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06/02/2012 22:25

"Wildt. L’anima e le forme tra Michelangelo e Klimt" 28 gennaio - 17 giugno Forlì
Cito dal Popolo d’Italia del 30 ottobre 1923, con un guizzo mentale in direzione di Crozza: «Il Presidente fissa per alcuni istanti il severo volto quadrato che interpreta in modo ammirevole la linea muscolare del Duce e esclama: “È veramente un’opera d’arte! La Signora Sarfatti gli presenta Wildt e il Presidente gli stringe vigorosamente la mano complimentandosi vivamente». Italo Cremona scrive in Il tempo dell’Art Nouveau,1964: «Wildt, quando noi eravamo giovani, era esaltato come un genio, oggi è del tutto dimenticato».
Dal recupero di quell’indubbio genio, introverso e angosciato all’inizio del secolo di Freud, poi sublimato da astrazioni mistiche, tradotte in forme ammirate da giovani allievi della scuola di lavorazione del marmo di Brera come Fontana e Melotti, è nata una doppia mostra, travolgente e inquietante. Da un lato abbiamo dunque il recupero di una personalità eterodossa della prima metà del secolo scorso al di fuori da ogni norma e regola, con 72 marmi e bronzi e 42 fogli grafici ai vertici della stagione simbolista e secessionista. Dall’altro il susseguirsi, ben meditato e scelto dai curatori Fernando Mazzocca e Paola Mola del catalogo Silvana, di capolavori lungo secoli di scultura e pittura fagocitati dall’occhio e dallo spirito cannibale del maestro: dal Torso del Belvedere allo Zuccone di Donatello e al bronzo di Dio fluviale di Michelangelo da Casa Buonarroti a Firenze, da Cosmè Tura a Dürer e al Bronzino, da Klimt a Casorati. All’inizio risultano un poco spiazzanti le copie - interpretazioni (ma fu il suo primo mestiere) della Venere di Milo e del Galata morente da Villa Merstorff di Pallanza, considerando il costante e duro anticlassicismo lungo tutta la vita dell’artista rintanato nei suoi atelier di Milano.
Ma tutto cambia nella serie di salette che risolvono il delicato problema delle memorie personali e pubbliche di chi, a differenza di Martini, si sentiva e si poneva intrinsecamente al di fuori della tradizione monumentale. Si parte, con la costante di un fondamentale stupefacente mestiere, dal medaglione marmoreo ad altorilievo della figlia Dina, accompagnato da due «tragici», contorti Autoritratti a carboncino del 1916, per approdare alla stele marmorea di raffinatissimo gusto dèco con la testa bronzea del «martire fascista» Nicola Bonservizi del 1925. Segue poi la serie Sarfatti con il busto marmoreo neorinascimentale di Margherita del 1930 e quello postumo del marito Cesare del 1927, di rara intensa introspezione di realtà psicologica.

Il culmine di ostentazione solipsistica di suprema perizia nella manipolazione del materiale è raggiunto nell’ultima saletta, che presenta due repliche in bronzo del mitico e mitizzante capoccione del Duce del 1923, con il secondo in collezione privata, ulteriormente storicizzato da colpi di piccone indubbiamente inferti il 25 luglio 1943. Essi sono accompagnati dalla Maschera marmorea ritagliata nel 1924 della Gam di Milano, con l’effetto funereo e incubico delle occhiaie vuote, e dal grande equivalente busto bronzeo di Vittorio Emanuele III, coronato da fronde di quercia, sorprendente per la spietatezza degli intagli sul volto rugoso. Il risultato del tutto è singolarmente catartico, a lode, oggi, dell’arte senza tempo di Wildt. Il primo piano si apre con l’opera prima del 1893, la piccola testa purista della moglie appena sposata tramutata in Vedova e vegliata dalla Vestale di Canova già «assorbita» mentre l’artista studiava a Brera.
Da qui inizia la cavalcata della prima fase corrispondente al contratto con il mecenate della Prussia Orientale Franz Rose, che gli garantiva il prototipo di ogni opera in marmo o in bronzo. È il periodo intimamente tormentato e plasticamente caratterizzato da un personale espressionismo fortemente anticipato anche a livello europeo, che trasmette quel tormento fin nell’intimo della materia stessa marmorea e bronzea. Ne risulta un incomparabile alleggerimento della massa tridimensionale e nel contempo un grande affinamento delle superfici: si susseguono in mostra Il Crociato, La maschera del dolore, Uomo antico, Carattere fiero-Maschera gentile. Il punto estremo, esasperato, è Il Prigione del 1915, già morto il mecenate tre anni prima, già ben lontana la Prussia e ben mutato il rapporto di Wildt con la società culturale milanese. Lo dimostra la marmorea estatica nitidezza anche spirituale dell’Anima e la sua veste, che nel 1916 era nella casa milanese del collezionista Chierichetti accanto alla Madonna dei gigli di Previati. La seguono in mostra nella nuova fase il grande gesso dello stesso 1916 La madre adottiva per la tomba Slasi Crespi al Monumentale di Milano, da Ca’ Pesaro a Venezia, e nel 1918 le due preziose testine infantili di Augusto Solari e di Julia Alberta Planet, che anticipano il capolavoro Filo d'oro del 1927.
Affascinanti ma inquietanti sono i purissimi ritmi lineari scarnificati di Un rosario-MCMXV e ancor più quelli sommamente ambigui di Maria dà luce ai pargoli cristiani, presente, fra l’immagine marmorea totale e frammenti, con ben sei versioni. Alla fine della vita e dell’opera nel 1931, sono proposti nella sala terminale il busto colossale quanto surreale, di Pio XI, che solo un Papa inquieto come Paolo VI ammise nei Musei Vaticani, e il modello in bronzo del Puro folle-Parsifal, il cui gesso alto 6 metri andò distrutto con lo studio nei bombardamenti del 1943.



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