DAVANTI AI QUADRI DI DONGHI, CIN-CIN E CAN-CAN TRA I GLADIATORI DI CAPITALIA (Cesare Geronzi)
PERCHE’ VERONICA-ARPE E SILVIO-GERONZI NON POSSONO SOPRAVVIVERE SEPARATI
“ECONOMIST”:
CARNEVALE, IN ITALIA, È IL TEMPO DEL MISTERO E DEL TRAVESTIMENTO
Reportage di Umberto Pizzi da Zagarolo
1 - GERONZI-ARPE, L’ORA DEL DISGELO…
Dal “Sole 24 Ore” - Cesare Geronzi e Matteo Arpe tornano a presentarsi insieme ad un evento pubblico dopo lo «strappo»della scorsa settimana e le dichiarazioni opposte sulle ipotesi di alleanze per Capitalia. Ieri il presidente e l'a.d.dell'istituto di Via Minghetti hanno partecipato a Roma al Vittoriano all'inaugurazione della mostra monografica dedicata ad Antonio Donghi, pittore romano del XX secolo.
E con Geronzi ed Arpe, tutto il vertice del gruppo, compreso il presidente e l'amministratore delegato di Banca di Roma che ha sponsorizzato l'evento, il presidente Berardino Libonati e l'a.d. Fabio Gallia. Intanto, l'ultimo numero dell'Economist torna sull'argomento mettendo in evidenza i contrasti ai vertici dell'istituto e ricordando che la stagione del carnevale, in Italia, porta sempre con sé un poco di divertimento. Per il settimanale, lo scontro sulle strategie e sulle alleanze è anche e soprattutto un contrasto tra due diversi stili manageriali e reti di relazioni: il mercato con Arpe, il«potere» con Geronzi. Carnevale, conclude l'articolo, è il tempo del mistero e del travestimento, ma in questo caso il ruolo di maestro di cerimonia svolto dal presidente non è soggetto a equivoci.
2 - L’ITALIANITA’ SALVATA DAGLI ITALIANI
Paolo Madron per Panorama
Bella battaglia a Capitalia, di quelle che non se ne vedevano da tempo. Ancor più appassionante perché si svolge sotto lo stesso tetto: da una parte Cesare Geronzi, banchiere che ha più vite di un gatto, una carriera consumata a pane e politica, mirabile interprete del capitalismo cosiddetto relazionale, quello che privilegia i legami sui numeri. Dall’altra Matteo Arpe, enfant prodige di illustre scuola milanese, strenuo adepto del capitalismo mercatista, la cui prima regola è che i bilanci fanno premio su «aumma aumma» e logiche di schieramento. Chi vincerà? Per ora nessuno, i due patteranno la partita perché, in mancanza dell’arma letale, rischiano di impantanarsi in una guerra di trincea. E poi perché, paradossalmente (per ora), sono come il paguro e l’attinia, che devono coabitare in simbiosi.
Geronzi, che lungo il suo cammino ha fatto strame di chi gli si parava davanti, non può liberarsi di un amministratore delegato che sotto la sua gestione ha portato il titolo da niente a 7 euro e, come si dice in gergo, ha messo a posto i fondamentali della banca. Tuonerebbe il mondo, dai fondi agli analisti, dai grandi investitori al popolo degli azionisti che grazie al giovane banchiere hanno guadagnato un sacco di soldi.
Viceversa,
Arpe non può pensare (per ora) di poter fare a meno di Geronzi, che politicamente pesa molto più di lui, e questo non è un dettaglio perché la Capitalia è una banca de’ Roma, ecumenica, ossequente, papalina, da sempre ammanicata coi poteri, temporali e spirituali, costituiti. Però la battaglia appassiona e divide lo stesso, non foss’altro perché i protagonisti sono l’emblema di due visioni del mondo contrapposte. Si appassionano i politici, specie quelli dell’opposizione, che vedono in Geronzi l’ultimo baluardo alla colonizzazione prodian-bazoliana di tutto il sistema, lui che, unico tra i grandi banchieri d’Italia, non ha votato alle primarie dell’Ulivo, guadagnandosi l’imperitura riconoscenza del Cavaliere.
Si appassionano i tifosi dell’italianità, che inorridiscono all’idea di una Capitalia in mani straniere, col seguito di Mediobanca e Generali su cui (per ora) la sua influenza predomina. Si appassionano i media d’Europa e d’oltreoceano, anche se qui la sproporzione è tutta a vantaggio di Arpe.
Con lui ci sono il Financial Times e il Wall Street Journal, mentre a difendere il presidente c’è Milano Finanza dell’editore Paolo Panerai. Il quale, fra tante accuse al giovane manager, muove anche quella di essere abbronzato (?). Sarà, uno immagina, perché invece dei suoi giornali sceglie Il Sole 24 Ore.
Si appassionano, infine, le grandi potenze finanziarie, dalla ondivaga Abn Amro, prima azionista della banca, che un giorno crocifigge Geronzi e l’altro gli giura eterna riconoscenza, agli ultimi arrivati, gli spagnoli del Santander e l’onnipresente francese Vincent Bolloré, la cui prima preoccupazione (falsi come Giuda) è che hanno valicato le Alpi per difendere l’italianità invece che per fare i loro sacrosanti affari. Ma sarà bene che l’italianità se la difendano gli italiani, purché la cosa interessi. È mai successo del resto che noi ci siamo fatti carico della francesità o della spagnolità?
Un tema che deve assillare non poco il governatore della Banca d’Italia, che non perde occasione per predicare il bisogno di altri matrimoni. Nel momento in cui lo dice, l’ultima volta al Forex di Torino, si vede che il suo pensiero corre alla Capitalia, che è retta da un patto di sindacato incline a ondeggiare al primo refolo di vento, e che dunque resta una signora da maritare in casa, prima che arrivi qualcuno da fuori a portarsela via. Mario Draghi, dicono i ben informati, si arrovella per trovare una soluzione che soddisfi altrove le ambizioni di Geronzi rendendo così più facile sposare la Capitalia senza che il grande vecchio la viva come una diminutio.
E se lo mettessimo al vertice delle Generali? ha persino pensato l’ex direttore generale del Tesoro, non considerando che, con tutto rispetto, Roma è caput mundi mentre Trieste se ne sta piuttosto defilata e (per ora) governata da un giovane signore di 80 e passa anni che non ci sente di mollare. Si accettano suggerimenti anche se, siccome italiani siamo e italiani vogliamo restare (e poi Draghi ha già dato, stendendo tappeti ai francesi che si comperavano la Bnl), l’ipotesi di sontuose nozze con l’Unicredito di Alessandro Profumo prende quota.
Profumo è il primo a non credere che il suo arcirivale Bazoli, dopo aver fatto il lupo col Sanpaolo, sia agnello con Generali e Mediobanca.
Insomma, per i palazzi che contano quella della Capitalia è una partita troppo importante per gli assetti di questo Paese perché possa ridursi a un’intestina lotta di poltrone. A giocarla come tale si rischia che alla fine non ci sia un vincitore ma due perdenti e un terzo incomodo ad aggiudicarsi la preda. Che, se Profumo guardando Roma continua a storcere il naso, verrà per forza d’oltralpe. Anche se con un solo generoso obiettivo: difendere l’italianità al posto di quei velleitari pasticcioni di italiani che non lo sanno fare. Finirà come nel campionato di calcio, dove a far spettacolo sono squadre fatte quasi tutte di stranieri.
Dagospia 16 Febbraio 2007