero nega al sacerdote l'autorità di assegnare penitenze e concedere il perdono, che viene direttamente da Dio; è quindi attraverso la fede, non attraverso la confessione rituale, che il peccatore riceve il perdono divino; la Chiesa non può obbligare i fedeli a confessarsi, neppure prima di fare la comunione, perché non risulta dai Vangeli che Gesù abbia legato i due sacramenti. Tuttavia, secondo Lutero, il buon cristiano si confesserà spesso e volentieri per ascoltare il perdono divino, ma il confessore può essere anche un laico. Alla fine - presso i luterani come presso i calvinisti - si affermò prevalentemente l'uso della confessione generale, durante la messa. La Chiesa cattolica non poteva tollerare una così drastica riduzione del suo potere, e al concilio di Trento furono spese molte energie per riaffermare il valore della confessione tradizionale. Soprattutto nelle sessioni fra il 15 ottobre e il 25 novembre 1551 fu stabilito che la confessione è vere et proprie sacramentum istituito da Gesù come vitae remedium. Venne inoltre confermato il valore della contrizione e dell'attrizione. A una a una furono ribattute tutte le affermazioni dei protestanti, particolarmente quella che i laici possano confessare. Una delle conseguenze più importanti del concilio, legata al problema della confessione, fu che per combattere i riformisti si affermò una concezione del peccato come fatto personale, che offende Dio e se stessi, mentre scomparve il concetto - basilare nella Chiesa antica - del peccato come responsabilità sociale. Fu un fatto culturale determinante nella formazione dei diversi "caratteri nazionali": fra i cattolici è meno forte il senso di responsabilità sociale. Subito dopo il concilio, la Chiesa lanciò una grande campagna per la confessione, generalmente affidata a missionari popolari per le masse, e ai gesuiti per le élite. La preparazione dei confessori venne uniformata e resa più rigorosa nei seminari, e i numerosissimi manuali scritti per loro diventarono best seller dell'epoca: ma, se contribuirono a migliorare la preparazione dei confessori, provocarono un ulteriore appiattimento burocratico e fiscale. Il concilio volle anche l'installazione dei confessionali chiusi, che fino ad allora non esistevano, per rafforzare il concetto di individualità e il rapporto stretto con il sacerdote. Il confessionale serviva inoltre a combattere le frequenti tentazioni carnali tra i confessori e le penitenti (o i penitenti). Nel 1561 Pio IV emanò una bolla contro i sacerdoti che sollecitavano ad turpia durante la confessione. Nel 1622 Gregorio XV doveva di nuovo intervenire su questo delitto. Ma, per dare un parametro, nel Seicento, nel solo Stato di Venezia, si tennero 78 processi per "sollecitazione" in confessionale. Ancora nel 1745 Benedetto XIV emanò un decreto di lotta a quei confessori che "feriscono i penitenti e danno loro in luogo del pane, una pietra, invece del pesce un serpente". Oggi, la maggior parte degli abusi sessuali su bambini compiuti da sacerdoti - scoperti negli Stati Uniti - parte dai confessionali. Dopo il concilio di Trento, quella "penitenza" che nella Chiesa delle origini era stata un atto unico e irripetibile, diventa una via alla santità: Prospero Lambertini (1675-1758), il futuro papa Benedetto XIV, in un suo trattato sulla beatificazione sostiene che uno dei criteri della santità è l'assiduità, anche quotidiana, alla confessione. Data la nuova, straordinaria importanza che questo sacramento assume per la Chiesa, si fa vivacissimo il dibattito fra teologi, sostanzialmente divisi tra "rigoristi" e "lassisti". Ci furono interminabii polemiche sulla contrizione, l'attrizione, il "probabilismo" (la possibilità di scegliere liberamente il da farsi, quando la legge appaia incerta o dubbia), la "casuistica" (la classificazione dei problemi di coscienza, con diverse soluzioni di caso in caso). I problemi legati alla confessione ebbero

    nelle preoccupazioni di allora - mutatis mutandis - un posto paragonabile a quello che oggi occupano, nei media e nell'opinione pubblica, la contraccezione, l'aborto, i diversi tipi di fecondazione artificiale e l'eutanasia. [...] Per il cattolico di un tempo non era irrilevante avere di fronte a sé, nella penombra del confessionale un prete intransigente o uno indulgente. Il suo conforto mentale, la sua vita di relazione, il suo comportamento quotidiano potevano essere modificati dalle pretese di colui che la Chiesa gli destinava come "padre", "medico" e "giudice" contemporaneamente.

    Anche se gli effetti non si fecero sentire subito, la fiducia nella confessione venne minata alla base dalla constatazione che il giudizio dei sacerdoti - che rappresenta quello divino - è tanto variabile, e le proibizioni così numerose: un opuscolo del Seicento enumera diversi modi di peccare. Fino al termine del Settecento prevalsero i rigoristi. Dopo - anche in seguito agli sconvolgimenti e alla perdita di fedeli provocati dalla rivoluzione francese - si impose la tolleranza, predicata dal vescovo napoletano Alfonso Maria de' Liguori (1696-1787) nella Theologia moralis e nei suoi manuali per confessori, moderati e concilianti: finirono per soppiantare e ispirare tutti gli altri da quando l'autore fu fatto santo (1839) e dottore della Chiesa (1871). Sant'Alfonso si sforzò, in sostanza, di rendere accettabile l'obbligo della confessione, che non diventasse una tortura temibile da parte di confessori inflessibii. Soprattutto quindi affermò una tendenza gravida di conseguenze per i popoli cattolici: anche se un peccatore ricade frequentemente nello stesso peccato - e quindi sia lecito sospettare della sincerità del suo pentimento - va comunque assolto ogni volta. Nacque, nell'Ottocento, la moda dei confessori celebri, come il curato d'Ars, tanto era sentito il bisogno di confessori più sensibili e capaci di instaurare un dialogo personale. Ma rimase ossessiva, anche nei manuali e nei confessori più miti, l'attenzione ai pericoli della carne. Uno dei più diffusi manuali dell'Ottocento precisa: "È lussuria: i pensieri voluttuosi, i baci, i contatti e gli sguardi impudichi, gli abbigliamenti femminili, le pitture e le sculture che sono indecenti; le danze, i balli e gli spettacoli". Non fu l'ultimo dei motivi che - dopo l'illuminismo e la rivoluzione - provocarono, prima in Francia e poi negli altri paesi, una irreversibile crisi della confessione:

    Si videro delle persone che volevano realmente riprendere l'abitudine della messa domenicale e fare di nuovo la Pasqua. Ma erano riluttanti a ritornare al confessionale e, alla fine, si allontanarono dalla Chiesa. Nel XIX secolo prenderà pubblicamente piede una violenta ostilità, soprattutto maschile, nei confronti della confessione. Le si rimprovererà di insinuarsi nell'intimità delle famiglie, di mettere la donna contro l'uomo, la religione contro la politica, la scuola confessionale contro quella laica, la nostalgia per l'Ancien Régime contro il progresso repubblicano. Sarà denunciata come un abuso di potere.

    NeI 1905 papa San Pio X decreta che la confessione deve essere frequente, di preferenza una volta alla settimana. Pio XII lo ribadisce nell'encidica Mystici Corporis del 1943, anche per i peccati veniali, e lo stesso fece il Concilio Vaticano II. L'uso della confessione frequente, anche secondo autori cattolici, se "è servito per formare le coscienze e anche per mantenere un alto livello morale in buona parte delle popolazioni cristiane [...] ha portato con sé anche il marchio di un certo individualismo e schematismo che può rendere la confessione un qualcosa di formalistico e di meccanico". In realtà la maggior parte degli stessi cattolici oggi respingono quell'idea di "alto livello morale" applicato quasi soltanto a controllare la sessualità, e rifuggono dalla confessione come strumento di controllo personale e sociale. La confessione oggi è sottoposta, all'interno della Chiesa, a un dibattito intenso quanto la gravità della sua crisi. Per il momento il Vaticano sta prudentemente saggiando la confessione comunitaria che ha origine spontanea e popolare. In Belgio, nel 1947-48, in una comune parrocchia di operai, durante la messa i fedeli - su invito de sacerdote - riflettevano sui propri peccati, se ne pentivano e venivano collettivamente assolti. La pratica si diffuse rapidamente a tutta l'area linguistica francese e poi a tutta la cristianità. Il Concilio Vaticano II ribadì che la confessione auricolare resta l'unica via di remissione dei peccati gravi; contemporaneamente però dava un'indicazione precisa: "Si rivedano il rito e le formule della Penitenza, in modo che esprimano più chiaramente la natura e l'effetto del Sacramento". L'indicazione più importante del concilio fu la riscoperta dell'incidenza sociale del peccato, tanto da invitare i confessori a inculcare nell'animo dei fedeli "le conseguenze del peccato" nella società. Dopo anni di studio, e dopo avere esaminato le sollecitazioni "moderniste" delle varie Chiese nazionali non latine, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede il 19 giugno 1972 promulgò le Norme pastorali circa l'assoluzione sacramentale generale, sulle quali si basa l'attuale confessione. Il primo punto stabilisce che "dev'essere fermamente ritenuta e fedelmente applicata nella prassi la dottrina del Concilio di Trento. [...] La confessione individuale e completa con l'assoluzione resta l'unico mezzo ordinario, grazie al quale i fedeli si riconciliano con Dio e con la Chiesa". Inoltre "coloro ai quali sono rimessi i peccati gravi mediante l'assoluzione in forma collettiva, devono accostarsi alla confessione auricolare prima di ricevere di nuovo una tale assoluzione". Veniva anche confermato l'obbligo di confessarsi "privatamente a un sacerdote, perlomeno una volta l'anno", e veniva ribadito che la confessione auricolare deve essere frequente e incoraggiata anche per i peccati veniali ("i sacerdoti non si permettano di dissuadere i fedeli"...) Il 2 dicembre 1973 veniva promulgato in latino il testo sui nuovo Ordo paenitentiae, che diveniva operativo in Italia il 21 aprile 1974, con la pubblicazione del testo in italiano (Rito della penitenza). Non si parla più di confessione, ma di riconciliazione, per sottolineare che "confessare i peccati" è solo una parte del rito, il cui senso profondo dovrebbe essere pentirsi, quindi "riconciliarsi" con Dio e con la Chiesa; ma, vent'anni dopo, il vecchio nome - e vecchio concetto - prevalgono nel linguaggio della quasi totalità dei fedeli e anche dei sacerdoti. Né è stato recepito lo sforzo di dare alla pratica della confessione una maggiore dignità rituale e di richiamo alla parola di Dio; né le vecchie penitenze in forma di preghiera sono state sostituite, come suggerito, con azioni che riparino il male compiuto. Il nuovo testo conferma che il confessore "impersona l'immagine di Cristo buon pastore" e ammette tre tipi di confessione: a) Quella tradizionale auricolare, che resta l'unica veramente valida a tutti gli effetti. b) Il "Rito per la riconciliazione di più penitenti, con la confessione e l'assoluzione generale", subito adottato da fedeli e sacerdoti con un entusiasmo che alla Conferenza Episcopale Italiana parve eccessivo: tanto che il 30 aprile 1975 si affrettò a pubblicare una nota per ribadire che questa versione è accettabile solo in casi rarissimi, come il pericolo di morte. c) Il "Rito per la riconciliazione di più penitenti, con la confessione e l'assoluzione individuale". In questa "terza via", compromesso tra l'antico e il nuovo, c'è un esame di coscienza generale, poi i singoli fedeli dovrebbero andare dai confessori per l'elencazione dei peccati; ma quasi mai si dispone di sacerdoti in numero adeguato, e inoltre questa pratica esaspera l'impressione della confessione come "assoluzionificio" privo di contenuto. Una soluzione logica, liberatoria e piena di dignità per tutti sarebbe stata quella di lasciare al credente la possibilità di scegliere se confessarsi privatamente o con la confessione comunitaria. Ma le opzioni di coscienza e di libertà non sono una prerogativa della Chiesa. Nel dibattito c'è chi propone di tornare all'antico, cioè di concedere l'assoluzione solo dopo che il fedele ha dimostrato un concreto sforzo di conversione con una vera penitenza. C'è chi sostiene che il sacramento dovrebbe essere soltanto comunitario, e chi vorrebbe una catechesi più approfondita del peccato. C'è chi vorrebbe abolire l'obbligo della confessione prima della comunione, o renderla obbligatoria solo per peccati veramente "mortali", distinti da quelli soltanto "gravi", ma la distinzione è quanto mai complessa. I teologi più avanzati discutono persino la possibilità - remota - di concedere anche ai laici, in certe occasioni e in certi modi, la possibilità di confessare. E, molto opportunamente, c'è chi pensa di spostare la prima confessione dopo la prima comunione, perché si comincia a recepire, dagli studi della moderna psicologia, che un bambino di sette-otto anni non può afferrare il senso cristiano del peccato. È comunque iniziato un percorso che, in tempi prevedibilmente lunghi, porterà forse a una trasformazione della confessione in uso da otto secoli.
  • Nikki72
    00 25/07/2008 20:58

    Rivelazioni clamorose sulla storia della Chiesa tratte dal Concilio Vaticano I (dicembre 1869 – luglio 1870):

    Il Concilio Vaticano I (dicembre 1869 – luglio 1870), si tenne nella basilica di S. Pietro a Roma.
    Nel corso dei lavori si sancì il dogma dell’infallibilità del pontefice in materia di fede e di costume.
    Uno degli atti rilevanti del pontificato di Pio IX fu la convocazione di questo Concilio Vaticano I che sancì questo importante dogma.
    Indetto con la lettera apostolica Aeterni Patris ed aperto solennemente in Roma nel dicembre 1869, si chiuse nel luglio dell’anno successivo, due mesi prima della breccia di porta Pia;
    l’aula conciliare, nella basilica di San Pietro, fu la navata destra della croce; assistettero circa settecento padri, segretario e coordinatore fu l’insigne canonista tedesco monsignor Fessler.

    Il dogma non passò senza contrasti.

    Il vescovo di Orlèans:
    in una lettera pastorale, scriveva:
    "Ho letto e riletto il grande Catechismo
    composto per ordine del Concilio di Trento e dei sovrani pontefici dai più reputati teologi romani,
    con l’intenzione di cercare se parli, o no, dell’infallibilità del papa ed ho constatato che non ne fa parola".


    (Francesco Serantini)

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    Discorso di un Vescovo nel Concilio ecumenico Vaticano I.
    (discorso pronunciato dal vescovo Georg Joseph Strossmayer)

    [Bibliografia:]
    Papa e Vangelo - Discorso di un Vescovo nel Concilio Vaticano.
    Firenze, Tipografia Nazionale di V. Sodi, 1870.


    AVVERTENZA:
    Essendoci stato trasmesso da Roma il discorso tenuto da un Vescovo nel Concilio ecumenico Vaticano,
    abbiamo stimato utile pubblicarlo, parendoci altamente meritevole di essere conosciuto, comecchè contenente sì splendide verità, che niuno può certo combattere, o porre in dubbio.
    Gli Editori



    Discorso di un Vescovo
    nel Concilio ecumenico Vaticano I


    tratto dal sito Sentieri Antichi



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    "Venerabili Padri e Fratelli.

    Non è che tremando, ma con la coscienza libera e tranquilla davanti a Dio che vive e mi vede, che prendo la parola in mezzo di voi, in questa augusta assemblea.
    Da che seggo qui con voi, ho con attenzione seguiti i vostri discorsi che si son fatti in quest'aula, sperando con vivo desiderio che un raggio di luce, scendendo dall'alto, illuminasse gli occhi del mio intendimento, e mi permettesse votare i canoni di questo santo concilio ecumenico, con perfetta cognizione di causa.
    Penetrato della parte di responsabilità, di cui Dio mi chiederà conto, mi sono dato a studiare con la più seria attenzione gli scritti dell'antico e Nuovo Testamento, ed ho domandato a questi venerabili monumenti della verità, di farmi conoscere se il santo Pontefice che ci presiede è veramente il successore di S. Pietro, Vicario di G. C. e dottore infallibile della Chiesa.
    Per risolvere questa grave questione, ho dovuto far tavola rasa dello stato attuale delle cose, e trasportarmi con la mente, con in mano la fiaccola evangelica, nel tempo in cui non si conosceva né ultramontanismo né gallicismo, e in cui la chiesa aveva per dottori san Paolo, san Pietro, san Giacomo, san Giovanni, dottori ai quali non potremmo negare la divina autorità, senza mettere in dubbio quello che c'insegna la SANTA BIBBIA, che è qui davanti a me, e che il Concilio di Trento ha proclamata regola della fede e dei costumi.

    Ho dunque aperte queste sacre pagine ... Ebbene! ardirò dirlo? io nulla vi ho trovato che legittimi né da vicino né da lontano l'opinione degli oltramontani.
    Di più, con mia gran meraviglia, non si fa questione, nei giorni apostolici, né di un papa, successore di san Pietro e vicario di G. Cristo, come di Maometto, che ancora non esisteva.
    Voi, Monsignor Manning, direte che io bestemmio; voi Monsignor Pie, che son fuori di senno;
    no, io non bestemmio, non son fuori di senno, Monsignori;
    ora, a meno che non abbia letto tutto intiero il Nuovo Testamento, dichiaro davanti a Dio, la mano alzata verso questo gran crocifisso, che non vi ho trovata traccia alcuna del papato, come esiste attualmente.
    Non mi recusate, venerabili fratelli, la vostra attenzione, e con i vostri mormorii e interruzioni non giustificate coloro che dicono, come il padre Giacinto, che questo Concilio non è libero, e che i nostri voti ci sono stati in precedenza imposti.
    Dopo ciò, questa augusta assemblea, sulla quale son rivolti gli occhi del mondo intiero, cadrebbe nel più vergognoso disprezzo. Se vogliamo farla grande, siamo liberi.
    Ringrazio S. E. Mons. Dupanloup del suo segno d'approvazione che fa con la testa; ciò mi dà coraggio e continuo.
    Leggendo adunque con quella attenzione, di cui il Signore mi ha fatto capace, i sacri libri, non vi ho trovato un sol capitolo, un sol versetto, nel quale G. Cristo commetta a S. Pietro di ammaestrare gli apostoli, suoi compagni d'opera.
    Se Simone, figlio di Giona, fosse stato quello che noi crediamo esser oggi S. S. Pio IX, fa meraviglia come non abbia detto loro: Quando sarò salito presso mio Padre, voi tutti obbedirete a Simon Pietro, come obbedite a me; io lo stabilisco mio vicario sulla terra.
    Né solamente Cristo su questo punto, ma ancora pensa sì poco a dare un capo alla Chiesa, che quando promette dei troni a' suoi apostoli, per giudicare le dodici tribù di Israele, (Matt. XIX 28) glie ne promette dodici, uno per ciascuno, senza dire che fra questi troni, ve ne sarà uno più alto degli altri, che spetterà a Pietro.
    Certamente, se avesse voluto che fosse così, lo avrebbe detto: che cosa concludere dal suo silenzio?
    La logica lo dice: che Cristo non ha voluto fare di S. Pietro il capo del collegio apostolico.

    Quando Cristo manda gli apostoli alla conquista del mondo, a tutti ugualmente dà il potere di sciogliere e legare: a tutti fa la promessa dello Spirito Santo.
    Permettetemi che lo ripeta: se avesse voluto costituire Pietro suo vicario, gli avrebbe dato il comando in capo della sua milizia spirituale.
    Cristo, lo dice la S. Scrittura, proibisce a Pietro ed ai suoi colleghi di regnare, signoreggiare e aver potestà sui fedeli, siccome usano i re delle genti (Luca XXII 25).
    Se S. Pietro fosse stato eletto papa, Gesù non avrebbe parlato così, imperocché, secondo le nostre tradizioni, il papato tiene nelle sue mani due spade, simbolo del potere spirituale e temporale.

    Un fatto mi ha vivamente maravigliato:
    constatandolo, diceva a me stesso: Se Pietro fosse stato eletto papa, i suoi colleghi si sarebbero permessi di mandarlo con S. Giovanni in Samaria, per annunziarvi l'Evangelo del figlio di Dio? (Atti VIII, 14).

    Che pensereste, venerabili fratelli, se in questo momento noi ci permettessimo deputare S. S. Pio IX e S. E. Monsignor Plantier a recarsi dal patriarca di Costantinopoli, per impegnarlo a far cessare lo scisma orientale?
    Ma ecco un altro fatto più importante.
    Un concilio ecumenico è riunito a Gerusalemme,
    per decidere sulle questioni che dividono i fedeli. Chi avrebbe convocato quel concilio, se S. Pietro fosse stato papa? S. Pietro: chi lo avrebbe presieduto? S. Pietro o i suoi legati; chi ne avrebbe formulati e promulgati i canoni? S. Pietro: Ebbene! Nulla di tutto questo avviene.
    L'apostolo assiste al concilio, come tutti gli altri suoi colleghi: non è lui che ne prende le conclusioni, ma S. Giacomo, e quando se ne promulgano i decreti, è a nome degli apostoli, degli anziani e dei fratelli. (Atti XV.)
    È Così che facciam noi nella nostra chiesa? Più che mi addentro, o venerabili fratelli, nel mio esame, più mi convinco che nella Santa Scrittura non apparisce primato nel figliuolo di Giona: ora, mentre che noi insegnamo che la Chiesa è fabbricata sopra S. Pietro, S. Paolo, la cui autorità non può esser messa in dubbio, ci dice nella sua lettera agli Efesi (II, 20) essere edificata sopra il fondamento degli apostoli e de' profeti, essendo G. C. stesso la pietra del capo del cantone.
    E il medesimo apostolo crede così poco alla supremazia di san Pietro, che biasima apertamente quelli che dicono: Noi siamo di Paolo, noi siamo d'Apollo, (Corinti I, 12) come quelli che direbbero: noi siamo di Pietro. Se dunque quest'ultimo apostolo fosse stato vicario di G. Cristo, S. Paolo si sarebbe guardato bene di censurare così violentemente quelli che si attenevano al suo collega.
    Lo stesso apostolo Paolo, enumerando le cariche della Chiesa, rammenta gli Apostoli, i Profeti, gli Evangelisti, i Dottori, i Pastori.
    È egli credibile, venerabili fratelli, che S. Paolo, il gran dottore delle genti, avesse dimenticata la prima delle cariche, il papato, se il papato fosse stato d'istituzione divina?
    Questa dimenticanza non mi è sembrata possibile, come sarebbe quella di uno storico di questo concilio, che non dicesse una parola di S. Santità Pio Nono.

    (Alcune voci: Silenzio, eretico, silenzio!)

    Moderatevi, venerabili fratelli, non ho ancora detto tutto; impedendomi di continuare, mostrereste al mondo di aver torto e di aver chiusa la bocca al più piccolo membro di quest'assemblea.

    Continuo.

    L'apostolo Paolo, in alcuna delle sue lettere dirette alle varie chiese, non fa menzione del primato di Pietro.
    Se questo primato fosse esistito, se in una parola, la Chiesa avesse avuto nel suo seno un capo supremo, infallibile nello insegnare il gran dottore delle genti avrebb'egli dimenticato di tenerne parola? Che dico io? Avrebbe scritta una lunga lettera su questo importante e capitale subietto. Allora quando, com'egli ha fatto, si erige l'edifizio della dommatica cristiana, può dimenticarsi il fondamento, la chiave della volta? Ora, a meno che non si ritenga per eretica la chiesa apostolica, ciò che noi non vorremo né oseremo dire, siamo costretti a convenire che la Chiesa non è mai stata né più bella, né più pura, né più santa, come nei giorni, nei quali non aveva il papa.

    (Voci: Non è vero. Non è vero.)

    Monsignore de Laval non dica no, poiché se alcuno di voi, venerabili fratelli, ardisse pensare che la Chiesa che ha oggi un papa per capo, è più ferma nella fede, più pura nei costumi della Chiesa Apostolica, lo dica apertamente in faccia all'Universo, imperocché questo è il centro, da cui le nostre parole volano da un polo all'altro. Proseguo.
    Non negli scritti di S. Paolo, né in quelli di S. Giovanni, o di S. Giacomo, ho trovato traccia o germe del potere papale. S. Luca, lo storico dei lavori missionari degli apostoli, tace su questo punto capitale.
    Il silenzio di questi santi uomini, i cui scritti fan parte del canone delle Scritture divinamente ispirate, mi è parso aggravante, e impossibile, se Pietro fosse stato papa, come non sarebbe giustificabile quello di Thiers se omettesse nella storia di Napoleone Bonaparte il titolo d’imperatore.
    Sento là, davanti a me, un membro dell'assemblea che dice, mostrandomi a dito: È un vescovo scismatico, introdottosi fra noi sotto falso nome.
    No, no, venerabili fratelli, io non sono entrato in questa augusta assemblea, come un ladro per la finestra; ma sibbene dalla porta come voi: il mio titolo di vescovo me ne dava il diritto, come la mi coscienza di cristiano m'impone parlare e dire quello che credo esser vero.
    Ciò che mi ha maggiormente stupito, e più di quello che potrei dimostrare, è il silenzio di S. Pietro.
    Se l'apostolo fosse stato quello che noi proclamiamo essere, cioè il vicario di G. Cristo sulla terra, egli avrebbe dovuto saperlo:
    se lo ha saputo, come mai neppure una volta, una volta sola non ha fatto da papa?

    Avrebbe potuto farlo il giorno della Pentecoste, quando pronunziò il suo primo discorso, e non lo fece: al concilio di Gerusalemme, e non lo fece: ad Antiochia, e non lo fece: nelle due lettere dirette alla chiesa, e non lo fece: immaginate voi un tal papa, venerabili fratelli, se S. Pietro fosse stato papa?
    Se dunque vuolsi sostenere che egli è stato papa, ne nasce la naturale conseguenza che bisogna del pari sostenere che non ha saputo di esserlo; ora io domando a chiunque ha testa che pensa e mente per riflettere, sono possibili queste due supposizioni?

    Riassumendo, dico: Mentre vivevano gli apostoli, la Chiesa non ha mai pensato che potesse esservi un papa: per sostenere il contrario, bisognerebbe dare alle fiamme gli scritti sacri, o ignorarli affatto.
    Sento da tutte le parti dire: ma S. Pietro non è stato a Roma? Non vi è stato crocifisso col capo all'ingiù? La sedia sulla quale insegnava e l'altare su cui diceva la messa, non sono in questa città eterna?
    La dimora di S. Pietro a Roma, venerabili fratelli, non ha altra prova che la tradizione: ma se egli fosse stato vescovo di Roma, che forse dal suo vescovato in questa città, potrà trarsi e concludere per la sua supremazia? Un dotto di primo ordine, lo Scaligero, non ha esitato dire, che il vescovato e la dimora di S. Pietro a Roma debbono essere posti fra le ridicole leggende. (Grida ripetute: Toglietegli la parola, toglietegli la parola! Discenda dall'ambone!)
    Venerabili fratelli, son pronto a tacermi, ma non è egli più conveniente in un assemblea, quale è la nostra, esaminar tutto, siccome lo comanda l'apostolo e credere ciò ch'è buono? Ma, venerabili, noi abbiamo un dittatore, davanti al quale tutti dobbiamo prostrarci e tacere, anche Sua Santità Pio IX e abbassare la testa. Questo dittatore è la storia.
    Essa non è come la leggenda, di cui si è fatto quello, che il vasellaio fa dell'argilla: è il diamante che incide sul vetro parole incancellabili. Finora non mi sono appoggiato che su lei, e se non ho trovato traccia del papato nei giorni apostolici, mia non è la colpa, ma sua. Volete mettermi in stato di accusa per delitto di falso? Padroni di farlo.
    Mi giungono dalla destra queste parole: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa. Matt. XVI.
    Fra poco, venerabili fratelli, risponderò a questo obietto: ma prima di farlo, debbo presentarvi il resultamento delle mie ricerche storiche.
    Non trovando traccia del papato nei giorni apostolici, ho detto fra me: Troverai quello che cerchi negli annali della Chiesa. Ebbene! lo dirò francamente: ho cercato un papa nei primi quattro secoli e non l'ho trovato.
    Nessuno di voi, spero, vorrà contestare la grande autorità del santo vescovo d'Ippona, il grande e beato s. Agostino. Questo pio dottore, onore e gloria della Chiesa cattolica, era segretario nel concilio Melivetano. Nei decreti di quella venerabile assemblea si leggono queste significanti parole: Chiunque vorrà appellare AL DI LA' DEL MARE, non sia ricevuto da alcuno, in Affrica, alla comunione.
    I vescovi d'Affrica riconoscevano sì poco la supremazia del vescovo di Roma, che colpivano di scomunica coloro che a lui ricorressero in appello.
    Questi medesimi vescovi, nel sesto concilio di Cartagine, tenuto sotto Aurelio, vescovo di quella città scrissero a Celestino vescovo di Roma, avvertendolo che non ricevesse appelli dei vescovi, preti e chierici d'Affrica: che non mandasse più legati, né commissari, e che non introducesse l'orgoglio umano nella Chiesa.
    Che il patriarca di Roma abbia pensato fino dai primi tempi a trarre a sè tutta l'autorità, è un fatto evidente: ma è fatto del pari indubitato che egli non aveva la supremazia, che gli oltramontani gli attribuiscono: se l'avesse avuta, i vescovi d'Affrica, S. Agostino il primo, avrebbero ardito proibire di appellare dai loro decreti al suo tribunale supremo?
    Confesso senza difficoltà che il partriarcato di Roma teneva il primo posto: una legge di Giustiniano dice "Ordiniamo, dietro la definizione dei quattro concilii, che il santissimo papa della vecchia Roma sia il primo dei vescovi, e che l'altissimo arcivescovo di Costantinopoli, che è la nuova Roma, sia il secondo."
    Inchinati dunque alla supremazia del papa, mi direte.
    Non siate si corrivi a questa conclusione, venerabili fratelli, imperciocché la legge di Giustiniano ha scritto in fronte "dell'ordine delle sedute dei pariarchi" Altra cosa dunque è la precedenza, altra il potere di giurisdizione: così, per esempio, supponiamo che in Firenze fosse una riunione di tutti i vescovi del regno: la precedenza sarebbe data al primate di Firenze, come presso gli orientali è accordata al Patriarca di Costantinopoli, e in Inghilterra all'arcivescovo di Cantorbery. Ma né il primo, né il secondo, né il terzo potrebbero dedurre dal posto che sarebbe loro assegnato, una giurisdizione sui loro colleghi.
    La importanza dei vescovi di Roma proveniva, non da un potere divino, ma dalla considerazione della città, in cui avevano la loro sede. Monsignor Darboy non è superiore in dignità all'arcivescovo di Avignone: non per tanto, Parigi gli dà una considerazione che non avrebbe, se in vece di avere il suo palazzo sulle rive della Senna, lo avesse su quelle del Rodano. Quel che è vero nell'ordine religioso, lo è pure nel civile e politico: il prefetto di Firenze non è più prefetto di quello di Pisa: ma civilmente e politicamente ha una maggiore importanza.
    Ho detto che il patriarca di Roma aspirò fino dai primi secoli al governo universale della chiesa. Sventuratamente vi giunse in appresso: ma certamente non lo aveva allora poiché, non ostante le sue pretese, l'imperatore Teodosio II. fece una legge con la quale stabilì che il patriarca di Costantinopoli aveva la medesima autorità , che quello di Roma. Leg. Cod. de Scr. ecc.
    I padri del concilio di Calcedonia posero il vescovo della antica e nuova Roma al medesimo ordine in tutte le cose, anche nelle ecclesiastiche. Can. 28.
    Il sesto concilio di Cartagine proibì ai vescovi tutti di prendere il titolo di principe dei vescovi, o di vescovo sovrano.
    Quanto al titolo di vescovo universale, che i papi presero più tardi, S. Gregorio I, credendo che i suoi successori non se ne sarebbero mai fregiati, scrisse queste notevoli parole: "Nessuno de’ miei predecessori ha consentito di prendere questo nome profano, imperocché quando un patriarca si dà il nome di universale, il titolo di patriarca ne soffre di discredito. Lungi dunque dal cristiano il desiderio di darsi un titolo che lo discredita fra i suoi fratelli!"
    Le parole di S. Gregorio sono dirette al suo collega di Costantinopoli, che pretendeva al primato nella chiesa. Il papa Pelagio II chiama Giovanni, vescovo di Costantinopoli, che aspirava al pontificato massimo, empio, e profano "Non vi curate, egli dice del titolo di universale, che Giovanni usurpò illegalmente: che nessuno dei patriarchi prenda questo nome profano: imperocché, quale sventura non dovremo aspettarci, se fra i preti sorgono tali elementi? Si avvererebbe quello che è stato predetto. – È il re dei figli dell’orgoglio. (Pelagio II. lett. 13)"
    Queste autorità, e ne avrei cento altre di ugual valore, non provano esse, con chiarezza pari allo splendore del sole a mezzogiorno, che i primi vescovi di Roma non sono stati che molto tardi riconosciuti per vescovi universali e capi della chiesa?
    E d’altra parte, chi non sa come dall’anno 225, in cui si tenne il I concilio di Nicea, fino al 580 in cui si tenne il secondo ecumenico di Costantinopoli, sopra 1109 vescovi che assisterono ai sei primi concilii generali, non vi furono presenti che 19 vescovi occidentali?
    Chi non sa che i concili erano convocati dagli imperatori, senza prevenire, e qualche volta contro la volontà del vescovo di Roma?
    Che Osio vescovo di Cordova, presiedè il primo concilio di Nicea e ne redigè i canoni?
    Lo stesso Osio presiedè di poi il concilio di Sardica, escludendone i legati di Giulio vescovo di Roma: non insisto di più, venerabili fratelli, e vengo a parlare del grande argomento, che ponete innanzi, per istabilire il primato del vescovo di Roma.
    Per la pietra, sulla quale la Santa Chiesa è fabbricata, voi intendete Pietro. Se fosse vero, la disputa sarebbe terminata: ma i nostri antenati, e certamente sapevano qualche cosa, non la pensavano come noi.
    S. Cirillo, nel suo quarto libro sulla Trinità, dice "Io credo che per la "pietra", bisogna intendere la incrollabile fede dell’apostolo".
    S. Ilario, vescovo di Poitiers, nel suo secondo libro sulla Trinità dice "La pietra (petra), è la beata ed unica pietra della fede confessata per bocca di S. Pietro: ed è, dice nel sesto libro della Trinità, su questa pietra della confessione, che la chiesa è edificata.
    "Dio, dice S. Girolamo, nel 6° libro di S. Matteo, ha fondato la sua chiesa su questa pietra ed è su questa pietra che l’apostolo Pietro è stato nominato."
    Dopo lui, S. Grisostomo dice, nella sua 53 omelia sopra S. Matteo".
    Su questa pietra edificherò la mia chiesa, cioè sulla fede della confessione: or qual era la confessione dell’apostolo? Eccola "Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivente."
    Ambrogio, il santo arcivescovo di Milano, nel secondo capitolo agli Efesi, S. Basilio di Seleucia, ed i padri del Concilio di Calcedonia insegnano esattamente la medesima cosa.

    Di tutti i dottori della antichità cristiana, S. Agostino è quello, che occupa uno dei primi posti nella Chiesa, per la scienza e santità.
    Ascoltate dunque ciò ch’egli scrive nel suo secondo trattato sulla prima lettera di S. Giovanni. "Che cosa vogliono dire le parole. "Io edificherò la mia chiesa su questa pietra? Su questa fede, su quello che è detto. Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivente."
    Nel suo 124° trattato sopra S. Giovanni, troviamo questa significantissima frase "Sopra questa pietra che tu hai confessato, io edificherò la mia chiesa, imperocché Cristo era la pietra."
    Il gran vescovo credeva tanto poco che la chiesa fosse fabbricata su S. Pietro, che diceva a’ suoi fedeli nel suo 13 sermone. "Tu sei Pietro e su questa pietra che tu hai confessato, su questa pietra, che tu hai conosciuto dicendo – Tu sei Cristo, il figlio di Dio vivente – io edificherò la mia chiesa sopra me stesso, che sono il figlio di Dio vivente: io la edificherò su ME, E NON ME SU TE."
    Quello che S. Agostino pensava sopra questo celebre passo, era la opinione di tutta la cristianità del suo tempo.
    Dunque riassumendo, stabilisco:

    1° Che Gesù ha dato agli apostoli il medesimo potere che a san Pietro;

    2° Che gli apostoli non hanno mai riconosciuto in S. Pietro il vicario di Gesù Cristo e il dottore infallibile della chiesa;

    3° Che S. Pietro non ha mai pensato di essere papa, e non ha mai fatto da papa;

    4° Che i concilii dei quattro primi secoli, mentre riconoscevano l’alto posto, che il vescovo di Roma occupava nella Chiesa, appunto per cagione di Roma, non gli hanno accordato che una preminenza d’onore, mai un potere, né una giurisdizione;

    5° Che i SS. Padri nel famoso passo "Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa" non hanno mai inteso che la Chiesa fosse edificata su Pietro (super Petrum), ma sulla pietra (super petram), cioè sulla confessione della fede dell’apostolo.


    Concluderò vittoriosamente con la storia, con la ragione, con la logica, col buon senso e con la coscienza cristiana, che
    Gesù Cristo non ha conferito alcuna supremazia a S. Pietro,
    e che i vescovi di Roma non son divenuti sovrani della Chiesa, se non che confiscando ad uno ad uno tutti i diritti dell’episcopato.


    (voci: Taccia lo sfacciato protestante, taccia!)

    Io sono uno sfacciato protestante!… Nò, mille volte no!
    La storia non è né cattolica, né anglicana, né calvinista, né luterana, né armena, né greca scismatica, né oltramontana:
    ella è quello che è, cioè qualche cosa di più forte di tutte le confessioni di fede dei canoni dei concilii ecumenici.
    Scrivete in falso contro di lei, se lo ardite: ma voi non potete distruggerla,
    come un mattone tolto dal Colosseo non lo farebbe cadere.
    Se ho detto qualche cosa che la storia dimostri in contrario, mi si faccia conoscere con la storia,
    e senza esitare un momento, farò onorevole ammenda:
    ma siate pazienti e vedrete che non ho detto tutto ciò che io voleva e doveva:
    quando anche il rogo mi attendesse sulla piazza di S. Pietro, io non debbo tacere e mi è obbligo continuare.

    Monsignor Dupanloup, nelle sue celebri Osservazioni su questo concilio del Vaticano, ha detto e con ragione, che se noi dichiariamo Pio IX infallibile, siamo per necessaria e naturale logica obbligati a ritenere infallibili tutti i suoi antecessori.
    Or bene! Venerabili fratelli,
    ecco la storia che alza la sua voce autorevole, per assicurarvi che alcuni papi hanno errato:
    avete un bel protestare, un negare, io vi dirò con quella:

    * Papa Vittore (192) approvò il montanismo, poi lo condannò.
    * Marcellino(296, 303) fu idolatra, entrò nel tempio di Vesta e offrì incensi alla dea. Voi direte fu un atto di debolezza: ma io risponderò: un Vicario di Gesù Cristo muore ma non diviene apostata.
    * Liberio (358) consentì alla condanna di Anatasio e fece professione di Arianismo, per esser richiamato dall’esilio e reintegrato nel suo seggio.
    * Onorio (625) aderì al monotelismo: il padre Gratry lo ha alla evidenza dimostrato.
    * Gregorio I (578-90) chiama anticristo colui, che prende il nome di Vescovo universale, e al contrario Bonifazio III. (607-8) si fa conferire questo titolo dal parricida imperatore Foca.
    * Pasquale II. (1088-1099) ed Eugenio III. (1145 - 1153) autorizzato il duello: Giulio II. (1509) e Pio IV. (1560) lo proibiscono.
    * Eugenio IV. (1431-39) approva il Concilio di Basilea e la restituzione del calice alle chiese di Boemia: Pio II. (1658) revoca la concessione.
    * Adriano II. (867-872) dichiara valido il matrimonio civile, Pio VII. (1800-23) lo condanna. Sisto V. (1585-1590) pubblica un edizione della Bibbia e ne raccomanda la lettura con una Bolla: Pio VII. ne condanna la lettura.
    * Clemente XIV (1700-21) abolisce l’Ordine dei Gesuiti, permesso da Paolo III: Pio VII. lo ristabilisce.


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    Ma perché cercare delle prove così remote? Il nostro santo padre Pio IX, qui presente, nella sua bolla che dà le norme per il concilio, nel caso in cui egli morisse, mentre è aperto, non ha revocato tutto quello che in passato gli sarebbe cotrario, anche quando provenisse da decisioni de’ suoi predecessori?
    E certamente se Pio IX ha parlato ex cathedra, non è quando dal fondo del suo sepolcro impone le sue volontà ai sovrani della Chiesa.

    Non terminerei più, Venerabili fratelli, se ponessi davanti ai vostri occhi le contradizioni dei papi nei loro insegnamenti.

    Se voi dunque proclamate la infallibilità del papa attuale, bisognerà forzatamente, o che voi proviate ciò che è impossibile, che i papi non si sono contradetti, oppure che dichiariate che lo Spirito Santo vi ha rivelato che la infallibilità papale non data che dal 1870.
    Avrete voi tanto ardimento?

    I popoli passeranno indifferenti forse accanto a questioni teologiche,
    delle quali non intendono e non sentono la importanza:
    ma per quanto sieno indifferenti ai principii, non lo sono punto pei fatti.
    Ora non v’illudete! se decretate il dogma della infallibilità papale, i protestanti, nostri avversari, monteranno sulla breccia tanto più arditi, in quanto che avranno contro di noi e in loro favore, la storia, mentre noi non avremo contro loro, che le nostre negative.


    Che cosa diremo loro quando faranno marciare davanti al pubblico i vescovi di Roma da Luca a sua santità Pio Nono?
    Ah! se tutti fossero stati come Pio IX, noi trionferemmo su tutta la linea; ma ohimè! non è così...

    (Grida: silenzio, silenzio! basta, basta!)

    Non gridate, Monsignori!
    Temere la storia è darsi per vinti: e d’altronde, se faceste passare sopra di lei le acque del Tevere, non ne cancellereste una pagina.

    Lasciatemi parlare e sarò breve, per quanto il comporta questo importante subietto.
    Il papa Vigilio (538) comprò il papato da Belisario, luogotenente dell’imperatore Giustiniano: è vero che, rompendo la promessa, pagò nulla.
    È egli canonico questo mezzo di cingere la tiara?
    Il secondo Concilio di Calcedonia l’aveva formalmente condannato.
    In uno dei suoi canoni si legge "che il vescovo, il quale ottiene il vescovato per danari, lo perda e sia degradato".


    Il papa Eugenio IV. (1145) imitò Vigilio. San Bernardo, fulgida stella del suo secolo, rimproverò il papa dicendogli: "Potresti indicarmi alcuno in questa gran città di Roma, che ti abbia ricevuto per papa, senza che abbia ricevuto oro od argento?"
    Un papa, Venerabili fratelli, che erige banco alle porte del tempio, sarà egli inspirato dallo Spirito Santo? Avrà diritto d’insegnare infallibilmente alla Chiesa?

    Conoscete pur troppo la storia di Formoso, perché io la renda più grave.
    Stefano XI. fece disseppellire il suo corpo, vestirlo di abiti pontificali, e tagliategli le dita, con le quali dava la benedizione lo fece gettare nel Tevere, e lo dichiarò spergiuro e illegittimo.
    Egli poi fu dal popolo imprigionato, avvelenato e strangolato: ma vedete il giusto rimetter delle cose: Romano, successore di Stefano e dopo lui, Giovanni X, riabilitarono la memoria di Formoso.

    Ma direte, queste son favole, non storia. Favole!
    andate Monsignori, andate alla biblioteca vaticana, e leggete il Platina, lo storico del papato e gli annali del Baronio (anno 897).

    Vi sono dei fatti che vorremmo cancellare, per l’onore della santa Sede;
    ma quando si tratta di definire un domma, che può provocare un gran scisma in mezzo di noi, l’amore che portiamo alla nostra venerabile madre Chiesa cattolica, apostolica e romana, c’impone silenzio
    – Aggiungo.

    Il dotto Cardinale Baronio, parlando della corte papale, dice (prestate attenzione Venerabili fratelli, a queste parole)
    "Qual era in quel tempo la faccia della Chiesa romana, e come obbrobriosa, non dominando a Roma che onnipossenti cortigiane?
    Esse erano quelle che davano, permutavano, toglievano vescovati, e orribil cosa a credersi, i loro amanti, i falsi papi, venivan posti sul trono di san Pietro.
    (Baronio anno 912)."
    Quelli erano falsi papi, non veri, si replica:
    e sia pure: ma in tal caso, Venerabili fratelli, se per cinquanta anni la sede di Roma non è stata occupata che da antipapi, come troverete voi il filo della successione pontificale?

    La chiesa ha Ella potuto fare a meno per un secolo e mezzo del suo capo, e trovarsi acefala?
    Vedete! La maggior parte di questi antipapi figurano nell’albero genealogico del papato, e certamente bisognava bene che fossero tali, quali Baronio li dipinge, perché Genebrardo, il grande adulatore dei papi, abbia osato dire nelle sue cronache (anno 901).
    "Questo secolo è sventurato, imperocché per 150 anni circa, i papi sono del tutto decaduti dalle virtù dei loro antecessori, essendo piuttosto apostati, che apostolici."
    Capisco come l’illustre Baronio abbia dovuto, narrando questi fatti dei vescovi di Roma, sentirsi arrossire il volto.

    Parlando di Giovanni XI. (931) , bastardo di papa Sergio e di Marozia, quegli scriveva queste parole nei suoi annali. "La santa Chiesa, cioè la romana, ha dovuto vilmente esser calpestata da un tal mostro".
    Giovanni XII (946) eletto papa a 18 anni per influenza di cortigiane, non era punto meglio del suo antecessore.

    Deploro, Venerabili fratelli, di agitare tanto laidume:
    mi taccio di Alessandro VI., padre e amante di Lucrezia:

    trasvolo su Giovanni XXII. (1316),
    che negava l’immortalità dell’anima e fu deposto dal santo concilio ecumenico di Costanza.


    Alcuni asseriscono che questo concilio non fosse che un concilio particolare.
    E sia pure: ma se gli ricusate ogni autorità, per essere logicamente conseguenti,
    bisogna tenere per illegale la nomina di Martino V. (1417). Che cosa avverrà allora della successione papale?
    Potrete voi trovarne il bandolo?

    Non parlo degli scismi che hanno disonorato la chiesa.
    In codesti sventurati giorni, la sede di Roma era occupata da due, e qualche volta da tre competitori: quale di questi era il vero papa?
    Riassumendomi dico, se voi decretate la infallibilità dell’attuale vescovo di Roma, vi abbisognerà stabilire la infallibilità di tutti i precedenti, senza escluderne alcuno:
    ma lo potrete voi, quando la storia è là, che stabilisce con chiarezza eguale a quella del sole, che i papi hanno errato nei loro insegnamenti?
    Lo potrete voi, sostenendo che dei papi avari, incestuosi, omicidi, simoniaci sono stati vicari di Gesù Cristo?
    Oh! Venerabili fratelli,
    sostenere tale enormità, sarebbe tradire Cristo peggio di Giuda:
    sarebbe gettargli del fango nel volto.

    (Grida: Giù dal pulpito! zitto, silenzio l’eretico!)

    Venerabili fratelli, voi gridate:
    ma non sarebbe cosa più dignitosa pesare le mie ragioni e le mie prove sulla bilancia del santuario?
    Credetemi, la storia non si rifà: ella è là e lo sarà in eterno per protestare energicamente contro il domma della infallibilità papale.
    Voi lo ploclamerete all’unanimità, ma meno un voto, il mio!

    I veri fedeli, Monsignori, hanno gli occhi su noi, attendono da noi il rimedio agl’innumerevoli mali che disonorano la Chiesa:
    gl’inganneremo nelle loro speranze?
    Qual non sarebbe innanzi a Dio la nostra responsabilità, se ci lasciassimo fuggire questa solenne occasione che Dio ci ha data, per render salda la vera fede?
    Afferriamola, fratelli; armiamoci di un santo coraggio;
    facciamo un violento e generoso sforzo; torniamo agl’insegnamenti apostolici:
    imperocché, fuori di questi, non abbiamo che errori, tenebre e false tradizioni.
    Valghiamoci della nostra ragione e della nostra intelligenza, per avere gli apostoli e profeti a nostri soli maestri infallibili, intorno alla domanda per eccellenza "che mi convien fare per essere salvato?" Ciò deciso, noi avremo posta la base della nostra dommatica.

    Fermi ed immobili sulla roccia stabile e incrollabile della Santa Scrittura, divinamente inspirata, fiduciosi andremo innanzi al secolo, e come l’apostolo Paolo, in presenza dei liberi pensatori, non vorremo saper altro che G. Cristo, e Gesù Cristo crocifisso:
    lo conquisteremo con la predicazione della follìa della croce, come Paolo conquistò i retori di Grecia e di Roma, e la Chiesa romana avrà il suo glorioso 89.

    – (Grida clamorose – Abbasso, fuori il protestante, il calvinista, il traditore della chiesa!)

    Le vostre grida, Monsignori, non mi spaventano:
    se il mio dire è caldo, la testa è fredda: io non sono né di Lutero né di Calvino, né di Paolo, né di Apollo, ma di Cristo.

    – (Nuove grida – Anatema, Anatema all’apostata!)

    Anatema! Monsignori, Anatema!
    voi sapete bene che non protestate contro di me, ma contro i santi apostoli, sotto la cui protezione vorrei che questo concilio ponesse la Chiesa.
    Ah! se coperti dei loro sudarii, uscissero dalle loro tombe, vi parlerebbero essi un linguaggio differente dal mio?
    Che cosa direste loro, quando coi loro scritti vi dicessero che il papato ha deviato dal Vangelo del figlio di Dio, che essi con tanto coraggio hanno predicato e confermato col loro generoso sangue?
    Ardireste dir loro: Noi preferiamo ai vostri insegnamenti quelli dei nostri papi, dei nostri Bellarmino, e Ignazio di Loiola?
    Nò, nò, mille volte nò, a meno che non abbiate chiuse le orecchie per non udire, gli occhi bendati per non vedere, la intelligenza ottusa per non intendere.
    Ah! se colui che regna nei cieli vuole aggravare su noi la sua mano, siccome fece su Faraone,
    non ha bisogno di permettere ai soldati di Garibaldi di scacciarci dalla città eterna,
    non ha che lasciar fare di Pio IX un Dio,
    come abbiamo fatto della Beata Vergine una dea.


    Fermatevi fermatevi, Venerabili fratelli,
    sul pendio odioso e ridicolo, su cui vi siete posti.
    Salvate la Chiesa dal naufragio che la minaccia, domandando alle sole sante scritture la regola di fede, che dobbiamo credere e professare.
    Ho detto.
    Dio mi aiuti! "


    ----------------------------------------------------------------

    Queste ultime parole furono ricevute con i più plateali segni di disapprovazione.
    Tutti i padri si alzarono; molti uscirono dalla sala;
    ma un buon numero di Italiani, Americani, Tedeschi, e un piccol drappello di Francesi ed Inglesi circondarono il coraggioso oratore, gli strinsero fraternamente la mano, e gli mostrarono esser concordi nel suo modo di pensare.

    Questo discorso nel secolo XVI avrebbe procurato al coraggioso vescovo la gloria di morire sul rogo:
    nel secolo scorso, ha provocato lo sdegno di Pio IX e di tutti coloro che vogliono abusare della ignoranza dei popoli.

    Poveri ciechi! "Cadranno nella fossa ch’eglino stessi hanno fatta" - Salmo VII 15.

    Link . . .

    (POSTATO DA ETRUSCO)
  • Nikki72
    00 25/07/2008 21:01

    Renato Pierri "Sesso, diavolo e santità. Santi, demoni ed esorcismi di un falso Cristianesimo" - Coniglio Editore 2007



    SACRI ERRORI


    Eunuchi per il regno dei cieli

    Leggendo la Bibbia sembrerebbe proprio che il più bel dono che si possa offrire al Creatore sia mettere al mondo un bambino. "Siate fecondi e moltiplicatevi", è la benedizione che il Signore dà ai progenitori; ad Abramo il Signore dice: "Renderò la tua discendenza come la polvere della terra; se qualcuno può contare il pulviscolo della terra, anche i tuoi discendenti potrà contare!". "Ci è nato un bambino, ci è stato dato un figlio!", è il grido possente di Isaia, carico di intenti messianici. Per gli israeliti, i figli erano una benedizione ed una ricchezza: "Ecco, eredità del Signore sono i figli, un premio il frutto del grembo". Nel giudaismo era sentito come un dovere religioso che uomo prendesse moglie: i rabbini dichiaravano che "un uomo senza figli deve essere considerato morto" e consideravano la sterilità provocata uno dei peggiori peccati. "Dammi dei figli, se no io muoio!" grida Rachele al marito Giacobbe. Nel Vangelo di Luca, Elisabetta, che era sterile, e concepisce per grazia di Dio, dice: "Ecco ciò che ha fatto per me il Signore in questi giorni nei quali ha volto su di me lo sguardo, per togliere la mia vergogna tra gli uomini". Eppure c’è un versetto del Vangelo che ha fatto pensare a molti che la rinuncia in sé al matrimonio e alla procreazione possa far piacere a Dio: "Vi sono infatti eunuchi che nacquero così dal seno della madre, e vi sono eunuchi che furono resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che si resero tali da sé per il regno dei cieli. Chi può comprendere, comprenda". Ed è la risposta che Gesù diede agli apostoli, quando gli fecero osservare che se l’uomo non aveva la possibilità di ripudiare la moglie, tanto valeva che non si sposasse. Le Chiese Orientali "hanno compreso" che uomini sposati possono essere ordinati sacerdoti, ma non vescovi. Le chiese protestanti "hanno compreso" che i ministri del culto possono sposarsi tranquillamente. La Chiesa latina "ha compreso", invece, che per i preti la rinuncia al matrimonio non debba essere una scelta, ma un obbligo. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, in proposito, cita un passo di San Paolo: "Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come piacere al Signore; lo sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso. Così la donna non maritata e la vergine si danno pensiero delle cose del Signore". Ora, a prescindere dal fatto che specialmente in tema di sessualità non sempre san Paolo può essere preso sul serio, la differenza tra la Chiesa Cattolica e l’ebreo di Tarso è che la prima "impone", ed il secondo dà consigli e non ordini. La rinuncia al matrimonio, per un sacerdote, dovrebbe essere una conseguenza della propria scelta, e non una condizione indispensabile per l’ordinazione. Inoltre, non è importante il tempo che si dedica a Dio, ma l’intensità dell’amore verso Dio. Un sacerdote potrebbe benissimo "donarsi totalmente" al Signore, dedicandosi anche alle sue creature (sposa, figli, prossimo bisognoso). Non ci sarebbe "divisione" alcuna, poiché l’amore verso Dio, e l’amore verso le sue creature sono una sola cosa. L’importante è che tale amore sia autentico. In ogni modo, c’è un problema che non viene considerato dalla Chiesa. L’evirazione, proibita espressamente nell’Antico Testamento, era intesa ovviamente da Gesù nel senso spirituale, come rinuncia perpetua al matrimonio; ma la rinuncia al matrimonio significa forse rinuncia alla sessualità? Ed è sempre vero che il celibe, e la vergine, rinunciando al matrimonio, possono pensare unicamente alle cose del Signore? Il comportamento non solo di molti preti, ma anche di santi famosi, dimostra il contrario. Un fiume, se non ha la possibilità di scorrere naturalmente nel proprio letto, straripa, e cerca altre vie. San Francesco passava nottate a combattere contro la tentazione di masturbarsi. Santa Caterina da Siena era ossessionata da visioni lascive. Santa Gemma Galgani, l’ultima grande mistica italiana, per tutta la vita fu tormentata da quelle che lei chiamava le "orribili tentazioni". San Paolo sbagliava, dunque, e sbaglia la Chiesa quando afferma: "Chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle sue cose, essi [i ministri] si donano interamente a Dio e agli uomini". Essi in realtà, anziché pensare soltanto alle cose del Signore, sono spesso costretti a pensare a cose assai meno spirituali. Altro che cuore indiviso! I santi hanno sempre considerato colpa gravissima i peccati contro la castità, al punto che, non sopportando il pensiero d’averne commessi, o anche d’avere la tentazione di commetterne, ne hanno immancabilmente attribuito la causa alle insidie del demonio. In realtà tali peccati, tranne l’adulterio, non sono tenuti in grande considerazione da Gesù, che enumera i peccati gravi che offendono Dio, ma non fa cenno alcuno, ad esempio, agli atti di omosessualità o alla masturbazione. In effetti, perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre condizioni: "E’ peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso". Ora, anche se nell’atto della masturbazione sussistessero le due ultime condizioni, verrebbe sempre a mancare la prima, vale a dire la materia grave, precisata dai dieci comandamenti, secondo la risposta di Gesù al giovane ricco: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre". L’atto della masturbazione potrebbe al più essere considerato un peccato veniale, che "non priva della grazia santificante, dell’amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna". Così molti santi hanno sbagliato non solo nel ritenere grave peccato ciò che peccato non è, ma anche nel credere in un diavolo inverosimile che li avrebbe spinti a commettere peccati inconsistenti, che non possono compromettere la santità di una persona.


    La povertà

    Purtroppo, molti santi, hanno commesso sbagli non solo riguardo ai peccati e al demonio, ma anche nei confronti di Dio. Un grave errore nei riguardi del Signore è stato di credere fermamente che procurarsi inutili tormenti possa essere cosa gradita al Padre misericordioso, e addirittura che il Signore stesso possa mandare patimenti alle sue creature; il che è addirittura blasfemo. Dio, infatti, per sua natura, non può volere la sofferenza degli uomini, e tanto meno essa può avere origine da lui. Altro errore, dovuto ad un’errata interpretazione del Vangelo, è stato quello di ritenere che per conformarsi a Cristo fosse indispensabile vivere in estrema povertà. La Regola di santa Chiara citava le parole che Francesco scrisse per la sua discepola e le sorelle del monastero di san Damiano d’Assisi: "Io, frate Francesco piccolino, voglio seguire la vita e la Povertà dell’altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, e perseverare in essa fino alla fine. E prego voi, mie signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà. E guardatevi molto bene dall’allontanarvi mai da essa. In nessuna maniera per l’insegnamento o il consiglio di alcuno". Racconta Tommaso da Celano nella Vita seconda che Francesco piangeva ogni volta che pensava alla penuria in cui era venuta a trovarsi Maria, al momento della nascita del Bambino; che un giorno scoppiò in lacrime, e si allontanò dalla mensa, per mangiare il resto del pane sulla nuda terra, poiché un compagno gli aveva rammentato la povertà della beata Vergine e di Cristo suo Figlio. Francesco e Chiara, vissero in estrema povertà, certi, come molti altri santi, di conformare la loro vita a Cristo, che “fu deposto nel presepe ed avvolto in poveri pannicelli”. Gesù, però, non era povero, come ritenevano Francesco e Chiara, e come comunemente si crede, e tra l’altro, della qualità, nonché della quantità, dei panni in cui fu avvolto quando nacque, non si sa assolutamente nulla, così come non v’è certezza che sia nato in una grotta. Luca, che non era uno dei dodici apostoli, racconta che Maria "avvolse il neonato in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto all’albergo". Matteo invece, che fu apostolo di Gesù, non accenna ad una grotta, ma riferisce che i Magi, giunti dall’oriente per adorare il Bambino, entrarono "nella casa". Gesù era figlio di un carpentiere, ed egli certamente esercitò lo stesso mestiere nella giovinezza. Il carpentiere, in Israele, era anche costruttore di case, ebanista, ecc,; si occupava, insomma, di tutti lavori del legno. Un falegname della Palestina era un uomo abile, utile, e particolarmente stimato. Così è ragionevole ritenere che Gesù fosse tutt’altro che povero. È pur vero che il Nazareno nel periodo della predicazione non avesse dove "reclinare il capo" ma non sembra si facesse mancare il cibo, a giudicare da tutte le volte che nei vangeli lo troviamo a tavola a casa di amici, e dalle sue stesse parole: "E' venuto Giovanni che non mangiava né beveva, e si diceva: - E' indemoniato -. E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e si dice: - È un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori!". Sicuramente non gli mancarono pane e pesce, e certo "bevve quel vino nero, pastoso e colorito, che bisognava annacquare prima di servirlo". Disponevano, lui e i suoi apostoli, di denaro, e facevano l’elemosina ai poveri. Se Cristo avesse ritenuto la povertà materiale un valore in sé, e condizione indispensabile per la perfezione interiore, sarebbe stato in contraddizione con se stesso e con il suo insegnamento; e si sarebbe costretti a pensare che egli non fosse perfetto! La povertà, intesa come privazione del necessario per vivere, comporta sofferenza. Ora, poiché la predicazione del Signore, il suo comportamento, ed i suoi miracoli, mirano al benessere non solo spirituale ma anche fisico dell’uomo; poiché tendono all’eliminazione, per quanto possibile, del dolore dalla faccia della Terra, è chiaro che tendono anche all’eliminazione della povertà. Nel Vangelo esistono versetti che sembrano spingere gli uomini alla scelta della povertà, ma per interpretarli nella maniera giusta è necessario tener conto del comandamento dell’amore scambievole: "Un comandamento nuovo vi do: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, affinché anche voi vi amiate gli uni gli altri". Questo fondamentale precetto, se fosse osservato da tutti gli uomini, non permetterebbe l’esistenza dei poveri, o perlomeno eliminerebbe l’iniqua distribuzione dei beni. Gesù aveva semplicemente chiesto agli uomini di non fare del denaro il proprio dio, di liberarsi del superfluo; di vivere non nell’indigenza ma morigeratamente. Ciò è anche dimostrato dal modo di vivere delle prime comunità cristiane: "Tutti i credenti, poi, stavano riuniti insieme e avevano tutto in comune; le loro proprietà e i loro beni li vendevano e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano assidui nel frequentare insieme il tempio, e nelle case spezzavano il pane, prendevano il cibo con gioia e semplicità di cuore". I primi cristiani, dunque, si erano liberati del superfluo, ma non della possibilità di mangiare, di vestirsi, e di abitare in una casa: "Non avete forse le vostre case per mangiare e bere?" Così, scriveva san Paolo tra il 55 e il 57 d.C., ai cristiani di Corinto, per rimproverarli, giacché abusavano nel mangiare e nel bere, durante la cena in comune che precedeva la celebrazione eucaristica. La Chiesa ha sempre lasciato credere ai fedeli che la povertà materiale sia una norma di vita evangelica. Al paragrafo n. 2444 del Catechismo si legge: "L’amore della Chiesa per i poveri appartiene alla sua grande tradizione. Si ispira al Vangelo delle beatitudini, alla povertà di Gesù"; e al n. 2546: "Gesù esalta la gioia dei poveri, ai quali già appartiene il Regno". Per lungo tempo, compito preminente della Chiesa non è stato quello di eliminare la povertà, secondo la volontà del Signore, quanto semplicemente di aiutare i poveri, che potevano tranquillamente continuare ad esistere in una società cristiana, giacché era capitata loro la fortuna di vivere nella gioia e nella beatitudine, essendo già in possesso del Regno. L’atteggiamento della Chiesa nei riguardi dei poveri è poi cambiato. Diverse Encicliche, a cominciare dalla Rerum novarum di Leone XII nel 1891, hanno affrontato con insistenza la problematica sociale.


    Clausura, altro errore di molti santi

    Altro errore di molti santi è stato quello di ritenere l’allontanamento materiale dalle cose del mondo e soprattutto dal consorzio umano, condizione indispensabile per la santità. Eppure la separazione dal mondo per tutta la vita contrasta con la ragione e col Vangelo. "Egli rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei precetti. Ma il secondo è simile ad esso: amerai il prossimo tuo come te stesso". L’anacoretismo non consente di osservare pienamente il secondo dei due fondamentali precetti, e poiché l’uno non può prescindere dall’altro, viene compromesso anche il reale adempimento del primo. Lo stesso discorso vale per i monaci e le monache di clausura, che pur facendo vita in comune (cenobitismo, dal greco koinòs bìos), vivono sempre separati dalla società. Gesù, infatti, quando disse ai discepoli: "Se dunque io, il Signore e il maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri", non intendeva certo comandare agli apostoli di chiudersi per tutta la vita in un monastero a pregare Dio, e a "lavarsi i piedi" reciprocamente! Il monachus che vive solo, separato dal mondo, non era nei progetti di Dio. Il Signore, infatti, ci ha creati unici, ma non soli; non ci ha destinati alla solitudine. Per comprendere appieno i motivi che impediscono di considerare veramente santo il monaco, occorre avere ben presente il concetto di santità in base al Vangelo. Concetto semplicissimo. Santità è, nei limiti ovviamente delle possibilità umane, somiglianza a Cristo. Più si somiglia a Cristo e più si è santi. Per imitare Cristo occorre spezzare il proprio corpo e distribuirlo; sacrificare la propria vita a favore del prossimo bisognoso. E’ la strada indicata da Gesù. Il Signore non invitò nessuno a segregarsi per tutta la vita; non è assolutamente il modo di dedicarsi a Dio. Il Vangelo è azione; è movimento. Gesù stesso era un uomo d’azione. La stia vita fu un cammino; ed invitò gli apostoli ad imitarlo: "Ecco: vi mando come pecore in mezzo ai lupi…". A dire il vero, il monaco si mette al riparo dai lupi. Se avessero fatto così anche gli apostoli, oggi il cristianesimo non esisterebbe. Si potrebbe obiettare che ognuno è chiamato a compiti diversi; ma chi ha stabilito che Dio ci "chiami" a separarci per sempre dal prossimo? Si può comprendere il bisogno di appartarsi per pregare, meditare, "contemplare"… Ma quanto può durare l’isolamento perché non si trasformi in sacrificio inutile ed irragionevole? Inginocchiarsi davanti all’altare per un po’ è cosa buona per un cristiano, restarvi sino a crollare è cosa assurda che sicuramente darebbe un certo fastidio… anche al buon Dio. Gesù non si appartò per tutta la vita. Nel Vangelo non esiste un solo verso che autorizzi a pensare che la separazione (non il distacco spirituale, che è altra cosa) dal mondo, per tutta la vita, sia un consiglio o un comandamento di Gesù. Del resto, quale frutto può portare chi si allontana per sempre dal mondo? Come dare da mangiare al Gesù affamato, dar da bere al Gesù assetato, vestire il Gesù nudo, visitare il Gesù malato o carcerato? Con l’immaginazione? "Da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni gli altri": come ravvisare un discepolo di Cristo in chi "fugge" dal prossimo? Gesù, tranne i quaranta giorni trascorsi nel deserto, visse in mezzo alla gente, ne conobbe i problemi, ed ebbe pietà della folla che rischiava di venir meno per la via. Fece esperienza di umanità. La Chiesa, per dare fondamento evangelico all’istituzione della clausura, ricorre all’episodio di Marta e Maria, del Vangelo di Luca. Riferendosi alla monaca di clausura, afferma: "Ella tende alla perfezione della carità scegliendo Dio come l’unico necessario". Questo il passo lucano: "Marta invece era assorbita per il grande servizio. Perciò si fece avanti e disse: "Signore, non vedi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque di aiutarmi". Ma Gesù le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti preoccupi di troppe cose. Invece una sola è la cosa necessaria. Maria ha scelto la parte migliore che nessuno le toglierà"". Un’interpretazione data dal Verbi Sponsa difficilmente si rivela errata per chi non è un buon conoscitore del Vangelo stesso: "Marta vuol fare onore a Gesù e se ne preoccupa; non ha ancora capito che Gesù, più che ricevere, vuol dare, e ciò che veramente conta per lui non è un buon pranzo, ma la conformità di ideali e aspirazioni". Conformità di ideali e di aspirazioni. La "cosa necessaria" non era il semplice fatto in sé di "appartarsi" con Cristo, ma di ascoltare, in quel momento, la sua parola, per comprenderla appieno e metterla in pratica: "Se capite queste cose, siete beati se le mettete in pratica". Per capire bene il significato dell’episodio di Marta e Maria, tanto caro soprattutto alle claustrali, per appurare se orazione e contemplazione bastino per essere veri discepoli di Cristo; e se la clausura non finisca per rendere vane l’una e l’altra, occorre non separarlo dal contesto, e riflettere profondamente sui versi che lo precedono.. "Maestro", chiede il dottore della legge a Gesù, "che cosa devo fare per avere la vita eterna?". Il Signore gli spiega che è necessario osservare i due comandamenti fondamentali: l’amore verso Dio, e l’amore verso il prossimo. E narra la parabola del buon Samaritano. Tre i personaggi che possono soccorrere il malcapitato percosso dai briganti: il sacerdote, che lo vede, ma passa oltre; il levita, che addirittura lo scansa e prosegue il suo cammino, ed il Samaritano che, avendone compassione, si ferma e lo aiuta. Potremmo anche immaginare che la parola del Signore, ascoltata da Maria, trattasse proprio questo tema, e che Gesù abbia detto a Maria, come al dottore della legge: "Va’ e anche tu fa’ lo stesso". Un monaco, separato dal mondo, non sarebbe mai passato per quella strada, e mai gli si sarebbe presentata l’occasione offerta al sacerdote, al levita, e al Samaritano. È assolutamente impensabile che Maria sia rimasta in perpetuo ascolto della parola di Gesù, senza accoglierla nella sua interezza, per poi metterla in pratica. La parte migliore, sino a che c’è un ferito da soccorrere, è quest’ultimo, giacché rappresenta Cristo stesso: "E il Re risponderà loro: "In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me"". Il comandamento di Gesù, dell’amore per il prossimo, non è tenuto in gran considerazione da colui che si separa dal consorzio umano. Il suo interesse non è rivolto a Dio e alle sue creature bisognose ma a se stesso in rapporto con Dio, e, alle volte, a se stesso in rapporto con Dio e col diavolo. Alcuni santi hanno speso tutte le proprie energie per evitare l’inferno ed assicurarsi il paradiso, magari torturandosi e sottoponendosi ad inutili sacrifici. Una forma forse inconscia ed innocua d’egoismo, ma pur sempre egoismo. La monaca di clausura, separandosi dal mondo, s’illude di imitare Cristo, "offrendosi con Gesù Cristo al Padre e collaborando all’opera della redenzione". Gesù, però, non chiese a nessuno di collaborare all’opera della redenzione. Limitazione di Cristo è apparente e quindi assurda; Gesù, infatti, offre il suo corpo, giacché altra via non è possibile per la salvezza dell’umanità. L’immolazione della monaca non ha senso. L’atto redentore di Cristo fu perfetto e sovrabbondante.


    Miracoli di guarigione

    Spesso è il popolo a creare i miracoli. La Chiesa, purtroppo, interviene quando le credenze hanno già assunto proporzioni inarrestabili, e sono radicate a tal punto nell’immaginario dei devoti, che deluderli diventa impossibile. Autorevoli teologi dubitano persino dell’attendibilità storica dei miracoli evangelici, (ritenendoli, alla stregua delle parabole che non sono fatti storici, reali enunciati di fede sul significato salvifico della persona e del messaggio di Gesù) e avanzano l’ipotesi che il Nuovo Testamento abbia arricchito la figura del Salvatore con motivi extracristiani per esaltarne l’eccezionalità. Non sono gli evangelisti, infatti, ad avere "inventato" i miracoli. Sia in campo rabbinico che in quello ellenistico si narrano storie di guarigioni, resurrezioni, tempeste sedate, ecc. Un certo Apollonio di Tiana, mago e guaritore contemporaneo di Gesù, presenta numerosi parallelismi con i miracoli dei vangeli. Guarigioni si sarebbero verificate nel santuario di Asclepio a Epidauro. Anche la struttura del racconto evangelico presenta somiglianze con analoghe narrazioni extracristiane. Di solito c’è uno schema in tre fasi: si comincia col sottolineare la gravità della malattia preparando psicologicamente il lettore ad ammettere la grandezza del miracolo; si prosegue esponendo come si sono svolti gli eventi miracolosi; si adducono infine i testimoni presenti che confermano coralmente i fatti. Questi motivi non sono sufficienti per negare la verità dei miracoli in genere; è chiaro, però, che la inspiegabilità di un fenomeno non autorizza assolutamente un credente ad attribuirlo ora a Dio ora al diavolo: per poterlo fare, occorrono argomenti teologici seri. Esiste, invece, un’importante ragione teologica che induce a non credere, se non altro, ai miracoli di guarigione: l’assoluta impossibilità che Dio, salvando da un malanno questa o quella sua creatura, possa fare discriminazioni. Si potrebbe pensare che un malato o i suoi familiari abbiano pregato un santo, oppure la Madonna, più intensamente di altri; oppure che siano più meritevoli di altri, ma come fare un ragionamento del genere quando la discriminazione riguarda i bambini? Non sono tutti uguali davanti a Dio? Perché Dio, Padre misericordioso, dovrebbe compiere un miracolo per un figlio e non per un altro? Ragioni imperscrutabili? Non è possibile, giacché Dio può nascondere quasi tutto di sé alla sue creature (non potrebbero afferrarne la grandezza), ma non può dare di sé un’immagine alterata, distorta, contrastante col senso di giustizia che Lui stesso ha infuso in noi, con l’intelligenza che lui ci ha donato, con l’amore che Lui ci ha comunicato. Alterato, distorto, falso, sarebbe anche il rapporto degli uomini con Dio. Sentirsi oggetto di un intervento divino, e quindi privilegiati da Dio, è anche un atto di presunzione, di cui neppure i santi si sono mai resi conto.


    Il diavolo

    Credere nell’esistenza di Dio è cosa seria e degna di rispetto; credere nell’esistenza del demonio è cosa altrettanto seria, ed altrettanto rispettabile. La credenza nel demonio, però, spesso rasenta il ridicolo. Di norma viene immaginato un diavolo che non risponde affatto al concetto che, in base alle Scritture, e naturalmente alla ragione, ci si dovrebbe fare del nemico di Dio. Si crede in un falso diavolo. Di conseguenza sono anche falsi, e perfettamente inutili, gli esorcismi atti a scacciare un demonio immaginario; false le possessioni diaboliche. Nel primo libro dell’Antico Testamento, Satana tenta i progenitori alla disobbedienza a Dio; riesce a rompere una meravigliosa amicizia; per causa sua la morte entra nel mondo, gettando "l’ombra del non senso sull’intera esistenza dell’uomo". Nel Vangelo, il diavolo osa tentare il Figlio dell’uomo; sfida Gesù a fare miracoli, gli chiede di prostarsi davanti a lui e di adorarlo: in cambio gli promette tutti i regni del mondo. Una figura tremenda quindi, che nulla può contro Dio, ma che può influire sull’uomo, spingendolo ad allontanarsi dal Signore. Il diavolo immaginato dal popolo, dagli esorcisti ma anche da molti santi è invece simile a un insulso monello che si diverte a far dispetti di poco conto. Ogni tanto, il principe di questo mondo, il seduttore, il mentitore, l’enorme drago, il leone affamato, non avendo altre cose di cui occuparsi, prenderebbe di mira una ragazza, magari bella (solitamente si tratta di donne, giacché nell’immaginario popolare il diavolo è maschio, e spesso è anche fornito di zampe e di coda), entrerebbe nel suo corpo, e si diletterebbe a farla dimenare e strillare, di solito con voce cavernosa; le farebbe tirar fuori, alle volte, un po’ di bestemmie, per andarsene, ma non sempre, solo dietro l’ordine perentorio e reiterato di un esorcista, munito di medagliette, crocifissi, e dell’indispensabile acqua santa, magari esorcizzata. Ora, si può essere certi, innanzi tutto, che se il demonio, essere soprannaturale, avesse la possibilità di impossessarsi di una persona, non avrebbe per nulla bisogno di "entrare" materialmente nel suo corpo. Inoltre il suo regno dovrebbe essere là ove avvengono guerre, genocidi, violenze, stupri, torture; le sue prede dovrebbero essere uomini sfruttatori dei deboli, assetati di denaro e di potere. Sarebbe più logico pensare che il demonio possa impossessarsi, ad esempio, di uomini come Hitler. E di conseguenza sarebbe cosa saggia, giacché si crede che gli esorcismi abbiano effetto anche a distanza, che le persone addette, anziché avvalersi della loro arte per liberare dal maligno persone malate, si adoperassero per allontanare l’influenza diabolica dai mercanti d’armi e dagli appassionati della guerra. Ma sarebbe anche logico pensare che dell’esorcista si possa fare tranquillamente a meno, giacché per implorare l’intervento di Dio contro Lucifero dovrebbero bastare le preghiere di un semplice sacerdote o di un semplice fedele. Rinunciando alla ragione, e prendendo alla lettera alcuni versetti del Vangelo d Marco, si potrebbe fare obiezione, sia riguardo alla negazione delle possessioni diaboliche, sia riguardo all’inutilità degli esorcismi: "Questi poi sono i segni che accompagneranno i credenti: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se avranno bevuto qualcosa di mortifero, non nuocerà loro, imporranno le mani agli infermi, e questi saranno risanati". L’obiezione, però, potrebbe essere presa in considerazione solo se riuscisse a dimostrare che gli esorcisti, oltre ad allontanare i demoni, a parlare lingue nuove e a risanare i malati, possano tranquillamente stringere tra le mani serpenti velenosi e sopravvivere, ad esempio ad una dose letale di cianuro. Inoltre, interpretato letteralmente, l’evangelista ci direbbe anche che la facoltà di scacciare i demoni non appartiene a persone "specializzate", bensì a tutti i credenti. Mentre è abbastanza comprensibile che il popolino abbia attribuito al diavolo aspetti ridicoli e poco credibili, non si spiega facilmente come lo stesso errore sia stato fatto da diversi grandi santi, i quali spesso hanno immaginato di essere assediati da un diavolo fasullo; un demonio che, per farli deviare dalla strada della santità, sarebbe ricorso a mezzi risibili, puerili, certamente non rispondenti alla sua immensa e sconfinata perfidia.
  • Nikki72
    00 25/07/2008 21:04

    Jurgen Becker "La resurrezione dei morti nel cristianesimo primitivo" - Paideia Editrice 1991



    BATTESIMO E RESURREZIONE


    I. Affermazioni sul battesimo con senso salvifico riferito al presente

    Con la soluzione paolina alla questione del destino dei cristiani defunti in I Thess. 4, non viene certamente presentata l'unica possibilità allora esistente di approntare i mezzi per togliere a questo problema il suo effetto di minaccia nei confronti della fede e della speranza. E' probabile piuttosto che, prendendo le mosse da una determinata concezione della teologia battesimale, indipendentemente e parallelamente a Paolo, sia stata presa anche un'altra strada per dare fondamento a speranza e resurrezione: partendo cioè dall'ipotesi che nel battesimo si verificasse il "morire insieme" e "risuscitare insieme" con Cristo. Tanto la storia dell'interpretazione del battesimo in generale, quanto proprio gli inizi di questa speciale teologia battesimale non sono facilmente accertabili, dato che lo storico non può partire da prove testuali comparativamente sicure come I Thess. 4,13 ss. Le seguenti affermazioni contengono perciò in misura maggiore una costruzione di carattere ipotetico. Il necessario livello di ipoteticità è viceversa ricompensato dalla meta raggiunta. Chi in pochi punti della storia del cristianesimo primitivo non trova il coraggio per ipotesi di questo tipo, spesso deve rinunciare del tutto a spiegazioni, fermarsi all'ambito del frammentario e prescindere appunto anche da un'interpretazione globale dei fenomeni. Se nel battesimo si verifica la partecipazione soteriologia alla morte e resurrezione di Cristo, allora l'indicativo della salvezza, cioè lo stato di salvezza dei cristiani espresso al presente, viene con ciò manifestato in modo accentuato. La possibilità di un'affermazione di salvezza escatologica al presente, così marcata al momento del battesimo, da un lato presuppone - il che non dovrebbe essere contestato - che ci si trovi nell'ambito di un influsso diretto o indiretto delle religioni misteriche ellenistiche, dal momento che in esse la partecipazione esperimentata nel culto al destino della divinità è in effetti l'elemento fondamentale del trasferimento della salvezza al presente. D'altra parte, per poter comprendere tali affermazioni, devono naturalmente verificarsi anche premesse storico-teologiche di storia del cristianesimo. Se, per seguire questa connessione, si indaga su acuite affermazioni di salvezza al presente all'atto del battesimo, e quindi sull'interpretazione della situazione ecclesiale, si incontra una serie di espressioni formulari ben definibili, la cui radice più antica si trova probabilmente nella teologia siriaco-antiochena e le cui ramificazioni conducono presumibilmente soprattutto a Corinto. Nel periodo paolino della storia comunitaria antiochena l'unità della comunità "in Cristo" era evidentemente intesa come fattore livellante della divisione, fino ad allora fondamentale sotto il profilo della storia della salvezza, tra giudei e pagani. Con ciò la via di salvezza della legge come norma divina fondamentale per tutta quanta la storia è stata abrogata: l'essere in Cristo ha ora una qualità escatologica tale, che la legge, insieme con la sua validità, è revocata (cfr. Gal. 2,16a; 3,28a; 5,6; 6,15). Lo stato di salvezza escatologico, che viene sottolineato come presente, nel suo aspetto caratteristico di fondamento causale per l'abrogazione della legge, acquista importanza specialmente là dove "in Cristo" viene inteso come "nuova creazione" come in Gal. 6,15. Ci si dovrà chiedere, in effetti, che cosa un'affermazione del genere lasci ancora alla dimensione della speranza. La risposta a ciò dovrà venire in rapporto all'attesa imminente della parusia come è testimoniata in I Thess. 1,9 s. anche proprio per il periodo antiocheno di Paolo: che cioè al compimento, in sostanza, manca soltanto la diretta presenza del Signore che viene. Forse, a questo proposito, la consapevolezza della situazione escatologica nell'Antiochia antica veniva dopo tutto formulata solo riguardo all'abrogazione della legge. E' possibile però che anche qui si sia già andati oltre. Ad ogni modo, per il periodo della primitiva comunità di Corinto si dovrà probabilmente constatare che già allora, in relazione a battesimo - Spirito - corpo di Cristo, s'era largamente diffusa non solo la revoca dell'opposizione tra giudei e pagani, ma, oltre a questa differenziazione a livello di storia della salvezza, anche quella sociologica tra schiavi e padroni, come pure infine quella creaturale tra uomo e donna, ritenute tutte escatologicamente sorpassate nella comunità cristiana (I Cor. 12,12 s.; 7,19; 11,4 s.; cfr. Col. 3,11). Comunque, per coloro ai quali - come in I Cor. 4,8 - viene riconosciuta in modo così evidente la consapevolezza del compimento escatologico, tali affermazioni risultano calzanti. In base a questo risultato parziale, si può ora prendere in considerazione la più vasta tradizione chiusa riguardante questo contesto, caratteristica, fra l'altro, dell'ambiente di Corinto. Si trova in Gal. 3,26-28 e dice:

    Tutti voi siete figli in Cristo Gesù.
    Perché quanti siete stati battezzati in Cristo
    vi siete rivestiti di Cristo.
    Non c'è dunque né giudeo né greco,
    né schiavo né libero,
    né uomo né donna.
    Poiché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù.

    Il battesimo prende quasi l'aspetto di fusione identificatrice con Cristo. Il "rivestire Cristo" è espressione gravida di simbolismo per l'unione con il Signore, nella quale tendenzialmente soggetto e oggetto non sono più divisi in modo inequivocabile. La visuale delle religioni misteriche ellenistiche palesa qui la sua parentela spirituale sotto il profilo storico-religioso. Da notare che qui di Cristo non viene considerato il suo destino di morte, egli è invece inteso come il Figlio innalzato e come rappresentante della nuova creazione. I membri della comunità sono figli in base alla partecipazione alla sua qualità di figlio, come aiuta a spiegare il motivo di fondo della formula di missione che viene elaborato immediatamente dopo: "Dio inviò suo figlio, nato da una donna, ... affinché noi ottenessimo l'adozione a figli" (Gal. 4,4 s.). Questi figli sono quelli che posseggono lo Spirito, che gridano "Abba!" (4,6). Che qui si tratti di un contesto concluso, a livello di storia della tradizione, lo dimostra Rom. 8,12 ss. La qualità di figlio per i cristiani è costituita dunque dal "rivestire Cristo". La realizzazione di questo simbolo sta nell'unità indivisibile dei cristiani muniti dello Spirito con il pneuma celeste dell'Innalzato. Essere spiritualmente tutt'uno con il Cristo celeste, significa nel contempo avere accesso immediato a Dio. Così si è dispensati in modo molto reale dai vincoli relazionali esistenti, propri di questo mondo. Ora non ci si deve più sentire nella condizione storico-salvifica di giudaismo e paganesimo, in quella sociologica di schiavitù e padronato e in quella creaturale di virilità e femminilità. La nuova unione in Cristo esclude una tale ricaduta nella vecchia creazione. In verità manca solo un'accentuazione unilaterale, la tendenza cioè a sottolineare la piena identificazione ed il relativo appello a disprezzare in modo apodittico i rapporti tipici di questo mondo, e si è molto vicini agli abusi di Corinto.


    2. Risuscitati con Cristo

    Delle condizioni proprie di questo mondo fa parte, proprio nell'ambito dell'ellenismo, l'essere soggetti alla transitorietà ed alla morte. Cosa significhi il superamento soteriologico di morte e transitorietà nel contesto or ora descritto, può essere dimostrato anzi tutto sulla base della lettera deuteropaolina ai Colossesi. Per respingere l'erronea dottrina a Colossi, la cui discussione in questa sede dev'essere tralasciata, lo sconosciuto discepolo di Paolo scrive: "In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità ed è in lui che voi partecipate a questa pienezza Egli è il capo di ogni principato e potestà. In lui siete stati circoncisi di una circoncisione che non viene da mano d'uomo. Infatti con questa circoncisione di Cristo vi siete spogliati del vostro corpo di carne (come di un vestito). Nel battesimo siete sepolti con lui, in lui siete pure (insieme) con (lui) risorti per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Voi eravate morti a causa dei vostri peccati e a causa dell'incirconcisione della vostra carne, (ma) Dio vi ha risuscitati insieme con lui alla vita e vi ha perdonato tutti i vostri peccati" (Col 2,9-13). Dopo queste affermazioni la resurrezione come partecipazione alla signoria di Cristo è già avvenuta. La rimozione dalle condizioni di questo mondo non si riferisce solo alla sorpassata differenziazione fra giudeo-pagano, schiavo-libero (ecc., cfr. Col 3,11), ma anche al destino di morte. Il fatto di aver parte al Sovrano, nel quale la pienezza della divinità è presente corporalmente, significa lo spogliarsi del corpo della carne mortale nel battesimo (si noti ancora una volta il simbolismo dell'abito!) e l'essere risuscitato con lui, quindi la situazione di salvezza escatologica oltre la morte. La resurrezione è la perfezione della salvezza, vita escatologica in quanto contenuto dell'indicativo di salvezza, solo che è ancora nascosto e (con questo viene indicato l'unico contenuto restante della speranza) deve manifestarsi con la venuta di Cristo (3,1-4). Così la speranza non si estende più ad un nuovo essere, ma solo al suo attributo mancante, l'essere manifesto, revocando l'attuale segretezza. Un cristiano che già ora è partecipe "dell'eredità dei santi nella luce" e con ciò è già "strappato al potere delle tenebre e trasportato nel regno del Figlio suo diletto" (1,12 s.) in effetti non può più dire che l'ultimo nemico, la morte, dev'essere ancora vinto (cfr. I Cor. 15,26). Non si deve trascurare la vicinanza strutturale di quest'affermazione alla dottrina della redenzione così come viene espressa nella massima di 2 Tim. 2,18: "La resurrezione è già avvenuta". Ora, queste prove, che secondo la loro struttura possono essere ampliate dalla lettera agli Efesini e dal quarto vangelo, appartengono tutte alla terza generazione e non al periodo di Paolo immediatamente dopo le sue affermazioni di I Thess. 4. C'è da chiedersi però se queste affermazioni postpaoline sul battesimo, che parlano di una partecipazione identificatrice dei cristiani alla morte e resurrezione del Signore, non possano essere seguite a ritroso, relativamente a questo concetto di fondo, fin nel periodo paolino. A questa domanda si può rispondere molto verosimilmente in senso affermativo. Com'è noto, lo stereotipo del Dio che muore e risorge è familiare alle religioni misteriche ellenistiche. La sua ricezione da parte cristiana tramite e al di fuori di Paolo è già stata or ora stabilita per Gal 3,26-28 ed affermazioni simili in un caso ben preciso. Non occorre però fermarsi a questa generale constatazione storico-religiosa. Nella lettera ai Romani, che Paolo invia da Corinto, l'apostolo in 6,1 ss. interpreta il battesimo esplicitamente come un morire e risuscitare insieme con Cristo. Qui, per Paolo, il "morire con" [Cristo] appartiene agli aspetti compiuti della salvezza, mentre d'altra parte il dono della vita escatologica appartiene ancora al patrimonio della speranza. Di un essere "conrisuscitato" del cristiano per il momento si può parlare solo richiamando l'attenzione sulla nuova condotta. Il dono della vita viene in certo modo diviso tra la vita definitiva nell'eschaton presso Cristo e Dio, ancora oggetto di speranza, e la già ottenuta possibilità di una condotta nuova dopo l'essere "morti con" Cristo nel battesimo. Questa differenziazione tipica di Paolo costituisce una variazione secondaria in relazione al concetto di fondo effettivamente atteso. Di conseguenza, quest'alterazione porta troppo chiaramente in fronte la sostanziale incongruenza nell'analogia del destino di morte e resurrezione di Cristo e dell'inclusione dei cristiani in questo destino, perché questa possa restare nascosta. In effetti, il pensiero di 6,3 ss. sarebbe logico, se il testo suonasse così: "Quelli che sono battezzati in Cristo Gesù sono battezzati nella sua morte. Così con il battesimo noi siamo con lui sepolti nella sua morte. E come Cristo venne risuscitato dai morti in virtù della Signoria del Padre, così anche noi siamo stati risuscitati con lui. Perché, se siamo stati innestati e modellati nella sua morte, lo siamo allora anche in rapporto alla sua resurrezione".


    3. Aspetti della teologia corinzia

    Ora, a dire il vero, non è possibile trovare un effettivo indizio che lasci supporre in Rom. 6,1 ss. una polemica diretta contro una concezione che comprese e sostenne teologicamente in modo sostanzialmente conseguente l'analogia Cristo-cristiani nel senso di un ripensamento in chiave misterica della completa partecipazione al destino di Cristo inclusa la sua resurrezione. Questo potrebbe dare adito ad un giudizio generalizzante: la cristianità primitiva generalmente ha recepito il pensiero di tipo misterico solo alla maniera paolina, quindi sempre solo in senso molto frammentario, con la riserva escatologica di un compimento ancora aperto. Ma chi dice che quello che in un primo tempo aveva valore solo per Roma - cioè di non sostenere alcuna teologia del compimento della salvezza - non fosse pure in altri luoghi all'ordine del giorno sotto il profilo teologico? Non sarebbe concepibile che Paolo, solo dopo un aperto contrasto con una posizione simile, si fosse visto costretto a descrivere la sua concezione del battesimo in appoggio così diretto alle religioni misteriche, formulando al tempo stesso in modo competente e appropriato l'oggettiva differenza nei confronti di quelle? Ad ogni modo si può asserire, richiamandosi a I Cor. 10,1 ss., che Paolo dovette redarguire proprio i Corinti di non essere tanto convinti che i sacramenti, in modo magico-costrittivo, per il loro carattere irresistibile e senza considerazione per l'esistenza cristiana terrena e la sua condotta di vita (la quale potrebbe anche non avere buon esito), siano tali da trasferire nel compimento non più rivedibile della salvezza. La sicurezza del pieno possesso della salvezza viene precisamente respinta anche in I Cor. 4,8. Quindi, non solo non c'è alcuna prova della logicità della generalizzazione di Rom. 6 a tutto il cristianesimo primitivo della prima generazione, ma vi sono altresì prove contrarie, le quali presuppongono addirittura una situazione tale da costringere Paolo ad una critica in sostanza simile a quella che egli, solo indirettamente e senza immediata polemica, con implicita distruzione, cioè, dell'effettivo rapporto analogico, espone in Rom. 6,3 ss. Si può così intendere fondatamente Rom. 6 come risultato di un contrasto avuto in precedenza con la teologia corinzia. Chi giudica la situazione in questo modo deve poi situare in modo conseguente la netta analogia, elusa da Paolo e sottintesa in Rom. 6,3 ss., presso gli avversari di Paolo a Corinto. In questo caso non si trattava di cosa facile neanche per l'apostolo, dato che anch'egli - come probabilmente tutta la cristianità di quel tempo - teneva per fermo che i cristiani non potessero essere esclusi dalla salvezza finale. Così, ad esempio, il cosiddetto incestuoso di I Cor. 5,1 ss. può essere sì consegnato a Satana, ma solo affinché con ciò il suo Spirito venga salvato nel giorno del giudizio del Signore. Ora, i Corinti, con l'aiuto della loro visione teologica, reinterpretano questa incondizionata certezza nella salvezza da parte dei cristiani solo nel senso di una entusiastica presenza salvifica. Se il grido estatico "Signore (è) Gesù" di I Cor. 12,3 significa per loro l'identificazione diretta del cristiano con il Signore innalzato e con il suo dominio sul mondo, essi allora intendono lo Spirito come facoltà di partecipare alla già compiuta presa di potere del Signore. Questa unità identificatrice con l'Innalzato non fa solo sparire la differenza fra l'ecclesia viatorum da un lato ed il compimento di Cristo dall'altro, ma portò anche ad una problematica perdita di considerazione per i confratelli cristiani. L'essere tutt'uno con Cristo individualizzava e si rifletteva in senso distruttivo sulla comunità. Proprio questo è il tenore fondamentale della discussione paolina in I Cor. 12-14. Se là egli mette in evidenza l'edificazione e il bene della comunità, per invitare così all'elaborazione della realtà con le sue premesse terrene e mondane, in 4,8 si richiama allo stesso stato di cose, quando fa sentire energicamente la differenza - che veniva saltata a piè pari - fra lo stato dei cristiani e quello del Signore innalzato. I Corinti credono di possedere già tutta la pienezza della ricchezza escatologica, credono di essere già arrivati al dominio. Ma dall'esistenza dell'apostolo si può dedurre che la morte possiede ad ogni modo ancora il valore di una realtà (4,8-13). Certamente Paolo non vuole ancora rinunciare all'indicativo della salvezza del battesimo. In 6,11 egli lo difende con una formulazione tradizionale: voi siete lavati. Voi siete santificati. Voi siete stati giustificati. Così egli definisce la posizione dei cristiani anche di Corinto. Non sono, però, ancora entrati nel dominio di Dio: questo è un patrimonio di speranza ancora dovuto, a condizione di una condotta cristiana e dell'abbandono delle opere malvagie (6,9 s.). Così Paolo distingue fra indicativo di salvezza e speranza di salvezza. La partecipazione al dominio nel compimento non è ancora realtà attuale, anzi, realtà al presente è l'essere in vista della morte, come si può vedere dall'esistenza apostolica. Queste elaborazioni paoline, di cui è evidente l'analogia con Rom. 6,1 ss., presumono addirittura, unitamente alla polemica contro la garanzia della salvezza mediante i sacramenti (10,1 ss.), che i Corinti considerassero come già avvenuta anche la resurrezione: regnare insieme con Cristo richiede la trasposizione nel suo stato. Proprio a questo Paolo contrappone la vicinanza della morte alla sua esistenza. I Corinti dunque avranno sostenuto l'analogia di Rom. 6,3 ss. in modo netto e non paolino, forse anzi furono i primi cristiani a concepire il battesimo come partecipazione alla morte e resurrezione di Cristo. Se però i Corinti, allargando la tradizione accettata anche da Paolo in Gal. 3,26-28, includevano, a differenza dell'apostolo, anche la morte nella potenza escatologica già raggiunta dai cristiani, e si credevano risorti, essi che - per dirla con il vangelo di Giovanni - sono già passati dalla morte alla vita (Io. 5,24), evidentemente in precedenza era cambiata anche la concezione del mondo ed il quadro biografico rispetto a I Thess. 4. Nell'ambito della immediata attesa della parusia e senza l'esperienza dei primi cristiani defunti, un potere esplicitamente chiaro anche sulla morte era inconsistente. Una tale asserzione non avrebbe avuto alcun punto d'appoggio nella vita dei cristiani. Se, però, la morte di cristiani prima della parusia diventa in certo modo una situazione normale, così che rimane solo la certezza che non tutti quelli attualmente in vita saranno defunti alla venuta del Signore (I Cor. 15,51), e se è possibile parlare senza problemi della morte di un certo numero di testimoni pasquali (15,6), allora la nuova consapevolezza della situazione con ciò segnalata richiede anche una "normale" elaborazione della problematica della morte. Se l'argomentazione in I Thess. 4,13 ss. era ancora sotto il segno di un'esperienza irregolare, eccezionale di cristiani defunti, che potevano quindi essere inclusi come "eccezione" nella precedente attesa della parusia, la teologia del battesimo ricostruita per Corinto indica una soluzione del problema della morte, il cui valore è indipendente dalla proporzione, fra cristiani che vivono la parusia come viventi o come morti risuscitati. Anzi, in base alla provenienza storico-religiosa della concezione elaborata, questa soluzione del problema è in realtà indipendente da qualsiasi attesa di parusia. Il suo scopo non è di accomodare una nuova situazione all'attesa tradizionale della parusia, ma s'intende quale risposta alla comprensione ellenistica del generale destino di morte e transitorietà. Essa supera questa transitorietà individualmente, senza aver affatto bisogno della componente di una futura attesa cosmico-apocalittica. La soluzione del problema della morte da parte dei sacramentalisti e degli entusiasti dello Spirito, a Corinto, appartiene agli anni immediatamente successivi alla descritta risoluzione di tale questione in I Thess. 4,13 ss. Essa non è paolina, vive però in buona parte dell'eredità della teologia paolina ampiamente interpretata. Nonostante l'attacco frontale sferratole da Paolo, tale soluzione, con diverse modifiche, ha esercitato un grande fascino sulla storia del cristianesimo primitivo. Prova ne sono ad esempio le lettere ai Colossesi, agli Efesini ed il vangelo di Giovanni, come già s'è detto sopra. Questo fascino certamente non si spiega con la simpatia verso i Corinti, ma si fonda sulla generale struttura di plausibilità che era propria di questa posizione nell'ambito dell'intreccio sociologico-religioso dell'ellenismo. Nel contesto di questi problemi a Corinto ed a causa delle opinioni di un gruppo interno alla comunità, Paolo si deve esprimere ancora più esplicitamente sulla questione della resurrezione. Lo fa in I Cor. 15. Questo capitolo è stato tolto intenzionalmente dalla discussione ora conclusa, perché si dovrà innanzitutto chiarire a quali specifici avversari, all'interno dell'ambiente corinzio, Paolo replichi qui, non dovendo a priori e nettamente concordare con la teologia della comunità nel suo complesso. Questo passo, inoltre, presenta tali e tanti problemi specifici da consigliare, anche per questo verso, un discorso a parte. Infine, nell'esposizione si dovranno anche far risaltare le prove del fatto che Paolo stesso è cambiato nei confronti di I Thess. 4,13 ss.

    Come risultato di questa ricerca stabiliamo questo: oltre alla soluzione della problematica della morte in I Thess. 4,13 ss. esiste un'altra concezione, non paolina, della vittoria sulla morte, che proviene da una ben precisa teologia battesimale. Come risposta alla concezione ellenistica di una generale corruzione mortale, il battesimo viene annunciato come partecipazione soteriologica alla morte e resurrezione di Cristo. L'aver parte alla resurrezione di Gesù Cristo significa nel contempo entusiastica partecipazione al regno del Cristo innalzato. Perciò il cristiano non è più soggetto alle condizioni terrene - inclusa la corruzione mortale. Questo concetto sembra essersi sviluppato principalmente a Corinto.
  • Nikki72
    00 25/07/2008 21:07

    Adolf Holl "Lo Spirito Santo. Una biografia" - RCS Libri 1998



    FELICITA' PASQUALE


    I tempi erano ormai maturi per un nuovo dio. Certo, i sacerdoti di Giove si occupavano ancora, come nei tempi antichi, di mantenere buone relazioni con le Potenze superiori; la Dea Madre aveva i suoi altari per tutto il Mediterraneo, e a essi ancora giungevano pellegrini per recitare le loro preghiere e malati che speravano in un miracolo. Ma a fianco della consueta pratica religiosa si facevano strada culti sempre più esotici, provenienti dalla periferia orientale dell’Impero romano. I figli dei patrizi, insoddisfatti della fede dei loro padri, viaggiavano dal Tevere al Nilo per farsi iniziare a misteri esoterici. Talora una divinità straniera riusciva persino a conquistarsi un tempio a Roma; nessuna però aveva ottenuto il primato assoluto nella sfera sacra tra Spagna e Siria, Africa e Britannia. Così stavano le cose quando i seguaci di un certo Cristo (Chrestos) cominciarono a far parlare di sé. La strana setta trovava adepti tra piccoli artigiani e schiavi, si teneva lontana dai bagni pubblici, dalle corse dei carri e dai combattimenti dei gladiatori, e predicava il disprezzo per gli dèi. Nessuno trovò da ridire quando le autorità presero severi provvedimenti contro questi spregiatori della religione. Di loro si sapeva comunque molto poco: pregavano un Giudeo che era morto crocifisso come criminale, si incontravano in segreto, erano legati da un profondo sentimento di fratellanza, avevano le loro associazioni in ogni città di una certa importanza ed erano rigidamente organizzati. E credevano in Dio - non nel significato generico, tradizionale, del termine usato per gli dèi Olimpi, ma nell’Entità singola assoluta appartenente alla dimensione ultraterrena, al cui confronto la familiare molteplicità dei Celesti si riduceva a impostura di dèmoni. Questo Dio, di origine ebraica come il Crocifisso, riuscì contro ogni previsione a diventare l’istanza politico-religiosa centrale nell’Impero romano, con le ben note conseguenze in Europa e nel resto del mondo. Dietro questo processo straordinario si celò fin dall’inizio una forza che i cristiani chiamarono "Spirito Santo". Per il resto, le notizie sul modo di agire di questa forza sono molto frammentarie: lo Spirito Santo si cela tra le righe dei testi cristiani fondamentali, e si svela solo attraverso indizi che danno l’impressione di essere cifrati, come se esso volesse occultare il proprio ruolo decisivo nell’evento della salvezza. Chi è capace di decifrare il codice e di leggere i segni, vedrà gli esordi del cristianesimo sotto un’altra luce. Essi si avvicinano a un fenomeno che ai nostri giorni, con un atteggiamento piuttosto restrittivo, sarebbe tutt’al più di competenza della psichiatria. Gesù diventa quindi un caso di possessione - resta semplicemente da chiedersi da chi o da che cosa sia provocato. Per chi medita questi misteri, la risposta a tale domanda, possiamo esserne sufficientemente certi, non si trova nella Bibbia.


    UNA COLOMBA DAL CIELO

    La prima notizia abbastanza attendibile sull’intervento di uno "Spirito Santo" nel corso degli eventi risale al secondo decennio della nostra era. In quei giorni, si dice nel Vangelo di Marco (1,9), Gesù venne da Nazareth in Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto. Nel Vangelo di Matteo la visione che ebbe Gesù è definita "Spirito di Dio". Luca è il più esplicito fra tutti: lo Spirito Santo, con articolo determinativo, sarebbe sceso dai cieli aperti su Gesù "in apparenza corporea, come di colomba". Il quarto Vangelo, infine, viene presentato come testimone Giovanni Battista: Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. La manifestazione del divino sotto forma di colomba sarebbe dunque stata percepita solo da Gesù e dal suo battezzatore. Viene spontaneo chiedersi in base a quale fonte i due interpretassero l’uccello celeste come incarnazione proprio dello Spirito Santo; non c’è un solo passo nell’Antico Testamento che colleghi lo Spirito di Dio a una colomba.

    Nelle storie che circolavano tra i discepoli di Jeshu’a e quelli di Johanan, e che in seguito confluirono nei Vangeli cristiani, si può ancora notare la tensione originaria tra i due uomini: essi appaiono come una coppia antagonista, al pari di Romolo e Remo, Caino e Abele. Uno dei due deve morire, e in questo caso è Johanan, che difatti è già atteso dal boia. La scelta però è già stata fatta nella dimensione visionaria che avvolge i due uomini durante l’estasi. In questo spazio dominano certezze diverse da quelle della vita quotidiana: l’essere che scaturisce dalla cascata dei cieli aperti e come colomba scende a volteggiare sul prescelto deve trarre origine dall’ambito divino, deve provenire, per gli Ebrei credenti, da JHWH, l’Altissimo, sia lodato il Suo nome, i cui affiati già nei tempi antichi avevano ispirato i Profeti: lo Spirito di Dio, in ebraico ruah jahu. In questo modo si decide anche quale battesimo consacrerà da quel momento in poi gli araldi dell’imminente Regno di Dio - non il battesimo con acqua, ma il battesimo "in Spirito Santo".
    Subito dopo, prosegue Marco, lo Spirito lo sospinse nel deserto. Così l’Evangelista intende chiarire come funziona il nuovo battesimo, innanzitutto per Jeshu’a il Nazareno, il prediletto dal Cielo per indicazione della colomba. Il battezzatore con acqua, Johanan, deve cedere il passo. La colomba spirituale non venne da allora mai più scorta.

    Il Giordano proseguiva da lì la sua corsa verso il Mar Morto, il punto più basso della Terra, dove la moglie di Lot per la sua eccessiva curiosità si irrigidì in una statua di sale. Là, nel più inospitale dei deserti, Jeshu’a deve incontrare un altro spirito, non uno Spirito Santo, ma malvagio e nemico, chiamato Shaitan. Egli comanda sugli innumerevoli ginn di quelle lande desolate, i mostruosi esseri intermedi che fanno da corteo disordinato e strepitante al Signore delle Tenebre: da ogni parte spuntano spiriti, più o meno dotati di corpo, né dèi, né bestie, né uomini, asessuati, con artigli, becchi, occhi enormi, squame, code. Ma Jeshu’a è "pieno" di Spirito Santo, come sottolinea Luca e fin dall’inizio è stabilito che vincerà nella lotta per il potere. Nella bolgia degli spiriti giunge il comando di Dio: Nessuno può stare al mio confronto! A me solo spetta ogni ossequio! Subito gli esseri maligni si disperdono nell’aria, abbandonando il campo in attesa dell’attacco successivo. Già si avvicinano gli esseri dai volti fiammeggianti discesi dal Trono di JHWH, per ristorare l’estenuato Jeshu’a. Gli angeli lo servivano, osserva Marco. Poi Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio, prosegue l’Evangelista: è imminente la conversione dell’esistente, ecco io faccio nuova ogni cosa, la mensa di Abramo è già pronta per gli affamati, cielo in terra, a noi venga il tuo regno. I più sensibili a questo nuovo modo di esprimersi sono gli indemoniati. Se ne ha già un esempio quasi teatrale appena il Nazareno fa il suo primo ingresso nella sontuosa sinagoga di Cafarnao, sul lago di Tiberiade in Galilea: un uomo comincia a urlare, lo "spirito immondo" (così Marco) che lo possiede parla alla prima persona plurale - evidentemente non è l’unico ad essere nervoso. Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio! I dèmoni sanno dunque come stanno le cose. Ora l’uomo di Nazareth deve mostrare di che cosa è capace: il predicatore si è già trasformato in esorcista. Due comandi energici colpiscono al centro del problema: Taci! Esci da quell’uomo! Subito il corpo dell’indemoniato si contorce: la potenza che lo possiede non è disposta a cedere così facilmente. Alla fine l’urlo prolungato, segnale che il dèmone è uscito dal corpo. Poi, silenzio. Mormorii tra il pubblico: egli comanda persino agli spiriti immondi ed essi gli obbediscono. Matteo e Luca sanno qual è il passo successivo di uno spirito cacciato: dopo essere uscito dal corpo della vittima, se ne va per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: Ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito. E tornato la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, si prende sette altri spiriti peggiori ed entra a prendervi dimora. Questo racconto suona piuttosto inquietante: il mondo degli Evangelisti è pieno di spiriti, così come è oggi quello degli abitanti dell’isola di Bali. Tanto più energicamente insistono gli Evangelisti sulla singolarità dello Spirito che si è impadronito della persona del Nazareno: solo questo spirito disceso “dall’alto”, così dice il Vangelo di Giovanni, merita il titolo di Santo. Deve essere lui che ha designato Jeshu’a come salvatore di Israele, come mashiah (= Messia, letteralmente "l’Unto", in greco christòs). Senza questo "Spirito Santo", Gesù non sarebbe mai divenuto il Cristo, e la religione che a lui si richiama dovrebbe cercarsi un altro nome.


    RITMO FRENETICO

    No, il cristianesimo non è una religione del Libro, per lo meno non originariamente. il Nazareno non ha lasciato niente di scritto. Non mi trattenere, chiede Gesù nel Vangelo di Giovanni alla sua affezionata Maria di Magdala: con ciò veniva anche respinto ogni tentativo di fissare per iscritto le sue parole. Evidentemente Jeshu’a non aveva tempo di dedicarsi alla scrittura; e i testi sacri che furono poi composti su di lui sono gravati fin dal principio dal sospetto di avere falsato le intenzioni originarie del Nazareno. Non a caso, quindi, nel Nuovo Testamento affiorano, senza volerlo, tracce furtive di una profonda autoironia, come ad esempio nella Seconda lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo: la lettera uccide, lo spirito dà vita. Nel cuore stesso del testo, dunque, la tendenza alla fissazione della parola scritta è frenata dal principio divino originario, sotto la sigla "Spirito", senza il cui intervento il Nazareno sarebbe rimasto un falegname.

    Con il termine "Geist" i popoli germanici convertiti al cristianesimo tradussero la parola greca pneuma (in latino: spiritus) presente nella Bibbia. Pneuma era a sua volta una traduzione della radice semitica rwh, di genere femminile, resa in ebraico con ruah, in siriano con ruho, dal significato originario di "aria in movimento". Il Geist germanico aveva sì in comune con la ruah semitica l’incorporeità, ed anche una certa vivacità, ma agli uomini del Nord era completamente estranea la sfera semantica del vento infuocato proveniente dal deserto arabo, che nell’Antico Testamento viene ugualmente chiamato ruah. Nel Vangelo di Giovanni, al contrario, è ancora presente il significato primitivo di ruah: il vento (pneuma) soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito. Nella versione originale greca, il pneuma di questo passo rivela con estrema chiarezza la sfumatura linguistica semitica soggiacente: il versetto indica la ruah come un vento impetuoso per poi subito trasformarla in metafora per qualcosa che afferra all’improvviso e trasforma in una nuova persona. L’effetto doveva dunque essere stato prorompente nell’evento che qui viene narrato, ma questo, con la sua natura così posata, è destinato a rimanere del tutto estraneo al Geist tedesco, anche a quello Santo, tanto quanto può esserlo un bazar orientale. I 378 passi dell’Antico Testamento in cui compare la ruah si possono al contrario associare a tutto ciò che contrasta l’uniforme andamento delle cose - che si tratti della creazione del mondo, di un accesso di collera, della condiscendenza di JHWH per l’uomo Mosè o della resurrezione di cadaveri, della garanzia dell’incomparabile forza fisica di Sansone o del furore estatico dei profeti di Dio, oppure della trasformazione di un guerrigliero come David in un monarca rispettabile. Non appena la ruah piomba dall’alto, i figli e le figlie di Israele cominciano a profetare, i fanciulli hanno visioni, i consiglieri vengono visitati da sogni veritieri, e Dio fa un nuovo Testamento.

    Così fu anche per Jeshu’a, il figlio dl Giuseppe il falegname. Come la ruah abbia rivoluzionato la vita di quest’uomo, le cui fasi precedenti restano oscure, ci è svelato da una paroletta che l’evangelista Marco si lascia sfuggire, senza un’intenzione particolare, ben 41 volte: euthys. Si tratta solo di un pleonasmo su cui è facile sorvolare, presente all’inizio di alcune frasi, che funge da elemento di transizione da un episodio all’altro: "subito", "non appena", "senza indugio", "immediatamente dopo". Questa particella innesta un ritmo serrato nella vita del Nazareno: eccolo costretto a correre come un forsennato da una scadenza all’altra, per circa un anno, fino a che per lui non giunge la fine. Il rapido staccato della ruah ha inizio in Marco nell’istante in cui Jeshu’a emerge dalle acque del Giordano dopo il suo battesimo. Subito il cielo si spalanca, scende la colomba, risuona la voce imperiosa. Immediatamente dopo la ruah spedisce il suo uomo nel deserto. Ed ecco che Shim’on e suo fratello abbandonano le loro reti sulle sponde del lago di Genezaret per correre dietro a Jeshu’a, che li ha chiamati con un cenno. E non appena è sabato Jeshu’a mette piede nella Sinagoga di Cafarnao. Di colpo l’indemoniato grida e il dèmone lo lascia. E così via, in lungo e in largo per la Galilea, poi a Tiro e a Sidone, a sud verso Gerico e infine di nuovo a nord per la festa della Pasqua a Gerusalemme, dove l’ultimo euthys affretta la consegna a Pilato del prigioniero, all’alba del Venerdì Santo che porterà Jeshu’a sulla croce. Gesù può finalmente prendersi tempo solo dopo la sua morte, nel corso della sua divinizzazione e ascesa al trono alla destra del Padre: per tutto questo, nel Vangelo di Marco, non è più necessario alcun euthys.


    PRESTO!

    C’è una porzione di eredità ebraica, dunque, nell’accelerando spirituale della ruah di Colui il cui nome i pii giudei contemporanei di Jeshu’a non avevano più sulle labbra, per non offendere Dio. Per questo coloro che seguirono Jeshu’a dal battesimo nel Giordano fino alla crocifissione sul Golgota, impressionati dallo straordinario potere del loro maestro, aggiunsero alla ruah divina l’articolo determinativo e l’attributo di santità. Questo Spirito Santo aveva, si è detto, una certa fretta, come era già stato preannunciato da parecchio tempo in certi trattati, un nuovo tipo di letteratura "catastrofica" apparsa tra il II secolo a.C. e il I della nostra era, composti da Ebrei impazienti per i quali la vecchia fase del mondo non volgeva abbastanza velocemente alla fine. Uno di loro si chiamava Giovanni e il suo libretto, Apocalisse [cioè rivelazione] di Gesù Cristo, diede in seguito il nome all’intero genere letterario. L’autore dell’Apocalisse forse non doveva avere mai incontrato faccia a faccia l’uomo Jeshu’a, anche se si era appropriato del nome di uno dei discepoli del Nazareno. Nella sua mente creativa, lo Jeshu’a terreno divenne una figura terribile, dalla voce simile al fragore di grandi acque, gli occhi fiammeggianti come fuoco e i piedi che avevano l’aspetto del bronzo splendente. Egli avrebbe udito la voce dell’apparizione "in Spirito" una domenica sull’isola di Patmos, garantisce l’autore proprio all’inizio del suo scritto, reclamando così per sé la stessa vista profetica conferita a Jeshu’a e a Johanan quando scorsero la colomba, alla fine degli anni Venti del I secolo - nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, sentenzia Luca (3,1). Da allora qualche altro signore del mondo era trapassato all’Ade, tra cui il crudelissimo persecutore di cristiani Nerone, morto nel 68 d.C. Lo Spirito Santo, al contrario, era ancora ben vivo e vegeto stando alla testimonianza dell’Apocalisse di Giovanni, che si calcola sia stata redatta negli ultimi anni del regno di Domiziano, intorno all’anno 95 d.C. Evidentemente i destinatari dell’Apocalisse, sette comunità cristiane disseminate in altrettante città citate per nome nel territorio dell’attuale Turchia occidentale, sapevano bene quanto l’autore che cosa significasse "in Spirito" - altrimenti egli avrebbe sicuramente fornito loro una spiegazione. Erano anche informati dell’abitudine a conversare dei draghi, del significato del numero 666 e di altri messaggi cifrati che avrebbero dato parecchio filo da torcere agli esegeti posteriori. Esoterismo a non finire, dunque, nei circoli cristiani di Efeso o Pergamo che si immergevano nella lettura dell’Apocalisse. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Sette volte l’autore ripete l’ordine sceso dall’alto che lo ha spinto a scrivere, in modo che non sorga davvero alcun dubbio sul fatto che non l’ambizione letteraria ha guidato la sua penna, bensì lo pneuma santo, la ruah del Signore Gesù, del testimone fedele, del primo di coloro che sono risorti dalla morte, dell’arconte dei re della terra. I destinatari dell’Apocalisse di Giovanni non sono invitati allo studio del testo e al piacere della lettura, come potremmo aspettarci oggi, ma a trapassare nella sfera di un’esperienza spirituale che afferra e pervade il Signore Gesù così come l’autore e persino la sua cerchia di lettori - di cui Giovanni scrive che sono come afferrati dallo Spirito; il loro orecchio potrà udire solo se sarà diventato un orecchio ispirato. Lo Spirito Santo, l’autore non si stanca di precisarlo, è diventato mezzo esclusivo di coloro che hanno il privilegio di udirlo, e questo mezzo è anche il messaggio. I non-privilegiati, e cioè i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi,gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna, rimangono "fuori", esclusi dal medium-Spirito. L’ambito dell’esperienza spirituale rappresentato nell’Apocalisse giovannea è quello della setta.

    Nello spazio ispirato, che l’autore dell’Apocalisse giovannea dispiega "in Spirito", vengono suscitate violente energie - paura e terrore, desideri di vendetta, sadismo, certezza di vittoria. A partire dal quinto capitolo la scena della visione è dominata da Gesù Cristo sotto forma di Agnello immolato, fornito di sette corna e sette occhi, protagonista mostruoso e implacabile di 28 passi. La collera dell’Agnello è immensa, rileva l’autore: non appena i primi quattro sigilli del Rotolo in cui sta scritto il destino dell’umanità vengono aperti, i destrieri dei cavalieri dell’Apocalisse cominciano a galoppare, e quello che portano è ben poco piacevole. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra. Lo psicologo del profondo Carl Gustav Jung diagnosticò nell’autore dell’Apocalisse una vasta trama di risentimenti, un’orgia di odio, collera, e cieca furia distruttiva, che si sfoga in immagini fantastiche e terrificanti, tutt’al più paragonabili alle allucinazioni che accompagnano le psicosi gravi. Questo però non ci impedisce di chiederci se il responsabile delle furiose galoppate dell’Apocalisse debba essere considerato lo Spirito Santo o lo sconosciuto scrittore di Patmo. O magari entrambi. A discarico dello Spirito Santo emerge il fatto che il suo portavoce, qua e là, ha un poco barato per quanto riguarda l’originalità delle visioni descritte. I quattro esseri viventi del quarto capitolo non derivano, come afferma l’autore, da una visione, ma sono una ripresa letterale dal libro del profeta Ezechiele. Ulteriori prestiti dalla letteratura apocalittica si possono dimostrare con altrettanta facilità - il che prova l’erudizione dell’autore dell’Apocalisse, ma non la sua qualificazione come mistico di talento. Forse gli capitò qualcosa di simile a quello che avvenne a Emanuel von Swedenborg, ingegnere minerario e visionario svedese, che di tanto in tanto, durante la semplice lettura di un testo sacro, improvvisamente "era in Spirito", conversava con gli angeli e incontrava anche parecchi draghi apocalittici. Mille e seicento anni separano Swedenborg dalla stesura dell'Apocalisse, il che è evidentemente del tutto irrilevante quando l’aldilà prende vita.

    Poco fa abbiamo nominato un termine importante: psicosi. Il celebre indagatore di anime, a cui tale termine venne in mente durante la lettura dell’Apocalisse, era ben lungi dal paragonare la religiosità mistica alla pazzia: egli sapeva che difficilmente una religione di portata mondiale ha origine dallo schiamazzo di dementi. Jung si considerava un medico: mentre i cristiani litigano sulla giusta interpretazione della verità, scriveva, il medico si occupa di un caso urgente. Chi ha indagato sulle allucinazioni schizofreniche sa dell’esistenza di motivi archetipici nella psiche di persone che non hanno mai sentito parlare di mitologia. Un collega di Jung, lo psichiatra di origine praghese Stanislav Grof, si è ugualmente imbattuto nel corso delle sue terapie in quelle rappresentazioni collettive primordiali che Jung aveva chiamato archetipi. Grof lavorò dapprima con l’LSD, poi con l’iperventilazione (respirazione accelerata): chi partecipa all’esperimento raggiunge con essa stati di coscienza alterati e rivive il trauma della propria nascita, assieme alle paure e alle angosce che accompagnano il cammino del feto verso la luce del mondo. Grof menziona esplicitamente visioni apocalittiche nella sua descrizione delle immagini percepite durante viaggi del genere: possono comparire draghi, angeli e diavoli che combattono tra di loro, sino alla liberazione finale da tutte le paure, accompagnata da molta luce e colori sgargianti, come negli ultimi due capitoli dell'Apocalisse giovannea, dove la Sposa dell’Agnello discende dal cielo come città d’oro con dodici porte scintillanti formate da perle. Tra il disturbo psicotico e l’estasi mistica Grof non traccia un confine rigido: l’unica vera discriminante tra fatto clinico e fatto religioso è da lui individuata nell’abilità o meno a integrare l’esperienza vissuta nella vita quotidiana. Lo spazio "transpersonale", così lo definisce Grof, racchiude santi e folli: un esito accettabile anche sul piano teologico.

    Per i "santi" che vivevano a Efeso, dove sorgeva il monumentale tempio di Artemide polimastide, o quelli di Pergamo, con il gigantesco altare di Zeus al di sopra della città, la vita quotidiana era determinata da forze che essi, in quanto cristiani, rifiutavano tassativamente. Tutte le nefandezze pagane, questo intimava loro l’Apocalisse "in Spirito" dovevano di lì a breve, nel corso di una sola ora, essere ridotte a un deserto, a un incolto terreno di rovine per archeologi. La profezia non era del tutto sbagliata, come si è rivelato nel frattempo. Ci vollero tuttavia ancora un paio di secoli perché le visioni di rovina dell'Apocalisse divenissero realtà. Il tempo è vicino, sottolinea la rivelazione esoterica proprio all’inizio dell’opera, e alla fine l’imperiosa voce divina dichiara: Sì, verrò presto! Che cosa ciò volesse dire, non potevano saperlo né l’autore né i destinatari dell'Apocalisse. Essi fecero l’errore di prendere alla lettera lo Spirito Santo. Senza questo errore essi sarebbero certamente da tempo dimenticati.


    DOPO LA PASQUA

    L’opera detto Spirito Santo, nei sessantacinque anni tra il battesimo del figlio del falegname e la dettatura dell'Apocalisse giovannea, ebbe il suo culmine assoluto nella settimana che seguì la morte di Cristo sulla croce. Se si deve credere ai Vangeli, che furono redatti parecchi decenni dopo i fatti, i seguaci del giustiziato, uomini e donne, vissero in maniera molto differenziata ciò che allora accadde. Talora è uno straniero che al momento decisivo si fa riconoscere come la persona creduta morta. In un’altra occasione il defunto compare davanti al gruppo di discepoli sconvolti, riuniti a porte chiuse, con le stimmate fresche sul corpo, e si fa ospitare. Oppure un giovinetto vestito di bianco, seduto nel sepolcro vuoto, annuncia alle giovani donne atterrite l’inconcepibile: È risorto, non è qui. A un altro testimone per credere è sufficiente la vista delle bende mortuarie abbandonate nella tomba. Non manca nemmeno il rappresentante dello scetticismo, l’incredulo Tommaso, come se il testo volesse alludere ironicamente ai tranelli in cui può finire il pensiero scientifico. Beati quelli che pur non avendo visto crederanno, viene detto all’apostolo dubbioso. Segue l’ascesa di Cristo al cielo sotto gli occhi dei fedeli, con la promessa del suo ritorno imminente. Sette settimane dopo la Pasqua lo Spirito Santo si manifesta, in forma definitiva, nella tempesta di fuoco della mattina di Pentecoste, come dono di grazia continuamente operante della rinvigorita forza profetica del nuovo Israele tra i popoli.

    Tutto questo è ormai per noi storia superata, e le generazioni venute dopo il "Big-Bang" cristiano devono considerarsi ritardatarie, battezzate superficialmente come sono. Nei racconti pasquali che vengono loro letti ad alta voce resta inespressa la cosa più importante: in nessun luogo viene rivelato come la personalità di quegli uomini e di quelle donne, che dopo aver seppellito il loro Jeshu’a si accingevano a ritornare alle loro barche da pesca e alle loro pentole, venne invece completamente trasformata. L’apparizione del cadavere vivente suscita in loro innanzitutto terrore, e le parole rassicuranti del fantasma, Non temete, denunciano solamente l’abisso che doveva venire superato perché l’orrore si mutasse in giubilo. Questo giubilo di un circolo ristretto di discepoli di Gesù, che nella migliore delle ipotesi comprendeva una dozzina di persone, venne poi trasferito ai resto dei seguaci? Se sì, rimane comunque inspiegabile come una tale comunità in festa si sia tramutata in un’energica macchina di propaganda divina, che percorse in lungo e in largo le strade della Palestina, della Siria, dell’Arabia, dell’Asia Minore, per divulgare la notizia che un ebreo giustiziato aveva giocato un tiro mancino alla morte.

    Si sono conservati solamente un paio di oscuri accenni all’azione dello Spirito tra la Pasqua e la Pentecoste nell'anno della morte di Cristo, che i "ritardatari" si sono sforzati di decifrare. Il maestro ritornato dal regno dei morti avrebbe alitato sui suoi discepoli e avrebbe detto: Ricevete lo Spirito Santo. Noi sappiamo, afferma un altro passo delle Scritture, che siamo passati dalla morte alla vita. Lo Spirito Santo sarebbe disceso su di lui e sugli altri Apostoli, racconta Pietro - sarebbe stata dunque una specie di distribuzione di premi tra i seguaci, ricolmati del dono dell’eloquenza e della persuasione retorica. La privazione del sonno potrebbe aver giocato in tutto ciò un certo ruolo. Le fonti riferiscono che gli uomini e le donne più legati a Jeshu’a, dopo l’ascesa al cielo del loro maestro, si sarebbero trasferiti in una stanza "al piano superiore" a Gerusalemme, per trattenervisi "assidui e concordi in preghiera". L’istantanea, sempre che sia stata scattata sotto la luce giusta, coglie un raggruppamento di persone fuori dal comune, impaurito da Dio, È difficile immaginarsi che queste persone, durante le loro peregrinazioni al seguito del nervoso Nazareno, abbiano dato tanto peso a un riposo notturno indisturbato. Poi l’angoscia degli ultimi giorni, dopo la Domenica delle Palme a Gerusalemme, pieni di presagi di una catastrofe ineluttabile. Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me, dice il Maestro nella notte del suo arresto ai discepoli che, esausti, si sono addormentati. Già al primo canto del gallo della mattina di Pasqua, dopo lo sgomento impietrito del Sabato Santo, alcune donne si precipitano fino al sepolcro e vengono subito sorprese da manifestazioni ultraterrene quanto mai reali. Gli uomini sono dapprima diffidenti, poi però vengono rapidamente coinvolti nell’evento che fa dell’ucciso un vincitore, fino a che egli non si dilegua in cielo lasciando vuoto il proprio posto nella consueta cerimonia dello spezzare il pane, in quella sala al piano superiore - cerimonia di cui si parla un’unica volta, senza darne ulteriore spiegazione. Non ce ne sono, di spiegazioni. La singolare e irripetibile dinamica di gruppo che intercorse, nei giorni precedenti l’esplosione della Pentecoste, tra uomini e donne di origine ebraica di cui conosciamo i nomi, resta per sempre sepolta nel segreto di quella stanza. Ci è dato solo di sbirciare dalla serratura per vedere un paio di persone sovraeccitate, che hanno poco tempo per l’igiene del corpo, mangiucchiano distrattamente qualche boccone di cibo quando la fame si fa sentire, dormono poco e per il resto non hanno altro in mente che colmare il vuoto creatosi al centro della loro comunità evocando con la preghiera la presenza di colui di cui essi così intensamente sentono la mancanza. Maranà tha: vieni, o Signore! In casi normali, un brusìo del genere non conduce proprio a niente, anche se dura per ore - a meno che lo Spirito Santo di Dio non si senta spinto ad assumere il controllo all’interno di questa associazione già piuttosto "fuori di testa" di massaie e pescatori analfabeti; essi perciò si persuaderanno di essere in contatto permanente con la Beatitudine dei troni celesti, dove sia il Padre che il Figlio vivono in eterno, come era in principio, così ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen. A partire dalle nove del mattino della domenica di Pentecoste il contatto permanente è attivato, la macchina dello Spirito ha dato il via al suo lavoro nella tempesta di fuoco - Anno Domini 30, se le date tornano. I cristiani "ritardatari" sarebbero stati felici di sapere come lo Spirito Santo, nel corso dei successivi quarant’anni, si fosse scelti i suoi quattro evangelisti, e soprattutto avrebbero appreso volentieri tutto ciò che fosse degno di nota sul costituirsi del Nuovo Testamento, ma purtroppo devono accontentarsi di qualche lettera dell’apostolo Paolo, dettata negli anni 50, e dei primi dodici capitoli degli Atti degli Apostoli, che furono messi per iscritto intorno al 70. Né le Lettere né gli Atti offrono dati utili sui metodi di suggestione dello Spirito Santo, sulla cosiddetta ispirazione, a cui si deve la mitezza severa di quella prosa che più tardi venne letta in ginocchio da regine e garzoni di ciabattini, papi e monache, conquistadores e popoli delle colonie dell’era cristiana. Gli studiosi della Bibbia si tormentano da un centinaio d’anni chiedendosi quali affermazioni attribuite a Jeshu’a nei Vangeli potrebbero discendere proprio da lui e quali furono invece formulate solo dopo la sua morte, nei circoli spirituali di coloro che credevano al Risorto e speravano nel Suo imminente ritorno per il Giudizio Universale - ebrei e greci, egiziani, siri e romani, poiché il Vangelo fu divulgato con grande rapidità. Come docenti accademici, i biblisti non possono lasciar affiorare nella loro prosa scientifica la benché minima fiducia nell’operato dello Spirito Santo, ma devono conservare un rigido distacco nel loro lavoro di ricerca. Quando sono più o meno sicuri che una parola autorevole del Nazareno venne coniata solo venti o trenta anni dopo la sua morte, parlano di "formula comunitaria" - come se le parole alate della Bibbia si potessero tranquillamente attribuire alle smanie di grandezza del primo maniaco religioso sulla piazza. Simili facezie non arrivano nemmeno a sfiorare la ragione per cui la Bibbia è stata per tanto tempo il libro in assoluto più popolare. Perciò quell’affascinante marxista messianico che fu il filosofo Ernst Bloch (morto nel 1977) ha tenuto in scarsa considerazione gli esegeti da parata come Rudolf Bultmann. La loro "demitologizzazione", così scrive Bloch, annulla le sfumature, riduce a menzogne tutte le favole, e finge di non sentire la voce di Prometeo nel sussurro dei miti. Dagli studiosi della Bibbia, pertanto, non c’è da aspettarsi nessuna risposta alla domanda dei "ritardatari" sull’origine della cultura occidentale del Libro. Tutt’al più, gli eruditi sono in grado di stabilire le coordinate politiche, sociali ed economiche all’interno delle quali furono redatti i testi fondamentali della cristianità. Una prospettiva di questo genere ci fa però sapere che in Terra Santa, proprio durante la più intensa attività d’ispirazione dello Spirito Santo, scoppiò una guerra dalle conseguenze catastrofiche per il popolo d’Israele.

    Non rimarrà qui pietra su pietra. Così esclamò Gesù (secondo Marco) alla vista del tempio di Gerusalemme, considerato una delle meraviglie del mondo. Nessun’altra profezia del Nazareno si è avverata con maggior precisione: un unico muro è rimasto in piedi dell’edificio grandioso che il re Erode fece innalzare in dieci anni, e che al tempo di Cristo non aveva neppure cinquant’ anni. La sua distruzione nell’estate dell’anno 70 della nostra era - la risposta dei Romani a una rivolta popolare nella provincia della Giudea che durava già da quattro anni - privò i figli di Abramo del loro centro politico e religioso sino al tempo della fondazione di Israele nel 1948, nel XX secolo dopo la nascita di Cristo. Eppure, stranamente, né la guerra giudaica né la sua fine terribile trovano una diretta menzione negli scritti del Nuovo Testamento. Solo indirettamente, come profezia minacciosa di Jeshu’a, sono annunciati eserciti in guerra che assedieranno Gerusalemme, e una devastazione della Città Santa. Questo silenzio ha un effetto sorprendente, se si considera la manifesta ostilità di tutti e quattro gli Evangelisti nei confronti dei "Giudei" (Vangelo di Giovanni). Se i Vangeli, come oggi viene ammesso quasi unanimemente, furono redatti dopo la distruzione di Gerusalemme del 70, viene spontaneo chiedersi perché essi rinunciarono a buttare in faccia agli Ebrei la rovina del loro Tempio quale castigo divino per la loro incredulità. Lo Spirito Santo non ha forse permesso una tale perfidia? Dopo Auschwitz sarebbe bello poterselo immaginare. Ma purtroppo, come ben si sa, Dio preferisce eludere le domande sgradevoli.


    BIBEL, BUBEL, BABEL

    Ci vollero trecento anni perché i cristiani si mettessero d’ accordo su quali Vangeli fossero stati ispirati dallo Spirito Santo e quali no. I Vangeli respinti - ed erano molti - vennero tolti dalla circolazione, e che alcuni di essi, nonostante tutto, si siano conservati, è un fatto noto solo agli specialisti. Secondo la sistemazione data dalla Chiesa, il testo sacro della "Nuova Alleanza", come lo si può comprare nelle librerie, comprende in tutto ventisette scritti: i Vangeli di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, inoltre quattordici Lettere attribuite a Paolo, un paio di altri scritti epistolari, gli Atti degli Apostoli, e infine l’Apocalisse giovannea. Per persone ardentemente alla ricerca di Dio essi furono spesso insufficienti. Costoro non potevano proprio accontentarsi di credere che lo Spirito Santo avesse terminato la sua attività attorno all’anno 100, in accordo con quanto stabilito autorevolmente dalla rivelazione divina. Il propugnatore più acceso di questa spiritualità si chiamava Thomas Muntzer, e morì decapitato nel 1525 per aver partecipato all’insurrezione contadina tedesca. Se uno per tutta la vita, proclamò Muntzer, non avesse né udito né visto la Bibbia, potrebbe comunque avere un’autentica fede cristiana grazie al retto insegnamento dello Spirito, come l’ebbero tutti coloro che redassero le Sacre Scritture senza alcun uso di libri. Questo significava affermare, con il sostegno proprio degli autori dei testi biblici, che tutti i credenti "ritardatari", in linea di principio, erano contemporanei, e sottomessi solo all’afflato dello Spirito Santo - un’affermazione decisamente audace. Difatti all’epoca seguì anche una dura replica da parte di Martin Lutero al suo collega radicale, cui egli rinfacciò di aver deriso tutta la Sacra Scrittura con le parole Bibel, Bubel, Babel (Bibbia, bubbole, Babele). Muntzer non era da meno di Lutero quanto a violenza verbale: una persona che non sappia nulla della parola interiore di Dio racchiusa nel profondo della sua anima, scrisse, resterà sempre ignorante, anche se ha divorato centinaia di migliaia di Bibbie. Una riconciliazione tra il principio del Testo sostenuto da Lutero e il principio dello Spirito di Muntzer non è facile. Nel primo caso, la persona si appoggia alla garanzia delle Scritture, nell’altro alla presenza della loro origine spirituale. Ernst Bloch trovava che la forma di spiritualità solitaria, come essa si manifestò già nei primi tempi del cristianesimo, fosse da considerare come il prototipo della creatività umana di età moderna. Questo, per di più da parte di un ateo, è uno splendido complimento per lo Spirito Santo.
  • Nikki72
    00 25/07/2008 21:12

    Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) "Gesù di Nazaret" - RCS Libri 2007



    IL BATTESIMO DI GESU'


    L’attività pubblica di Gesù ha inizio con il suo battesimo al Giordano a opera di Giovanni il Battista. Mentre Matteo data questo avvenimento solo con una formula convenzionale – "In quel tempo" - Luca lo inserisce intenzionalmente nel grande contesto della storia universale, permettendo così una datazione ben precisa. A dire il vero, anche Matteo offre una sorta di datazione, premettendo al suo Vangelo l’albero genealogico di Gesù, costruito come albero genealogico di Abramo e Davide: Gesù è presentato come l’erede sia della promessa ad Abramo sia dell’impegno di Dio verso Davide, al quale - nonostante tutti i peccati d’Israele e tutti i castighi di Dio - Egli aveva promesso una regalità eterna. Secondo quest’albero genealogico la storia si articola in tre periodi di 14 generazioni - 14 è il valore numerico del nome Davide -: da Abramo a Davide, da Davide all’esilio babilonese e poi un ulteriore periodo di 14 generazioni. Proprio il particolare che sono di nuovo trascorse 14 generazioni indica che è venuta l’ora del Davide definitivo, della rinnovata regalità davidica intesa come instaurazione della regalità propria di Dio. Come si addice all’evangelista ebreo-cristiano Matteo, si tratta di un albero genealogico giudaico nella prospettiva della storia della salvezza, che guarda alla storia universale al massimo in modo indiretto, nella misura cioè in cui il regno del Davide definitivo, come regno di Dio, riguarda naturalmente il mondo nella sua interezza. Con ciò anche la datazione concreta rimane vaga, perché pure il computo delle generazioni è modellato più sulle tre fasi della promessa che su una struttura storica e non mira a stabilire precise coordinate temporali. Qui intanto osserviamo che Luca non colloca l’albero genealogico di Gesù all’inizio del Vangelo, ma lo collega alla narrazione del battesimo quale sua conclusione. Ci dice che a quel tempo Gesù aveva circa trent’anni, aveva cioè raggiunto l’età che lo autorizzava a un’attività pubblica. Nel suo albero genealogico Luca - al contrario di Matteo - parte da Gesù e percorre la storia a ritroso. Ad Abramo e Davide non viene data particolare rilevanza: l’albero genealogico va indietro fino ad Adamo, anzi fino alla creazione, poiché dopo il nome di Adamo Luca aggiunge: figlio di Dio. In questo modo mette in risalto la missione universale di Gesù: Egli è figlio di Adamo - figlio dell’uomo. Attraverso il suo essere uomo noi tutti apparteniamo a Lui, Lui a noi; in Lui l’umanità conosce un nuovo inizio e giunge a suo compimento.

    Torniamo al racconto del battesimo. Luca aveva già fornito due importanti dati temporali nei racconti dell’infanzia. Circa l’inizio della vita del Battista ci dice che esso si deve datare "al tempo di Erode, re della Giudea" (1,5). Mentre il dato temporale concernente il Battista resta così all’interno della storia ebraica, il racconto dell’infanzia di Gesù comincia con le parole: "In quei giorni un decreto di Cesare Augusto..." (2,1). Sullo sfondo, cioè, appare la grande storia universale, rappresentata dall’impero romano.

    Luca riprende questo filo introducendo il racconto del battesimo, l’inizio dell’attività pubblica di Gesù. Con solennità e precisione ci dice: "Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa..." (3,1s). Ancora una volta, con la citazione dell’imperatore romano, viene indicata la collocazione temporale di Gesù all’interno della storia universale: l’attività di Gesù non è da considerare inserita in un mitico prima-o-poi, che può significare insieme sempre e mai; è un avvenimento storico precisamente databile con tutta la serietà della storia umana realmente accaduta - con la sua unicità, la cui contemporaneità con tutti i tempi è diversa dalla atemporalità del mito. Non si tratta, tuttavia, solo di datazione: l’imperatore e Gesù personificano due diversi ordini della realtà, che non devono necessariamente escludersi a vicenda, ma che nel loro confronto recano in sé la miccia di un conflitto che riguarda le questioni fondamentali dell’umanità e dell’esistenza umana. "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (Mc 12,17), dirà Gesù più tardi esprimendo così l’essenziale compatibilità delle due sfere. Ma se l’impero interpreta se stesso come divino, come è già implicito nell’autopresentazione di Augusto come portatore della pace mondiale e salvatore dell’umanità, allora il cristiano deve “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29); allora i cristiani diventano "martiri", testimoni di Cristo, che è morto Egli stesso sotto Ponzio Pilato come "il testimone fedele" (Ap 1,5). Con la citazione del nome di Ponzio Pilato, già dall’inizio l’attività di Gesù è collocata sotto l’ombra della croce. La croce si annuncia anche nei nomi di Erode, Anna, Caifa. Ma si può scorgere ancora qualcos’altro dall’accostamento di imperatore e principi, tra i quali è divisa la Terra Santa. Tutti questi principati dipendono dalla Roma pagana. Il regno di Davide è crollato, la sua "casa" è caduta (cfr. Am 9,11s); il discendente, che secondo la Legge è il padre di Gesù, è un artigiano della provincia della Galilea, abitata da una popolazione prevalentemente pagana. Ancora una volta Israele vive nell’oscurità di Dio, le promesse fatte ad Abramo e a Davide sembrano sprofondate nel silenzio di Dio. Ancora una volta vale il lamento: non abbiamo più profeti, sembra che Dio abbia abbandonato il suo popolo. Ma proprio per questo il Paese era in pieno fermento. Movimenti, speranze e aspettative contrastanti determinavano il clima politico e religioso. Più o meno al tempo della nascita di Gesù, Giuda il Galileo aveva incitato a una rivolta soffocata nel sangue dai romani. Il suo partito, gli zeloti, continuava a esistere, pronto al terrore e alla violenza per ripristinare la libertà di Israele; è possibile che uno o due dei dodici Apostoli di Gesù - Simone lo Zelota e forse anche Giuda Iscariota - provenissero da quella corrente. I farisei, che incontriamo di continuo nei Vangeli, cercavano di vivere seguendo con estrema precisione i dettami della Torah e di evitare l’adattamento alla cultura unitaria ellenistico- romana, che andava imponendosi quasi da sé nei territori dell’impero romano e ora minacciava di appiattire Israele sullo stile di vita dei popoli pagani del resto del mondo. I sadducei, che appartenevano in gran parte all’aristocrazia e alla classe sacerdotale, cercavano di vivere un giudaismo illuminato, consono allo standard spirituale del tempo, e quindi di trovare un compromesso anche con il potere romano. I sadducei sono scomparsi dopo la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), mentre lo stile di vita dei farisei ha trovato forma durevole nel giudaismo plasmato dalla Mishnah e dal Talmud. Se nei Vangeli osserviamo gli aspri contrasti tra Gesù e i farisei, e se la sua morte in croce fu l’esatto contrario del programma degli zeloti, non possiamo tuttavia dimenticare che trovarono la via a Cristo uomini di ogni corrente e che la prima comunità cristiana comprendeva non pochi sacerdoti ed ex farisei. Una casuale scoperta, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, ha avviato a Qumran degli scavi e portato alla luce dei testi che da alcuni studiosi vengono collegati con un movimento più ampio, gli esseni, conosciuto precedentemente solo in base a fonti letterarie. Era un gruppo che si era staccato dal tempio erodiano e dal suo culto e aveva dato vita nel deserto della Giudea a comunità monastiche, ma anche a una convivenza di famiglie fondata sulla religione, e aveva costituito un ricco patrimonio di scritti e di rituali propri, in particolare anche con abluzioni liturgiche e preghiere comunitarie. Ci colpisce la devota serietà di questi scritti; sembra che Giovanni il Battista, ma forse anche Gesù e la sua famiglia, fossero vicini a questa comunità. In ogni caso i manoscritti di Qumran presentano molteplici punti di contatto con l’annuncio cristiano. Non è da escludere che Giovanni il Battista abbia vissuto per qualche tempo in questa comunità e abbia in parte ricevuto da essa la sua formazione religiosa.

    Tuttavia, l’entrata in scena del Battista portava con sé qualcosa di veramente nuovo. Il battesimo a cui egli invita si distingue dalle solite abluzioni religiose. Non è ripetibile e deve essere attuazione concreta di una svolta che determina in modo nuovo e per sempre la vita intera. È legato a un ardente invito a un nuovo modo di pensare e di agire, è legato soprattutto all’annuncio del giudizio di Dio e all’annuncio del più Grande che verrà dopo Giovanni. Il quarto Vangelo ci dice che il Battista "non conosceva" questo più Grande a cui voleva preparare la via (cfr. Gv 1,30-33). Ma sa di essere inviato per preparare la via al misterioso Altro, sa che la sua intera missione è orientata verso di Lui. In tutti e quattro i Vangeli questa sua missione è descritta con un passo di Isaia: “Una voce grida: "Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio"" (Is 40,3). Marco aggiunge un ulteriore passo risultante dalla fusione tra Malachia 3,1 e Esodo 23,20 che, in un altro contesto, incontriamo anche in Matteo (11,10) e in Luca (1,76; 7,27): "Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada" (Mc 1,2). Tutti questi testi dell’Antico Testamento parlano dell’intervento salvifico di Dio, che esce dalla sua imperscrutabilità per giudicare e salvare; a Lui bisogna aprire la porta, preparare la strada. Con la predicazione del Battista queste antiche parole di speranza erano diventate realtà: si annunciava qualcosa di grande.

    Possiamo immaginare la straordinaria impressione che dovettero destare la figura e l’annuncio del Battista nell’atmosfera accesa di quel momento della storia di Gerusalemme. Finalmente c’era di nuovo un profeta, qualificato come tale anche dalla sua vita. Finalmente si annuncia di nuovo un agire di Dio nella storia. Giovanni battezza con l’acqua, ma il più Grande, Colui che battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco, è già alle porte. Così non dobbiamo affatto considerare un’esagerazione le parole di san Marco: "Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati" (1,5). Del Battesimo di Giovanni fa parte la confessione: il riconoscimento dei peccati. Il giudaismo del tempo conosceva confessioni di carattere più convenzionale e generico, ma anche l’ammissione personale dei peccati, in cui dovevano essere elencate le singole azioni peccaminose (Gnilka I, p. 68). Si tratta davvero di superare l’esistenza peccaminosa condotta fino a quel momento, di iniziare una vita nuova, mutata. Lo svolgimento del battesimo ne è simbolo. Da un lato, nell’immergersi nell’acqua c’è il simbolismo della morte, dietro il quale sta quello del diluvio che annienta e distrugge. L’oceano nel pensiero degli antichi appariva come la costante minaccia del cosmo, della terra: le acque originarie che possono seppellire ogni vita. Nell’immersione il fiume poteva assumere in sé anche questa simbologia. Ma, in quanto corrente, è soprattutto simbolo di vita; i grandi fiumi - Nilo, Eufrate, Tigri - sono i grandi dispensatori di vita. Anche il Giordano è fonte di vita per la sua terra, lo è ancor oggi. Vi è in gioco la purificazione, la liberazione dal sudiciume del passato, che pesa sulla vita e la altera; si tratta di un nuovo inizio, e cioè di morte e risurrezione, di ricominciare la vita da capo e in modo nuovo. Si potrebbe quindi dire che si tratta di rinascita. Tutto ciò verrà espressamente sviluppato solo nella teologia battesimale cristiana, ma è già incoativamente presente nella discesa nel Giordano e nella risalita dalle sue acque.

    Abbiamo appena udito che tutta la Giudea e Gerusalemme accorrevano a farsi battezzare. Ma adesso sopraggiunge qualcosa di nuovo: "In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni" (Mc 1,9). Di pellegrini provenienti dalla Galilea non si era ancora parlato; tutto sembrava limitato al territorio della Giudea. Ma il fatto veramente nuovo non è che Gesù venga da un’altra area geografica, da lontano, per così dire. Il fatto veramente nuovo è che Egli - Gesù - vuole farsi battezzare, che entra nella grigia moltitudine dei peccatori in attesa sulla riva del Giordano. Del battesimo faceva parte la confessione dei peccati (l’abbiamo appena udito). Esso stesso era una confessione delle proprie colpe e il tentativo di deporre una vecchia vita mal spesa per riceverne una nuova. Gesù poteva farlo? Come poteva confessare dei peccati? Come staccarsi dalla vita precedente per una nuova? E’ una domanda che i cristiani si dovettero porre. La disputa tra il Battista e Gesù, di cui ci parla Matteo, dava voce anche a una loro domanda a Gesù: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?" (Mt 3,14). Matteo ci racconta: "Ma Gesù gli disse: “Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia". Allora Giovanni acconsentì" (Mt 3,15). Il senso di questa risposta, che suona enigmatica, non è facile da decifrare. In ogni caso nella parola àrti - per ora - c’è una certa riserva: in una determinata situazione provvisoria vale un determinato modo di agire. Per interpretare la risposta di Gesù è decisivo il significato che si attribuisce alla parola "giustizia": si deve adempiere ogni "giustizia". Nel mondo in cui vive Gesù, "giustizia" è la risposta dell’uomo alla Torah, l’accettazione della piena volontà divina, è prendere su di sé "il giogo del regno di Dio", secondo la formulazione giudaica. Il battesimo di Giovanni non è previsto dalla Torah, ma con la sua risposta Gesù lo riconosce come espressione del sì incondizionato alla volontà di Dio, come obbediente assunzione del suo giogo. Poiché nella discesa in questo battesimo sono contenute una confessione di colpa e una richiesta di perdono per un nuovo inizio, vi è in questo sì alla piena volontà di Dio in un mondo segnato dal peccato anche un’espressione di solidarietà con gli uomini, che si sono resi colpevoli, ma tendono verso la giustizia. Solo a partire dalla croce e dalla risurrezione l’intero significato di questo avvenimento è divenuto chiaro. Scendendo nell’acqua, i battezzandi riconoscono i propri peccati e cercano di liberarsi dal peso di essere sottomessi alla colpa. Che cosa ha fatto Gesù? Luca, che in tutto il suo Vangelo presta una viva attenzione alla preghiera di Gesù, e lo presenta costantemente come Colui che prega - in dialogo con il Padre -, ci dice che Gesù ha ricevuto il battesimo stando in preghiera (cfr. 3,21). A partire dalla croce e dalla risurrezione divenne chiaro per i cristiani che cosa era accaduto: Gesù si era preso sulle spalle il peso della colpa dell’intera umanità; lo portò con sé nel Giordano. Dà inizio alla sua attività prendendo il posto dei peccatori. La inizia con l’anticipazione della croce. Egli è, per così dire, il vero Giona, che aveva detto ai marinai: prendetemi e gettatemi in mare (cfr. Gio 1,12). Il significato pieno del battesimo di Gesù, il suo portare "ogni giustizia" si rivela solo nella croce: il battesimo è l’accettazione della morte per i peccati dell’umanità, e la voce dal cielo "Questi è il Figlio mio prediletto" (Mc 3,17) è il rimando anticipato alla risurrezione. Così si comprende il motivo per cui nei discorsi propri di Gesù la parola "battesimo" designa la sua morte (cfr. Mc 10,38; Lc 12,50).

    Solo a partire da qui si può capire il battesimo cristiano. L’anticipazione della morte sulla croce, che era avvenuta nel battesimo di Gesù, e l’anticipazione della risurrezione, annunciata dalla voce dal cielo, ora sono diventate realtà. Così il battesimo con acqua di Giovanni riceve pienezza di significato dal battesimo di vita e di morte di Gesù. Accettare l’invito al battesimo significa ora portarsi al luogo del battesimo di Gesù e così nella sua identificazione con noi ricevere la nostra identificazione con Lui. Il punto della sua anticipazione della morte è ora diventato per noi il punto della nostra anticipazione della risurrezione insieme con Lui. Nella sua teologia del battesimo (cfr. Rm 6), Paolo ha sviluppato questa relazione intrinseca senza parlare espressamente del battesimo di Gesù al Giordano.

    Nella sua liturgia e teologia dell’icona la Chiesa orientale ha ulteriormente spiegato e approfondito questa interpretazione del battesimo di Gesù. Essa vede un legame profondo tra il contenuto della festa dell’Epifania (proclamazione della filiazione divina per mezzo della voce dal cielo: per l’Oriente l’Epifania è la festa del battesimo) e la Pasqua. Nella parola di Gesù a Giovanni – "poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia" (Mt 3,15) - essa vede l’anticipazione della parola pronunciata nel Getsemani: "Padre [...] non come voglio io, ma come vuoi tu!" (Mt 26,39); i canti liturgici del 3 gennaio corrispondono a quelli del Mercoledì santo, quelli del 4 gennaio al Giovedì santo, quelli del 5 gennaio a quelli del Venerdì e del Sabato santo. L’iconografia riprende queste corrispondenze. L’icona del battesimo di Gesù riproduce l’acqua come un sepolcro liquido, dalla forma di cavità oscura, che a sua volta è l’immagine iconografica dell’Ade, gli inferi, l’inferno. La discesa di Gesù in questo sepolcro liquido, in questo inferno, che lo contiene tutto, è anticipazione della discesa agli inferi: "Essendo sceso nelle acque legò il Forte" (cfr. Lc 11,22), dice Cirillo di Gerusalemme. Giovanni Crisostomo scrive: "L’immersione e l’emersione sono immagine della discesa agli inferi e della risurrezione". I tropari della liturgia bizantina aggiungono ancora un ulteriore riferimento simbolico: "Il Giordano un tempo ritornò indietro a causa del mantello di Eliseo e le acque si divisero lasciando un passaggio asciutto, vera immagine del battesimo, mediante il quale noi attraversiamo il corso della vita" (Evdokimov, pp. 275-76).

    Il battesimo di Gesù viene così inteso come compendio di tutta la storia, in esso viene ripreso il passato e anticipato il futuro. L’ingresso nei peccati degli altri è discesa all’"inferno" - non solo, come in Dante, da spettatore, ma con-patendo e, con una sofferenza trasformatrice, convertendo gli inferi, travolgendo e aprendo le porte dell’abisso. È discesa nella casa del male, lotta con il Forte che tiene prigioniero l’uomo (e quanto è vero che tutti noi siamo tenuti prigionieri dalle potenze senza nome, che ci manipolano!). Questo Forte, invincibile con le sole forze della storia universale, viene sopraffatto e legato dal più Forte che, essendo della stessa natura di Dio, può prendere su di sé tutta la colpa del mondo e la esaurisce soffrendola fino in fondo - nulla tralasciando nella discesa nell’identità di coloro che sono caduti. Questa lotta è la "svolta" dell’essere che produce una nuova qualità dell’essere, prepara un nuovo cielo e una nuova terra. Il sacramento - il Battesimo - appare quindi come dono di partecipazione alla lotta di trasformazione del mondo intrapresa da Gesù nella svolta della vita che è avvenuta nella sua discesa e risalita.

    Con questa interpretazione e assimilazione ecclesiale dell’avvenimento del battesimo di Gesù ci siamo allontanati troppo dalla Bibbia? In questo contesto conviene ascoltare il quarto Vangelo, secondo il quale Giovanni il Battista, nel vedere Gesù, pronunciò le seguenti parole: "Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" (Gv 1,29). Ci si è arrovellati molto su queste parole, che nel rito romano vengono pronunciate prima della distribuzione dell’Eucaristia. Che cosa significa "agnello di Dio"? Perché Gesù viene chiamato "agnello" e perché questo "agnello" porta via i peccati del mondo, li vince fino a togliere loro sostanza e realtà? Joachim Jeremias ha messo a disposizione i mezzi decisivi per comprendere in modo corretto questa parola e poterla considerare - anche dal punto di vista storico - come vera parola del Battista. Anzitutto sono riconoscibili in essa due allusioni veterotestamentarie. Il canto del servo di Dio in Isaia 53,7 paragona il servo sofferente a un agnello che viene condotto al macello: "come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, [egli] non aprì la sua bocca". Ancora più importante è il fatto che Gesù fu crocifisso durante una festa di Pasqua ebraica e dovette dunque sembrare proprio il vero agnello pasquale, in cui si compiva quello che era stato il significato dell’agnello pasquale nell’uscita dall’Egitto: liberazione dalla mortale tirannia egizia e via libera all’esodo, al cammino verso la libertà della promessa. A partire dalla Pasqua la simbologia dell’agnello è divenuta fondamentale per la comprensione di Cristo. La troviamo in Paolo (cfr. 1 Cor 5,7), in Giovanni (cfr. 19,36), nella Prima Lettera di Pietro (1,19) e nell’Apocalisse (per esempio 5,6). Jeremias sottolinea inoltre che l’unica parola aramaica talja’ significa sia "agnello" sia "giovanetto", "servitore" (GLNT I 1919). Cosi le parole del Battista possono aver indicato anzitutto il servo di Dio che con le sue penitenze vicarie "porta" i peccati del mondo; ma nello stesso tempo esse lo facevano riconoscere come il vero agnello pasquale, che espiando cancella i peccati del mondo. "Paziente come un agnello offerto in sacrificio, il Salvatore è andato a morte per gli altri sulla croce; con la forza espiatrice della sua morte innocente ha cancellato la colpa di tutta l’umanità" (GLNT I 921). Se nell’angustia dell’oppressione egizia il sangue dell’agnello pasquale era divenuto decisivo per la liberazione di Israele, Egli, il Figlio che è divenuto servo - il pastore che è diventato agnello - si fa garante non più soltanto per Israele, ma per la liberazione del "mondo", per l’intera umanità. Con ciò ho toccato il tema dell’universalità della missione di Gesù. Israele non esiste solo per se stesso: la sua elezione è la via attraverso la quale Dio vuole arrivare a tutti. Incontreremo ripetutamente il tema dell’universalità quale centro autentico della missione di Gesù. Con la frase dell’agnello di Dio che porta i peccati del mondo, nel quarto Vangelo tale tema è presente subito all’inizio del cammino di Gesù.

    L’espressione "agnello di Dio" interpreta il carattere - se così possiamo dire - di teologia della croce del battesimo di Gesù, della sua discesa nelle profondità della morte. Tutti e quattro i Vangeli riferiscono, anche se in maniera diversa, che nel momento in cui Gesù salì dall’acqua "il cielo si squarciò" (Mc), "si aprirono i cieli" (Mt e Lc), lo Spirito discese su di Lui "come una colomba", mentre dal cielo risuonava una voce: essa, secondo Marco e Luca, si rivolge a Gesù: "Tu sei..."; secondo Matteo, invece, dice di Lui: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto" (Mt 3,18). L’immagine della colomba può ricordare l’aleggiare dello Spirito sulle acque, del quale parla il racconto della creazione (cfr. Gn 1,2); attraverso la piccola parola "come" (come una colomba) essa funge da "immagine di ciò che in sostanza non è descrivibile" (Gnilka I, p. 129). Quanto alla "voce", la incontreremo di nuovo in occasione della trasfigurazione di Gesù, dove però è aggiunto l’imperativo: "Ascoltatelo!". Quando ne parleremo, dovremo dedicare a queste parole una riflessione più approfondita. Qui desidero solo sottolineare brevemente tre aspetti. Anzitutto vi è l’immagine del cielo squarciato: sopra Gesù il cielo è aperto. La sua comunione di volontà con il Padre, l’"intera giustizia" che adempie, apre il cielo, che per natura è il luogo in cui si adempie perfettamente la volontà di Dio. A ciò si aggiunge poi la proclamazione da parte di Dio, il Padre, della missione di Cristo, che però non annuncia un fare, ma il suo essere: Egli è il Figlio prediletto, su cui sta il beneplacito di Dio. Infine vorrei far notare che qui, insieme con il Figlio, incontriamo anche il Padre e lo Spirito Santo: si preannuncia il mistero di Dio Trinità, che naturalmente può svelare se stesso nella sua profondità solo nel corso dell’intero cammino di Gesù. In questo senso, tuttavia, si delinea un arco che unisce quest’inizio del cammino di Gesù alle parole con le quali il Risorto invierà i suoi discepoli nel "mondo": "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19). Il Battesimo che i discepoli di Gesù amministrano da quel momento in poi è l’ingresso nel battesimo di Gesù, l’ingresso nella realtà che Egli con esso ha anticipato. Così si diventa cristiani.

    Un’ampia corrente della teologia liberale ha interpretato il battesimo di Gesù come un’esperienza vocazionale: qui Egli, che fino a quel momento aveva condotto una vita del tutto normale nella provincia di Galilea, avrebbe fatto un’esperienza sconvolgente; qui avrebbe raggiunto la consapevolezza di uno speciale rapporto con Dio e della sua missione religiosa, consapevolezza maturata sulla base delle attese allora dominanti in Israele, a cui Giovanni aveva dato nuova forma, e grazie alla commozione personale provocata in Lui dall’avvenimento del battesimo. Ma niente di ciò si trova nei testi. Per quanto colta sia la veste che si può dare a questa teoria, essa è più riconducibile al genere del romanzo su Gesù che alla vera interpretazione dei testi. Questi non ci permettono di guardare nell’intimo di Gesù. Egli è al di sopra delle nostre psicologie (Romano Guardini). Ci fanno, invece, sapere in che rapporto sta Gesù con "Mosè e i Profeti". Ci fanno conoscere l’intima unità del suo cammino dal primo momento della sua vita fino alla croce e alla risurrezione. Gesù non appare come un uomo geniale con le sue emozioni, insuccessi e successi - in tal modo, come individuo di un’epoca storica passata, Egli resterebbe in definitiva a una distanza insuperabile rispetto a noi. Egli invece sta di fronte a noi come "il Figlio prediletto", che se da un lato è il totalmente Altro, proprio per questo può anche diventare contemporaneo di tutti noi, per ognuno di noi più intimo di quanto ciascuno lo sia a se stesso (cfr. sant’Agostino, Confessioni, III,6,11).
  • Nikki72
    00 25/07/2008 21:18

    Joseph Ratzinger "In cammino verso Gesù Cristo" - Edizioni San Paolo 2004



    "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,9)


    Il volto di Cristo nella Sacra Scrittura


    "Vedere Gesù" nel Vangelo di Giovanni

    I discorsi dell’addio, tramandati nel vangelo di Giovanni, oscillano in maniera tutta singolare tra tempo ed eternità, tra l’incombere della passione di Gesù e una sua nuova presenza, essendo la passione già di per sé anche "esaltazione" del Figlio. Da una parte grava su questi discorsi l’oscurità del tradimento e della diserzione, del consegnarsi di Gesù all’estrema umiliazione della croce; dall’altra, tutto questo sembra già vinto e trasfigurato nella gloria a venire. Gesù indica la sua passione come un andarsene, preludio di un nuovo e più intenso ritorno, come un cammino di cui i discepoli già sono a conoscenza. E la domanda di Tommaso non si fa attendere: "Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?". La risposta di Gesù è divenuta una proposizione centrale della cristologia: "Io sono la Via e la Verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". Questa rivelazione del Signore suscita una nuova domanda - o piuttosto una richiesta - questa volta presentata da Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta". Gesù risponde con una nuova rivelazione, che sotto altro aspetto introduce nella profondità della sua coscienza, nel cuore della fede cristologica della Chiesa: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,2-9). L’ancestrale aspirazione dell’uomo alla visione di Dio si era espressa nell’Antico Testamento come "ricerca del volto di Dio". Anche i discepoli di Gesù sono dei cercatori del volto di Dio: per questo hanno seguito il Maestro. E ora, nella sorprendente risposta data a Filippo ecco condensata, come in un cristallo, tutta la novità del Nuovo Testamento che irrompe attraverso Cristo: Dio si può vedere, è visibile in Cristo. Questa rivelazione, che qualifica il cristianesimo come religione della compiutezza, ovvero della presenza divina, dà adito immediato ad una nuova domanda, volta a comprendere che cosa significhi il "già-e-non-ancora" come struttura fondamentale dell’esistenza cristiana. Un interrogativo che sentiamo risuonare in tutto il cristianesimo post-apostolico: com’è possibile vedere Cristo e contemporaneamente vedere il Padre? Il Vangelo di Giovanni affronta la questione non nei discorsi del cenacolo, ma il giorno del festoso ingresso in Gerusalemme, allorché alcuni greci, venuti per la Pasqua, si presentano a Filippo, il discepolo che nel cenacolo chiederà di poter vedere il Padre. Filippo è originario di Betsaida di Galilea, una regione fortemente ellenizzata della Terra Santa, e il desiderio espresso dai greci suona: "Signore, vogliamo vedere Gesù" (Gv 12,20s). E’ la richiesta del mondo pagano, ma è anche quella dei cristiani di tutti i tempi, e pure la nostra: Vogliamo vedere Gesù! Ma com’è possibile questo? Filippo la trasmette al Signore, facendosi accompagnare da Andrea; ma non sappiamo se l’incontro dei greci con Gesù sia realmente avvenuto. Abbiamo però la risposta di Gesù, misteriosa come quasi tutte le risposte che nel quarto Vangelo il Maestro riserva ai grandi interrogativi dell’umanità. Con le sue parole egli dischiude un orizzonte del tutto inatteso in questo momento; vede infatti, in tale richiesta, l’approssimarsi della sua glorificazione, che esprime con queste parole: "... se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (12,24). La glorificazione avviene nella passione, e da essa deriva il frutto abbondante: cioè - possiamo noi completare - la Chiesa dei gentili, l’incontro di Cristo con i greci, rappresentanti di tutti i popoli della terra.

    La risposta di Gesù, in questo modo, va oltre la situazione del momento per proiettarsi nel futuro: "Certamente i greci mi vedranno, e non solo questi venuti da Filippo, ma tutto il mondo dei greci. Mi vedranno non nella mia esistenza terrena e storica, "secondo la carne" (cfr 2Cor 5,16), ma attraverso la mia passione. Attraverso di essa io vengo, e non più soltanto in un limitato spazio fisico ma oltre tutti i confini geografici, nella vastità del mondo che desidera vedere il Padre". Gesù annuncia la sua venuta con la risurrezione, nella potenza dello Spirito Santo, e quindi un nuovo modo di "vedere" nella fede. Perciò la passione non è accantonata come qualcosa di obsoleto, ma rimane il luogo dal quale e nel quale soltanto egli può essere visto. Gesù estende la parabola del chicco di grano, che soltanto morendo diventa fecondo, a norma basilare di un’esistenza umana autentica, di un’esistenza nella fede: "Chi ama la sua vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo" (Gv 12,25s). Il vedere si realizza nella sequela, che significa vivere nel luogo dove Gesù dimora. Questo luogo è la sua passione, qui soltanto è presente la sua gloria. Che cos’è accaduto? L’idea del "vedere" ha assunto una dinamica insospettata. Si vede mediante un modo di vita definito "sequela". Si vede prendendo parte alla passione di Gesù. E lì che, in lui, si vede anche il Padre. Acquista così tutto il suo alto significato la profezia riportata da Giovanni a conclusione del racconto della passione: "Guarderanno a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37; cfr. Zc 12,10). Vedere Gesù, vedendo in lui allo stesso tempo il Padre, è un atto dell’intera esistenza. Sotto l’aspetto terminologico occorre precisare che l’espressione "volto di Cristo" non compare nei testi giovannei, che tuttavia appaiono intimamente legati ad una tematica centrale dell’Antico Testamento, il cui contenuto religioso si esprime in tutta una serie di testi come "ricerca del volto di Dio". Esiste pertanto una stretta continuità tra il giovanneo "guardare a Cristo" e il tendere veterotestamentario alla visione del volto di Dio. Paolo dà risalto anche al legame terminologico quando, nella seconda lettera ai Corinzi, parla della gloria di Dio che risplende sul volto di Cristo (4,6). Su questo torneremo più avanti. I passi neotestamentari (Giovanni e Paolo) sul vedere Dio in Cristo sono profondamente ispirati dalla pietà d’Israele e mediante essa si collegano alla storia universale delle religioni; o meglio: essi orientano verso Cristo l’indistinta aspirazione della religiosità umana, portandola a incontrare la risposta. Se vogliamo comprendere, in tutta la sua profondità, la teologia neotestamentaria del volto di Cristo, dobbiamo richiamarci all’Antico Testamento.


    La ricerca del volto di Dio nell’AT

    Il termine panim ("volto") ricorre circa 400 volte nell’Antico Testamento; quasi la metà dei passi riguarda una persona umana o qualche misterioso essere intermedio come cherubini e serafini; a Dio stesso si riferisce oltre un quarto dei passi, quindi un buon centinaio. Questa frequenza del termine in tutta la letteratura veterotestamentaria ci suggerisce l’importanza del concetto di cui esso è tramite. Dovremo anche chiarire alcune espressioni caratteristiche, quali "cercare il volto di Dio", "splendore del volto di Dio", ecc. Come va interpretata questa nostalgia della visione in una religione che, proibendo del tutto le immagini, sembra escludere assolutamente il "vedere" dal culto e dalla pietà? A che cosa mira l’israelita quando cerca il volto di Dio, pur sapendo che non può esistere alcuna immagine di lui? Si è cercato di far risalire tutto questo complesso lessicale, nelle sue svariate forme, ai culti pagani: la "visione del volto" richiamerebbe la contemplazione di un’immagine; la "luce del volto" fa pensare a divinità astrali, e così via. Si tratta di ipotesi indimostrabili, che nell’insieme hanno trovato scarso credito presso gli studiosi. Si può comunque aderire al presupposto che la terminologia della ricerca del volto di Dio provenga in qualche modo dal culto delle immagini. Ciò aiuta a comprendere meglio la radicalità del passo compiuto dall’Antico Testamento: l’immagine è abbandonata, mentre la ricerca del volto rimane. Viene meno la forma concretizzata, la riduzione della divinità ad oggetto, ma Dio conserva il suo volto. Proprio perché non riproducibile in immagini, egli rimane Colui che ha un volto, che può vedere e può essere veduto. L’antica forma cultuale, che aveva materializzato Dio riducendolo ad un "particolare", è stata dissolta, lasciando così emergere il suo significato più profondo: questo Dio ha un volto, è una "persona". Simian-Yofre nel suo art. cit. "Panim", assai dettagliato sotto il profilo filologico, ha così riassunto la questione: "Per la sua idoneità a esprimere sentimenti e reazioni, panim designa il soggetto in quanto si rivolge ad altri... cioè quale soggetto di relazioni. Panim è un concetto che esprime relazioni". Possiamo dire che, nel venir meno del culto delle immagini, proprio col vocabolo panim ha preso forma il concetto di persona, e precisamente come dimensione relazionale. Accanto a panim occorre menzionare, quale ulteriore forma della medesima intuizione, il termine sem ("nome"): il Dio dell’Antico Testamento rivela il suo nome, col quale può essere invocato. Anche il nome è un concetto relazionale: chi ha un nome può ascoltare e rivolgere a sua volta la parola ad altri; attraverso il suo nome può essere invocato. La filosofia greca ha identificato l’idea di natura, ma non ha conosciuto il concetto e la natura della persona. Per essa la persona non esiste; c’è soltanto l’individuo, ma come una delle molteplici espressioni della natura, l’unica realtà che conta. Quella peculiarità che noi definiamo persona è invece venuta alla luce nel quadro della fede biblica, quando dal rifiuto dell’immagine emerse ciò che vi è di più autentico: quell’essenza che può vedere ed essere vista, che può ascoltare, parlare ed essere interpellata. Fu dunque secondo logica che panim venisse reso prevalentemente col greco prosopon ("volto/faccia"), una parola assente dalla filosofia greca come termine tecnico. E giustamente prosopon divenne in latino persona, una parola che poco alla volta vide riconosciuto il suo pieno significato anche in ambito filosofico. Inoltre, non fu un caso se l’approfondimento della nuova nozione, l’evidenziarsi del mistero della persona, avvenne proprio nella disputa sulla dottrina della Trinità. Si può ritenere questo: il termine ebraico panim esprime Dio come persona, come un essere che si rivolge a noi e ci ascolta, vede, parla, è capace di amare e di adirarsi; un Dio che è al di sopra d’ogni cosa e tuttavia ha davvero un volto. Esattamente in questo l’uomo è simile a Dio, è sua immagine; dal volto egli può riconoscere chi è Dio, che cos’è e com’è. Verso questo volto si orienta, lo cerca con tutto il suo cuore. Mi sembra importante che a entrambi i concetti – "nome" e "volto" – da un lato sia soggiacente una profonda intuizione spirituale, divenuta possibile soltanto col rifiuto dell’immagine esteriore; e dall’altro che non si alimenti una nozione puramente concettuale: il guardare sensibile e l’idea del volto restano essenziali. Cerchiamo ora, attraverso un paio d’esempi, di cogliere più da vicino come concretamente, nella fede e nella pietà d’Israele, si presenti la relazione evocata dal termine panim. Risalta in primo luogo l’atteggiamento fondamentale della ricerca del volto di Dio. Recita il salmo 105,3s: "Gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto". Il salmo 24 enumera le condizioni richieste per chi desidera entrare nella santa dimora del Signore: mani pure e cuore puro. Tutto è poi condensato nelle parole: "Questa è la generazione di coloro che lo cercano, di quanti desiderano il tuo volto, o Dio di Giacobbe" (Sal 24,6). Ambedue i salmi si richiamano all’ingresso nel santuario, al corteo che introduce l’arca santa nel tempio. Non si può dunque negare un contesto cultuale: il volto di Dio lo si può incontrare nel tempio, lo si cerca ponendosi in cammino verso il luogo santo. Tuttavia il significato di panim va oltre il puro dato del culto. Ciò è evidente in Os 5,15, dove Dio, riferendosi a Israele, dice: "Me ne tornerò alla mia dimora, finché non si saranno pentiti e cercheranno il mio volto, e si volgeranno di nuovo a me nella loro angoscia". Questo "cercare" e "volgersi" deve abbracciare tutto l’uomo; soltanto quando egli è "giusto" con tutto il suo cuore, essendo secondo Dio, può sperare nell’incontro con il volto del Signore. Giustamente scrive Simian-Yofre: "Cercare il volto del Signore è un comando di valore universale e permanente". Ciò risulta con chiarezza dal salmo 17: la preghiera del giusto che non si lascia distogliere dalla via di Dio, anche se deve subire le aspre minacce dei suoi persecutori. Nell’insieme si delineano due forme d’esistenza. Da una parte, coloro che si affidano totalmente alle realtà materiali e se ne saziano. Senza provare invidia, il giusto sofferente dice al Signore: "Ricolma pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli e ne avanzi per la loro prole”". L’orante, invece, vede il proprio destino diversamente: "Nella giustizia io contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza". Egli vuole un appagamento che non è quello del ventre; desidera saziarsi alla vista del suo Dio; sa che la sua ricerca troverà compimento nella visione. Due aspetti sono importanti in quest’ultimo testo. Innanzitutto, ciò che conferisce all’orante la capacità di vedere Dio è la giustizia. Una parola che compendia l’atteggiamento basilare della pietà veterotestamentaria, ed è l’esatto corrispondente di ciò che il Nuovo Testamento e la Chiesa chiameranno fede. La giustizia è un modo di vita conformato sulla parola di Dio, è un dimorare in questa parola mettendola in pratica. Possiamo dire: giustizia è vita secondo Dio. Il salmo 17 è in consonanza col salmo 24: la ricerca del volto di Dio è un atteggiamento che coinvolge tutta la vita; per poter alla fine contemplare il volto di Dio, l’uomo dev’essere da Dio totalmente illuminato. Va inoltre osservato che il giusto si attende il dono della visione - della beatitudine che darà compimento a tutti i suoi desideri - per il momento del "risveglio". Il salmo, in questo modo, si proietta chiaramente oltre l’esistenza storica dell’uomo; è l’attesa di un risveglio che segnerà l’inizio della vera vita. Proprio per questo il giusto si distingue dai suoi avversari senza Dio, i quali ripongono tutta la loro felicità, e quindi il fine dell’esistenza umana, unicamente nella soddisfazione del momento, nel successo e nella sazietà materiale. Essi restano nell’ambito del mondano, imbrigliati nei limiti temporali della vita terrena. Di conseguenza, non può valere per loro il criterio della "giustizia"; si deve allungare la mano là dove sono disponibili successo e soddisfazioni. La giustizia, come "vita secondo Dio", rinvia oltre la nuda materialità e temporalità dell’esistenza terrena. In questa luce, l’osservanza dei precetti di Dio e la prospettiva escatologica appaiono intimamente connesse. Anche se l’idea della vita nuova è qui semplicemente accennata, senza ulteriore sviluppo, l’orientamento escatologico dell’esistenza è di fatto ben evidente per chi cerca il volto di Dio con tutta sua vita, nella certezza di poterlo contemplare "al risveglio". La ricerca del volto di Dio comporta il superamento del tempo e la speranza escatologica. L’Antico Testamento offre tuttavia anche un anticipo di "ciò che sarà". Nel salmo 24 abbiamo osservato la connessione tra la ricerca del volto di Dio e il culto, rilevando peraltro la necessità di andare oltre il culto. Nel salmo 17 l’elemento cultuale è del tutto assente, ma nella maggioranza dei testi veterotestamentari l’espressione "cercare il volto di Dio" ha un significato cultuale, anzi è addirittura un termine tecnico dell’incontro con Dio nel culto. I tre calendari liturgici (Es 23,14-19; 34,18-26; Dt 16,1-17) menzionano due volte ciascuno l’espressione. Con formulazione quasi identica si stabilisce l’obbligo per gli uomini, tre volte l’anno, di visitare il santuario (“contemplare il volto di JHWH”). "Dt 31,11 prevede, ogni sette anni, la proclamazione della legge davanti a tutto il popolo convenuto per la festa delle capanne nel santuario (di Gerusalemme) a "contemplare il volto di JHWH"". Così, l’evento cultuale diviene un incontro con Dio, una forma di contemplazione del divino; ma alla luce dell’insieme dei testi si rivela più che altro come una sorta di anticipazione, che rinvia oltre se stessa. Quest’orizzonte complessivo si ripropone quando consideriamo le espressioni riferite alla luce del volto di Dio o all’occultarsi, della sua faccia. Luce e vita sono, per l’uomo dell’Antico Testamento, concetti intimamente connessi. Quando si parla dello splendore del volto divino, s’indica Dio come fonte della vita. Sal 4,7b supplica: "Risplenda su di noi, o Signore, la luce del tuo volto", e questo per ottenere vita e salvezza. Altrove la richiesta ha come oggetto la fecondità della terra, la liberazione e la prosperità del popolo: "Rialzaci, Signore nostro Dio, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi" (Sal 80,4.8.20). Entra in tema anche l’illuminazione del cuore, affinché l’uomo possa riconoscere i suoi peccati (Sal 90,8). Viceversa, quando Dio nasconde la sua faccia, tutto fa ritorno alla polvere. Per questo, la preghiera affinché Dio non nasconda il suo volto è supplica per la vita stessa, per la capacità di vedere, senza di che nulla può esserci di buono. Il silenzio di Dio, l’occultamento della sua faccia significano punizione. Purtroppo il nascondersi di Dio può suscitare nel peccatore una sicurezza ingannevole, quasi che Dio non esista. Sembra possibile vivere tranquillamente senza di Lui, contro di lui, voltandogli le spalle. Questa sicurezza dell’uomo senza Dio è davvero la sua più profonda rovina. Proprio in questo nostro tempo del silenzio di Dio, quando il suo volto sembra divenuto irriconoscibile, non dovremmo riflettere con un po’ di timore sul significato del suo nascondimento? Non dovremmo vedere in ciò la vera sciagura del mondo, e quindi con maggior forza e insistenza gridare a Dio affinché mostri il suo volto? Non si è fatta ancora più urgente, in tale situazione, la ricerca del volto di Dio?


    Mosè e Cristo

    A completamento di questi accenni sui presupposti veterotestamentari della ricerca del volto di Cristo e di Dio come ce la propone il NT, desidero ancora prendere in esame un testo basilare dell’AT che lo stesso Paolo - come già è stato accennato - ha ripreso in 2Cor 3,4-4,6 leggendolo alla luce di Cristo. Diventa così ancor più palese tutta la novità del cristianesimo, come l’intima unità dei due Testamenti. Intendo il complesso di Es 32-34, dove si racconta il peccato d’Israele, l’adorazione del vitello d’oro, la punizione dei peccatori e infine la contesa di Mosè con Dio, per indurlo ad accogliere di nuovo il suo popolo, dal quale minaccia d’allontanarsi. L’intercessione di Mosè raggiunge il suo culmine nell’offerta che fa di se stesso: "Ecco, questo popolo ha commesso un grande peccato... Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... Se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!" (32,31s). Nel cap. 33 dell’Esodo il nostro tema compare in due passi che sembrano quasi contraddirsi, ma che si sono rivelati di somma importanza per la ricerca cristiana del volto di Dio. Dapprima si descrive il confidenziale rapporto tra Mosè e Dio: "Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino" (33,11). In seguito Mosè chiede a Dio: "Fammi vedere la tua gloria!". Questa è la risposta: "Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. [...] Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sulla rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e tu vedrai le mie spalle. Ma il mio volto non si può vedere" (33,18.20-23). Da una parte, dunque, c’è il colloquiare faccia a faccia come tra amici, dall’altra l’impossibilità di vedere in questa vita il volto di Dio: l’uomo può conoscerlo soltanto di spalle. Ovviamente, nella rilettura cristiana dell'Antico Testamento, questo passo doveva assumere un nuovo significato. Dalle parole di Stefano davanti al sinedrio (At 7,37) deduciamo che la promessa contenuta nel Deuteronomio restava ben presente ai cristiani: "Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto" (Dt 18,15). Ma in seguito Israele dovette prendere atto della malinconica considerazione con cui si chiude il Deuteronomio: "Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, col quale il Signore s’intratteneva faccia a faccia" (34,10). Stefano vuol dire che la promessa, fino allora rimasta aperta, si è finalmente avverata in Gesù di Nazaret, il quale, come Mosè sul monte, ha offerto se stesso quale vittima d’espiazione. L’offerta di Mosè non era stata accolta; Cristo invece è divenuto realmente per noi peccato, ha preso su di sé la maledizione (Gal 3,13) e ora è nostro intercessore presso il Padre (1Gv 2,1). Egli stava ininterrottamente faccia a faccia con il Padre - assai più che un profeta, assai più che un amico, ma come Figlio -, e sul suo volto rifulge per noi la gloria di Dio (2Cor 4,6). Da allora, per gli uomini, la ricerca del volto di Dio si è fatta più concreta: consiste nell’incontro con Cristo, nell’amicizia con lui, che non ci chiama più servi, ma amici (Gv 15,10). Se il conversare di Mosè faccia a faccia con Dio era per il lettore cristiano dell’Esodo un evidente richiamo a Cristo, l’impossibilità della visione piena, limitata alle "spalle di Dio", non poteva però riguardare allo stesso modo Gesù. Nella figura di Mosè era quindi significato sia il mistero di Cristo, sia il cammino dei suoi discepoli, ai quali - perciò a tutti noi, seguaci di Cristo - andava riferito il secondo testo. E’ questa, fondamentalmente, l’interpretazione di Es 33 presso i Padri; varia tuttavia nei particolari, in specie per il difficile riferimento alla visione delle “spalle di Dio”, allo stare nella fenditura della roccia, alle mani di Dio che ci ricoprono. Personalmente, sono sempre attratto dall’interpretazione che ne dà Gregorio di Nissa. Che cosa significa poter vedere Dio soltanto di spalle - scrive il Nisseno - se non che ci è possibile incontrare Dio esclusivamente camminando dietro a Gesù; perciò solamente attraverso la sequela, che è un procedere sulle orme di Gesù, quindi alle spalle di Dio? Vedere Dio, in questo mondo, significa fare di tutta la nostra esistenza un cammino verso il Dio vivente, nella sequela di Gesù Cristo, il quale ci addita la sua strada, che è l’itinerario del mistero pasquale di passione e morte, di risurrezione e ascensione.


    Contemplare Cristo nell’esistenza cristiana

    La testimonianza centrale dell’AT sulla visione del volto di Dio ci ha introdotti al NT. In che cosa consiste la vera novità del Nuovo Testamento? Non si tratta certo di un’idea. La novità è un fatto, o meglio una persona: Gesù Cristo. Nella sua luce numerosi aspetti della religiosità veterotestamentaria si riorganizzano e assumono, soprattutto dopo la distruzione del tempio, una nuova concretezza. Adesso è lui il volto di Dio per noi. Sulla base di questa coscienza ha preso vita la grande arte delle icone, che tuttavia non possono pretendere di rappresentare la meta finale della nostra ricerca del volto di Cristo. Questo vale naturalmente anche per le cosiddette achiropite, ovvero immagini "non fatte da mano d’uomo" che secondo la tradizione avrebbero ispirato le icone di Cristo. Nella disputa tra culto delle immagini e iconoclastia era questo il punto discriminante: l’icona non può diventare un’immagine di Dio a sé stante, quasi a voler rendere la divinità materialmente afferrabile. Deve invece esprimere il dinamismo del superamento, cioè rinviare oltre se stessa, farsi invito a intraprendere la ricerca del volto del Signore: un richiamo a oltrepassare la dimensione materiale e a mantenersi sull’itinerario della sequela, che non potrà mai concludersi in questa vita. Per esprimerci ad un livello teologicamente più rigoroso: l’icona reca in sé una tensione escatologica, e soltanto in questa prospettiva è possibile contemplarla correttamente. Nel secolo XIX da questi impulsi rinasce, collegandosi a forme di pietà tardomedievale, la devozione al Sacro Volto, che giunge ad espressione somma con Teresa di Lisieux, la quale non esita a definirsi "del Bambino Gesù e del Volto Santo". Entrambi questi titoli fanno riferimento alla kénosis di Dio, al suo farsi piccolo in Cristo, al suo discendere nella povertà dell’esistenza umana. E mentre il primo sottolinea preferibilmente l’amabilità di questa discesa, il secondo mette l’accento sull’aspetto della passione, poiché in questo mondo Cristo si presenta col "capo coperto di sangue e ferite" (O caput cruentatum!). In tal modo egli rivela tutto il mistero dell’amore di Dio e il suo vero volto. Volendo approfondire ulteriormente, possiamo distinguere tre momenti basilari nella pietà cristiana - fondata sul Nuovo Testamento - della ricerca del volto di Cristo e del volto di Dio. In primo luogo la sequela, ovvero l’intera esistenza orientata all’incontro con Gesù. In essa il posto centrale spetta all’amore del prossimo; quell’amore che alla luce del crocifisso ci fa riconoscere il volto di Gesù in chi è povero, debole e sofferente. Mettendoci al servizio dei bisognosi, è lui che amiamo, a lui ci accostiamo, lo vediamo e lo tocchiamo (cfr. Mt 25,31-46). Nella realtà, ci è possibile riconoscere Gesù nei poveri soltanto se il suo vero volto già ci è divenuto familiare e prossimo, e questo soprattutto nel mistero dell’Eucaristia, dove continuamente si ripropone per noi la contesa di Mosè sul monte: ora sul monte c’è il Signore Gesù, che per noi "si fa peccato". Egli è il chicco di grano che muore, per potersi donare a tutti noi nell’Eucaristia, vero pane di vita nelle nostre mani. L’Eucaristia, come già per i discepoli di Emmaus, diventa un "vedere": lo riconosciamo allo spezzare del pane, ci cadono dagli occhi le scaglie, guardiamo a colui che abbiamo trafitto, contempliamo il suo capo insanguinato. Così, imparando a conoscere lui, possiamo riconoscerlo nei poveri. In questo senso, appartengono alla pietà liturgica la personale devozione alla passione, l’incontro intimo con Gesù e la stessa pietà popolare. La vera icona nasce da quest’incontro con Gesù e conduce a lui, e di conseguenza, irresistibilmente, anche al prossimo. Oltre a questi due momenti, tra loro inseparabili, della contemplazione del volto di Cristo, ne riconosciamo un terzo: quello escatologico. Come l’icona è destinata a rinviare sempre oltre se stessa, così la celebrazione eucaristica esprime una tensione dinamica verso il Cristo che viene, verso quel "risveglio" in cui egli ci sazierà con il suo volto, con il volto del Dio trinitario. La stessa attenzione al prossimo, le varie forme dell’impegno sociale, devono mirare oltre il momento presente. L’amore, certamente, interviene dove adesso è necessario, soccorre i sofferenti e i bisognosi al presente. La teologia politica voleva posporre quest’aiuto, da offrire subito, al compito primario della costruzione di un mondo migliore. Ma si trattava, e si tratta, d’un intento presuntuoso, col quale si riducono gli individui a strumenti di sogni politici futuri, destinati per lo più a rimanere irrealizzabili. Nemmeno qui, però, manca il solito "granello di verità": in effetti, l’offerta d’aiuto al singolo fa parte della grande lotta dell’amore, della lotta della fede per il compimento del regno di Dio. Il Regno non è una realtà politica realizzabile dall’uomo, ma è dono di Dio, che a noi non è concesso di forzare. E tuttavia sta in rapporto col nostro impegno di sequela nel servizio, poiché l’amore che attraverso l’aiuto materiale non offrisse anche Dio, che non conducesse anche Dio, che non orientasse al suo volto, darebbe sempre troppo poco. Amore del prossimo e culto sono anticipazioni di ciò che in questo mondo sopravvive come speranza; sono energie della speranza che conducono a ciò che di più grande sta per venire, cioè alla vera salvezza e al vero compimento: la contemplazione del volto di Dio.


    Le religioni mondiali e la fede

    A conclusione della nostra riflessione vogliamo tornare sul problema della connessione di questa tematica con la storia delle religioni nel suo insieme. Avevamo osservato come l’abolizione delle immagini cultuali - che peraltro avevano mantenuto viva la ricerca del volto di Dio - conducesse al riconoscimento di un Dio personale, e in seguito al concetto di persona. E' a questo punto che si dividono le vie della storia religiosa. Le grandi costruzioni religiose che non conoscono un Dio personale (ad es. il neoplatonismo e il buddismo, o importanti correnti dell’induismo) enumerano comunque numerose divinità alle quali vengono rivolte preghiere, essendo in grado di aiutare o di nuocere. Queste sono raffigurabili con immagini, hanno un volto, in qualche modo sono anche persone. Sono "dèi", ma non sono Dio. Rappresentano delle potenze operanti in quello spazio intermedio, oltre il quale molti non riescono ad andare. Non appartengono al regno del "definitivo", del "totalmente altro", del vero "autentico". La realtà autentica - che Plotino chiama l’Uno, al di sopra d’ogni essere e d’ogni nome, e che nella concezione buddistica è il Nulla assoluto - non ha nome e non ha volto. Il fine ultimo di ogni purificazione e di ogni forma di salvezza sta nell’uscire dalla cerchia dei nomi e dei volti, delle distinzioni e delle contrapposizioni, per entrare nell’anonimato dell’uno o del Nulla. La novità della religione biblica era e consiste nel fatto che quest’essere originario, il Dio vero di cui non può darsi alcuna immagine, ha nondimeno un volto e un nome, è persona. La salvezza non sta più nel cadere nell’anonimato, ma in quel "saziarsi del suo volto", che al nostro "risveglio" ci verrà concesso. A questo risveglio, a questo saziarsi va il cristiano incontro, tenendo fisso lo sguardo sul Trafitto, cercando il volto di Gesù Cristo.

  • Nikki72
    00 25/07/2008 21:21

    Bart D. Ehrman "I cristianesimi perduti. Apocrifi, sette ed eretici nella battaglia per le Sacre Scritture" – Carocci editore 2005



    L’arsenale dei conflitti: trattati polemici e denigrazioni personali


    Le dispute dottrinali del primo Cristianesimo non vennero combattute con picconi e spade, ma con le parole. La parola parlata aveva un’importanza vitale, perché come si può immaginare le conversazioni quotidiane, l’insegnamento catechistico, le conversazioni settimanali, i sermoni, le discussioni private e i dibattiti pubblici influenzavano l’opinione in un senso o nell’altro. Purtroppo solo raramente possiamo sapere che cosa venne davvero detto nell’ardore della battaglia, a meno che qualcuno non si sia preso la briga di registrarlo all’epoca; ma anche la parola scritta era importante, perché due avversari teologici potevano incrociare le spade anche solo metaforicamente, attaccando le idee dell’altro, gettando ombre sulla personalità del nemico, richiamandosi alle autorità scritte precedenti a sostegno delle proprie tesi, falsificando documenti a nome di quelle autorità quando era necessario o utile, raccogliendo libri sacri nei canoni e conferendo loro uno status divino. Da molto tempo conosciamo nel dettaglio gli attacchi scritti sferrati dai proto-ortodossi contro i cristiani di orientamento diverso: le opere di eresiologi come Ireneo e Tertulliano, per esempio, sono sempre state disponibili, anche se quelle di altri autori del II secolo, come Egesippo e Giustino sono andate in gran parte perdute. Ma fino a un’epoca recente non conoscevamo altrettanto bene gli attacchi degli "eretici" nei confronti dei proto-ortodossi e disponevamo solo di qualche indizio frammentario su come dovessero svolgersi i dibattiti veri. Dato che la letteratura contraria è andata quasi interamente distrutta o perduta, le opere polemiche di quel periodo ci fanno sentire solo la voce di una parte, tanto che molti lettori hanno accettato tranquillamente l’idea che gli "eretici" non fossero in grado di difendersi e che alla fine furono più o meno obbligati a sottomettersi a una fustigazione letteraria dalla quale non furono mai in grado di risollevarsi. Ma un’analisi più ravvicinata dei resti superstiti, alcuni dei quali scoperti solo di recente, suggerisce un’idea più realistica: quelli che pensavano di avere ragione (cioè tutti, come in ogni disputa) seppero lottare per le loro tesi, e la guerra di parole venne condotta ovunque all’ultimo sangue. Il fatto che solo una fazione sia risultata vincitrice non deve farci pensare che la sua vittoria sia stata scontata fin dall’inizio o che sia stato facile sconfiggere gli avversari. Anche se il nome, la circonferenza toracica, la forza e l’agilità non vengono trasmesse ai posteri, può darsi che ai suoi tempi lo sconfitto di un incontro di pesi massimi sia stato un vero colosso.


    Gli Ebioniti contro il proto-ortodosso Paolo: la letteratura pseudo-clementina

    Una delle prove che nei primi secoli del Cristianesimo si svolse una vigorosa battaglia letteraria anziché un massacro univoco ci giunge da una serie di opere note già da molti anni, ma di cui solo relativamente di recente si è capito il carattere di polemica contro il Cristianesimo proto-ortodosso. Abbiamo già visto che i cristiani del II e III secolo amavano narrare storie sugli apostoli, cioè episodi delle loro avventure missionarie dopo l’ascesa di Gesù poi redatte in testi apocrifi come gli Atti di Giovanni e gli Atti di Pietro. Talvolta circolavano anche storie sui compagni degli apostoli, come abbiamo visto a proposito degli Atti di Tecla; tra queste troviamo anche storie leggendarie su Clemente, il vescovo di Roma e presunto autore della Prima lettera di Clemente. Ci restano due raccolte di questo tipo, oltre a varie altre opere. La prima è una serie di venti Omelie attribuite direttamente a Clemente, in cui il vescovo parla suoi viaggi, delle sue avventure e soprattutto dei suoi lunghi contatti con l’apostolo Pietro, che lo aveva convertito alla fede in Cristo La seconda è una storia in dieci libri dei viaggi di Clemente, la cui cornice è costituita dalla ricerca dei suoi parenti perduti; la ricerca ha un lieto fine e dà origine al titolo della raccolta, Recognitiones ("riconoscimenti"). La relazione tra le Omelie e i Riconoscimenti è molto complessa ed è una delle questioni più spinose di cui si debbano occupare gli studiosi di letteratura cristiana antica. Entrambe le opere sembrano risalire a un documento più antico che venne modificato e redatto in varie versioni nel corso del tempo; in ogni caso, alcune di queste opere su Clemente abbracciano idee giudaico-cristiane, e nel farlo talvolta criticano alquanto esplicitamente altre forme di Cristianesimo, tra cui la proto-ortodossia. Queste opere sono chiamate nel loro complesso letteratura pseudo-clementina. La linea narrativa di base di questi libri è la ricerca da parte di Clemente della sua famiglia e della verità. Clemente è membro di una famiglia romana aristocratica; quando è ancora giovane, sua madre ha una misteriosa visione che la spinge a lasciare la città portando con sé i suoi due gemelli, i fratelli maggiori di Clemente; qualche tempo dopo suo padre parte alla loro ricerca e anche lui non torna più. Intanto Clemente diventa grande e si dedica a una ricerca religiosa che lo porta ad attraversare varie forme di filosofia pagana, nessuna delle quali soddisfa la sua curiosità intellettuale, ma poi sente dire che il Figlio di Dio è comparso in Giudea e parte per trovarlo. Ma è troppo tardi: quando arriva a destinazione, Gesù è già stato giustiziato. Clemente incontra l’apostolo Pietro, si converte alla fede in Cristo e accompagna l'apostolo nei suoi viaggi missionari. Questi viaggi sono pieni di avventure durante le quali si verificano molti confronti tra Pietro e Simone Mago, che Pietro sconfigge grazie al miracoloso potere di Dio. Alla fine Clemente si riunisce con tutta la sua famiglia e così torna l’armonia: oltre ai suoi genitori e ai suoi fratelli, ha trovato anche la vera fede. L’eretico Simone Mago occupa un posto importante in questa storia, ma almeno in alcune occasioni sembra che l’avversario di Pietro non siail mago di cui sappiamo dagli Atti degli Apostoli e dalle prime opere eresiologiche. Qui Simone sembra piuttosto una maschera nientemeno che dell’apostolo Paolo, e da certi punti di vista il nemico attaccato in quest’opera sembra proprio lui. Il Vangelo di Pietro, per cui la validità della Legge di Mosè continua a essere valida per tutti (cristiani, ebrei e gentili), viene contrapposto alle tesi eretiche di Paolo, visto come predicatore di una versione del messaggio cristiano che risulta letteralmente priva di legge. La controversia tra Pietro e Paolo prefigurata in queste pagine romanzesche è basata su un vero conflitto storico tra i due leggibile anche nelle opere di Paolo. In particolare nella Lettera ai Galati (2.11-14), Paolo parla di uno scontro pubblico con Pietro nella città di Antiochia su una questione importante: i gentili che sono diventati cristiani devono osservare la Legge ebraica? Nel riferire il confronto, Paolo afferma in termini nettissimi la sua idea per cui i gentili non sarebbero tenuti a farlo in nessun caso. Come gli studiosi hanno notato da tempo, Paolo però non parla del risultato dello scontro, il che ha fatto spesso pensare che ne sia uscito sconfitto, almeno agli occhi dei presenti. La letteratura pseudo-clementina riprende questo dibattito per mostrare come Pietro sostenesse la continua vitalità della Legge contro Paolo, malamente mascherato da Simone Mago. I libri sono preceduti da una prefazione che sarebbe una lettera spedita da Pietro a Giacomo, fratello di Gesù e capo della chiesa di Gerusalemme (una delle molte lettere false a nome di Pietro), in cui l’apostolo parla del suo "nemico" che insegna ai gentili a non obbedire alla Legge e gli contrappone la sua autorevole tesi:

    Alcuni tra i gentili hanno rifiutato la mia predicazione legale e hanno preferito una dottrina illegale e assurda dell’uomo che è mio nemico. Anzi, alcuni hanno anche cercato, pur essendo io ancora in vita, di distorcere le mie parole con interpretazioni di ogni sorta, come se io avessi insegnato la dissoluzione della Legge. [...] Dio ce ne scampi! Una cosa simile significherebbe agire in modo contrario alla Legge di Dio che venne data a Mosè e confermata nella Sua eterna continuità dal nostro Signore. Egli infatti ha detto: "finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge" (Lettera di Pietro a Giacomo, 2.3-5).

    La Legge di Mosè va dunque sempre osservata da ebrei e gentili. Non ci vuole molto a riconoscere chi sia qui il "nemico" di Pietro, chi si oppone alle sue tesi "tra i gentili": l’apostolo Paolo si mostrava sempre come apostolo dei gentili e affermava che non dovevano osservare la Legge (ad esempio Lettera ai Galati 2.15, 5.2-5). Anche riguardo al responsabile dell'affermazione che Pietro stesso esortasse alla "dissoluzione della Legge", non c’è bisogno di cercare lontano: il libro neotestamentario degli Atti, attribuito a Luca, il compagno di viaggio di Paolo, ritrae Pietro proprio in questa posizione (10-11.15). Anche se alla fine Paolo e gli Atti entrarono a far parte del canone ortodosso, per questo autore entrambi sono eretici. Dunque la letteratura pseudo-clementina sembra inglobare una polemica ebionitica contro le idee poi incluse nel Cristianesimo proto-ortodosso. Gli attacchi a Paolo e le sue posizioni sono ancora più chiari in alcuni passi delle Omelie. In particolare in una sezione si afferma che Pietro sviluppò l’idea che nel piano di Dio per gli uomini il peggiore compare sempre prima del migliore. E così Adamo ebbe due figli, l’omicida Caino e il pio Abele, due ne ebbe anche Abramo, il reietto Ismaele e il prescelto Isacco, e da Isacco nacquero l’empio Esaù e il divino Giacobbe. Applicando il principio a epoche più recenti, comparvero due uomini nel campo della missione, Simone (Paolo) e Pietro, che ovviamente fu il più grande dei due, "che comparve dopo l’altro e venne su di lui come la luce sulle tenebre, come la conoscenza sopra l’ignoranza, come la cura sopra la malattia" (Omelie 2.17). Un ultimo esempio di questa polemica proviene da una scena immaginaria in cui Pietro attacca un malcelato Paolo per aver pensato che il suo breve incontro visionario con Cristo lo autorizzi a proporre un messaggio evangelico in contrasto con quello di chi ha passato molto tempo con Gesù mentre era ancora vivo e operante tra gli uomini.

    E se il nostro Gesù è comparso anche a te e lo hai conosciuto in una visione e ti ha incontrato come chi è irato con un nemico [si ricordi che Paolo ebbe la sua visione mentre ancora perseguitava i cristiani, Atti 9], comunque egli ha parlato solo tramite visioni e sogni o rivelazioni esterne. Ma si può diventare abili alla predicazione grazie a una visione? E se pensi che sia possibile, perché il nostro maestro avrebbe passato un anno intero con noi che eravamo svegli? Come possiamo crederti, anche se lui ti è apparso? [...] Ma se sei stato visitato da lui per un’ora e sei stato istruito da lui e così sei diventato un apostolo, allora proclama almeno le sue parole, esponi ciò che lui ha insegnato, sii amico dei suoi apostoli e non lottare con me, che sono suo confidente; tu infatti ti sei contrapposto in modo ostile a me, che sono una roccia salda, la pietra angolare della chiesa (Omelie 17.19).

    Pietro, non Paolo è la vera autorità per capire il messaggio di Gesù. Paolo ha corrotto la vera fede basandosi su una breve visione, che sicuramente ha inventato. Dunque Paolo è il nemico degli apostoli, non il loro capo: è al di fuori della fede, un eretico da condannare, non un apostolo da seguire. E così la letteratura pseudo-clementina, soprattutto nella forma più antica, poi modificata nel corso del tempo, sembra mostrare una forma di polemica ebionita contro il Cristianesimo paolino e contro i proto— ortodossi del II e III secolo che continuano a seguire Paolo rifiutando la Legge di Mosè. Per questi cristiani ebioniti la Legge è stata data da Dio, e al contrario di quanto affermano Paolo e i suoi successori proto-ortodossi, continua a essere necessaria per la salvezza in Cristo.


    Attacchi gnostici alla proto-ortodossia

    Di tutta la letteratura polemica che venne prodotta contro i proto-ortodossi dai loro avversari, quella che conosciamo meglio è uella gnostica. Questo grazie alla scoperta della biblioteca d Nag Hammadi, che contiene diversi trattati che attaccano le posizioni proto-ortodosse; prima del ritrovamento sapevamo che la lotta era stata dura, ma conoscevamo solo i prolissi attacchi di Ireneo, Tertulliano, Ippolito e dei loro successori, pagine su pagine di aspra polemica con l’intento di distruggere i nemici gnostici e cancellare le loro idee. Esamineremo questa tattica proto-ortodossa tra poco; per ora vediamo che cosa aveva da dire l’altra sponda. La polemica gnostica è alquanto diversa da quello che ci si potrebbe aspettare. Gli gnostici, almeno quelli che conosciamo meglio, non affermavano che le idee proto-ortodosse fossero pienamente sbagliate, ma che fossero inadeguate e superficiali, anzi ridicolmente inadeguate e superficiali. Gli gnostici, cioè, non negavano la validità delle affermazioni dottrinarie proto-ortodosse, ma le reinterpretavano in un modo che ritenevano più spirituale e profondo. Gli gnostici potevano professare credenze proto-ortodosse, leggere Scritture proto-ortodosse e accettare sacramenti proto-ortodossi, ma intendevano tutte queste cose in modo molto diverso, basandosi sulla loro capacità di guardarvi più a fondo garantita dalla loro superiore conoscenza (gnosis) della verità divina. E così, come temevano anche gli eresiologi proto-ortodossi, gli gnostici non erano nemici esterni ma interni, che pregavano nelle chiese proto-ortodosse ma si consideravano un'élite spirituale, una cerchia interna che riconosceva il significato spirituale più profondo di dottrine, Scritture e rituali che i proto-ortodossi prendevano solo per il loro valore di facciata. Tra gli attacchi gnostici alla superficialità delle idee proto-ortodosse, nessuno è più spietato dell'Apocalisse copta di Pietro scoperta a Nag Hammadi, che non va confusa con la proto-ortodossa Apocalisse di Pietro, in cui Pietro compie una visita guidata in paradiso e all’inferno. L’"apocalisse" o "rivelazione" di Nag Hammadi ritrae la vera natura di Cristo e biasima l’ignoranza dei semplici (i proto-ortodossi) che non la riconoscono. Il libro inizia con gli insegnamenti del "Salvatore", che informa Pietro che ci sono molti falsi maestri che sono "ciechi e sordi", bestemmiano la verità e insegnano cose malvagie; Pietro, invece, riceverà la conoscenza segreta (Apocalisse di Pietro 73). Gesù procede dicendo al discepolo che i suoi avversari sono "privi di percezione", perché "si attaccano al nome di un uomo morto": in altre parole, pensano che sia la morte di Gesù a essere importante per la salvezza. Questa, ovviamente, era stata un’idea proto—ortodossa fin dall’inizio; ma per questo autore quelli che pensano una cosa simile "bestemmiano la verità e proclamano un insegnamento malvagio" (74). Insomma, quelli che professano la fede in un morto si aggrappano alla morte, non alla vita immortale. Queste anime sono morte e sono state create per la morte.

    Non tutte le anime vengono dalla verità o dall'immortalità. Ogni anima di questa èra infatti ha la sua morte assegnata; di conseguenza è sempre una schiava. Viene creata per i suoi desideri e per la loro distruzione eterna, per la quale e nella quale esistono. Esse [le anime] amano le creature materiali che sono venute alla luce con loro. Ma le anime immortali non sono come queste, o Pietro. Però, finché non giungerà l’ora, essa [l'anima immortale] sembrerà proprio un’anima mortale (75).

    Nel mondo gli gnostici possono sembrare uguali agli altri uomini, ma in realtà sono diversi: non si aggrappano alle cose materiali e non vivono seguendo i loro desideri. Le loro anime sono immortali, anche se pochi lo sanno: "Gli altri non capiscono i misteri, anche se parlano di queste cose che non comprendono. Malgrado ciò, si vanteranno che il mistero della verità sia solo loro" (76). Come è possibile che quelli che non capiscono e che non insegnano la verità comprendano? "E ci saranno altri di quelli che non sono nel nostro numero che si chiamano "vescovi" e "diaconi", come se avessero ricevuto la loro autorità da Dio. [...] Questi uomini sono canali secchi" (79). Decisamente questo non è un complimento per i capi delle chiese cristiane: non sono fontane di conoscenza e saggezza ma letti di fiume essiccati. Ma che cos’è questa conoscenza accessibile alle anime immortali che sono invischiate nelle cose materiali? È la conoscenza della vera natura di Cristo e della sua crocifissione, che è erroneamente intesa (dai proto-ortodossi) come riferita alla morte di Cristo per i peccati. In realtà il vero Cristo non può essere toccato da dolore, sofferenza e morte, ma è al di là di queste cose. Ciò che venne crocifisso non era il Cristo divino ma il suo involucro fisico. In un'affascinante scena, Pietro assiste alla crocifissione e ammette di sentirsi confuso da ciò che vede:

    Quando ebbe detto quelle cose, lo vidi chiaramente catturato da loro e dissi: "Che cosa vedo, o Signore? Sei tu quello che stanno prendendo? [...] Chi è quello ai di sopra della croce, felice e ridente? È un altra persona quello cui inchiodano le mani e i piedi?".

    Allora Gesù dà la risposta indimenticabile che spiega il vero significato della crocifissione:

    Il Salvatore mi disse: "Quello che vedi al di sopra della croce, felice e ridente, è il Gesù vivente, ma quello alle cui mani e piedi piantano i chiodi è la sua parte fisica, il sostituto. Stanno disonorando ciò che gli somiglia. Ma guarda lui e me" (81).

    Solo la parvenza fisica di Cristo è messa a morte. Il Cristo vivente trascende la morte, trascende letteralmente la croce: sta lì, al di sopra di essa, a ridere di quelli che pensano di potergli fare male, di quelli che pensano che lo spirito divino dentro di lui possa soffrire e morire. Ma lo spirito di Cristo è al di là del dolore e della morte, così come gli spiriti di quelli che capiscono chi lui sia veramente e sanno chi sono veramente, spiriti intrappolati in una parvenza fisica ma che non possono soffrire o morire. La visione continua:

    E vidi qualcuno venirci incontro, che sembrava lui e anche quello che rideva al di sopra della croce, ed era pieno di un puro spirito, ed era il Salvatore. [...] E mi disse: "Sii forte! Tu sei colui cui sono stati rivelati questi misteri, in modo che attraverso la rivelazione tu sappia che colui che crocifiggono è il primo nato, e la casa dei demoni, e il vaso di argilla in cui abitano, che appartiene a Elohim [cioè il Dio di questo mondo] e alla croce che è sottoposta alla legge. Ma colui che sta in piedi accanto a lui è il Salvatore vivente, la parte più importante dentro colui che hanno catturato; ed è stato liberato. Se ne sta lì a guardare con gioia quelli che lo hanno perseguitato. [...] Perciò ride della loro mancanza di comprensione. Anzi, è per questo che colui che soffre deve restare, poiché il corpo è il sostituto. Ma ciò che è stato liberato era il mio corpo incorporeo" (82).

    Il corpo è solo un involucro che appartiene al creatore di questo mondo (Elohim, la parola ebraica usata a significare "Dio" nel Vecchio Testamento). La vera natura è dentro e non può essere toccata dal dolore fisico. Quelli che non hanno questa vera conoscenza pensano di poter uccidere Gesù, ma il Gesù vivente si innalza su tutto e li schernisce ridendo. Ma chi è veramente l’oggetto della derisione? I proto-ortodossi, che pensano che la morte di Gesù sia la chiave della salvezza. Per questo autore si tratta di un'idea ridicola: la salvezza non viene di corpo, ma dalla fuga da esso; non è la morte di Gesù a salvare, ma il Gesù vivente. I cosiddetti credenti che non capiscono non sono i beneficiari della morte di Gesù, ma le vittime del suo scherno.

    Un attacco motto simile ai proto-ortodossi si legge in un altro trattato di Nag Hammadi, il Secondo trattato del grande Seth, che, come l’Apocalisse copta di Pietro, ridicolizza quelli che hanno una visione superficiale e letterale della morte di Gesù:

    Infatti la mia morte, che loro credono sia avvenuta, è [invece] accaduta per loro nel loro errore e nella loro cecità. Hanno inchiodato il loro uomo alla [loro] morte. Le loro menti infatti non mi videro, perché erano sordi e ciechi. [...] Quanto a me, da un lato mi hanno visto e mi hanno punito. Un altro, il loro padre, fu colui che bevve il fiele e l’aceto, non io. Mi colpivano con la canna; un altro, che era Simone, fu quello che sollevò la croce sulla spalla. Un altro fu quello cui misero la croce di spine. Ma io mi rallegravo in alto di tutte le ricchezze degli arconti [...] ridendo della loro ignoranza. [...] Infatti continuavo a cambiare le mie forme dall’alto, trasformandomi di parvenza in parvenza (Secondo trattato del grande Seth 55-56).

    Questa idea di Gesù che cambia forma richiama una delle versioni più inquietanti della crocifissione mai proposta da un maestro gnostico, non presente nei testi di Nag Hammadi ma nelle opere oggi perdute di Basilide e riferita da Ireneo. Il testo del Nuovo Testamento dice che sulla strada verso la crocifissione Simone di Cirene venne costretto a portare la croce di Gesù (cfr. Marco 14.21). Secondo Basilide, Gesù sfruttò l’occasione per attuare un cambio soprannaturale, trasformando se stesso in Simone e Simone in se stesso, cosicché i Romani crocifissero l’uomo sbagliato mentre Gesù se ne stava in disparte a ridere della sua trovata (Contro le eresie 1.24.3). Probabilmente Simone non la trovava altrettanto divertente. Ma la risata di Gesù non riguarda solo i trucchi che riesce a giocare. In questi testi la risata è rivolta contro quelli che non hanno occhi per vedere, che non capiscono la vera natura di Gesù o il significato della sua presunta morte sulla croce. Invece i veri "gnostici", sapendo da dove vengono, capiscono come sono giunti qui e come torneranno. Dopo la dissoluzione di questo involucro mortale, torneranno alla loro casa celeste, avendo trovato la salvezza non in questo corpo o in questo mondo ma lontano da questo corpo e da questo mondo. Chi non riesce a capire la natura di questa salvezza e guarda solo alla superficie delle cose e al lato esterno e materiale della realtà è giustamente oggetto di scherno da parte di Gesù e di quelli che hanno ricevuto la sua verità.


    I proto-ortodossi all'attacco

    Ma alla fine a ridere furono i proto-ortodossi. Con i loro attacchi polemici riuscirono a sradicare gli gnostici dalle proprie chiese, a distruggere le loro Scritture particolari, ad annientare il loro seguito. La distruzione fu talmente efficace che solo di recente siamo riusciti a farci un’idea di quanto sia stato importante lo Gnosticismo nei primi secoli del Cristianesimo e di come abbia cercato di contrattaccare, mentre prima la nostra unica fonte sul dibattito era stata la violenta opposizione scritta dei loro avversari proto-ortodossi. Certo, questa opposizione, realizzata sul piano letterario, ci aveva già fatto sospettare che i proto-ortodossi si trovassero di fronte a qualcosa che temevano sinceramente, e avevamo buoni motivi per pensare che le loro paure fossero radicate in una concreta realtà sociale, ma prima della scoperta della biblioteca di Nag Hammadi eravamo alquanto ignari delle strategie polemiche degli avversari gnostici. Dall’altro lato della barricata, le strategie degli eresiologi proto-ortodossi erano fin troppo note, e vennero ripetute in continuazione in tutta la letteratura finché non divennero praticamente stereotipi.


    UNITA' E DIVERSITA'

    Pane della strategia proto-ortodossa consisteva nell’accentuare il concetto di "unità" a tutti i livelli. Innanzitutto l’unità di Dio con la sua creazione: c’è un Dio che ha creato il mondo; poi l’unità di Dio con Gesù: Gesù è l’unico figlio di Dio; poi l’unità di Gesù con Cristo: egli è "uno e medesimo"; poi l’unità della chiesa: le divisioni sono causate dagli eretici; infine l’unità della verità: la verità non è contraddittoria o in contrasto con se stessa. Inoltre, come abbiamo visto, gli autori proto-ortodossi affermavano che le loro idee erano state trasmesse così fin dall’inizio: c’era dunque una continuità nella storia della loro fede, radicata nell’unità di Gesù con i suoi apostoli e degli apostoli con i loro successori, i vescovi delle varie chiese. Pertanto, ovunque ci fosse disunità c’era un problema. E il problema non era solamente al livello sociale della comunità, ma andava più a fondo, tanto a fondo quanto la verità del Vangelo. La disunità mostra divisione, e la divisione non è di Dio. Questa visione venne ben presto applicata alle "eresie", poiché si affermava che esse portavano non unità ma divisione. Dividevano Dio dalla sua creazione, il creatore da Gesù, Gesù da Cristo; dividevano la chiesa, dividevano la verità. Inoltre, il fatto che gli eretici fossero divisi anche tra di loro era una chiara prova che le loro idee non potessero provenire da Dio. In un passo Ireneo lamenta la propria incapacità di capire qualcosa nelle sette interne degli gnostici valentiniani: "Poiché differiscono tanto tra loro stessi, sia per dottrina che per tradizione, e poiché quelli di loro che sono riconosciuti come più moderni si sforzano ogni giorno di inventare qualche nuova opinione e di proporre ciò a cui nessuno ha mai pensato prima, è impresa difficile descrivere tutte le loro opinioni (Contro le eresie 1.21.5). Non solo era difficile descrivere tutte le loro opinioni, ma la grande eterogeneità degli stessi gnostici valentiniani provava a Ireneo che l’intero sistema conteneva solamente bugie: "Gli stessi padri di questa favola [il mito gnostico] differiscono tra di loro, come se fossero stati ispirati di diversi spiriti di errore. Questo stesso fatto costituisce una prova a priori che la verità proclamata dalla chiesa è immutabile e che le teorie di questi uomini non sono altro che un tessuto di falsità" (Contro le eresie 1.9.5). Oppure, per dirla più sinteticamente con Tertulliano: "Dove si trova diversità di dottrina, lì si deve credere che ci sia corruzione tanto delle Scritture quanto della loro esposizione" (Prescrizione 38).


    SENSATEZZA E ASSURDITA'

    Ma a essere attaccate non erano solo le contraddizioni interne degli eretici: venivano prese di mira anche le contraddizioni con ciò che i proto-ortodossi ritenevano buon senso e logica, molte delle quali riguardavano i complessi miti alla base delle dottrine dei vari gruppi gnostici. Prima di esaminare nel dettaglio alcune di queste obiezioni proto-ortodosse, vorrei osservare che alcuni studiosi hanno sospettato che i cristiani gnostici in realtà non trattassero i propri miti come descrizioni letterali del passato, cioè come un fondamentalista cristiano di oggi tratterebbe i capitoli iniziali della Genesi. Nel mondo moderno, molte chiese cristiane non integraliste concordano sull'idea che la Genesi contenga elementi mitici e leggendari, e non c'è bisogno di credere a una creazione letterale in sei giorni o all’esistenza di Adamo ed Eva come persone storiche per appartenere a queste comunità. I cristiani gnostici evidentemente avevano un approccio simile ai propri miti, mentre gli eresiologi proto-ortodossi li interpretavano in modo letterale, trattandoli come affermazioni logiche sul passato e quindi mostrando quanto fossero ridicoli. Questo poteva servire quando bisognava sferrare un attacco fulminante e che al tempo stesso risultasse retoricamente convincente per un pubblico profano. Soltanto raccontare i miti in tutta la loro estensione, uno dopo l’altro, può avere l’effetto di farli sembrare assurdi, e a quanto pare Ireneo e i suoi successori lo sapevano. Era impossibile che tutte quelle descrizioni della creazione, così complesse e involute, fossero giuste! Inoltre, come abbiamo detto, un insieme di miti non può essere conciliato con un altro, premesso che entrambi contengano affermazioni "logiche" su quanto è avvenuto nel passato. Ma gli eresiologi non si limitarono a fornire dettagli su dettagli, pagina dopo pagina: si misero a esaminare i miti separatamente per dimostrare che non potevano essere veri. Ad esempio, parlando della teogonia (spiegazione della nascita del regno divino) degli gnostici valentiniani, Ireneo osserva che in uno dei miti principali, tra il primo gruppo di eoni a emergere dall’unico vero Dio ci sono sia Silenzio (sige) sia Parola (logos): ma questo non ha senso, perché se c’è una parola, non può più esserci silenzio (Contro le eresie 2.12.5). Un altro esempio tra molti: in una spiegazione di come avvenne il disastro cosmico che portò alla creazione del mondo, il dodicesimo eone, Sophia (saggezza), frustrato dalla propria ignoranza, cerca di comprendere il Padre di Tutto, esagera e cade. Ma questo è un’assurdità, dice Ireneo, perché Saggezza, per la sua stessa natura, non può essere ignorante (Contro le eresie 2.18.2). Alcune obiezioni proto-ortodosse alla logica dei sistemi ereticali non riguardavano dettagli tanto secondari ma cercavano di andare dritte al nocciolo della questione. I cinque libri scritti da Tertulliano contro Marcione, ad esempio, iniziano col chiedersi direttamente se sia logicamente possibile avere due Dèi. Tertulliano fissa il principio cui si atterrà: "Dio, se non è uno, non è" (Contro Marcione 3). La sua premessa logica è che per poter realizzare una discussione teologica bisogna prima mettersi d’accordo sulla definizione di "Dio", e chiunque sia dotato di coscienza riconoscerà che la definizione è: "Dio è il grande Supremo che esiste eternamente, non generato, non creato, senza principio né fine". Ma una volta ammesso ciò (e ovviamente Tertulliano suppone che ognuno lo ammetta, altrimenti non sarebbe una persona "di coscienza"), ad avere più di un Dio c’è una difficoltà insormontabile. È impossibile avere due esseri supremi, perché se ne esistono due, nessuno dei due è supremo; e se uno dì loro è più grande dell’altro, allora l'altro non può essere Dio, perché non è supremo. Tertulliano prosegue affermando che non è possibile sostenere che i due Dèi possono essere supremi ciascuno nella sua sfera (ad esempio uno nella bontà e uno nella giustizia), perché ciò vorrebbe dire che nello schema generale ogni Dio è supremo solo parzialmente, e Dio, per essere Dio, deve essere completamente supremo. Il fatto che i loro avversari eretici non sapessero o volessero vedere la logica porta talvolta gli eresiologi proto-ortodossi al sarcasmo e allo scherno. Le più vivaci alla lettura sono spesso le battute di Tertulliano. I due Dèi di Marcione, sostiene, derivano dal fatto che egli vede doppio: "Agli uomini malati agli occhi anche una lucerna sembra come molte" (Contro Marcione 1.2). La realtà fisica smentisce le idee di Marcione (ormai morto) per cui si è salvati dal Dio creatore: "Come fai a immaginare di essere liberato dal suo regno, se le sue mosche ti volano ancora sulla faccia?" (1.24). Il Cristo-fantasma di Marcione è come l’intelligenza-fantasma di Marcione: "Vi assicuro, è più facile trovare un uomo nato senza cuore o senza cervello, come Marcione, che senza un corpo, come il Cristo di Marcione" (4.1).


    VERITA' ED ERRORE

    Un’argomentazione alquanto più sostanziale consiste nell’affermazione proto-ortodossa che la verità precede sempre l’errore, e ricorre in varie forme. Al livello più basilare, gli eresiologi osservano che le idee fondamentali di ogni eresia sono state create dal fondatore: Marcione per i marcioniti, Valentino per i valentiniani, Ebion per gli ebioniti (almeno secondo Tertulliano). Ma se questi maestri furono i primi a proporre un'interpretazione corretta della verità del Vangelo, che dire di tutti i cristiani vissuti prima di loro? Avevano torto e basta? Per i proto-ortodossi questo è assurdo: per loro "la verità precede la sua copia, la somiglianza vien dopo la realtà" (Tertulliano, Prescrizione 29). Un altro modo di presentare questa argomentazione prevedeva una specie di teoria della "contaminazione", ripetuta più volte nelle opere proto-ortodosse. Secondo questa idea, la fede originaria del messaggio cristiano è stata corrotta da elementi stranieri che vi sono stati aggiunti in un secondo momento in modo da alterarla in maniera talvolta irriconoscibile. In particolare questi autori non potevano sopportare gli eretici che utilizzavano la filosofia greca per spiegare la vera fede; soprattutto Tertulliano ne era infastidito:

    Le eresie stesse sono anzi istigate dalla filosofia. Da questa fonte provengono gli eoni [gnostici] e non so quali infinite forme e la trinità dell’uomo [cioè la divisione tripartita dell’uomo in corpo, anima e spirito, corrispondente a uomini animali, "psichici" e spirituali] nel sistema di Valentino, che era della scuola di Platone. Dalla stessa fonte è giunto il dio migliore di Marcione, con tutta la sua tranquillità: proviene dagli stoici (Prescrizione 7).

    Tertulliano rifiutava completamente l’intrusione della filosofia nella verità del Vangelo cristiano, secondo la sua famosa domanda: "Che cosa ha a che fare Atene con Gerusalemme? Che concordia esiste tra l’Accademia e la chiesa? E quale tra eretici e cristiani?" (Prescrizione 7). Anche Ireneo trova reprensibile l’uso delle idee filosofiche, e paragona quelli che prendono "le cose dette da tutti quelli che erano ignoranti di Dio e che sono chiamati filosofi" a quelli che "hanno cucito insieme un abito variopinto a partire da un ammasso di miserabili stracci [...] facendosi un mantello che non è veramente loro" e che in realtà è "vecchio e inutile". Se la filosofia potesse davvero rivelare la verità su Dio, chiede Ireneo, che bisogno c’era di mandare Cristo nel mondo? (Contro le eresie 2.14.6-7). Nessuno fu più strenuo nel combattere l’elemento filosofico nell’eresia d Ippolito di Roma, i cui dieci libri di Confutazione di tutte le eresie sono interamente dedicati a dimostrare che l’eresia deriva dalla tradizione filosofica greca. I primi quattro volumi dell’opera parlano infatti dei filosofi greci con i loro termini, mentre gli ultimi sei mostrano come ogni eresia, nessuna esclusa, prenda in prestito da loro le sue idee fondamentali. Ad alcuni lettori questo è sembrato eccessivo, soprattutto perché Ippolito, per continuare nella metafora usata da Ireneo, talvolta si trova a dover cucire varie eresie tra loro per adattarle al loro presunto tracciato filosofico. Gli eresiologi proto-ortodossi usarono un altro aspetto della teoria della contaminazione, cioè l’idea per cui con il passare del tempo un eretico corrompe le idee già di per sé corrotte del suo predecessore, cosicché nelle cerchie eretiche le variazioni diventano sempre più devianti e la verità sempre più lontana a mano a mano che il tempo passa. Questa idea della progressiva perversione della verità spiega perché gli eresiologi si interessassero tanto alle radici genealogiche dell’eresia. Per Ireneo e i suoi successori, Simone Mago è stato il padre di tutti gli eretici, poi gli successe Menandro, che a sua volta fu seguito da Saturnino e Basilide e così via (cfr. Ireneo, Contro le eresie 1.23ss). Secondo questa teoria, gli eretici sono tanto creativi che nessuno di loro si accontenta di ereditare il falso sistema del suo maestro: ognuno vuole corrompere ancora di più la verità secondo la sua immaginazione. E così le eresie iniziano a germogliare con riproduzioni e permutazioni incontrollate, come un’idra dalle molte teste che ne genera di nuove più velocemente di quanto le si riesca a tagliare. Questo grande numero di dottrine eretiche poteva forse sembrare scoraggiante per gli eresiologi, ma d’altra parte si consolavano con la certezza di lottare per la verità rivelata una volta per tutte ai santi e per l’ortodossia insegnata da Gesù ai suoi discepoli e tramandata senza cambiamenti e corruzioni fino ai loro giorni.


    LA SUCCESSIONE APOSTOLICA

    Come abbiamo visto più volte, affermare che la verità proveniva dagli apostoli era fondamentale nei dibattiti sull’eresia. I proto-ortodossi avevano molte strategie per ricollegare le loro idee a quelle degli apostoli. L’argomentazione più semplice prevedeva la "successione apostolica", già visibile in forma abbastanza embrionale nella Prima lettera di Clemente. Qui i Romani affermavano che i Corinzi dovevano reinsediare i loro presbiteri deposti perché i capi delle chiese (tra cui quei presbiteri) erano stati nominati da vescovi che erano stati selezionati dagli apostoli che erano stati scelti da Gesù che era stato mandato da Dio; opporsi ai capi delle chiese voleva dunque dire opporsi a Dio (Prima lettera di Clemente 42-44). Nelle mani di Tertulliano il concetto di successione apostolica venne sviluppato in modo leggermente diverso, cioè riferendosi all’autorizzazione a esercitare non solo le cariche ecclesiastiche ma anche l’insegnamento catechistico. Come osserva l’eresiologo, dopo la resurrezione Cristo ordinò agli apostoli di predicare il suo Vangelo a tutte le nazioni, ed essi lo fecero fondando in tutto il mondo importanti chiese basate sulla stessa predicazione dello stesso vangelo in ogni luogo. Queste fondazioni inviarono poi missionari a fondare altre chiese ancora: "Perciò le chiese, anche se sono tanto numerose e grandi, comprendono solamente l’unica chiesa primitiva fondata dagli apostoli, dalla quale sorsero. In questo modo tutte sono originarie e tutte apostoliche" (Prescrizione 20). La conclusione è la seguente:

    Da ciò deriviamo dunque la nostra regola. Poiché il Signore Gesù ha inviato gli apostoli a predicare, la nostra regola è che nessun altro debba essere considerato predicatore al di fuori di quelli che Cristo ha nominato. [...] Se dunque le cose stanno così, è altrettanto chiaro che ogni dottrina che concorda con le chiese apostoliche [...] deve essere riconosciuta come veritiera, in quanto contiene senza alcun dubbio ciò che le sopraddette chiese hanno ricevuto dagli apostoli, gli apostoli da Cristo, Cristo da Dio (Prescrizione 21).

    Tertulliano passa poi a nominare le chiese che possono far risalire la loro linea diretta agli apostoli, anche se forse è sorprendente e forse significativo che ne nomini solo due: Smirne, il cui vescovo Policarpo fu nominato dall’apostolo Giovanni, e Roma, il cui vescovo Clemente venne nominato da Pietro. Egli sfida comunque gli eretici a citargli come esenpio una qualsiasi loro chiesa di cui si possa dire lo stesso, e si mostra sicuro ch nessuno raccoglierà la sfida (cap. 32). L’argomentazione suona convincente, ma vale la pena di notare che anche altri gruppi oltre ai proto-ortodossi potevano vantare una discendenza diretta del loro insegnamento dagli apostoli. Sappiamo ad esempio da Clemente di Alessandria che Valentino era discepolo di Teuda, di cui si diceva fosse stato seguace di Paolo; e che lo gnostico Basilide studiò presso Glaucia, supposto discepolo di Pietro (Stromateis, 7.17.106). Per lo più i proto-ortodossi si limitarono a screditare queste connessioni.


    LA REGOLA DELLA FEDE E DEL CREDO

    Il vanto dei proto-ortodossi di rappresentare l’insegnamento apostolico sfociò in una serie di affermazioni dottrinali con cui espressero quella che secondo loro era la vera natura della religione. Entro il II secolo, prima che esistessero credi universali che ogni cristiano potesse pronunciare, questo insieme di dottrine venne chiamato regula fidei, letteralmente "regola della fede". Questa regola includeva le credenze fondamentali e basilari che tutti i cristiani dovevano condividere, in quanto erano stati insegnati dagli apostoli in persona. Vari autori proto-ortodossi, tra cui Ireneo e Tertulliano, espongono la regula fidei, che pure non fu mai fissata in una forma ben definita (in ogni caso essa era diretta contro chi non ne accettava uno o più aspetti). Di solito nelle varie forme della regola c’è la fede in un solo Dio, creatore del mondo, che ha creato tutto dal nulla, in suo figlio, Gesù Cristo, predetto dai profeti e nato dalla Vergine Maria, nella sua miracolosa vita, morte e resurrezione, e nello Spirito Santo, che sarà presente sulla terra fino alla fine, quando ci sarà un giudizio finale in cui i giusti saranno premiati e gli ingiusti condannati al tormento eterno (così ad esempio Tertulliano, Prescrizione 13). Alla fine oltre alla regula fidei si svilupparono vari credi cristiani che i convertiti dovevano recitare forse all’inizio, nell’intraprendere un programma di educazione cristiana (catechesi), cioè al momento del battesimo. Forse in origine i credi erano una serie di domande e risposte in tre parti, in conformità con la triplice immersione nell’acqua, come suggerisce Matteo 28.19-20: "Insegnate a tutte Le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e insegnando loro a seguire quanto vi ho ordinato". Poi il credo divenne tripartito, incentrandosi maggiormente sulla retta dottrina relativa a Padre, Figlio e Spirito Santo, e come la regula fidei era diretto contro le dottrine erronee proposte dagli altri gruppi. Alla fine, entro il IV secolo, il credo familiare ai cristiani di oggi si era ormai sviluppato in una forma rudimentale, soprattutto nella forma del "Credo apostolico" e del "Credo niceno". Vale la pena di notare che queste formulazioni sono mirate contro specifici gruppi eretici. Prendiamo l’inizio del Credo niceno: "Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio". In tutta la storia del pensiero cristiano queste parole sono state non solo solenni, ma anche foriere di serie riflessioni teologiche; allo stesso tempo, dobbiamo ricordare che rappresentano la reazione contro affermazioni dottrinali fatte da gruppi cristiani che non erano d’accordo con loro, come quelli che credevano che ci fosse più di un Dio, che il vero Dio non fosse il creatore, che Gesù non fosse il figlio del creatore o che Gesù Cristo non fosse una sola persona ma due. Si noti soprattutto che, essendo state formulate in un certo contesto, molte delle idee esposte in questi credi sono profondamente paradossali. Cristo è Dio o uomo? Entrambi. Se è entrambi, sono due persone? No, egli è l’"unico" Signore Gesù Cristo. Se Cristo è Dio e suo padre è Dio, ci sono due Dèi? No: "Credo in un solo Dio". La causa dei paradossi dovrebbe risultare chiara da ciò che abbiamo visto. I cristiani proto-ortodossi furono costretti a combattere da un lato gli adozionisti e dall'altro i docetisti, da un lato Marcione e dall’altro le varie sette gnostiche. Quando si afferma contro gli adozionisti che Gesù è divino, si rischia di sembrare docetisti, perciò si deve anche affermare contro i docetisti che Gesù è umano, ma a questo punto si rischia di sembrare adozionisti. Allora l'unica soluzione è affermare entrambe le cose in una volta: Gesù è divino e Gesù è umano. E si devono anche negare le implicazioni potenzialmente eretiche di entrambe le affermazioni: Gesù è divino, ma questo non significa che non sia anche umano; Gesù è umano, ma questo non significa che non sia anche divino. Dunque egli è divino e umano allo stesso tempo. Lo stesso vale per le paradossali affermazioni proto-ortodosse contenute nei credi su Dio creatore di tutte le cose ma non del male e della sofferenza che si trovano nel creato; su Gesù completamente umano e insieme completamente divino, e non metà dell’uno e metà dell’altro, ma entrambi allo stesso tempo, senza che ciò comporti essere due, perché egli è uno; su Padre, Figlio e Spirito Santo come tre persone separate eppure formanti un solo Dio.


    L'INTERPRETAZIONE DELLA SCRITTURA

    Un aspetto importante della polemica proto-ortodossa contro i vari eretici consisteva nell’affermare non soltanto le dottrine da seguire, ma anche l'interpretazione dei testi sacri su cui queste dottrine si basavano. Certo, c’era qualche disaccordo sul numero dei libri da accettare come sacri; ma c’era anche la questione di come interpretare i testi accettati. Questo era stato un punto importante fin dall'inizio del Cristianesimo, poiché Gesù e i suoi seguaci, come Paolo, citavano abbondantemente le Scritture e le interpretavano nei loro insegnamenti. Nel mondo antico non c'era maggiore unanimità di oggi su come leggere un testo. Se il significato dei testi fosse tanto evidente, non avremmo bisogno di commentatori, esperti legali, critici letterari o teorie dell’interpretazione: tutti potremmo leggere e capire subito. Si potrebbe pensare che basti il buon senso per decodificare un testo, ma provate a chiudere una decina di persone in una stanza con un testo della Bibbia o di Shakespeare o della Costituzione e vedrete quante interpretazioni ne usciranno fuori. Nell’antichità non era diverso. Ben presto nelle controversie su eresia e ortodossia si capì che avere un testo sacro non è lo stesso che interpretarlo. Per poter raggiungere un accordo unanime sul significato di un testo dovevano esistere precisi vincoli testuali imposti dall’alto, regole di lettura, pratiche accettare di interpretazione, modi di legittimazione e così via. La cosa divenne sempre più importante a mano a mano che maestri di diversi orientamenti teologici interpretavano gli stessi testi in modo diverso e poi si appellavano a questi testi a sostegno dei loro punti di vista. Marcione, per fare un esempio importante, sosteneva un’interpretazione letterale del Vecchio Testamento che lo condusse a concludere che il Dio del Vecchio Testamento era inferiore al Vero Dio. Il Dio del Vecchio Testamento, notava Marcione, non sapeva dove trovare Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, fu convinto a non distruggere Sodoma e Gomorra per un certo periodo, ordinò il massacro di tutti gli innocenti di Gerico, uomini, donne e bambini, e promise punizioni severe contro chiunque infrangesse la sua legge; in altre parole, leggendo le Scritture ebraiche semplicemente in modo letterale, in alcune occasioni il Dio ebraico si mostra ignorante, indeciso, iracondo e vendicativo. Per Marcione questo non era il Dio di Gesù, e poteva affermare questa tesi semplicemente prendendo il testo per il suo valore di facciata. Ma l’avversario proto-ortodosso di Marcione, Tertulliano, affermò che i brani che parlano dell’ignoranza o delle emozioni di Dio andavano presi in senso non letterale ma figurato. Poiché Dio non poteva essere veramente ignorante, indeciso o malevolo, questi passi andavano interpretati alla luce della piena conoscenza di come Dio è veramente, e così Tertulliano reinterpretò un gran numero di brani in modo figurato per provare la sua visione di Dio e Cristo. Facciamo solo un esempio: c’è un passo importante nel Levitico (16) che descrive due capri offerti dai sacerdoti ebrei il Giorno dell’Espiazione; secondo il testo, un capro deve essere mandato nel deserto e l’altro deve essere offerto in sacrificio. Tertulliano afferma che i due capri si riferiscono ai due avventi (cioè le venute sulla terra) di Cristo: la prima volta viene come colui che è maledetto (abbandonato nel deserto), la volta successiva (la sua "seconda venuta") come portatore di salvezza per quelli che appartengono al suo tempio spirituale (Contro Marcione 3.7). Si veda anche come Ireneo interpreta i cibi "puri e impuri" della Legge di Mosè. I figli di Israele sono autorizzati a mangiare animali che hanno lo zoccolo fesso e che ruminano, ma non animali che non hanno lo zoccolo fesso o che non ruminano (Levitico 11.2, Deuteronomio 14.3 ecc.). Che cosa significa questo? Per Ireneo, la norma indica i tipi di persone con cui i cristiani sono associati. Gli animali con lo zoccolo fesso sono puri perché rappresentano le persone che avanzano costantemente verso Dio e il Figlio per mezzo della fede (Dio + Figlio = zoccolo fesso); gli animali che ruminano ma non hanno lo zoccolo fesso sono impuri perché rappresentano gli ebrei che hanno in bocca le parole della Scrittura ma non avanzano costantemente verso la conoscenza di Dio (Contro le eresie 5.8.4). Scegliendo un’interpretazione figurativa dei passi, Tertulliano e Ireneo seguivano precedenti ben precisi tra i loro antenati proto-ortodossi: si ricordi l’ampio uso dell’interpretazione figurativa da parte di Barnaba per attaccare gli ebrei, che seguono solo il significato letterale delle loro leggi. Ma in altri casi, quando gli autori proto-ortodossi affrontavano avversari come alcuni gnostici, che già di loro usavano l’interpretazione figurativa, allora affermavano decisamente che solo l’interpretazione letterale del testo era ammissibile. In particolare Ireneo obietta contro le modalità interpretative che gli gnostici usano a sostegno delle loro tesi e esempi precisi. Gli gnostici che credevano in trenta eoni divini si appellavano all’affermazione del Vangelo di Luca per cui Gesù iniziò la sua missione all’età dì trent’anni e alla parabola della vigna, nella quale il proprietario recluta i lavoratori alla prima, terza, sesta, nona e undicesima ora (numeri che sommati insieme danno trenta). Inoltre essi affermavano che questi trenta eoni erano divisi in tre gruppi, il terzo dei quali consisteva in dodici eoni, l’ultimo dei quali era Sophia, l'eone che cadde dal regno divino portando alla creazione dell’universo. La nozione di Sophia (in greco "saggezza"), il dodicesimo eone, sarebbe stata evidenziata dalla comparsa di Gesù nel Tempio a dodici anni per discutere della Legge (mostrando così la sua "saggezza") e dal fatto che Giuda Iscariota, il dodicesimo degli apostoli, cadde e diventò un traditore (cfr. Contro le eresie 2.20-26). Ireneo considerava ridicole queste interpretazioni. Secondo lui, gli gnostici non facevano altro che far dire ai testi ciò che volevano loro e ignoravano i "chiari e piani" insegnamenti del testo, tra i quali per Ireneo c'era anche l'dea che esista un solo Dio, creatore buono di una creazione buona, macchiata non dalla caduta di un eone divino ma dal peccato di un uomo. Usando un’immagine brusca ma efficace, Ireneo paragona il capriccioso uso della scrittura da parte degli gnostici a una persona che, osservando un bel mosaico che raffigura un re, decide di staccare le pietre preziose e di ricomporle nella forma di un cane bastardo, sostenendo poi che quello era il vero intento dell'artista (Contro le eresie 1.8). All’osservatore moderno di questi dibattiti antichi può sembrare un problema che i proto-ortodossi insistessero sull’affermazione letterale del testo e poi, quando faceva loro più comodo, usassero quella figurativa. Eppure probabilmente è giusto affermare che questi autori proto-ortodossi ritenevano primaria l’interpretazione letterale del testo, mentre quella figurativa andava usata solo per supportare idee stabilite su base letterale. Questo vale anche per il più famoso allegorista proto-ortodosso, Origene di Alessandria, che era notevolmente propenso a fornire ricche e profonde interpretazioni figurative della Scrittura ma affermava che i metodi andavano applicati solo quando il significato letterale del testo sembrava disperatamente contraddittorio o assurdo (Origene, I princìpi, libro IV). In ogni caso, che l'insistenza sulla superiorità dell’interpretazione letterale abbia convinto gli gnostici o meno, nei dibattiti i proto-ortodossi ebbero una certa forza di convinzione nei confronti degli altri, soprattutto tra i simpatizzanti proto-ortodossi. Per loro la Scrittura doveva essere interpretata seguendo metodi letterali, cioè lasciando dire alle parole ciò che vogliono dire normalmente e seguendo pratiche largamente accettate di costruzione grammaticale. Se interpretate così, le parole rendono le intenzioni dell’autore; e poiché questi autori erano ritenuti tutti apostoli, questo tipo di pratica interpretativa poteva rivelare l'insegnamento apostolico trasmesso una volta per tutte alle chiese che si collocavano nella tradizione ortodossa di Gesù.
  • Nikki72
    00 25/07/2008 21:23

    L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti

    23 marzo 2008 - Prof. Paolo Franceschetti -
    http://paolofranceschetti.blogspot.com/


    Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati.
    Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso.
    Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo.

    Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze).
    Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale.

    I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente.
    Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore.

    L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande.
    Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)?
    Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti)
    Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro?
    Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso.
    Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo?

    La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore.
    Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti.

    Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre.
    Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente.
    Senz’altro queste due motivazioni ci sono.
    Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente.
    La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo).
    Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta.
    E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso.

    Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa.
    Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato.
    E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso.
    Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo.
    Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime.
    La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani.
    Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina.
    Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave.

    Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca.
    Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani)[1]. Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico).
    Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”[2]. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina.

    Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”).

    Il mio articolo termina qui.
    Non voglio approfondire per vari motivi.
    In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho.
    Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire.
    E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto.
    La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi.
    Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce.
    Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra.
    Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce.
    Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa.

    Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo.
    E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti.

    (Io speriamo che non mi suicido)

    Note
    [1] Il magistrato restò ferito, poiché al momento dell'esplosione l'auto del magistrato stava superando una vettura su cui si trovavano Barbara Asta e i suoi due piccoli gemelli Salvatore e Giuseppe, che morirono dilaniati, investiti in pieno dall'esplosione
    [2] 11 settembre 2001. Quarto livello. Ultimo atto, Editori Riuniti.

    (POSTATO DA ORCKRIST)
  • Nikki72
    00 25/07/2008 21:25

    Leonardo Sciascia "Dalle parti degli infedeli" - Adelphi Edizioni 1993



    Nella lettera al cardinale Ruffini aveva chiesto lo lasciassero tranquillo almeno fino all’8 settembre, festa della Madonna di Tindari ("Nel frattempo, il Signore e la Madonna Santa, se vogliono, possono far risplendere la verità e ottenermi giorni migliori"). E lo lasciarono tranquillo un po’ più oltre quella data, a parte una lettera riservata del 24 giugno 1952 in cui non si toccava l’argomento della dimissione ma si teneva ben vivo quello che della richiesta di dimissione era causa:

    Prego l’Eccellenza Vostra Rev.ma di voler informare riservatamente e con esattezza questa Sacra Congregazione circa il modo con cui si sono svolte in codesta diocesi le ultime elezioni amministrative (propaganda, formazione delle liste, apparentamenti, affluenza alle urne, ecc.) e il risultato delle medesime nei singoli comuni della diocesi. Vostra Eccellenza avrà la bontà di accompagnare la relazione col suo autorevole giudizio sulla nuova situazione.

    Ma non c’era da farsi illusioni, su quel silenzio. Monsignor Giovan Battista Peruzzo, vescovo di Agrigento, amichevolmente e spregiudicatamente, il 9 febbraio del '52, ne dava avvertimento a monsignor Ficarra; e aggiungendo i suoi buoni consigli:


    Cara Eccellenza,
    In quest’ora così triste vorrei esserle vicino per consolarla o poterle scrivere notizie confortevoli. Ma purtroppo né l’una cosa né l’altra mi è possibile. Mi credo però in dovere di dirle come vedo la realtà della questione. Le parlo come un fratello e la prego a meditare bene ogni parola. Secondo il mio giudizio, la S. C. Concistoriale è venuta nella decisione di togliere l’Eccellenza Vostra da Patti. Non discuto le ragioni del provvedimento, constato solo il fatto. Quando S. E. il Cardinale Piazza giunge a queste determinazioni, non è cosa facile che cambi parere. Egli percorre la sua strada e giunge al traguardo. Non ho perciò alcuna speranza che la sua lettera, la sua andata a Roma o le raccomandazioni di qualsiasi Cardinale gli facciano cambiare parere. Accetti la decisione della S. Sede: sia forte nella sua rassegnazione: e procuri di avere le migliori condizioni. S. E. il Cardinale Ruffini assicura che l’Eccellenza Vostra sarebbe nominato Arcivescovo Titolare e che le darebbero lire 40.000 al mese. Vegga di ottenere qualche cosa di più, o di avere un posto a Roma, un incarico in un Seminario Regionale, o almeno che le 40.000 lire mensili siano portate a L. 45.000... Non abbia alcuna speranza di indurre la S. C. Concistoriale a tornare sulle sue decisioni e di conseguenza scriva a S. E. (a Ruffini) che non spedisca la sua lettera a Roma. A Roma ci vada lei e con figliale confidenza si ponga nelle mani della Santa Sede: preghi il Cardinale a volere salvare il suo onore e il suo avvenire. Se l’andare a Roma le è di peso, vada a Palermo dal Card. Ruffini e gli ripeta le stesse cose. Ogni ritardo può pregiudicare l’avvenire. Mi perdoni la schiettezza: ma se tacessi la verità, non le sarei amico.
    Gesù Crocifisso la consoli...

    L’onore e l’avvenire: la nomina ad arcivescovo titolare (in partibus infidelium, si capisce: sarebbe stato pazzesco, da parte della Santa Sede, affidare a monsignor Ficarra, e da arcivescovo, un più numeroso gregge, se da vescovo non aveva saputo condurre quello di Patti all’ovile della Democrazia Cristiana) e le 45.000 lire mensili. Monsignor Peruzzo era un "vero" vescovo; la sua lettera a monsignor Ficarra molto "saggia" e davvero da "amico" (Lo ricordo, monsignor Peruzzo, nelle visite pastorali a Racalmuto, e specialmente in quella in cui mi diede cresima. Ieratico in chiesa e in processione, si scioglieva in compagnoneria e spirito quando privatamente intratteneva o si intratteneva. Una volta venne al circolo: e sapendo qual covo di mangiapreti fosse, lasciò
    cadere due o tre ridevoli aneddoti sui preti. Quei fieri anticlericali ne furono edificati: finalmente un prete "diverso"). Non c’è, tra le carte di monsignor Ficarra, copia di una risposta a monsignor Peruzzo. E’ certo, comunque, che non ne seguì i consigli; e specialmente riguardo al trattamento economico. Una sola volta, nel carteggio relativo alla dimissione, monsignor Ficarra accenna alla condizione in cui si troverebbe lasciando il vescovato di Patti: e dicendo semplicemente di non avere una casa. Anni prima, ad una richiesta della Sacra Congregazione del Concilio (di completare, con lire 1520, il contributo dovuto dalla diocesi al sanatorio del clero), aveva minuziosamente prospettato la condizione economica del vescovato e la propria: drammatica nel dover far fronte alle richieste dei poveri (non solo della diocesi, ma della chiesa di Canicattì di cui era stato parroco nel 1919), dei seminaristi bisognosi, della "povera mamma" (cento lire ogni tre mesi), della Congregazione del Concilio; felice in quanto da Dio assegnatagli e guidata. Non seguì, dunque, i consigli di monsignor Peruzzo; ma non poteva illudersi che monsignor Peruzzo si sbagliasse sull’andar dritto al traguardo, sulla tenacia e l’ostinazione del cardinal Piazza. Si ebbe, per cominciare, l’Ausiliare che Ruffini gli aveva suggerito di domandare e che lui non aveva domandato: e se lo ebbe, per di più, come se ne avesse fatto istanza e con generosità glielo avessero concesso. Un vescovo ausiliare munito "delle più ampie facoltà": e dunque ad esautorarlo. Si calcolava, forse, che la nomina dell’ausiliare avrebbe suscitato in monsignor Ficarra sufficiente indignazione e ribellione: sufficiente a che prendesse forma di obbedienza, apparenza; a che si dimettesse, insomma. Poiché invece vi si era rassegnato, ecco la collera del cardinale. E la si sente trascorrere, la collera, sotto il linguaggio di antica ipocrisia, di antica menzogna: come acqua ribollente sotto uno strato di ghiaccio.


    Eccellenza Reverendissima,
    Con lettera indirizzata all’Eccellenza Vostra Rev.ma il 9 gennaio 1952 mi trovavo nella penosa ed incresciosa necessità di significarLe come questa Sacra Congregazione ritenesse inderogabile che Vostra Eccellenza rimettesse generosamente nelle Auguste Mani del Santo Padre il governo della diocesi di Patti. L’Eccellenza Vostra rispose allora che "sarebbe sempre l’uomo dell’ubbidienza e del sacrificio"; espresse tuttavia il desiderio o di avere un altro incarico o di ottenere un Ausiliare, domandando, comunque, di poter rimanere in Sede fino al settembre di quell’anno. Il Santo Padre, con Sovrana benevolenza, accolse il Suo desiderio, lasciandoLa ancora a Patti; tuttavia, sollecito del maggior bene di cotesta diocesi - il cui stato in questi ultimi anni aveva destato non poche preoccupazioni - Le ha posto al fianco, quale Coadiutore, l’Ecc.mo Mons. Pullano, munendolo altresì delle più ampie facoltà. Purtroppo, però, questo provvedimento non ha conseguito l’effetto desiderato, per cui questa Sacra Congregazione è venuta a trovarsi di nuovo nella penosa necessità di invitarLa a rimettere senz’altro la rinuncia a cotesta diocesi nelle Mani del Santo Padre. Voglio insieme assicurarLa fin d’ora che questo Sacro Dicastero, come da autorizzazione già ricevuta da Sua Santità, non mancherà di assisterLa per una decorosa sistemazione con quel trattamento di cui già godono gli altri Ecc.mi Vescovi rinunciatari.
    Resto in attesa di un sollecito riscontro...

    Questa lettera è del 16 luglio 1954. Sarebbe da riconoscere che il cardinale aveva avuto pazienza per più di due anni, se da questa lettera non venisse il dubbio che aveva commesso, due anni prima, un errore: e gli ci voleva dunque del tempo per superarlo e più decisamente marciare verso quello che monsignor Peruzzo chiama il traguardo. E l’errore era stato quello di aver nominato l’ausiliare. "Questo provvedimento non ha conseguito l’effetto desiderato": che ufficialmente era quello di restituire la diocesi di Patti all’efficienza, all’alacrità; ma segretamente, nelle buone intenzioni della Sacra Congregazione e del cardinal Piazza, quello di provocare in monsignor Ficarra un risentimento che solo nella dimissione poteva trovar sfogo. Invece, né l’effetto che ufficialmente si voleva, né quello che occultamente si vagheggiava, si erano realizzati. Fermandoci ad litteram, il cardinale non può voler dire che questo: il vescovo ausiliare, nonostante munito "delle più ampie facoltà", non è riuscito a rivitalizzare la diocesi. Considerando che sarà stato scelto oculatamente - di provata efficienza nel maneggio delle cose ecclesiastiche e non propriamente ecclesiastiche, di temperamento non remissivo - l’ammettere che l’effetto non è stato conseguito è, da parte del cardinale, un riconoscere che la scelta non è stata felice e che monsignor Pullano non aveva quelle qualità di cui gli si era data reputazione. Ma ciò rende incoerente il fatto che, dimissionato monsignor Ficarra, monsignor Pullano restò a reggere la diocesi: e dunque o era, direbbe don Abbondio, pianeta della diocesi di avere un vescovo inefficiente o monsignor Pullano di efficienza ne aveva tanta da meritare quella difficile diocesi. C’è, ad alleggerire il cardinale dal sospetto che ormai il puntiglio personale prevalesse in lui sulla realistica visione delle cose, da avanzare l’ipotesi che, pur non avendo più alcun effettuale potere, pur ridotto a vescovo-ombra, monsignor Ficarra continuasse a godere di un prestigio e ad esercitare una influenza ancora piuttosto forti e - dal punto di vista della Sacra Congregazione - nefasti. Il prestigio del vescovo che fa soltanto il vescovo; l’influenza del non fare politica, del vedere la politica come altro, come altro il partito della Democrazia Cristiana, e quindi il lasciare che ciascuno, senza pregiudizio di fede religiosa e con buonafede, si ritenesse libero di farla con la Democrazia Cristiana o fuori o contro. Ma c’è da supporre, ragionevolmente, che questi elementi fossero insieme presenti: il calcolo della Sacra Congregazione deluso dalla rassegnazione di monsignor Ficarra; il fatto personale del cardinale Piazza; l’incapacità dell’ausiliare ad esautorare del tutto il vecchio vescovo; il persistere del prestigio e dell’influenza di monsignor Ficarra nel suo non fare politica.
  • Nikki72
    00 31/07/2008 00:16

    "La Bibbia - nuovissima versione dai testi originali" - Edizioni Paoline 1987



    1. Il libro dei libri


    Tutte le introduzioni alla Bibbia incominciano con la spiegazione del nome: "Bibbia" deriva dal greco e significa originariamente "i libri". Con tale appellativo a cominciare dal terzo secolo dopo Cristo autori cristiani, come Clemente Alessandrino e Origene, presero a indicare i libri sacri degli Ebrei e dei Cristiani; successivamente il termine si latinizzò e diede origine nel Medio Evo al sostantivo femminile Bibbia, come a dire "il libro per eccellenza". Tale appellativo non ricorre però mai nella Bibbia, dove invece si trovano espressioni come "Sacre Scritture", "Antico" e "Nuovo Testamento", termini che pure sono diventati abituali e correnti per designare l’insieme della Bibbia. Si tratta infatti non di un libro solo, ma di una raccolta di libri, la quale secondo il canone (o la "norma") della Chiesa Cattolica enumera 46 libri scritti prima di Cristo (detti perciò "Antico Testamento") e 27 scritti dopo Cristo, chiamati "Nuovo Testamento". Che di tutti i libri del mondo la Bibbia sia il più diffuso, il più letto, il più tradotto, il più studiato, il più ricco di ispirazione per la cultura umana è un fatto incontestabile, ma non è il luogo di analizzarlo qui. Basti soltanto notare che una pagina di essa, e precisamente il salmo 8, è stata depositata, per iniziativa di Paolo VI, sulle lande polverose della luna dai primi astronauti che vi sbarcarono dalla terra, il 21 luglio del 1969. Qui interessa invece la Bibbia come il libro sacro, sul quale si fonda, insieme con l’insegnamento della Chiesa, la fede cristiana. Altri popoli, altre culture e religioni hanno i loro libri sacri; basti pensare ai Veda per la tradizione indù, al Tipitaka per i buddhisti, al Corano per i Musulmani. Questi ultimi per vero riconoscono in parte le Scritture degli Ebrei e dei Cristiani, ma le ritengono falsificate dai loro possessori, ragione per cui il Corano le soppianterebbe tutte. Riguardo agli Ebrei, è evidente che della Bibbia essi riconoscono soltanto quei libri che i cristiani chiamano Antico Testamento e che essi dividono in 3 parti, cioè Legge (Torah) comprendente i 5 libri del Pentateuco; Profeti, e questi ripartiti in anteriori (cioè i libri storici: Giosuè, Giudici, Samuele, Re) e posteriori (cioè Isaia, Geremia, Ezechiele e i 12 profeti minori); Scritti sacri (Salmi, Giobbe, Proverbi, Rut, Cantico dei Cantici, Qohèlet, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra e Neemia, Cronache). Si noti quindi che gli Ebrei non considerano sacri i libri di Tobia, Giuditta, I e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc. L’esclusione di questi libri da parte degli Ebrei avvenne definitivamente verso la fine del I secolo dopo Cristo. La Chiesa, ossia le prime comunità cristiane, seguivano già a quel tempo l’elenco più antico in uso presso gli Ebrei di lingua greca e da essi passato alla comunità apostolica. Si deve notare tuttavia che alcuni dottori della Chiesa antica, fino al secolo V, per ragione delle controversie con gli Ebrei, avanzarono dubbi circa l’opportunità di includere tali libri nell’elenco dei libri sacri della fede cristiana. Analoghe incertezze si verificarono anche per alcuni scritti del Nuovo Testamento, come l’Apocalisse, la lettera agli Ebrei, la lettera di Giacomo, la seconda e terza lettera di Giovanni, la seconda di Pietro e quella di Giuda. E’ il cosiddetto problema del canone (dal greco kànon, norma), ossia dell’elenco ufficiale e normativo dei libri sacri, sul quale i contrasti non furono mai drammatici in seno alla Chiesa, poiché si giunse progressivamente e spontaneamente a un consenso. Il Concilio di Ippona, cioè l’assemblea plenaria dei Vescovi della provincia d’Africa nel 393, presente S. Agostino, stabilì un canone identico, per il numero dei libri, a quello che il papa Innocenzo I nel 405 inviava ad Esuperio Vescovo di Tolosa. Quando dunque il 4 aprile 1546 sotto Paolo III il Concilio di Trento definì solennemente il canone con il celebre "decreto sulle Scritture canoniche", non fece che ratificare la tradizione comune della Chiesa. Si deve notare tuttavia che per i libri dell’Antico Testamento i Protestanti decisero di seguire il canone degli Ebrei; per questo le edizioni protestanti della Bibbia non contengono, o meglio mettono a parte i libri di Tobia, Giuditta, Sapienza, Siracide, Baruc e i due dei Maccabei. Non sarà inutile sapere che i Protestanti sogliono chiamare apocrifi tali libri, mentre nel linguaggio cattolico è invalso presso qualche studioso l’uso di designarli come deuterocanonici, per indicare che vi furono dubbi sulla loro autenticità, distinguendoli così dai protocanonici, sui quali non vi fu mai alcun dubbio. Altri libri di carattere sacro sorsero in vari circoli religiosi ebrei e cristiani negli ultimi due secoli dell’età antica e nei primi secoli del Cristianesimo. Anche per essi vi furono discussioni e incertezze, finché si giunse progressivamente e per consenso unanime e spontaneo a espungerli dal canone della Bibbia. Questi libri (come il Proto-Vangelo di Giacomo, il Vangelo di Tommaso, ecc.) vengono chiamati apocrifi, cioè di origine occulta, dai Cattolici, e pseudoepigrafici, cioè dal titolo falso, dai Protestanti. Essi sono interessanti per conoscere le idee religiose degli ambienti in cui sono nati, ma non furono mai riconosciuti come canonici; non appartengono quindi alla Bibbia e non possono affiancarsi ad essa. Oltre che in libri, la Bibbia appare divisa, nell’ambito di ogni singolo libro, in capitoli e versetti. Ciò serve praticamente per la consultazione e per l’indicazione esatta dei passi nelle citazioni; così trovando per es. Gn 20,15, chiunque sa che si tratta del libro della Genesi, capitolo 20, versetto 15. Ma giova sapere che tale numerazione non è primitiva e talvolta non corrisponde a ciò che sarebbe richiesto dal senso e dal contenuto del passo. Fu Stefano Langton, professore all’Università di Parigi e poi Cardinale, che verso il 1214 divise in capitoli la Bibbia latina detta Volgata. Quanto ai versetti, il primo a numerarli in margine fu Sante Pagnini, di Lucca, nel 1528; per il Nuovo Testamento divenne normativa la divisione introdotta dall’editore umanista Roberto Stefano nel 1555.


    2. Molti libri un solo disegno

    Alla molteplicità dei libri s’accompagna nella Bibbia la varietà dei libri stessi e del loro carattere letterario. Non può infatti la Bibbia venire paragonata a un catechismo e tanto meno a una trattazione sistematica, anche se alcune parti della Bibbia possono rivestire tali caratteri. Molti libri, molti autori, vissuti in un arco di circa 13 secoli, hanno contribuito a scrivere la Bibbia quale è giunta tra le nostre mani. Le vicende attraverso cui i singoli testi sono passate possono sembrare incredibili, certo sono appassionanti: si pensi alla commozione del re Giosia e di tutta Gerusalemme quando nel 622 a.C., durante lavori di riparazione al Tempio, venne alla luce il manoscritto di un testo sacro, che gli studiosi identificano globalmente con il nucleo dell’attuale Deuteronomio, il quale era stato praticamente emarginato e abbandonato sotto il regno del non esemplare Manasse, predecessore di Giosia (cf 2Re, 22-23). Ma già il successore del pio re Giosia, l’astuto e calcolatore Ioiakim, bruciò il testo delle profezie di Geremia in faccia a Iudi, servo del re: "E avveniva che come Iudi aveva letto tre colonne o quattro, il re le stracciava con il temperino dello scriba e le faceva gettare nel fuoco che era nel braciere, finché fu consumato l’intero volume sul fuoco che era nel braciere" (Gr 36,23). Al che Geremia reagì dettando nuovamente il libro che era stato distrutto. Questi episodi, e altri analoghi e diversi se ne potrebbero raccontare, indicano a sufficienza che i libri della Bibbia sono stati scritti da autori che hanno condiviso l’esperienza umana e spirituale del popolo ebraico nel corso della sua lunga storia. Non fa meraviglia quindi che in essa si trovino, affiancati e intersecati, i libri e gli stili più diversi. La prima pagina della Genesi ha il tono solenne di un poema sulle origini, l’ultimo capitolo dell’Apocalisse ha la forma di una visione su un aldilà che si dischiude, radioso e fresco di vita, oltre le soglie della realtà cosmica e storica. E in mezzo racconti, storie, preghiere, leggi, poesie, annali, profezie, leggende, canti d’amore, inni, lamentazioni, brani d’archivio, lettere, professioni di fede, proverbi, discorsi e così via. Ma quale è il tema di tutta questa sinfonia, quale l’oggetto di cui trattano e a cui si riferiscono gli scritti molteplici e diversi che sono confluiti nella Bibbia? E’ il disegno di Dio verso gli uomini, il dono della salvezza messianica, la storia in cui questa salvezza viene resa sensibile e manifesta. Dopo aver delineato come in una grande tela di fondo l’evento della creazione e la situazione dell’umanità davanti a Dio (i primi 11 capitoli della Genesi) l’attenzione della Bibbia si concentra sulla chiamata di Abramo (verso il 1800 a.C.) e sulla promessa-benedizione-alleanza preannunciata alla sua discendenza e attuata in Gesù Cristo morto e risorto agli inizi della nostra èra. In Gesù sono vinti il peccato e la morte, e grazie alla fede in lui suggellata dal battesimo sorge una nuova comunità soprannazionale, la Chiesa, la quale è chiamata a essere "sacramento, cioè segno e strumento di un’unione intima con Dio e dell’unità di tutto il genere umano" (Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 1). Tale è il filo d’oro che attraversa tutta la Bibbia e ne costituisce l’unità e la ragione d’essere. Nessuno può negare la straordinaria ricchezza di cultura, di arte e di cognizioni umane depositata nella Bibbia: vi si trovano preziose notizie sulla storia antica, pagine di altissima poesia, narrazioni condotte con arte semplice ed efficace, analisi insuperabili del cuore e delle passioni umane, modelli di saggezza convalidati dai secoli; ma la Bibbia è soprattutto il libro in cui è documentato il disegno dì Dio verso gli uomini e suo contenuto è il messaggio della salvezza indirizzato da Dio all’umanità. Come scrisse S. Agostino: "Ci sono pervenute lettere da quella città verso cui siamo pellegrini: sono le Sacre Scritture" (Sermone 9,1 sul salmo 90). E’ quindi legittimo, anzi doveroso per un cristiano interrogarsi sul contenuto di tale messaggio.


    3. Di che cosa parla la Bibbia

    In ogni pagina della Bibbia il grande protagonista è Dio. "Da lui, per mezzo di lui, e per lui sono tutte le cose: a lui la gloria nei secoli" (Rm 11,36). Questa esclamazione di S. Paolo si può scrivere sul frontale della Bibbia. Tutto nella Bibbia parte da Dio e ritorna a Dio, E non si tratta del Dio astratto dei filosofi, ma di un Dio vivo e vero, che ama gli uomini e presenta lineamenti simili a quelli di una persona, fino al punto di venire descritto con tratti antropomorfici, come quando si legge della collera di Dio, dei suoi occhi, dei suoi piedi, delle sue mani. Non ci si deve meravigliare ma sforzare di comprendere e di tradurre. La Bibbia insegna che Dio è indicibile, inafferrabile, supera la presa dell’intelletto umano quanto la volta del cielo dista dalle mani dell’uomo, e tuttavia parla continuamente di Dio, servendosi di molte immagini e superandole tutte. Qualcuno ha parlato qui di un diamante dalle mille sfaccettature. C’è il Dio sovrano e maestoso della Genesi che "dice" e le cose balzano all’essere. C’è il Dio che modella Adamo, il Dio che chiama Abramo, il Dio che ispira Giuseppe, il Dio che si rivela a Mosè, il Dio che annienta il faraone, il Dio che guida le schiere d’Israele, il Dio tremendo del Sinai, il Dio separato del Levitico, il Dio che comanda del Deuteronomio, il Dio familiare di Tobia, il Dio di giustizia di Amos, il Dio d’amore di Osea, il Dio santo e redentore di Isaia, il Dio intimo di Geremia, il Dio sposo di Ezechiele, il Dio misterioso di Giobbe, il Dio amante della vita dei Sapienziali, il Dio Padre dei Vangeli, di Paolo e di Giovanni, il Dio eterno dell’Apocalisse. In un momento fondamentale della storia d’Israele questo Dio rivela il suo nome a Mosè dicendo "Io sono", ragione per cui Mosè dirà: "Colui che è (in ebraico Jahvé) mi ha mandato a voi" (Es 3, 14-15). Ma questo nome arcano non verrà mai usato, per riverenza, dagli Israeliti, i quali si asterranno sempre dal pronunciare in qualsiasi modo il sacro tetragramma, ossia le 4 lettere del nome JHWH, e al posto di esse diranno semplicemente “il Signore” o "l’Eterno". In alcune pagine, per esempio nei Salmi, gli attributi di Dio si accastellano; si veda per esempio l’inizio del Salmo 18, chiamato con ragione il "Te Deum" di Davide:

    "Ti esalto, Jahvé, mia forza,
    Jahvé mia roccia, mia fortezza, mio scampo;
    mio Dio, mia rupe di rifugio,
    mio scudo, potenza di mia salvezza,
    degno di ogni lode".

    Se è vero che per ogni uomo il senso della vita è la ricerca del suo principio e del suo fine, in termini cristiani, "la ricerca di Dio", allora la Bibbia è il libro più ricco per rispondere a questa sete inestinguibile dell’uomo. Di fronte a Dio nella Bibbia sta l’uomo, creatura di Dio e in dialogo con lui. Il primo capitolo della Bibbia parla della benedizione e del destino dell’uomo e della donna: "Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela" (Gn 1,28), mentre l’ultima pagina si conclude come in un’invocazione appassionata: "Vieni, vieni presto!". Insieme a Dio la Bibbia parla quindi costantemente dell’uomo, dell’uomo totale, con i suoi alti e bassi, le sue generosità e le sue cadute. A chi domandasse se la Bibbia parli dell’uomo in maniera pessimistica o ottimistica si dovrebbe rispondere che ne parla con realismo e fine psicologia, descrivendolo senza veli né falsi pudori, con la sua grandezza e la miseria insita nella proclività al male che lo segna fin dalle origini. Dovunque la Bibbia presenta uomini e donne alle prese con i medesimi enigmi e le stesse miserie di tutti. Il peccato segna dolorosamente la condizione umana: la Bibbia non lo nasconde e fa appello alla responsabilità, perché l’uomo può dominare l’inclinazione al male (Gn 4,7) e Dio è vicino a tutte le creature (cf At 17,27). Descrivendo il male però la Bibbia lo mostra sempre nello specchio della santità divina, per provocarne il timore e la condanna. Tutto ciò che l’uomo ha di più profondo trova eco nella S. Scrittura. Essa gli offre le parole per lamentarsi e invocare, per esprimere la gioia ma anche la tristezza, la delusione e la disperazione. Fine costante della Bibbia nei confronti dell’uomo è di condurlo a Dio, di portarlo ad arrendersi a lui, gettandosi tra le sue braccia, con la fede di Abramo. Si direbbe che tutta l’avventura umana secondo la Bibbia si risolve nell’attesa che l’uomo si decida per Dio. Di fatto si assiste nella Bibbia quasi ad ogni pagina all’appello di Dio verso l’uomo e alla resistenza dell’uomo verso Dio. A volte si ha quasi l’impressione che l’uomo sia conteso tra due forze, Dio e Satana, contrapposti in un’ostilità che percorre i secoli. Ma di questa lotta perenne la Bibbia conosce, annuncia e garantisce la vittoria, il cui epilogo avverrà nel famoso "giorno del Signore" di cui parla l’Antico e il Nuovo Testamento. In realtà però il momento della vittoria è situato nella morte-risurrezione di Gesù Cristo; grazie a lui ogni uomo può diventare vincitore. Si tocca così il terzo grande tema della Bibbia; Gesù di Nazaret, Messia mediatore di salvezza tra Dio e l’uomo. È nota la grande affermazione di S. Paolo: "Quando giunse la pienezza del tempo, Dio inviò il Figlio suo, nato da una donna… affinché ricevessimo l’adozione a figli" (Ga 4,4). Questa affermazione spezza la storia in due parti, quella prima di Cristo, intesa come preparazione e attesa, e quella dopo Cristo, che è compimento e attuazione definitiva. Perciò la Bibbia si divide in Antico e Nuovo Testamento. E’ qui che la Bibbia cristiana si differenzia da quella degli Ebrei; essi non accettano evidentemente, il Nuovo Testamento che tratta del compimento messianico di Cristo, e inoltre considerano quello che noi chiamiamo Antico Testamento non già secondo una direttrice storico-profetica che approda al Messia ma secondo una circolarità che pone al centro di tutto la Torah, la Legge, ossia il Pentateuco, interpretando gli scritti storici, profetici e didattici in funzione di essa. Per i Cristiani invece l’Antico Testamento è tutto un corale profetico, come una foresta le cui punte additano il Cristo. E questo già fin dalle origini quando, dopo la caduta originale, Dio "risollevò gli uomini alla speranza della salvezza". L’affermazione è tratta dalla "Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina rivelazione" promulgata dal Concilio Vaticano II. La pagina è degna di essere riportata qui perché raccoglie in sintesi la convergenza di tutta la Bibbia a Gesù Cristo, venuto nella pienezza dei tempi e ora atteso nella sua manifestazione gloriosa alla fine della storia. Ecco le affermazioni del Concilio: "Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura... La profonda verità poi, sia di Dio, sia della salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione. Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé, e inoltre, volendo aprire la via della soprannaturale salvezza, fin da principio manifestò se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione li risollevò nella speranza della salvezza... A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo, che dopo i Patriarchi ammaestrò per mezzo di Mosè, affinché lo riconoscessero come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stessero in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via al Vangelo. Dopo avere Iddio, a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei profeti, "alla fine nei giorni nostri ha parlato a noi per mezzo del Figlio". Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio. Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna" (nn. 2.3.4.). Gesù perciò, secondo la Bibbia, è il compimento delle promesse così spesso ripetute e via via illuminate nel corso dei secoli. E’ il Messia che viene e inaugura, che pone se stesso come fondamento (cf lCo 3,11), come prima "pietra vivente" (1 Pt 2,4), e affida alla Chiesa il compito di continuare l’edificio. Proprio perché, secondo l’espressione di S. Agostino, "il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico e l’Antico Testamento diventa chiaro nel Nuovo" (Quest. sull’Ept. 2,73) la Chiesa non soltanto non respinge l’Antico Testamento come pretendevano alcuni eretici nei primi secoli del Cristianesimo, ma lo studia, lo analizza e lo percorre da una pagina all’altra alla ricerca delle parole, dei fatti, delle immagini, delle esperienze che preparano e preannunciano ciò che dovrà realizzarsi in Cristo e nella sua Chiesa.


    4. Come parla la Bibbia

    È certezza sicura della Chiesa che nella Bibbia Dio parla agli uomini. Per questo ogni lettura biblica nel corso di una liturgia termina con l’affermazione "Parola di Dio". Vedremo in seguito la ragione e le modalità di questa certezza cristiana. Ora ci interroghiamo sul modo in cui la Bibbia parla agli uomini. Si può partire da un’indicazione autorevole della Costituzione Dei Verbum già citata. Nel paragrafo 12 si legge: "Poiché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana, l’interprete della S. Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano inteso significare e a Dio è piaciuto manifestare con le parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi si deve tener conto tra l’altro anche dei "generi letterari". La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in varia maniera storici o profetici o poetici o con altri modi di dire. E’ necessario dunque che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo intese esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso". Si deve riconoscere che mai nel passato il magistero della Chiesa si era espresso così esplicitamente e diffusamente sulla varietà degli uomini che Dio ha ispirato a scrivere, sul contesto storico e culturale in cui vissero e da cui furono condizionati, nonché sui tanti generi letterari da essi adoperati. Nella molteplicità e diversità sorprendente di uomini e di scrittori - dal ruvido Amos, pastore di mandrie a Tecoa, al nobile Isaia, da Geremia, squisito nella sua sensitività, a Paolo di Tarso, appassionato e rubesto nella parola, per non dire dei molti, e sono la maggior parte, rimasti per noi sconosciuti - ogni scrittore conserva la sua personalità, il suo stile, e manifesta i condizionamenti del tempo e della cultura in cui vive. Per comprendere gli autori biblici è quindi necessario conoscere il contesto in cui ogni autore è inserito. E non si tratta soltanto del contesto scientifico, per cui parlando delle origini o della struttura fisica del mondo o della storia e della geografia ciascun autore si esprime secondo le conoscenze della sua epoca. C’è anche il contesto morale e religioso: ogni età ha un suo livello morale. C’è nella storia, anche e soprattutto dell’Antico Testamento, un’elevazione lenta e progressiva della coscienza. La coscienza religiosa di Abramo e dei Patriarchi non è ancora quella di Mosè, e questa è ancora lontana da quella degli Israeliti dopo l’esilio, e ancora più da quella cristiana. Chi non sta attento a collocare una pagina biblica nel contesto storico in cui è sorta corre il rischio di scandalizzarsi inutilmente. Non deve far meraviglia, per esempio, se la soglia della vita eterna non è varcata nella maggior parte dell’Antico Testamento: è un orizzonte che si schiude poco a poco e brillerà soltanto alla fine dell’Antico Testamento e poi pienamente nel Nuovo. C’è poi il contesto letterario, che è semitico e sotto molti aspetti differenziato rispetto alla mentalità occidentale. Il semita ignora l’astrazione, non usa le definizioni concettuali, ama proporre le idee a mezzo di suggestioni e di immagini, senza curarsi della loro coerenza, accumulando tratti e simboli significativi. E c’è un ritmo semitico, vi sono procedimenti, come il parallelismo e la ripetizione, modi di scrivere che l’educazione letteraria occidentale ha abbandonato: l’autore, per esempio, può usare fonti diverse, fonderle, cucirle insieme, senza giustificarsi davanti al lettore. Quanti generi letterari si trovano nella Bibbia? Vi sono prosa e poesia, libri storici e saghe, raccolte di leggi e canti liturgici, visioni e discorsi, e così via. E’ quindi evidente che prima di leggere l’uno o l’altro libro si deve sapere davanti a quale genere letterario ci si trova, a rischio di gravi controsensi. E in uno stesso genere letterario vi sono ancora differenze. Si prenda la storia, per esempio. Si sarà notato che la costituzione Dei Verbum parla sapientemente di "testi in varia maniera storici", avvertendo così che c’è la storia epica della Genesi, di alcune parti dell’Esodo e del libro di Giosuè, c’è la storia politica dei libri dei Re, la storia aneddotica di Rut, di Elia, di Eliseo. E poi, quante anomalie in questa storia: scarsezza di date, omissioni vistose, epoche intere passate sotto silenzio, e invece particolari spesso insignificanti per noi: inventario di un bottino, numero delle concubine, prezzo della vendita di un campo... E ancora, in un medesimo libro si possono trovare, come in uno zibaldone, i generi letterari più diversi, come nel Pentateuco e nei profeti. Per citare soltanto un esempio: nei primi 6 capitoli di Isaia vengono di seguito: un invito al pentimento e alla conversione, una minaccia di castigo imminente, un oracolo di pace messianica, un’invettiva contro le donne avide di piaceri, una canzone allegorica, una protesta contro le ingiustizie sociali, l’apparizione sconvolgente di Dio al profeta: il tutto senza connessione, senza snodo di eventi; come può orientarsi un lettore che non sia prevenuto?


    5. La Bibbia parola di Dio all’uomo

    Libro multiforme ma unitario, libro che svela il disegno divino sulla storia, libro riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa come norma della sua fede: tutte queste affermazioni convergono e culminano nell’assioma, indiscusso per i cristiani, che la Bibbia contiene la rivelazione e la parola di Dio agli uomini. Che cosa significa questo? Vi sono due concetti da chiarire a questo riguardo, e, cioè, la rivelazione e l’ispirazione della S. Scrittura. Vediamo anzitutto la rivelazione. Dicendo rivelazione s’intende lo svelamento del "mistero" divino che consiste nella sua "volontà di chiamare gli uomini a sé e renderli partecipi della sua natura divina per mezzo di Gesù Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo" (Dei Verbum). Questa rivelazione si è effettuata, secondo le dichiarazioni del Concilio Vaticano II, "con eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e il mistero in esse contenuto. Questa rivelazione risplende a noi in Cristo il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione... Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre, col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna" (Dei Verbum 2.4). E’ legittimo domandarsi a questo punto: da dove la Chiesa attinge questa certezza? Quali ragioni la autorizzano a ritenere che nelle parole e negli avvenimenti della Bibbia si esprime la rivelazione di Dio agli uomini? La Chiesa lo crede sulla testimonianza di Gesù per ciò che riguarda i libri dell’Antico Testamento. Gesù infatti riferì esplicitamente a sé tutto il contenuto delle Sacre Scritture. Dei quattro evangelisti Luca in particolare addita nella "spiegazione delle Scritture" uno degli insegnamenti maggiori di Gesù dopo la risurrezione (cf Lc 24,27.32.44-46); ma che già durante la sua vita Gesù abbia considerato te Scritture sacre degli Ebrei come depositarie della parola di Dio e afferenti a lui, è sufficiente aprire il Vangelo per rendersene conto (cf Lc 4,17-21; Mc 9,12; Gv 5,39, ecc.). Per il Nuovo Testamento vale la testimonianza degli Apostoli e della comunità primitiva, la quale vide nei Vangeli e negli scritti apostolici l’eco fedele delle parole e degli insegnamenti divini di Gesù. Analogo discorso si può fare per l’ispirazione. Essa consiste nel fatto che gli autori dei Libri Sacri scrissero sotto una speciale direzione e guida dello Spirito Santo, come strumenti mossi da Dio, ma conservando intatta la libertà, la coscienza e la peculiarità di uomini del proprio tempo. Ecco come ne parla il Concilio Vaticano II: "Le verità... che nei libri della S. Scrittura sono contenute ed espresse, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti per ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la composizione dei Libri Sacri Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero, come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte. Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, è da ritenersi anche, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, in ordine alla nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere" (Dei Verbum, 11). Due testi celebri illustrano questa fede apostolica; uno deriva da San Paolo, l’altro da S. Pietro: "Ogni scrittura è ispirata da Dio, e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare nella giustizia, affinché l’uomo di Dio sia ben formato, perfettamente attrezzato per ogni opera buona" (2Tm 3,16); e "Sospinti dallo Spirito Santo gli uomini parlarono da parte di Dio" (2Pt 1,21). Diretta conseguenza di questa singolare "condiscendenza" divina di esprimersi con lingue umane, per mezzo del parlare dell’uomo ("come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo", Dei Verbum, 13) è la inerranza o meglio la verità e la solidità di ciò che "Dio ha voluto racchiudere nella Sacra Scrittura in ordine alla nostra salvezza". Questa solenne dichiarazione del Concilio Vaticano II è stata frutto di lunghissime ricerche e di analisi estenuanti. Ma giunse finalmente come una ventata liberatrice. Essa significa praticamente che la Bibbia è portatrice di un messaggio che sta al di là delle concezioni scientifiche, dei modelli culturali, del modo di scrivere la storia che seguivano gli antichi. Il suo insegnamento, anche se impartito attraverso uomini di un determinato tempo che furono assunti ad essere strumenti di Dio, trascende ogni condizionamento storico e risuona attuale per ogni uomo, in ordine alla sua salvezza. Per questo la Chiesa raccomanda così caldamente la lettura della Bibbia, soprattutto del Nuovo Testamento.
  • Nikki72
    00 31/07/2008 09:50

    Karlheinz Deschner, Horst Herrmann "Anticatechismo. 200 ragioni contro le Chiese e a favore del Mondo" - Massari editore 2002



    Ma che c’entra Gesù con tutto ciò?

    Fare il nome di Gesù di Nazareth associandolo contemporaneamente a una Chiesa che si richiama a lui come al suo "fondatore", è impresa irta di difficoltà, anche se le Chiese odierne fanno di tutto per presentarsi come chiese di Gesù. O non piuttosto come chiese di Cristo? Su questo le Chiese "fondate" sono tutt’altro che concordi. In ogni caso, si può ben dimostrare che Gesù - ammesso che sia esistito - non fondò alcuna Chiesa, né che l’avesse mai suggerito. Ciò getta nello sgomento quei credenti che, per sopravvivere, necessitano d’un solido fondamento, d’una base sicura e incrollabile per la loro fede nel clero. Costoro, infatti, puntano costantemente sulla "forza" e la "saldezza" della propria Chiesa, ancorando tali concetti estremamente precari a quello del "Signor Gesù Cristo". Senonché questi li abbandona, non appena debba esser preso a sua volta in considerazione come "fondatore" d’una Chiesa. Anche qualora una tale fondazione potesse esser dimostrata, a giustificarla ci sarebbe solo una determinata coscienza clerico-autoritaria conferita ad operazioni del genere. La continuità tra Gesù e Chiesa non è dimostrabile mediante prove documentali di fondazione, quanto piuttosto con la realizzazione autonoma d’una comunità. Ed è proprio su questo che la Chiesa finisce per arenarsi irrimediabilmente. Il suo essere "autonoma" si regge sull’ubbidienza, sulla determinazione eteronoma, su divisioni di classe e formazioni gerarchiche, su istanze di assicurazione. I suoi ubbidienti seguaci hanno bisogno d’una Chiesa che assuma la garanzia di vite ben vissute, che amministri paradiso e inferno, a condizione che l’individuo si affidi ad essa in tutto e per tutto, le obbedisca in modo assoluto, insomma che "creda" in essa, che la "ami". Con siffatte, estreme oggettivazioni dell’uomo, Gesù di Nazareth non può avere assolutamente nulla da spartire. A meno che la sua stessa vita non venga riscritta, reinventata e riadattata. D’altra parte, quel "Cristo" tanto amato dai dogmatici presenti in molte Chiese non è poi, oggigiorno, così attraente come viene dipinto dalla loro propaganda. In realtà non è alla portata di ogni uomo (e nemmeno di ogni donna ) di mettersi nelle mani di un "figlio di Dio" che concentra su di sé tutti i titoli di sovranità, che si dice preesistente, onnipotente, onnisciente e via attribuendo... e che nulla ha a che vedere col Gesù della storia. I "cristiani" si trovano in un dilemma; e così pure i "gesuani", i quali vogliono ancora sperare, dato che non possono combattere. Ambedue le religioni non si accostano vicendevolmente; e sono sempre più numerose le persone che non vogliono né l'una né l’altra.


    Quel brav’uomo di Gesù era forse un ribelle?

    Chi o che cosa sia stato "Gesù" riesce più difficile dirlo di quanto non sia dire invece chi non è stato. Se sia esistito, non si può contestare con certezza e neppure provare con certezza. Vi sono ragioni per l’una come per l’altra ipotesi. E’ possibile che Gesù sia vissuto, forse persino più probabile del contrario; eppure anche questo non è da escludere del tutto. Chi lo esclude a priori, dichiarando la storicità di Gesù come fatto assolutamente incontrovertibile, è prevenuto. Manca una prova certa, e anzi non se ne potranno più addurre, salvo che non vengano reperite nuove fonti. La storiografia coeva, in tutti i casi, tace. L’intero primo secolo non-cristiano - il secolo di Gesù - ignora la sua presenza. Nessuno storico ha notizia di lui, né a Roma né in Grecia né in Palestina. Non v’è un solo enunciato "cristiano" che non si trovi già anche in altre fonti, per esempio presso gli Esseni. Gli scritti, scoperti nel 1947, della setta degli Esseni (i rotoli di Qumran sul Mar Morto), risalenti al tempo di Gesù e composti nelle immediate vicinanze dei luoghi in cui operò, non menzionano nessun Gesù di Nazareth. E che gli storici del I secolo dell’era cristiana tacciano, è tanto più stupefacente in quanto una gran parte di essi scrisse particolareggiatamente sulla contemporanea situazione in Palestina. Al contrario del Nazareno, Giovanni il battezzatore è un personaggio storicamente assai ben documentato. Lo stesso Filone di Alessandria (vissuto dal 20 circa prima di Cristo fino al 50), il quale stigmatizza le infondate condanne decretate da Ponzio Pilato, non ricorda quella di un certo Gesù di Nazareth. Eppoi non ogni "Gesù" che compare negli scritti coevi, sta a designare il Nazareno. In quel tempo, infatti, Gesù era un nome tanto diffuso quanto, in altri tempi, Ottone o Guglielmo. Nondimeno, pur ammettendo la sua esistenza, va detto che questo Gesù non è cristiano, bensì ebreo, I componenti della sua primitiva comunità si chiamano ebrei (la ricerca più recente li definisce "giudeocristiani"). Gesù diffonde la sua missione solo tra gli Ebrei; Gesù e fortemente influenzato dall’apocalittica giudaica; Gesù crede nel fatto che il Regno di Dio sta per arrivare di lì a poco. Certo, se questo Regno dovesse essere quello che i Vangeli - nel frattempo rimaneggiati - presentano a noi, è tutt’altra questione. Che il Gesù storico sia stato davvero quel bravissimo figlio di Dio, che a detta degli Evangelisti trabocca ubbidienza nei confronti del padre? Chissà, le cose potevano stare in tutt’altro modo. Forse Gesù fu un figlio recalcitrante, il quale sentì così poco il padre e l’"amore paterno", che i contemporanei padri dei valori dovettero punirlo a prezzo della vita. Forse i Vangeli hanno potuto affermarsi solo perché, di quel figlio ribelle, hanno fatto un assertore di società patriarcali così in cielo come in terra: chi lo sa. In ogni caso, Gesù non è stato quel notorio personaggio, disposto a dire sempre di sì, a ripetere "Così sia, caro padre" a tutto quanto gli capitasse. Indubbiamente, questa ubbidienza filiale si concilia in maniera sorprendente con gli interessi intrinseci dei Vangeli. Gesù ha predicato l’imminente, prossima fine del mondo, illudendosi completamente nel cuore stesso del suo annuncio. Ciò è considerato il nucleo più sicuro della teologia cristiana moderna, di segno storico-critico. Non è per amore della verità, che Gesù ha predicato, bensì a causa d’una predizione in cui egli si è sbagliato, che quest’uomo ha potuto diventare il fulcro d’una nuova religione. Se la fine del mondo fosse sopravvenuta davvero e così rapidamente come Gesù aveva immaginato, non si sarebbe sentito il bisogno di nessuna chiesa. Solo questo suo errore ha fatto nascere la Chiesa. Un’illusione personale ha reso possibile che altri gruppi - di gran lunga più interessati al potere - s’impossessassero della sua persona e potessero mettere in scena un raggiro dalle massime dimensioni: venne così al mondo non già il Regno di Gesù, bensì la Chiesa di Cristo. Tra i due si interpongono abissi, sicché non può che naufragare miseramente ogni tentativo di costruire ponti tra Gesù e Cristo, vale a dire tra il "Regno" e la "Chiesa". Chi ha costruito siffatti ponti "ausiliari" si appella senz’altro "costruttore di ponti" (pontifex maximus), come fa appunto il papa di Roma; purtuttavia una costruzione veramente solida non gli è riuscita mai. E del resto, quello stesso Pietro che, come principe degli apostoli e "primo papa", si dice aver fondato a Roma una comunità ed esser stato ivi giustiziato, è pure una leggenda astorica. In realtà, nulla s’è mai saputo sulla sorte del pescatore Simone ("Pietro"), e soprattutto nulla riguardo all’epoca e alle circostanze della sua morte. Si dovette, in breve, ricostruire "Gesù di Nazareth", affinché l’immagine combaciasse con tutto ciò che oggi viene chiamata la "sua Chiesa". Non è più un essere vivo, quanto piuttosto l’effige artefatta d’una fede interessata a determinate enunciazioni. Altrettanto fuori della storia è tutto quanto si ricollega alla sua esistenza, quanto viene riferito nei Vangeli, nonché quanto si trova formulato nei dogmi ecclesiali:

    - Giorno, anno e luogo di nascita, quali sono tramandati dai Vangeli e dalla pia tradizione, sono storicamente falsi. Gesù non è nato a Betlemme. La data del 25 dicembre ha una lunga preistoria pagana, e fu introdotta nell’Impero romano come giorno di festa in onore del "Dio del Sole" durante il terzo secolo.
    - Non può esser un puro caso il fatto che Mitra - il salvatore e il dio solare dei Romani - sia stato fatto nascere da una vergine nella stalla il 25 dicembre, che i pastori gli abbiano reso omaggio, che promettesse pace al mondo, solo per esser poi crocifisso, per risorgere a pasqua e salire al cielo - per citare soltanto le più sorprendenti analogie tra la sua leggenda e quella di Gesù Cristo.
    - Gesù non è il bambino di una vergine; nasce dall’unione d’una donna di nome Maria con un uomo di nome Giuseppe. Egli stesso non ha detto - neanche una volta - qualcosa di diverso. Il nascente culto ecclesiastico dovette escogitare e presentare delle leggende: la nuova dea non poteva, in pratica, essere presentata come vedova d’un falegname ebreo.
    - La storia della strage dei bambini ordinata dal re Erode è estranea alla storia non meno della fuga in Egitto della famiglia del falegname col piccolo Gesù.
    - Che Gesù non si sia mai sposato è altrettanto privo di fondamento storico. Il fatto che sia stato stilizzato in una sorta di "vergine maschile" non mancò certo di metodo. Associare la sessualità con la sua persona, o con uno dei suoi seguaci, sembrò quanto meno inopportuno ad una Chiesa governata da celibi.
    - Che i racconti miracolosi tramandati su Gesù rappresentino devote trasfigurazioni d’una immagine eroica, è fuori di dubbio. Non esiste una dottrina peculiare che trovi la propria origine in Gesù di Nazareth. E non v’è un solo detto di Gesù che non si sia già potuto leggere - seppure in forma modificata - nella letteratura ebraica a lui antecedente.
    - Gesù non ha scelto nessuna "cerchia" o dozzina di discepoli o apostoli. L’idea dei "dodici apostoli" - a voler prescindere dal simbolismo del numero - è una più tarda costruzione.
    - Il comandamento dell’amore per i nemici, presentato in seguito come la più nobile istanza del Cristianesimo, non si trova affatto nei testi primitivi, mentre si riscontra - informa più rigorosa - già in Platone.
    - Gesù non avanzò mai una specifica pretesa d’essere il messia degli Ebrei. Non accettò mai uno dei molti titoli messianici che la tradizione gli avrebbe pure offerto. Non gli sarebbe venuto in mente di chiamarsi o di farsi chiamare "Cristo". Degli ossequi messianici. che sono nella tradizione dei Vangeli, non c’è, dal punto di vista storico, una parola che sia vera.
    - La storia della passione è agghindata in modo leggendario e non si è mai verificata nei modi narrati dai Vangeli. La passione di Gesù deve "esaudire" fin nei più minuti dettagli le predizioni veterotestamentarie, e tutto viene quindi sistemato in maniera corrispondente. A disposizione degli Evangelisti non v’era in pratica, per tal fine, nessun materiale biografico. Paolo non ne fa parola. Testimoni oculari e auricolari non ve ne sono.
    - Contrariamente alla generale opinione che un Giuda abbia tradito Gesù, la versione tramandata è tendenziosa. Anche se, stando ad un sondaggio del 1967, ben il 91 per cento degli interrogati (i quali credevano peraltro a poche cose) mostrava di credere al tradimento di Giuda, il fatto è privo di fondamento storico.
    - Un sensazionale processo a Gesù non fu celebrato diversamente da quanto non fosse per centinaia e migliaia di altri condannati, i quali furono pure giustiziati sotto Ponzio Pilato. L’alto funzionario romano non fu affatto (al contrario della rappresentazione datane dai Vangeli) persona mite e clemente, bensì un magistrato di non comune severità, con una predilezione per le procedure marziali. Pochi anni dopo la morte di Gesù, in conseguenza d’una protesta da parte ebraica, Ponzio Pilato fu revocato dalla sua carica.
    - Con grande probabilità, non ebbe luogo nemmeno uno speciale procedimento dinanzi al Gran Consiglio degli Ebrei. Fu Ponzio Pilato a decretare la condanna capitale. Questa fu poi eseguita dai suoi legionari (probabilmente siriani).
    - Incerta rimane l’esatta data della morte di Gesù. Attualmente, il giorno più verosimile sembra essere stato il 7 aprile dell’anno 30. Gesù di Nazareth, venuto al mondo sette anni prima dell’anno ufficiale di nascita, avrebbe così compiuto 37 anni.
    - Il luogo preciso dell’esecuzione non è documentabile. Certo, là dove oggi s’innalza la chiesa del sepolcro, è improbabile che sia stato deposto. Che la croce di Gesù sia mai stata rinvenuta (300 anni più tardi dalla madre dell’imperatore Costantino!), è una fandonia. Schegge e frammenti della "vera croce" sparpagliati per il mondo sono contraffazioni.
    - L’affermazione secondo cui Gesù avrebbe desiderato spontaneamente la morte per crocifissione, è assurda. Il desiderio della morte è completamente estraneo alla mentalità ebraica.
    - Gesù non ha istituito personalmente un solo "sacramento". Non ha battezzato nessuno. La stessa eucarestia l’ha soltanto ricevuta, senza tuttavia fondarla come sacramento della Chiesa (della quale non ebbe nemmeno l’idea).


    Il fondatore della Chiesa non si chiama "Paolo"?

    Ci fu un uomo pervaso da acuto interesse a reinterpretare il Gesù di Nazareth della storia, facendolo assurgere - a beneficio delle comunità paoline - a Cristo del mondo. E’ a lui che spetta la palma della vittoria; è lui che ha fondato il Cristianesimo. Il primo "cristiano" d’una schiera di milioni e milioni di fedeli non fu Gesù di Nazareth, bensì Paolo di Damasco, così chiamato dal luogo dove avrebbe vissuto la sua "conversione". Paolo è anche il più antico scrittore cristiano. Per molti aspetti, egli insegna in tutt’altro modo dal Gesù della Bibbia (quello, cioè, della teologia denominata storico-critica). Paolo, che non ha mai conosciuto personalmente Gesù, abbandona la sua credenza nella fine dei tempi. Dimostra così - ma non solo in questo caso - un eccezionale intuito per l’avvenire del Cristianesimo. L’ordine di battezzare e l’obbligo della missione sono in tutto e per tutto di stampo paolino: sono destinati - avendoli messi in bocca a Gesù - a legittimare i numerosi viaggi dell’"apostolo delle genti" (diventando insieme responsabili di innumerevoli sofferenze umane). Paolo introduce la dottrina del peccato originale nonché la teoria della redenzione. Egli, l’apostolo postero, è un solitario particolarmente misogino e ostile al corporeo, il cui odio non si rivolge solo contro le donne (non si sposerà mai), ma anche contro coloro che non può frequentare in comunità, cioè i veri apostoli primigeni, o che non vuole per "ragioni di fede", ossia gli ebrei e gli "eretici". E’ su questo odio dell’escluso che egli edifica una nuova aggregazione, la propria religione, la sua personale comunità, la sua Chiesa. Ancora oggi, milioni di persone soffrono profondamente di questa eredità. L’autorevole teologo e medico Albert Schweitzer giudica che Paolo sembra "non avere neanche la più lontana consapevolezza… di comunicare vicissitudini personali come qualcosa di meritevole d’essere vissuto da altri", mentre diffonde e propaganda "tutto come un sistema che promana immediatamente e oggettivamente da dati di fatto". E lo scrittore ebreo J. Klausner ritiene che Paolo "fu uno di quei "tiranni spirituali" per i quali la propria persona e la propria opera si identificavano e che, in nome della loro opera, si permettono di fare inconsciamente ciò che il loro egoismo ispira loro…" Che Gesù sia stato, per dirla col teologo Franz Overbeck, "incomprensibile specialmente per Paolo", si può ben comprendere. Agli occhi di Paolo, l’ebraicità di Gesù altro non è che una circostanza accidentale. In luogo di ciò, questo apostolo dà l’impressione che Gesù si fosse trovato in un costante confronto con l’ebraismo, innanzi tutto con i farisei. I testimoni autentici non potevano servire a questo; Paolo dovette fare di tutto per screditarli, concedendo loro un’influenza pressoché irrilevante nel comporre l’immagine del suo "Cristo". Gesù di Nazareth non dovrà più essere giudicato in base a ciò che ha veramente voluto e fatto. La sua importanza incomincia "dalla pasqua in poi". Ciò che Paolo dice del Nazareno reale, non è poi molto: Gesù fu un ebreo leale (Galati, 3,16), nacque non da una vergine, ma da una donna (Gal. 4.4); ebbe vari fratelli e sorelle (Romani, 8,29), fu sempre ubbidiente a Dio (Filip. 2,8). La storia della passione, di centrale importanza nei Vangeli, in Paolo passa sotto silenzio. Gli apostoli primigeni di Gerusalemme, sui quali mancano testimonianze dirette, ebbero sempre da ridire con Paolo, l’arrivista che non aveva conosciuto Gesù, a differenza di loro, ma che dava nondimeno a intendere di sapere tutto sul Cristo. I giudeocristiani, i quali contestano a Paolo senz’altro l’apostolato tra i pagani, asseriscono che dice le cose che fanno piacere alla gente, accusandolo di essere un ipocrita e millantatore, di rendere troppo facile l’accesso a Gesù predicando non tanto Gesù, quanto Paolo medesimo. Lo incolpano di frode finanziaria e di codardia. Lo considerano pazzo e, alla fine, invadono le sue comunità, al fine di espropriarlo: la lotta per il giusto magistero diventa già - fatto tipico della storia dei dogmi - una lotta per il potere e il prestigio. Paolo non sarebbe stato Paolo se avesse accettato ciò. Non solo respinge gli attacchi, ma replica con durezza, su tutti i fronti. La sua inimicizia si fa implacabile. E perdura fino alla sua morte. Solo chi pensa in maniera tutt’altro che storica dà credito alla pia favola della "ideale coppia di prìncipi degli apostoli Pietro e Paolo", come appare tra le leggende di Roma per la festa nazionale del Vaticano (29 giugno), quasi postuma festa di conciliazione. Fin dai primordi, non vi fu nel Cristianesimo alcuna "ortodossia", ma solo diverbio intorno ad essa - nonché violenza e morte come esiti ineluttabili di questa contesa. Vittorioso sarà, alla fine, solo il Paolo degli ultimi anni; dei suoi protocristiani avversari si perde ogni traccia storica. Paolo, invece, ha saputo far valere la sua religione. Spalanca porte e finestre allo spirito del tempo; e mentre i gesuani non riescono a sopravvivere né politicamente né socialmente (anzi vengono repressi senza fatica da Stato e Chiesa), il paolinismo inonda l’intero mondo occidentale. Paolo è il freddo organizzatore che domina un elemento essenziale della buona politica, cioè la predisposizione alla lunga durata. Che imposta in quel certo modo la sua Chiesa, come se non vi fosse nessuna fine del mondo. Che, avendo riguardo all’inflessibile controllo dell’apparato amministrativo dei Romani, elimina senz’altro l’aspetto originariamente politico dell’"ideologia messianica". Che nemmeno si pone il problema della legittimazione del potere effettivo, ma si sottopone e si adatta con la sua dottrina dell’"autorità" d’ogni dominio costituito. Che sa utilizzare in modo ottimale l’esistente sistema amministrativo romano, e che cerca di legare a sé le sue comunità con quanto v’è di più terreno, ossia col denaro. Che in modo determinante promuove quell’evoluzione che riuscì a trasformare Gesù nel Cristo, il dio e salvatore invocato quale redentore di tutti i bisognosi. Paolo ha innescato il mutamento dall’imminente attesa alla "vita eterna", consolidando in maniera determinante la nuova dottrina. Laddove la comunità primitiva credeva ancora alla realizzazione del regno di Dio sulla terra mediante il ritorno del Signore, Paolo insegnò il più fruttuoso contrario: quel Regno è già iniziato col "sacrificio" di Gesù e con la sua "resurrezione". Nessun Gesù farà più ritorno sulla terra (non almeno in tempi prossimi), ma è invece il singolo cristiano - dopo la sua morte - a salire da lui in cielo... sempre che, su questa terra, egli non abbia scontentato il suo dio senza pentirsene. Paolo sa quel che dice. Nei suoi scritti, il nome di Gesù si trova solo 15 volte, l’epiteto "Cristo" invece 378 volte. Paolo, intento a tra-scrivere fatti storici e a ritagliarsi su misura la sua religione, mutua dal coevo mondo spirituale tutto quanto si può adattare al suo progetto. Raffigura la beatitudine dei cristiani con espressioni di pura marca greca ed ellenistica; i suoi scritti traboccano di rituali e formule religiose del paganesimo, e i suoi contenuti coincidono - in modo spesso sorprendentemente somigliante - con le concezioni delle contemporanee religioni misteriche e della filosofia greca. Valga l’esempio della "redenzione": per essa la dottrina dell’"apostolo delle genti" ha incorporato elementi dell’antichità, trasferendoli sulla figura artefatta del "Cristo". Gesù di Nazareth, a questo punto, non ha che la funzione d’un attaccapanni, al quale si appende l’abito dogmatico di volta in volta più conveniente ("alla moda"). In base a tutto ciò che di Gesù è stato tramandato (e non è poi molto!), la dottrina paolina della redenzione era lontana dalla sua mentalità. Che questo Gesù abbia visto sé medesimo come "redentore e salvatore del mondo", è impensabile alla stregua delle conoscenze storiche. Il profeta giudaico non voleva certo diventare il Figlio di Dio delle chiese cristiane, né d’altronde la setta giudaica di Gesù pensava minimamente di diventare una chiesa cristiana. Per Israele, la salvezza non era mai venuta da Roma. Indubbiamente, chi non riconobbe il Cristo paolino, cadde in disgrazia non solo di Paolo, ma anche della Chiesa. La quale si fonda a torto su Gesù anziché su Paolo.


    Che ruolo hanno avuto gli Evangelisti?

    Essendo una religione letteraria, il Cristianesimo ha preteso dalle sette, in ogni tempo, grande rispetto nei confronti di tutti i suoi testi sacri. Ciò nondimeno i testi, i sacri testi e il numero di quei testi sono a tutt’oggi controversi. Lieta novella? Messaggio minatorio? Per quale delle due soluzioni abbiano optato i Vangeli che - in centomila varianti - sono arrivati fino a noi, rimane oscuro al pari di molti altri aspetti. L’immagine del loro dio dice che Dio padre è un dio severo, coi quale non è lecito scherzare impunemente e che, prima o poi, farà la sua vendetta su chi non si pente Ora, con questa "immagine divina", gli scritti fondamentali del Cristianesimo non sono affatto isolati. Perché il Dio che essi annunciano al mondo non offre novità rispetto ai suoi patriarcali concorrenti. Anche le "sacre scritture" (o, meglio, le scritture "santificate dalla Chiesa") come i Vangeli, non sono nella storia delle religioni alcunché di straordinario. Sono piuttosto comuni. E sono prive di interesse storico. Si propongono di fare proseliti, di evangelizzare. Si rivolgono dunque - come sostegno - alle persone già credenti, oppure - come incitamento - a coloro che dovrebbero diventarlo. Con Gesù, i Vangeli hanno poco a che vedere. Non una delle sue parole venne registrata in presa diretta. Ciò che aveva detto, passava di bocca in bocca e, dopo la sua morte, si trovarono in circolazione solo singoli episodi, piccole storie, similitudini, detti, gruppi di parole. Quando Gesù avesse detto qualcosa, cosa avesse voluto dire precisamente, in quel momento non era oramai più accertabile. E poiché non si poteva verificare né il dove né il quando né il come, agli Evangelisti fu possibile limare, rimaneggiare, integrare passo per passo, parola per parola. Vi furono inseriti miracoli e, nello stesso modo, passaggi allegorici e "parole del Signore". I dati relativi ai luoghi e ai tempi non sono tuttavia attendibili. La "sacra scrittura" è, insomma, un prodotto letterario tendente a svilupparsi ben oltre la figura di Gesù, scaturito da fervido slancio di fede: una silloge di scritti religiosi per l’edificazione e l’attività missionaria, nelle forme e nei modi che parvero giovevoli alla "comunità" di quel tempo. Nemmeno uno dei Vangeli fu però redatto da un testimone oculare. Gli autori sono persone completamente sconosciute sul piano della storia. Per nessuno di loro si tratta di uno degli omonimi apostoli o seguaci di Gesù. Anche l’autore delle lettere di Pietro nulla ha a che vedere col Pietro presentato nel Vangelo. Qui, come in altri casi, i compilatori si pavoneggiano con penne altrui. Nessun discepolo storico di Gesù sarebbe mai stato in grado - anche se avesse saputo scrivere - di produrre scritti teologici. La discrepanza tra attribuzione di nomi e reale paternità è particolarmente rilevante nel cosiddetto Vangelo di Giovanni. Questo fu influenzato dall’esterno, segnatamente dalla gnosi precristiana, vale a dire (per usare la definizione del teologo evangelico Hans Conzelmann) da un "incredibile mixtum compusitum di idee iraniane, babilonesi, egiziane". Per questo tardo Vangelo è da escludere totalmente che si tratti di autentici testi di Gesù, o di autentico messaggio gesuano. Le "belle parole" trovate dall’autore Giovanni (che non è stato un discepolo) suonano invero assai significative per orecchi teologici, ma non sono uscite dalla bocca di Gesù. Il Nazareno, ad esempio, di sé medesimo non disse mai di essere "il pane vivo, disceso dal cielo". E, ancora, non pretese mai che qualcuno ricevesse la sua "carne e sangue" per potersi salvare. Ciò nondimeno, la concezione di Giovanni riuscì ad imporsi. Solo a pochi (i migliori oppure i più fortunati?) tra le centinaia di maestri rivaleggianti, i quali affermavano tutti di conoscere e di rappresentare l’unica vera dottrina di Gesù, accusando tutti gli altri di truffa, fu dato di trionfare su tutta la linea. Che nelle speciali circostanze in cui i Vangeli sorsero vi si infiltrassero non solo errori (di copiatura), ma anche contraddizioni, anzi falsità, è certo comprensibile. Più della metà degli scritti del cosiddetto Nuovo Testamento sono spuri, vale a dire o del tutto falsificati, o indicati con un falso nome di autore; il che non sembra peraltro compromettere il loro carattere di "parola di Dio". Ma, come sempre, la Chiesa ufficiale conosce una via d’uscita: ciò che essa - anche se parecchi secoli più tardi - ha dichiarato come testo originale, è autentico, è "ispirato dallo Spirito santo", senza fallo e senza macchia. Di nuovo deve riconfermarsi il principio della cattolicità: ciò che è falso e ciò che non lo è, quanto v’è di erroneo e quanto di vero, non lo stabilisce la scienza, e neppure la persona raziocinante, ma lo decidono i chierici - e lo Spirito santo. Nella realtà, le cose stanno in questo modo: per porre fine all’inaudito guazzabuglio della Sacra Scrittura, papa Damaso incaricò nel 383 Girolamo (calunniatore e falsario poi fatto santo) di redigere un testo unitario. L’incaricato fece del suo meglio. Modificò il tenore letterale dei testi in quasi 3.500 punti. Questa traduzione di Girolamo, la cosiddetta Vulgata - designata appunto come "generalmente diffusa" - fu contestata e avversata dalla Chiesa stessa attraverso i secoli, ma alla fin fine - nel XVI secolo - venne dichiarata "autentica" ad opera del Concilio di Trento. Inoltre, per i cattolici, il dogma della divina "ispirazione" dei testi biblici fu nuovamente confermato nel 1870 dal Concilio Vaticano Primo. Su questo, fino il giorno d’oggi, non è permessa discussione di sorta. Del che ovviamente si stupiscono le Chiese non cattoliche. I vangeli canonici, cioè quelli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa dopo lunghe diatribe, si formarono solo decenni dopo la morte di Gesù sulla croce. Nessuno scritto del Nuovo Testamento - come della Bibbia nel suo complesso - è difatti conservato nell’originale. In un manoscritto scoperto ad Istanbul nel 1966, che informa sui primi secoli dell’era cristiana, si dà notizia di ottanta diverse versioni dei Vangeli. Il testo odierno del Nuovo Testamento corrisponde a quello diffuso nell’anno 380 fra la cristianità orientale. In origine, nessuno pensava alla possibilità d’una "Chiesa", per non dire alla sua evoluzione e ad un suo avvenire. Glosse e annotazioni del genere acquistarono interesse solo quando la preconizzata fine del mondo non si verificò e fu chiaro che il "Signore" non sarebbe ritornato da nessuna parte. Quanto meno questo Signore si faceva vedere, tanto più era inevitabile - per evangelisti, discepoli e credenti - che fosse deificato. Ebbe inizio così un imponente processo di reinterpretazione e di rielaborazione. L’attesa imminente venne rimodellata in attesa remota e, qualche tempo dopo, metamorfizzata in "vita eterna"; i miracoli di Gesù si accrebbero sistematicamente in numero e qualità, e il Signore medesimo fu promosso sottobanco al rango di "Messia" per gli ebrei, di "Cristo" per i cristiani, di "figlio di Dio" per le genti di tutti i paesi e di tutti i tempi. In questo modo il "dogma" - idea coatta e ossessiva - aveva trionfato irreversibilmente del povero uomo di Nazareth; la "Chiesa di Cristo" si trovò definitivamente elevata a istituzione, col sostegno della quale i popoli potevano essere sottoposti allo sfruttamento organizzato da gruppi elitari. Sfruttamento? Parole d’ordine quali indulgenza, inferno, purgatorio, penitenza, offerta, donazione testamentaria, la dicono lunga su molti particolari di questa speculazione spirituale sulla paura. Ciascuno di questi meccanismi caratteristici del salasso religioso ha la sua sciagurata tradizione; ciascuno di essi sopravvive ed opera ancora oggi. A metà del nostro XX secolo, ad esempio, l’indulgenza veniva ancora esaltata come "uno dei massimi fattori della storia economica", che contribuiva ad innalzare "splendidi duomi vescovili", che riempiva "il paesaggio di amabili cappelle e capitelli", e riempiendo altrettanto "le sacrestie e le e le casseforti". Un libro pubblicato nel 1971 con licenza ecclesiastica farnetica:

    "La dottrina delle indulgenze spesso combattuta per ignoranza, è tra le cose più belle della nostra fede. L’indulgenza è paragonabile nel modo migliore con un’azione. Quante più azioni uno possiede, tanto maggior partecipazione costui avrà al capitale e ai profitti della relativa ditta. La "ditta" a cui noi apparteniamo è la Chiesa; chi acquista un’indulgenza diventa "azionista" della Chiesa".

    E la confessione, chiamata di recente "sacramento di penitenza"? Il gesuita Adolf von Foss scrive:

    "Fai elemosina, cura malati. seppellisci i defunti, digiuna, veglia, prega, mortificati, màcerati, piangi fino a perdere gli occhi... ma niente di tutto ciò può surrogare la confessione".

    I chierici hanno bisogno di peccati e di peccatori contriti; essi vivono di questo, e ne vivono piuttosto bene. Con l’incoraggiamento di Lutero:

    "Sii peccatore e pecca fortemente, ma abbi fede e rallegrati in Cristo".
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    00 15/02/2016 17:26

    I FUORILEGGE (COSA NASCONDE LA GUERRA DELLA CEI ALLE UNIONI CIVILI)


    La richiesta di voto segreto di cardinal Bagnasco è l'ultimo tentativo della Cei per affossare il ddl Cirinnà.
    Tra scandali, Vatileaks, i casi crescenti di pedofilia, il flop del Giubileo e il crollo del consenso.




    Di Mauro Orrico - 15 febbraio 2016




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    La richiesta di imporre il voto segreto sulle Unioni Civili e la Stepchild adoption è l’ultimo tentativo della Cei (la Conferenza Episcopale Italiana) di affossare il ddl Cirinnà. Le parole del cardinale Bagnasco sono state chiare e non lasciavano dubbi. Mentre il Vaticano è travolto da ogni scandalo, tra le inchieste di Vatileaks e il dramma della pedofilia, tutti pare siano impegnati nel fare di tutto pur di non far passare una legge attesa da milioni di italiani, che l’Europa chiede all’Italia da anni. Riconoscere i diritti delle coppie composte da persone dello stesso sesso per la Cei pare sia un affronto troppo pesante da digerire. Ma la risposta questa volta è stata altrettato netta. Il presidente del Senato Pietro Grasso ha liquidato la richiesta di Bagnasco affermando: “C’è la libertà di espressione. Sulle procedure però c’è la prerogativa delle istituzioni repubblicane di decidere”. Così come ha fatto il premier Matteo Renzi: “Il voto segreto lo decide il Parlamento, e lo dico con stima per il cardinal Bagnasco, e non la Cei“.
    Sul tema è entrato più volte anche il papa che ha affermato di riconoscere solo la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna.

    “Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione. La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al ‘sogno’ di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità”.

    Dovrà ricredersi chi ha visto in papa Francesco una sponda a favore dei diritti delle persone lgbt, oltre Tevere. Il rinnovamento così tanto ostentato da Bergoglio si conferma così sempre più una mera strategia di marketing per risollevare il consenso, sempre più in crisi, verso l’istituzione vaticana, provata da scandali di ogni genere. Non sono bastati quelli legati ai tanti casi di pedofilia, l’ultimo è proprio di due giorni fa e riguarda la condanna a 3 e 8 mesi per il sacerdote di Brindisi accusato di aver abusato di due ragazzini non ancora quattordicenni. A gettare ulteriori ombre sul pontificato di Francesco vi è poi la gestione delle vicende legate ai due testi che hanno raccontato  scandali e intrighi in Vaticano dei giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi sulle inchieste legate a Vatileaks. L’incriminazione degli autori e dei due presunti “corvi” accusati di essere i responsabili della fuga di notizie, Francesca Chaouqui e monsignor Lucio Angel Vallejo Balda – nominato dallo stesso Bergoglio a guidare il Pontificia Commissione  economici e amministrativi della Santa Sede – ben poco hanno in comune con l’idea di trasparenza e di ritorno alla chiesa delle origini.

    Il dubbio pertanto è lecito. Bergoglio è sempre più un abile comunicatore, più che un reale riformatore, o solo un’arguta operazione di marketing che si dimostra però essere sempre meno vincente davanti alla prova dei numeri?

    Il sostegno più o meno aperto al Family Day, gli attacchi quotidiani alle famiglie arcobaleno, i tentativi di affossare una legga attesa da trent’anni. E poi tante menzogne, luoghi comuni, sciacallaggi sul ddl Cirinnà (che qui vi abbiamo raccontato). Sembra una vera e propria guerra quella dichiarata dal Vaticano e dai suoi adepti a chi sostiene una legge che, se approvata, non intaccherà le sorti delle famiglie tradizionali. Ma allora cosa c’è davvero dietro la guerra vaticana ai diritti lgbt? Secondo tutti i sondaggi Papa Bergoglio piace. Ma la Chiesa ha un appeal sempre minore e i numeri sono allarmanti. Ed ecco l’ultima strategia: svoltare a destra, recuperare almeno il consenso degli ultraconservatori. Ma ecco cosa sta accadendo, realmente.

    Vaticano

    IL FLOP DEL GIUBILEO E IL CROLLO DEL TURISMO A ROMA
    È stimato tra il 5% e il 10% il calo del turismo a Roma. È quanto emerge dai dati forniti da Federalberghi rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente. La paura del terrorismo non è l’unica ragione, visto che il calo non vi è stato in altre capitali come Madrid o Berlino. Il timore del caos legato alla presenza di pellegrini in una città che non brilla per trasporto pubblico o efficienza, avrebbe infatti convinto molti turisti laici a posticipare il proprio viaggio nella Capitale nei prossimi anni, dopo la conclusione di un Giubileo che finora si rivela solo un clamoroso flop.

    IL CROLLO DELLE PRESENZE ALLE UDIENZE PAPALI
    È il dato più allarmante, probabilmente, per il Vaticano. Poche file e una piazza che è stata piena solo nei giorni di Natale. Sperano che la causa possa essere solo il timore dei pellegrini per il rischio legato agli attentati terroristici, ma pare che così non sia.

    LE NUOVE GENERAZIONI SEMPRE PIU’ LAICHE
    È difficile poter fornire dati certi, ma il processo di secolarizzazione e laicità nelle nuove generazioni pare sia un fenomeno inarrestabile, in linea con quanto avviene in tutte le democrazie occidentali. Le stime parlano di una netta maggioranza di giovani tra i 18 e 35 anni che non frequentano luoghi di culto o lo fanno solo in particolari occasioni, come matrimoni e funerali. I  credenti non praticanti sono ancora la maggioranza ma 1 su 4 si dichiara ateo o agnostico.

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    2015: L’ANNO DEL BOOM DEGLI SBATTEZZI
    Sono stati 50.000 i moduli per lo sbattezzo scaricati dal sito dell’Uaar. Il numero più alto mai raggiunto (nel 2014 sono stati poco più di 45.000). Eppure ancora in pochi sanno di cosa si tratti. Cos’è lo sbattezzo? Chi conosce la parrocchia presso la quale si è stati battezzati deve semplicemente scrivere una lettera al parroco con la quale si chiede che sia annotata la propria volontà di non far più parte della Chiesa cattolica. La lettera deve essere inviata per raccomandata a.r. all’indirizzo della parrocchia allegando la fotocopia del documento d’identità. I grandi media ignorano il fenomeno; in testa,  i giornali e le Tv di centro destra e quelle controllate dalla politica come la Rai che temono dilaghi tra i milioni di italiani che sono stati battezzati dopo la nascita ma che oggi si dichiarano atei, agnostici, cristiani non cattolici, fedeli di altre confessioni, cattolici non praticanti o critici con le istituzioni ecclesiastiche. Secondo l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti “è la secolarizzazione che avanza”, mentre per la Chiesa “è solo fenomeno passeggero, un moto di protesta che ricorda il Sessantotto”.

    MATRIMONIO: COME CAMBIA L’ISTITUZIONE
    Per la prima volta nel bienno 2014-2015, in tutto il centro e il nord Italia, i matrimoni civili hanno ampiamente superato quelli religiosi su un totale che diminuisce di anno in anno. Un dato che ha portato il papa a rivedere le norme che regolano l’istituto della Sacra Rota, nella speranza – forse – di facilitare le dichiarazione di nullità affinché le seconde nozze possano essere celebrate in chiesa e non “perdere” così i potenziali secondi matrimoni dei divorziati.

    matrimoni(Fonte: Istat – L’Espresso)

    Il dato totale cala ma non crolla, grazie alle unioni celebrate tra stranieri, mentre è sempre più basso quello tra italiani. Quanto ai divorzi, sono 1 ogni 5 matrimoni. Le separazioni sono in rapporto di 1 a 3. La durata media del matrimonio è di 15 anni, ma diminuisce nei grandi centri.

    Fonte: FaceMagazine

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    Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.
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