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Silvia

Ultimo Aggiornamento: 06/06/2004 07:00
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03/06/2004 08:30

Silvia
riposa dentro la stanza
con una mano sotto il cuscino
mentre di fuori spunta il mattino
che fra non molto la sveglierà

Silvia
si veste davanti allo specchio
e sulle labbra un po' di rossetto
andiamoci piano però con il trucco
se no la mamma brontolerà

Silvia
fai presto che sono le 8
se non ti muovi fai tardi lo stesso
e poi la smetti con tutto quel trucco
che non sta bene te l'ho già detto

Silvia
non sente oppure fa finta
guarda lo specchio poco convinta
mentre una mano si ferma sul seno
è ancora piccolo ma crescerà

Silvia
fai presto che sono le 8
se non ti muovi fai tardi lo stesso
e poi la smetti con tutto quel trucco
che non sta bene te l'ho già detto

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non sente oppure fa finta
guarda lo specchio poco convinta
mentre una mano si ferma sul seno
è ancora piccolo ma crescerà

Silvia
ora corre oltre lo specchio
dimenticando che sono le 8
e trova mille fantasie
che non la lasciano più andar via
che non la lasciano più andar via

(V.Rossi)

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la gioia è una brezza che ti accarezza il viso, il dolore è una ferita che ti porti per sempre
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03/06/2004 10:11

Re:

Scritto da: fishersampei 03/06/2004 8.30
Silvia
riposa dentro la stanza
con una mano sotto il cuscino
mentre di fuori spunta il mattino
che fra non molto la sveglierà

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si veste davanti allo specchio
e sulle labbra un po' di rossetto
andiamoci piano però con il trucco
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fai presto che sono le 8
se non ti muovi fai tardi lo stesso
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"It's a hundred and six miles to Chicago, we got a full tank of gas, half a pack of cigarettes, it's dark, and we're wearing sunglasses."







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03/06/2004 14:18

Tracce evidenti di Vasco Rossi....





Può l’imperfezione generare la perfezione?



Sì, se si tratta di Vasco Rossi, difatti lui stesso ha detto all’intervistatrice del settimanale "Sorrisi e Canzoni TV" del 9 novembre 2002: “io non sono perfetto, ma le canzoni lo sono. Non tutte, certo, ma qualcuna sì”. Una cosa quindi è la forma, in questo caso la compilation Tracks, di cui Vasco ha affermato che non gliene “frega un cazzo”, poiché si tratta di un’opzione che la casa discografica può esercitare senza il suo consenso ("Blasco", n. 35, 2002), altro invece è lo spirito che c’è nell’involucro, cioè le canzoni. Con questa filosofia va ascoltato, goduto, centellinato e consumato l’ultimo prodotto della Emi che raccoglie 24 testi del nostro “comandante” prodotti negli ultimi vent’anni di carriera artistica e umana. Tre grandi temi esistenziali, sempre ricorrenti, che accompagnano ed assillano la vita umana, sono esplicitati nelle parole della canzoni qui proposte. Si tratta del senso dell’esistenza di fronte al mondo che cambia, del rapporto uomo-donna, delle emozioni, rabbiose e indignate e degli smarrimenti di fronte alle ipocrisie e alle ingiustizie. Le interpretazioni dei temi vanno ricondotte al contesto sociale e culturale in cui sono maturate, e che le canzoni in qualche modo esprimono, anche se l’autore si guarda bene dal fare il cantante storico-sociologo-pedagogo-educatore, limitandosi a recepire emozioni e sensazioni senza alcuna pretesa di costruzione di paradigmi totalizzanti.


Senso e sensi per la vita

La fine delle ideologie, di cui parlano filosofi e uomini di cultura in genere, è un problema che ci riguarda e ci coinvolge e ha a che fare con la domanda, sempre ricorrente, sul senso della nostra vita, della tante cose che facciamo e per le quali tanto ci piacerebbe che avessero un fine, uno scopo, un significato, che travalichi l’atto del fare, capace di dare struttura e senso ad altri significati e azioni. Che questo sia un tema centrale in Vasco Rossi è dimostrato da alcune sue recenti affermazioni che vanno da un crudo realismo leopardiano ad un’incessante ricerca foscoliana di una motivazione dell’esistenza. Se, da un lato, la vita gli appare “un’esigenza della natura. Un fatto che accade e non c’è niente da capire e non c’è niente da fare” ("Blasco", n. 34, 2002), dall’altro insiste, nel vuoto di prospettiva, a voler caparbiamente dare un senso a questa “vita, storia, voglia, situazione, condizione, cose. Anche se un senso non ce l’ha” (Canzone senza senso, "Max", marzo 2002). Una lacerazione dolorosa la sua, che ben rappresenta quella di una generazione, degli anni sessanta e settanta, che ha conosciuto in pochissimi anni grandi speranze di trasformazioni complessive che avrebbero dato un senso nuovo e radicale alla vita, e grandi delusioni conseguenti alla perdita d’identità collettiva, di prospettiva politica, che li ha lasciati soli con i loro corpi, nudi d’utopie e d’ideologie, a continuare a vivere per eccesso nella speranza che, perduto il senso dell’agire, ci fossero almeno i sensi corporei, dilatati e attenti, per recepire il flusso della vita che scorreva. Persi gli ideali politici e sociali, venuta meno l’idea circa le magnifiche sorti messianiche e progressive della storia, precipitati in un mondo in cui “è logico cambiare mille volte idea” (Gli angeli) il corpo, inteso come insieme di sensi e d’istinto, si pone come l’unico soggetto guida della vita.

In un simile contesto non si tratta più di ritrovare un senso per la vita, piuttosto bisogna avere i sensi pronti a recepire la vita. Bisogna quindi prepararsi a vivere con intensità e passione le sensazioni, che non sono mai abbastanza, perché a tutte ci si abitua e ci si stanca. Per non avere un domani alcun rimpianto per il passato, occorre vivere pienamente e completamente la realtà presente. “domani sarà tardi per rimpiangere la realtà –dice alla giovanissima Gabri- è meglio viverla/ è meglio viverla”, invitandola a spogliarsi perché vuole morderla. “sentire ancora il tuo piacere/ esplodere col mio”. Possono le sensazioni del corpo riempire di senso quello che si fa? Sembrerebbe di sì a patto che riempiano in modo esagerato tutto il tempo che trascorre. Una giornata è splendida se è “straviziata, stravissuta, senza tregua”, consumata tutta, così che, quando termina, uno può dirsi: “che importa se è finita/ che importa se era la vita mia o no?”.

Il dubbio emerge subito e sempre, perché non è possibile vivere abolendo i tempi morti, capiteranno sempre dei momenti in cui uno non c’entra, non è stato, dopo piange, rimane “con la testa tra le mani e rimanda tutto a domani” (Ogni volta) e si sente in “bilico”, solo con le sue “Lucky Strike” e “da buttare via” (Gli angeli).

La valorizzazione dei sensi porta ad una ipervalutazione degli individui e dei corpi, resi sempre più “divini” nelle loro prestazioni: “con le mia mani tra le gambe/ diventerai più grande/ e non ci sarà più dio/ perché ci sarò io”, dice il “superuomo” vaschiano alla giovanissima e prestante Gabri. La divinazione del corpo conduce al rifiuto di ciò che non è conforme: “chi sta male deve vergognarsi/ e anche chi è grasso” (La fine del millennio). La perdita di senso e l’individualismo conducono ad una solitudine prima generazionale (Siamo solo noi), poi generalizzata (Siamo soli) che spezza ogni legame e relazione dietro l’apparenza di un aumento della comunicazione: “noi parliamo spesso sì/ ma è così, siamo soli”. Si parla molto, ma non ci si comprende, anzi il numero infinito di parole che pronunciamo è direttamente proporzionale alla nostra incapacità di farci capire e di capire. In fondo, un rapporto autentico, non ha bisogno di parole: “va bene così, senza parole!” (Senza parole). Allo stesso modo, senza parole, si fanno i figli i quali sono, prima ancora che un progetto razionale e voluto, un atto d’affermazione della vita e del rapporto tra i genitori che concepiscono: “ci ho pensato dopo/ ci ho pensato poco./ Non sarebbe durato a lungo/ questa storia d’amore eterno/ se non arrivavi tu” (Benvenuto)

La perdita di relazionalità, l’ipervalorizzazione degli individui e dei loro corpi portano alla negazione del tempo e della memoria collettiva, vivere diventa “un ricordo senza tempo”, un atto che non porta da alcuna parte: “vivere! E’ un po’ come perder tempo”, un gesto automatico, senza più intenzionalità: “Vivere! Anche se sei morto dentro” (Vivere). Può l’uomo vascorossiano accettare una tale prospettiva? No assolutamente, l’animo si ribella e contro ogni vana illusione, afferma forte e chiaro che la vita è pur sempre mossa da insoddisfazione per lo stato di cose presenti: “vivere e non essere mai contento”, “senza perdersi d’animo mai/ combattere e lottare contro tutto” e “sperare che domani sarà sempre meglio”. Da dove nasce quest’impulso? Da quel fatto primitivo e primordiale che è la vita stessa: “siamo qui/ siamo vivi/ e tutto può succedere”.


Decostruzione e ricostruzione dei rapporti uomo-donna


Le donne, negli anni Settanta, rivendicano i loro diritti, la loro autonomia, prendono coscienza del proprio ruolo sociale all’interno della società e nel rapporto di coppia, affermano la loro volontà di liberazione e d’autodeterminazione come soggetto. Il femminismo segna nella società una grande rivoluzione di costume e di mentalità, scombussola e destruttura le vecchie certezze maschili. La messa in discussione del ruolo della donna nella società, comporta parallelamente la crisi d’identità maschile, la perdita di certezze e di sicurezze ataviche. L’uomo post-sessantottino, di fronte all’insorgenza del femminile, non sa più cosa fare, si ritrae smarrito o reagisce con rabbiosi insulti all’emergere di una nuova figura femminile. Nell’atto amoroso diventa insicuro e indeciso, si pone nuovi problemi, “come la bacio, dove la devo toccare”, impara a proprie spese a conoscere meglio il corpo della donna.

I “maschi” delle canzoni di Vasco Rossi non comprendono più queste donne, si rivoltano impotenti e rabbiosi, ricordano per anni e anni l’umiliazione di essere stati piantati e, anche se non le aspettano più, sono ancora lì che bruciano di rancore e non riescono a dimenticare (Io no). Uguale la durezza e il disincanto che sale dall’altra metà del cielo: “Sally cammina per la strada sicura/ senza pensare a niente!/ Ormai guarda la gente/ con aria indifferente/ sono lontani quei “momenti”/ quando uno sguardo “provocava” turbamenti/ quando la vita era più facile”. Presi in giro, usati e gettati via da donne che vogliono soltanto prendersi gioco di loro, che vogliono divertirsi, loro vorrebbero magari anche innamorarsi, per davvero; ma quando questo accade, sono le donne a non crederci a dubitare che sia vero, anche se lui glielo dice con tenerezza e dolcezza, come nell’esempio di Una canzone per te: “non ci credi eh?/ come non è vero, sei te!/ ma tu non ti ci riconosci neanche”.
Accanto a queste figure di donne compaiono quelle romantiche, quelle che si sarebbero anche potute amare, per davvero, che ispirano sentimenti d’amore e d’amicizia profonda, quelle che potrebbero essere anche “brave mogli” (Toffee) che, troppo giovani per essere state direttamente contaminate dalla rivolta femminista, con la faccia pulita camminano per strada, “mangiando una mela/ coi libri di scuola”, che guardano “con quegli occhi grandi/ forse un po’ troppo sinceri”, che rendono chiara l’alba e fresca l’aria: così le canta Vasco nella famosa Albachiara, con una chiusura inquietante pero: “qualche volta fai pensieri strani/ con una mano, una mano ti sfiori./ Tu, sola, dentro una stanza”. C’è scoperta del corpo, c’è un inizio (e chissà dove porterà!) di presa di coscienza e di autonomia.
D’altronde la giovane Gabri è già qualcosa di completamente diverso da Albachiara ancora “chiara e trasparente”. Gabri è già una donna che sa ed è resa esperta dalla vita: “dove sei stata,/ cosa hai fatto mai? Una donna, donna/ dimmi cosa vuol dire sono una donna ormai” (Lucio Battisti Canzone del sole); difatti non ha imparato certo dal suo “fidanzato” quello che gli sta facendo: “non t’ho insegnato io/ quello che stai facendo adesso da dio, mi fai tremare il cuore/ mi fai smettere di respirare”.

Gabri introduce il tema delle belle ragazze giovani che s’incontrano in discoteca, luogo dove i corpi degli uomini e delle donne si sciolgono nel ballo e nella musica favorendo immagini erotiche e sensuali che vanno dritte al cuore o allo stomaco: “te ti sento dentro come un pugno/ vorrei stringerti le braccia/ attorno al collo e baciarti/ baciarti dappertutto/ vorrei possederti…/ sulla poltrona di casa mia” (Rewind). Ma è una sensualità ormai un po’ stanca e disillusa, fatta di emozioni vissute a livello personale e non sempre condivise: “mi aiuto con le illusioni/ e vivo di emozioni che tu/ che tu non sai di darmi”, conclude la canzone Rewind. E anche le scelte quando avvengono, avvengono nell’indifferenza, lasciate al caso: “ti ho pensato sai/ ti ho pensato poi/ la sfiga/ mi ha telefonato lei per prima”, anche perché, a volte, viene meno la molla che fa scattare il corteggiamento e la scelta: “è la curiosità/ che non so più cos’è” (Quanti anni hai)


Smarrimenti, emozioni, rabbia, indignazione.

Anni Settanta, Ottanta, Novanta, come sono sfilati via veloci i fatti, com’è stata densa di accadimenti la storia. Sono crollati i regimi burocratici autoritari dell’Est, nel 1989 è stato abbattuto il muro di Berlino, l’Urss è finita nel 1991, in Italia, tangentopoli ha travolto il sistema dei partiti, è giunta alla fine la storia della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista Italiano e di quello comunista. La fine della guerra fredda porta nuove guerre calde, il Novecento si conclude con la guerra della Nato nei Balcani, là dove era iniziato nel 1914 con l’attentato che aveva provocato lo scatenamento della Prima guerra mondiale. Un’ondata migratoria, nuova e senza paragoni recenti, investe l’Europa creando nuove emarginazioni ed esclusioni (Mi si escludeva). Qual è l’atteggiamento di chi affronta questo contesto storico proveniente dalla vita spericolata degli annni Settanta e Ottanta? Della libertà ritrovata dopo il crollo dei partiti e dei sistemi burocratici c’è poco da gioire se manca la voglia di vivere e di fare. “Liberi liberi siamo noi/ però liberi da che cosa/ Finché eravamo giovani/ era tutta un’altra cosa/ Forse eravamo “stupidi”/ però adesso siamo “cosa”/ “Quella voglia”, la voglia di vivere/ quella voglia che c’era allora/ chissà dov’è! Chissà dov’è!?” (Liberi liberi).

Dimenticare, rimuovere, lasciarsi andare al presente, non è proprio possibile. Le sensazioni vissute tanti anni prima emergono ancora con tutta la loro forza, costringono a ricordare, sovente con rabbia unita ad una tenera dolcezza: il ’68, le illusioni, le utopie che sembravano vere e poi i sessantottini, finiti a lavorare per Berlusconi, per la RAI, per i giornali che a quel tempo chiamavano, con disprezzo, borghesi e “servi dei padroni”. C’è n’è abbastanza da farsi venire i conati di vomito: “E mi ricordo chi voleva al potere la fantasia/ erano giorni di grandi sogni… sai/ erano vere anche le utopie eh:/ Ma non ricordo se chi c’era/ aveva queste facce qui/ non mi dire che è proprio così/ non mi dire che son quelli lì./ sì!!!/ Stupendo!/ Mi viene il vomito!/ E’ più forte di me” (Stupendo). Qualche piccola soddisfazione i piccoli uomini, abituati a ricevere i colpi dei potenti, sembrano potersela prendere quando uomini ricchi e impuniti vengono incarcerati, processati e condannati per corruzione: “abili”, “ipocriti”, “mai colpevoli”, “state più attenti/ se la guerra poi adesso cominciamo a farla noi/ non sorridete, gli spari sopra, sono per voi!” (Gli spari sopra). Ma è un sorriso breve perché, come canta riprendendo Francesco De Gregori del 1978, allo stadio San Siro di Milano nel 1995, “dietro la collina ci sta la notte buia e assassina” (Generale). Nuove guerre si stanno combattendo o stanno per venire, dietro l’apparente normalità della vita “normale” e pacificata che si vuole sia per la società italiana dei tempi del “buonismo” del centro sinistra. In questo clima “concertante” e “consenziente”, il 1 maggio 1999, Vasco Rossi canta a Roma in occasione della manifestazione sindacale per la festa dei lavoratori e, non a caso, essendo in corso i bombardamenti sulla Serbia da parte degli aerei della nato, attacca così: “c’è qualcosa che non va in questo cielo”.

Questo è l’inizio della celebre C’è chi dice no, canzone che vogliamo prendere come esempio per ricostruire il pensiero vascorossiano, il quale parte dall’assunto che non ci sia un mondo che il cantautore debba conoscere, capire e spiegare, ma un io autocosciente che con un’azione di immaginazione produttiva intuisce l’immagine del mondo. Si tratta di un procedimento soggettivo, che viene prima dell’esperienza, un io che pone se stesso e ciò che gli si oppone: “Io no”, “C’è chi dice no”. Ponendo se stesso e la propria antitesi (“stupendo!/ mi viene il vomito) l’ “io” Vasco da luogo ad un processo di conoscenza filosofica che precede l’esperienza del mondo reale, quella del Se è vero o no.




(Diego Giachetti da http://www.vascorossi.net/)

[Modificato da Zalmoxis 03/06/2004 14.22]

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Ora sono giunto a questa: lasciate che prima di partirne io canti..."


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05/06/2004 14:39

Re: Re:

Scritto da: exodc 03/06/2004 10.11


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06/06/2004 07:00

Re: Re: Re:

Scritto da: Leonessa73 05/06/2004 14.39



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