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killing zoe
00lunedì 19 settembre 2011 19:40
"Moda in Italia, 150 anni di eleganza" 16 settembre - 8 gennaio 2012 Torino
Vestivano ancora alla francese le prime Regine dell’Italia unita. I grandi stilisti di Parigi erano allora i capiscuola delle sartorie d’élite in voga nelle corti europee. Per tutto l’Ottocento e il primo Novecento dettano legge anche a Torino, Firenze e Roma. Nelle tre capitali del neonato regno italiano le signore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia si rivolgono ai loro atelier o cercano in patria modelli ispirati alla creatività d’oltralpe. Sarà solo l’Italia repubblicana a vincere quest’egemonia. Inventerà la «moda italiana», quel raffinato e disinvolto stile che conquisterà il mondo. L’anno della svolta sarà il 1951, quando Giovanni Battista Giorgini farà sfilare a casa sua, nella villa Torrigiani di Firenze, le future grandi firme della sartoria italiana. Parigi dovrà inchinarsi.
E’ quanto narra la mostra «Moda in Italia, 150 anni di eleganza», allestita fino all’8 gennaio nelle «Sale delle arti» della Reggia di Venaria Reale, alle porte di Torino, con il sostegno del «Comitato Italia 150». Spazia dal 1861 ai nostri giorni. Nasce da un’idea di Alberto Vanelli, direttore della residenza, e di Dino Trappetti. E’ il presidente della «Fondazione Tirelli Trappetti» di Roma, che offre gran parte dei 200 abiti esposti in otto sezioni. Un allestimento di Michele De Lucchi, animato da giochi di specchi, quali simboli di vanità e dei riflessi mondani dei «défilé», esalta un percorso espositivo curato da due bei nomi della comunicazione. La scenografa e premio Oscar Gabriella Pescucci rievoca la moda fra Ottocento e primo Novecento. Mentre Franca Sozzani, direttrice di «Vogue Italia», fa scoprire al visitatore il successivo trionfo dello stile italiano. A loro si affiancano gli storici Clara Goria, Andrea Merlotti, Massimo Cantini e Marco Urizi, ma anche Laura Tonatto che, alle voci e alle musiche dei tempi evocati, aggiunge quattro «stazioni olfattive» di profumi d’epoca.
«E’ una mostra - assicura Vanelli - che sposa rigore storico e atmosfere seducenti. Racconta la moda come specchio della società e ne esalta i sogni». Spazia dalle crinoline della vanitosa Contessa di Castiglione ai tacchi dorati di Marilyn Monroe. Ostenta gli abiti da cerimonia delle Regine Margherita ed Elena di Savoia e i seducenti vestiti di Eleonora Duse. Sfiora il fascino della creatività di Elsa Schiaparelli, la rivale italiana di Coco Chanel e raggiunge la grazia composta del vestire di Audrey Hepburn. Sorprende con i panciotti policromi del futurista Fortunato Depero. E sfida lo scandalo con l’abito talare realizzato dalle sorelle Fontana per Ava Gardner, poi riutilizzato da Anita Ekberg nella «Dolce Vita» di Fellini.
La storia del Paese e l’evolversi del costume si accompagnano per raccontare anche la riscoperta del corpo della donna. Oltre la vanitosa dama di corte, irrigidita nei busti e nella sua magnificenza, compaiono donne che liberano poco alla volta le loro forme. Il nero e imbustato abito della Castiglione e quello candido, risorgimentale, indossato da Claudia Cardinale nel «Gattopardo», cedono il passo alla gonna «tournure». Si limita ad ingabbiare un cuscino sul sedere. Quindi compare il «cul de Paris», che ammorbidisce ulteriormente l’imbottito. Diventerà ancora più lieve con il «fagiolo», esibito sotto le strette gonne delle dame rese immortali da dipinti di Giovanni Boldini. Ecco poi le prime gonne pantalone, le «jupe-culottes» del 1911, giudicate «strafottenti» dai gelosi maschi dell’epoca, sfidati nel diritto esclusivo di portare i pantaloni.
Sarà la prima guerra mondiale, citata con divise di Gabriele D’Annunzio e uniformi, a rendere più sobrie le donne, chiamate a lavorare al posto degli uomini e quindi a vestire abiti più pratici. Finché, negli anni Venti del Novecento, la gioia per la pace recuperata farà cadere anche i busti femminili. Si libereranno i seni in scintillanti abiti da Charleston, esposti su manichini che sembrano librarsi. In seguito anche fascismo e nazismo cercheranno di firmare la moda. Lo testimonia un abito trapunto di luminose svastiche. Ma segna la fine di un’epoca. La mostra volta pagina. Con il «Blu dipinto di blu» di Domenico Modugno vola verso una nuova operosa stagione. Affermerà il miracolo italiano e l’originalità dei suoi stilisti. Si presentano riflessi da specchi e proiezioni, fino a una trionfale passerella dei loro capolavori, in un vanitoso e multimediale teatro color rosa cipria.



di Maurizio Lupo
Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/default.asp

killing zoe
00sabato 24 settembre 2011 21:40
"Il Simbolismo in Italia" 1 ottobre - 12 febbraio 2012 Padova
Federico Bano annuncia “Il Simbolismo in Italia”. L’appuntamento, per molti versi imperdibile, è dal primo ottobre di quest’anno al dodici febbraio del 2012, a Padova, in Palazzo Zabarella.
A realizzare questa nuova impresa la Fondazione Bano, qui ancora una volta insieme alla Fondazione Antonveneta, ha chiamato Fernando Mazzocca e Carlo Sisi con Maria Vittoria Marini Clarelli, direttore della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Il tema e l’ambito sono ben noti: a cavallo tra Otto e Novecento, l’inconscio irrompe nell’arte e nulla sarà più come prima. È la scoperta di un mondo “altro”, affascinante, intrigante, di una nuova lente che vira la percezione di ogni realtà, si tratti di un paesaggio fisico e di un moto dell’anima.
È la storia di un movimento che si estende velocemente su scala europea ma che qui viene compitamente – ed è la prima volta – indagato nella sua fondamentale vicenda italiana. Non senza proporre confronti oltre confine e in particolare con l’ambito austriaco del Simbolismo: valgano tra tutti la Giuditta – Salomè, di Gustav Klimt o Il Peccato, celebre capolavoro di Franz von Stuck: due opere che valgono da sole la visita alla mostra.
Ma se i raffronti internazionali sono di assoluta qualità, ciò che di italiano offrono le otto sezioni di questa mostra, non è certo da meno.Sono opere che, nel loro insieme, ricostruiscono quel dibattito sulla missione dell’arte che infuocò quegli anni di decisive mutazioni sociali. Opere che evocano ciò che aleggiava negli ambienti letterari e filosofici di Gabriele D’Annunzio o di Angelo Conti o nei cenacoli musicali devoti a Wagner, mentre le Esposizioni portavano in Italia i fermenti dei movimenti europei.
Proprio con una esposizione, la Triennale di Brera del 1891, si apre l’itinerario della mostra che presenta affiancate Le due madri di Giovanni Segantini e Maternità di Gaetano Previati, quadri che segnano la sintesi fra divisionismo e contenuti simbolici. Segue una sezione dedicata ai ‘protagonisti’: gli artisti italiani e stranieri che parteciparono direttamente a quell’avventura poetica cresciuta intorno al Manifesto del 1886 di Jean Moréas e all’ “arte di pensiero” foriera della poetica degli stati d’animo.
“Un paesaggio è uno stato dell’anima” scriveva Henry-Frédéric Amiel e a questo principio è ispirata la sezione che, trattando del sentimento panico della natura, espone opere dove prevalgono, nella rappresentazione del paesaggio, la nebbia, i bagliori notturni, la variabilità atmosferica, le situazioni insomma più facilmente collegabili ai turbamenti psicologici. A prefazione di questo tema l’ Isola dei morti di Böcklin nella raffinata ed inedita versione di Otto Vermehren, affiancata dai dipinti di Vittore Grubicy, di Pellizza da Volpedo, di Plinio Nomellini.
Il mistero della vita è il soggetto della successiva sezione. Qui troviamo la rappresentazione di azioni quotidiane: la processione, le gioie materne, il viatico, la partenza mattutina. Emblemi di quell’ “artista veggente” che aveva il compito, secondo le teorie simboliste, di decifrare il mondo dei fenomeni e di cogliere le affinità latenti e misteriose esistenti tra l’uomo e la realtà circostante. Alle soglie del Novecento, Angelo Conti affermava che la natura, anche nelle sue calme apparenze, era “tutta uno spasimo, una frenesia di rivelarsi ed esprimere, per mezzo dell’uomo il segreto della sua vita”: un segreto che spesso era demandato a rappresentazioni dense di rimandi letterari, di evocazioni mitologiche cariche di sensualità, in cui l’artista esibiva la capacità di trasformarne quei contenuti in immaginazioni rare e coinvolgenti, come nei dipinti di Pellizza da Volpedo, Morbelli e Casorati.
L’ispirazione preraffaellita domina la pittura di Giulio Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis realizza le aspirazioni figurative di D’Annunzio, Galileo Chini intesse sontuose e iridescenti allegorie, Leonardo Bistolfi interroga la Sfinge, Gaetano Previati riscopre nella storia il dramma di Cleopatra: le sezioni che illustrano il mito e l’allegoria propongono i capolavori di questi artisti mettendone in evidenza la portata internazionale attraverso il confronto – clamoroso per importanza e qualità – con le opere di Gustav Klimt e di Franz von Stuck.
È nella sezione dedicata al ‘bianco e nero’, cioè alla nutrita produzione grafica degli anni fra Otto e Novecento, che meglio si comprende il dialogo degli italiani con la cultura figurativa mitteleuropea, impegnata ad indagare i più riposti sentimenti dell’uomo, i suoi fantasmi interiori. Spiccano in questa i fogli di Gaetano Previati, di Alberto Martini, di Romolo Romani, di Giovanni Costetti, di Umberto Boccioni, del giovane Ottone Rosai, che variano dall’allegorico, al fiabesco, al fantastico, all’orrido, confermando l’idea allora ricorrente che solo attraverso il disegno si riuscisse a preservare la spiritualità della visione dalle scorie della quotidiana esperienza.
Il percorso della mostra si conclude nella ‘Sala del Sogno’, che alla Biennale di Venezia del 1907 aveva consacrato le istanze e le realizzazioni della generazione simbolista creando una vera e propria scenografia affidata all’ingegno decorativo di Galileo Chini e agli artisti che, con la loro militanza, avevano contribuito ad alimentare le poetiche del ‘piacere’ e dell’inquietudine, della bellezza e del mito, della spiritualità e degli stati d’animo, sostenendole con tenacia fino alle soglie della rivoluzione futurista cui introducono due capolavori ancora simbolisti di Umberto Boccioni come Il sogno (Paolo e Francesca) e La madre che cuce.



Fonte: http://www.zabarella.it/
texdionis
00sabato 1 ottobre 2011 11:47
TORNA A FIRENZE LA BIENNALE ANTIQUARIATO

Si apre a Firenze, a Palazzo Corsini, la XXVII Biennale dell'Antiquariato.
Da oggi al 9 ottobre in esposizione le opere di 88 antiquari italiani e stranieri.

Fiori all'occhiello della Biennale una formella in marmo di Luca della Robbia raffigurante una Madonna col Bimbo in trono tra santi,una scultura di Canova, 7 disegni del Canaletto e una scultura in terracotta di Alessandro Algardi.

Palazzo Corsini si trasformerà in un museo: 2780 opere esposte, si spazia dai dipinti ai piatti, dai libri alle sculture. Un excursus nella straordinaria varietà della storia artistica italiana.

killing zoe
00domenica 9 ottobre 2011 14:19
"Josef Albers" 9 ottobre - 8 gennaio 2012 Modena
Collage di vetri, stoffe, legni, fotografie, copertine di dischi, quadri ad olio dove il colore viene scaricato direttamente dai tubetti a coreografare effetti di ambiguità percettiva a suon di forme geometriche. Pittore, designer, grafico, il tedesco Josef Albers (1888-1976) è stato uno dei protagonisti più significativi della stagione del Bauhaus, la scuola fondata da Walter Gropius, prima come allievo e poi ininterrottamente docente fino alla chiusura nel 1933 per le pressioni dei nazisti, attraverso le varie sedi di Weimar, Dessau e Berlino. Dopo esser stato collega in cattedra di Klee e Kandinskij, sbarcò allo sperimentale Black Mountain College del North Carolina, dove insegneranno anche John Cage, Merce Cunningham e lo stesso Gropius, finendo per collezionare allievi prestigiosi come Robert Rauschenberg e Cy Twombly, solo per citarne alcuni.
La sua parabola creativa, tra le più originali ed eclettiche delle avanguardie del Novecento, viene raccontata per la prima volta in Italia dalla grande mostra "Josef Albers", dall'8 ottobre all'8 gennaio alla Galleria Civica di Modena sotto la cura del suo direttore Marco Pierini. Grazie alla preziosa collaborazione con la Josef & Anni Albers Foundation di Bethany (Connecticut) arriva a Modena l'intera collezione americana, con una sola eccezione, di 179 opere. C'è tutto il suo universo di ricerca artistica applicata, in questo percorso.

Degli anni del Bauhaus, sfilano dodici lavori in vetro realizzate dal 1921 al 1932, i suoi collage di vetri traslucidi su tavola, con cui elaborava virtuosistici giochi di luce in una continua variazione di sfumature. Ancora, ventonove fotografie accanto ai suoi assemblaggi di immagini per orchestrare i bizzarri photocollage, insieme ad una piccola selezione di xilografie e di gouache. Un repertorio che testimonia la sua spiccata sensibilità alla manipolazione delle geometrie, costruendo scacchiere e griglie di forme isometriche per ottenere effetti prospettici innovativi, quasi a cercare una pionieristica tridimensionalità. Spiccano anche i mobili disegnati in questo periodo, che fondono in un linguaggio innovativo funzionalità e purezza di linee accanto alla sperimentazione dei materiali più disparati.
Con il Black Mountain College, Albers sfodera una pittura a olio materica, dosata con la spatola, cavando il colore direttamente dal tubetto. Una scelta testimoniata da una decina di dipinti della seconda metà degli anni Trenta e degli anni Quaranta, che svelano la sapiente cura delle affinità cromatiche. Lo spazio della Palazzina dei Giardini dedica la scena alla nota serie delle "Varianti" (1947-1952), mentre la sala grande di Palazzo Santa Margherita accoglie il ciclo della maturità "Omaggio al quadrato" (1950-1976), che si fregia di un prestito di un'importante collezione privata americana, e sfoggia l'ultimo "omaggio", compiuto a poche settimane dalla morte dell'artista, il 25 marzo 1976.
La bellezza di questa sequenza cronologica di lavori sta tutta nella incredibile varietà di accordi cromatici in funzione del formato della tela: la cura maniacale e certosina dei pigmenti di colori ravvicinati orchestra effetti di profondità che animano in modo spettacolare la superficie del quadro. Una chicca, sono anche le sette copertine di dischi disegnate per la Command Records, la casa discografica fondata dal violinista e ingegnere del suono Enoch Light con l'innovativa confezione apribile, "gatefold sleeve", la cui invenzione si deve proprio alla collaborazione fra Josef Albers e Enoch Light.
Come dice Marco Pierini: "Dalle sabbiature tentate sul vetro negli anni Venti, fino alle distese di prove di colore poggiate sul pavimento per scegliere i giusti rapporti di un nuovo Omaggio al quadrato, l'attitudine di Albers è rimasta sempre la medesima, quella di un infaticabile, coraggioso, avventuroso scienziato alle prese con un esperimento, se è vero che - come insegna Gregory Bateson - la scienza non prova, esplora".



di Laura Larcan
Fonte
texdionis
00mercoledì 12 ottobre 2011 15:01
ROMA, IN MOSTRA ARTE RUSSA DEL NOVECENTO

Il Palazzo delle Esposizioni di Roma ospita fino all'8 gennaio due grandi rassegne sull'arte russa del Novecento.

Una è dedicata al fotografo Aleksandr Rodcenko (1891-1956) e riunisce gli scatti prestati dalla collezione della famiglia. L'artista si cimentò nella pittura, nel design, nel teatro, ma fu nel campo della fotografia che introdusse i principi del Costruttivismo.
L'altra mostra riunisce per la prima volta i capolavori dei Realismi socialisti, custoditi nei maggiori musei russi. L'esposizione, dalle ultime fasi della Guerra civile agli anni '70, mira a smentire il mito del Realismo socialista come forma d'arte monolitica.
killing zoe
00giovedì 13 ottobre 2011 21:34
Re:
texdionis, 12/10/2011 15.01:

ROMA, IN MOSTRA ARTE RUSSA DEL NOVECENTO
L'altra mostra riunisce per la prima volta i capolavori dei Realismi socialisti, custoditi nei maggiori musei russi. L'esposizione, dalle ultime fasi della Guerra civile agli anni '70, mira a smentire il mito del Realismo socialista come forma d'arte monolitica.



[SM=x44479] [SM=x44479] [SM=x44479] [SM=x44479] ho visto in rete alcune delle opere che saranno esposte


killing zoe
00martedì 25 ottobre 2011 19:39
"Audrey a Roma. Esterno giorno" 26 ottobre - 4 dicembre 2011 Roma
Istantanee, non in posa, immagini poco ufficiali, con lei ritratta in giro per la città mentre fa la spesa dai vecchi «pizzicagnoli», a casa, all' uscita da un teatro, qualche volta durante serate più mondane, ma spesso, semplicemente, mentre porta a spasso i figli. Insomma, le foto (quasi) mai viste, in buona parte inedite, per raccontare il rapporto con la sua seconda città - l' amatissima Roma - di una delle più consacrate icone del cinema e dell' eleganza del XX secolo: Audrey Hepburn. E «Audrey a Roma», oltre che il titolo della mostra che apre al pubblico da mercoledì all' Ara Pacis - omaggio che raccoglie anche video e oggetti personali appartenuti alla diva più antidiva della Settima Arte - è anche il nome del volume, edito da Mondadori, che accompagna la rassegna: poco meno di duecento pagine e 194 illustrazioni, introdotte da un' epigrafe in cui l' attrice racconta: «Ogni città nel suo genere è indimenticabile. Tuttavia, se mi chiedete quale preferisco, direi Roma... il ricordo di questa visita non mi abbandonerà finché vivrò». Tanto vero (si era ai tempi del film «Vacanze romane») che poi, per una serie di intrecci del destino, Audrey sceglierà proprio Roma come sua città, e a Roma nascerà il suo secondogenito, Luca Dotti, nato nel 1970 dal matrimonio dell' attrice con lo psichiatra Andrea. E il libro è curato proprio da Luca, che introduce il volume con un ritratto privato e intimo della madre, e da Ludovica Damiani, con testi di Sciascia Gambaccini per brevi spaccati di costume sui decenni romani di una delle donne più pop e riprodotte del secolo («gadgetmania» dagli accendini ai poster). Eppure libro e mostra tentano proprio l' operazione di sottrarre l' icona-Audrey alla mitologia più scontata, fornendo uno spaccato - quasi una sorta di diario intimo fotografico - in cui l' attrice appare, già prima di abbandonare le scene e di diventare ambasciatrice Unicef, non sotto la luce diretta dei riflettori (presente in mostra anche un video inedito con immagini tratte da archivi famigliari). Apparati a parte, tre i decenni in cui è suddiviso il testo: Cinquanta, Sessanta, Settanta, con l' antidiva che via via lascia sempre più spazio alla donna, alla madre, alla protagonista discreta di una mondanità mai troppo urlata: la bella casa sulla collina dei Parioli, un cinema la sera, qualche compleanno, il matrimonio di un' amica, sempre e comunque testimonial di un' eleganza quasi prototipica, tutta sua e impeccabile, «iconizzata» fin dai tempi del suo sodalizio con Givenchy. Poi ovvio, Audrey è sempre Audrey, la Hepburn : motivo per cui, inevitabilmente, il racconto fotografico, pur incentrato su di lei non necessariamente star hollywoodiana, intreccia anche volti, personaggi e giganti di un' epoca: la bottega di alimentari certo, ma anche tutto un universo di happy few , in cui oltre a immancabili star (Gregory Peck, King Vidor, Charlton Heston, William Wyler...), oltre alle foto con il primo marito Mel Ferrer e con il primogenito Sean, è proprio Roma a far da protagonista: con l' attrice ripresa mentre fa colazione in una piazza Navona d' altri tempi, con le tante discese dalle scalette degli aerei a Ciampino e Fiumicino, con gli scatti che immortalano una stretta di mano con Gina Lollobrigida, un bacio di Alberto Sordi, un buffo ballo con il «piccoletto» Rascel o una passeggiata a Trinità dei Monti con Famous , Yorkshire a pelo lungo. Altre immagini la immortalano ovviamente a Cinecittà, mentre fa acquisti in centro, all' edicola, alle prime romane dei suoi film, di volta in volta con De Laurentiis, De Sica, la Vitti, oppure spensierata interprete di uno spaccato di costume dell' Italia che fu, con perfetta siluette a bordo di un' Alfa spider mentre attraversa il quartiere Eur, o in compagnia degli amici Torlonia, Franchetti, Rudy e Consuelo Crespi, ma anche sotto casa della suocera a Campo de' Fiori, come la ricorda Luca Dotti nel bel ritratto che introduce il volume: «Poco tempo fa, lasciandomi davanti a casa, un tassista mi disse: "Io lo conosco questo posto, anni fa qui ci portavo una signora bellissima". Quella signora era mia madre, ma con quella strana grazia che i romani sanno inaspettatamente tirare fuori, lui non la nominò. Come quel tassista, tanti a Roma, nei quasi vent' anni in cui mamma vi ha vissuto, l' hanno conosciuta così: una signora che amava portare i suoi figli a scuola e fare lunghe passeggiate con i suoi cani. Se ai fotografi capitava di incrociarla, magari la inquadravano in una viuzza nei pressi di Campo de' Fiori, mentre con suo marito aspettava che la suocera le aprisse la porta per la colazione della domenica». Edoardo Sassi RIPRODUZIONE RISERVATA **** La scheda La mostra omaggio «Audrey a Roma. Esterno giorno», a sostegno dell' Unicef, di cui la Hepburn fu ambasciatrice a partire dal 1988, apre al pubblico mercoledì al Museo dell' Ara Pacis, dove resterà allestita fino al 4 dicembre (tel. 060608). L' esposizione è promossa dall' assessorato alle Politiche culturali di Roma Capitale, da Audrey Hepburn Children' s Fund e Unicef. Per l' occasione Mondadori pubblica il volume «Audrey a Roma» (192 pagine, 194 illustrazioni, euro 24,90) in libreria già da martedì, stesso giorno in cui l' esposizione sarà inaugurata e presentata alla stampa. Ideatore e curatore della rassegna Luca Dotti, secondogenito dell' attrice, con Ludovica Damiani, Sciascia Gambaccini, Guido Torlonia, Sava Bisazzi Terracini.

di Edoardo Sassi
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killing zoe
00martedì 25 ottobre 2011 19:53
'Dall'apparenza alla trascendenza" 25 novembre - 11 marzo 2012 Aosta
Dai ritratti di Marilyn e Mao alla scatola della zuppa Campbell's e alle cover discografiche per la mostra di Andy Warhol, 'Dall'apparenza alla trascendenzà rappresenta il principale evento della stagione espositiva valdostana: dal 25 novembre all'11 marzo prossimi il centro Saint-Benin, nel cuore di Aosta, ospiterà la rassegna dedicata ad uno degli artisti di culto del 20/o secolo, padre della pop art americana.
In mostra vi saranno opere - tutti pezzi unici, diversi per tecniche e dimensioni - realizzate da Warhol tra il 1957 e il 1987, tra cui serigrafie, grafiche, multipli e memorabilia, provenienti da 23 collezioni e selezionate in modo da documentare il percorso artistico dell'autore. Spiccano i ritratti dei personaggi più famosi degli anni '60 e '70 - da Mao a Marilyn Monroe, da Mick Jagger a Liza Minnelli, oltre ad uno dei più efficaci autoritratti dello stesso Warhol - ma non mancano altri soggetti a cui l'artista statunitense rivolse l'attenzione come gli Space Fruits, le Campbell's Soup, i Carton Box, i Flowers e le copertine discografiche tanto ambite dai collezionisti.
"Il percorso della mostra - spiegano gli organizzatori - intende anche porre l'accento sulle opere che rappresentano la parte più intima della riflessione di Warhol, quella esteticamente più vicina alle sue radici europee, contribuendo così ad una rivisitazione della sua poetica più profonda". Per l'assessore regionale alla cultura, Laurent Vierin, si tratta "di un'iniziativa culturale di rilievo e valenza internazionale, che si inserisce in un'offerta coordinata e integrata volta alla promozione e valorizzazione della cultura in tutti i suoi aspetti".
"La mostra - aggiunge - costituisce un omaggio a un artista cruciale e amatissimo dal pubblico, ma anche un momento di riflessione sulla comunicazione di massa e sul significato dell'arte nella società di oggi e potrà così interessare un vasto pubblico, in particolare i giovani e le scuole che dedicano da sempre ampio spazio alla conoscenza di questo artista e dei suoi messaggi". Curata da Francesco Nuvolari, l'esposizione è accompagnata da un catalogo trilingue (italiano, francese e inglese), edito da Sala Editori, in cui sono riprodotte tutte le opere in mostra.



di Enrico Marcoz
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texdionis
00martedì 25 ottobre 2011 23:22
Re: "Audrey a Roma. Esterno giorno" 26 ottobre - 4 dicembre 2011 Roma
killing zoe, 25/10/2011 19.39:

Istantanee, non in posa, immagini poco ufficiali, con lei ritratta in giro per la città mentre fa la spesa dai vecchi «pizzicagnoli», a casa, all' uscita da un teatro, qualche volta durante serate più mondane, ma spesso, semplicemente, mentre porta a spasso i figli. Insomma, le foto (quasi) mai viste, in buona parte inedite, per raccontare il rapporto con la sua seconda città - l' amatissima Roma - di una delle più consacrate icone del cinema e dell' eleganza del XX secolo: Audrey Hepburn. E «Audrey a Roma», oltre che il titolo della mostra che apre al pubblico da mercoledì all' Ara Pacis - omaggio che raccoglie anche video e oggetti personali appartenuti alla diva più antidiva della Settima Arte - è anche il nome del volume, edito da Mondadori, che accompagna la rassegna: poco meno di duecento pagine e 194 illustrazioni, introdotte da un' epigrafe in cui l' attrice racconta: «Ogni città nel suo genere è indimenticabile. Tuttavia, se mi chiedete quale preferisco, direi Roma... il ricordo di questa visita non mi abbandonerà finché vivrò». Tanto vero (si era ai tempi del film «Vacanze romane») che poi, per una serie di intrecci del destino, Audrey sceglierà proprio Roma come sua città, e a Roma nascerà il suo secondogenito, Luca Dotti, nato nel 1970 dal matrimonio dell' attrice con lo psichiatra Andrea. E il libro è curato proprio da Luca, che introduce il volume con un ritratto privato e intimo della madre, e da Ludovica Damiani, con testi di Sciascia Gambaccini per brevi spaccati di costume sui decenni romani di una delle donne più pop e riprodotte del secolo («gadgetmania» dagli accendini ai poster). Eppure libro e mostra tentano proprio l' operazione di sottrarre l' icona-Audrey alla mitologia più scontata, fornendo uno spaccato - quasi una sorta di diario intimo fotografico - in cui l' attrice appare, già prima di abbandonare le scene e di diventare ambasciatrice Unicef, non sotto la luce diretta dei riflettori (presente in mostra anche un video inedito con immagini tratte da archivi famigliari). Apparati a parte, tre i decenni in cui è suddiviso il testo: Cinquanta, Sessanta, Settanta, con l' antidiva che via via lascia sempre più spazio alla donna, alla madre, alla protagonista discreta di una mondanità mai troppo urlata: la bella casa sulla collina dei Parioli, un cinema la sera, qualche compleanno, il matrimonio di un' amica, sempre e comunque testimonial di un' eleganza quasi prototipica, tutta sua e impeccabile, «iconizzata» fin dai tempi del suo sodalizio con Givenchy. Poi ovvio, Audrey è sempre Audrey, la Hepburn : motivo per cui, inevitabilmente, il racconto fotografico, pur incentrato su di lei non necessariamente star hollywoodiana, intreccia anche volti, personaggi e giganti di un' epoca: la bottega di alimentari certo, ma anche tutto un universo di happy few , in cui oltre a immancabili star (Gregory Peck, King Vidor, Charlton Heston, William Wyler...), oltre alle foto con il primo marito Mel Ferrer e con il primogenito Sean, è proprio Roma a far da protagonista: con l' attrice ripresa mentre fa colazione in una piazza Navona d' altri tempi, con le tante discese dalle scalette degli aerei a Ciampino e Fiumicino, con gli scatti che immortalano una stretta di mano con Gina Lollobrigida, un bacio di Alberto Sordi, un buffo ballo con il «piccoletto» Rascel o una passeggiata a Trinità dei Monti con Famous , Yorkshire a pelo lungo. Altre immagini la immortalano ovviamente a Cinecittà, mentre fa acquisti in centro, all' edicola, alle prime romane dei suoi film, di volta in volta con De Laurentiis, De Sica, la Vitti, oppure spensierata interprete di uno spaccato di costume dell' Italia che fu, con perfetta siluette a bordo di un' Alfa spider mentre attraversa il quartiere Eur, o in compagnia degli amici Torlonia, Franchetti, Rudy e Consuelo Crespi, ma anche sotto casa della suocera a Campo de' Fiori, come la ricorda Luca Dotti nel bel ritratto che introduce il volume: «Poco tempo fa, lasciandomi davanti a casa, un tassista mi disse: "Io lo conosco questo posto, anni fa qui ci portavo una signora bellissima". Quella signora era mia madre, ma con quella strana grazia che i romani sanno inaspettatamente tirare fuori, lui non la nominò. Come quel tassista, tanti a Roma, nei quasi vent' anni in cui mamma vi ha vissuto, l' hanno conosciuta così: una signora che amava portare i suoi figli a scuola e fare lunghe passeggiate con i suoi cani. Se ai fotografi capitava di incrociarla, magari la inquadravano in una viuzza nei pressi di Campo de' Fiori, mentre con suo marito aspettava che la suocera le aprisse la porta per la colazione della domenica». Edoardo Sassi RIPRODUZIONE RISERVATA **** La scheda La mostra omaggio «Audrey a Roma. Esterno giorno», a sostegno dell' Unicef, di cui la Hepburn fu ambasciatrice a partire dal 1988, apre al pubblico mercoledì al Museo dell' Ara Pacis, dove resterà allestita fino al 4 dicembre (tel. 060608). L' esposizione è promossa dall' assessorato alle Politiche culturali di Roma Capitale, da Audrey Hepburn Children' s Fund e Unicef. Per l' occasione Mondadori pubblica il volume «Audrey a Roma» (192 pagine, 194 illustrazioni, euro 24,90) in libreria già da martedì, stesso giorno in cui l' esposizione sarà inaugurata e presentata alla stampa. Ideatore e curatore della rassegna Luca Dotti, secondogenito dell' attrice, con Ludovica Damiani, Sciascia Gambaccini, Guido Torlonia, Sava Bisazzi Terracini.

di Edoardo Sassi
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killing zoe
00domenica 6 novembre 2011 15:35
Tocca diverse geografie d'Oriente, dal Giappone al Nepal, dall'India alla Cina, un viaggio nell'universo femminile ritratto nell'arte asiatica e racchiuso in una mostra che apre i battenti a Torino lunedì 7 novembre in via della Rocca 29, da Schreiber Collezioni.
Attraverso sculture in bronzo, ceramiche o terrecotte, porcellane, papier peint, statuette lignee, lacche, xilografie, inchiostri e dipinti, in una cavalcata tra secoli e dinastie, l'esposizione percorre e declina diverse sfaccettature del pianeta donna, da piccoli racconti di vita familiare di custodi della serenità casalinga ai gioielli sfarzosi delle corti imperiali, dalle dame e le concubine alle nobildonne, fino al pantheon delle divinità orientali. Ci sono principesse, danzatrici, suonatrici, e si schiudono anche le porte dell'universo erotico cinese, con la donna vista come oggetto di piacere e costretta ad ogni sacrificio per aumentare il suo richiamo fisico, a partire dalla mutilazione dei piedi fasciati e deformati per diventare più piccoli e arcuati. Un'usanza durata secoli, che costringeva le giovani a incespicare appoggiandosi alle pareti e aiutandosi col bastone per non finire a terra. S'intravedono donne coraggiose, capaci di farsi largo, e donne piegate nella loro volontà di emergere, vittime di una sopraffazione che arriva all'infanticidio e alle stragi di bambine, oltre alla prostituzione e alla poligamia delle classi abbienti.
Le acconciature, le preziose scarpine, le fogge degli abiti e dei gioielli raccontano un costume che s'è evoluto nei secoli e celebrano anche figure femminili come Lan'er, che nel 1862 riuscì, tra complotti e intrighi di corte, a farsi proclamare Imperatrice reggente, e regnò ininterrottamente sul Celeste impero fino alla sua morte, nel 1908. Il titolo della rassegna, "Luce - immagini femminili nell'arte asiatica", rimanda ad un'altra leggendaria figura: Wu Zetian detta Luce, l'unica donna a fondare la propria dinastia, che nel VII secolo dopo Cristo regnò per quasi cinquant'anni. La rassegna resterà aperta fino al 23 dicembre, dal lunedì al venerdì dalle 11 alle 18, il sabato su appuntamento. Info: www.arteorientaleschreiber.com, 011836487, schreiber.collezioni@libero.it.



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killing zoe
00venerdì 18 novembre 2011 19:11
"Leonardo. Il genio, il mito" 17 novembre - 29 gennaio 2012 Torino
Il volto del Genio, in un evento mondiale dedicato al piu' grande mito italiano di tutti i tempi che, ancor prima di cominciare, ha incassato piu' di 20.000 prenotazioni da ogni parte d'Italia e d'Europa.
La Reggia di Venaria apre le maestose Scuderie Juvarriane a Leonardo da Vinci e alla rassegna clou dei festeggiamenti per i 150 dell'Unita' d'Italia: ''Leonardo. Il genio, il mito''.
Una mostra straordinaria dedicata all'uomo di Vinci e alle sue opere, che diventa unica con l'esposizione del celebre ''Autoritratto'' di Leonardo. Il capolavoro e' custodito con grande perizia nel caveau della Biblioteca Reale di Torino e di la' non si e' mai spostato, se non per qualche rara esposizione (nel 1929 e nel 2006) nella stessa Biblioteca. Per mesi si e' discusso sull'opportunita' del suo trasferimento alla Reggia, poi il Ministro dei Beni culturali, Giancarlo Galan, ha deciso di concedere il via libera, cosi' da permettere al pubblico di apprezzare l'Autoritratto per la prima volta in un'altra sede rispetto a quella in cui e' abitualmente conservato. Per questo e' stata realizzata un'incredibile teca hi-tech, con vetro extra-chiaro e un complesso software che controlla temperatura, umidita' e altri parametri 24 ore su 24. Pr la mostra, questo autentico gioiello dell'arte e della storia dell'umanita' e' stato assicurato per 50 milioni di euro. La rassegna - allestita nell'ambito delle iniziative del Comitato Italia 150 - e' un viaggio nell'opera di Leonardo tra arte, multimedialita' ed effetti speciali, attraverso 25 disegni autografi originali, decine di scritti e una serie di opere dal XV al XX secolo che raccontano di come artisti dell'eta' moderna e contemporanea si siano ispirati al genio di Leonardo.
Il tutto arricchito dallo spettacolare allestimento dello scenografo e premio Oscar, Dante Ferretti, che ha riprodotto alcune delle macchine leonardiane come contenitori delle opere: la ''macchina cimatrice'' e la testa di cavallo concepita nel 1482 per il monumento a Francesco Sforza.
Il viaggio inizia con l'introduzione alla figura del genio di Vinci, anche grazie a un video di Piero Angela che ricostruisce il volto del Maestro da giovane. Si entra nel vivo con la sezione dedicata ai disegni, che hanno come comune denominatore i temi del volto, della natura, dell'anatomia umana e delle macchine. Ci sono il ''Codice sul volo degli uccelli'', il ''Ritratto di giovinetto'', lo studio della ''Vergine delle Rocce'' e altri fogli autografi (tutti custoditi alla Biblioteca Reale di Torino) che introducono a vero gioiello della mostra.
L'Autoritratto ''a sanguigna'' mostra il volto di un uomo canuto, con capelli e barba lunga. Viene fatta risalire ai primi anni del Cinquecento e si trova a Torino dal 1839, quando re Carlo Alberto l'acquisto' da un collezionista, insieme ad altri disegni di artisti famosi, entrando cosi' a far parte delle collezioni Savoia in seguito confluite alla Biblioteca Reale. E' affiancato da due ritratti dello stesso Leonardo eseguiti da due suoi allievi (uno dei quali e' Francesco Melzi).
E' il preludio alla sezione dedicata alle opere di artisti di un periodo che va dalla fine del Quattrocento all'Ottocento, in cui viene analizzata la figura di Leonardo nelle arti e nella cultura, evidenziando come la fisionomia stessa del Maestro diventi icona del genio rinascimentale. Si passa quindi al mito e alla presenza di Leonardo nell'arte contemporanea. C'e' l'omaggio-sfregio di Marcel Duchamp che mette i baffi alla ''Gioconda'', c'e' l'''Ultima cena'' interpretata da Andy Warhol, ci sono i contributi di Spoerri, Nitsch, Recalcati, fino all'''Uomo Vitruviano'' rivisto da Mario Ceroli.
L'Ultima Cena ritorna nel finale con una riproduzione digitale animata in scala 1:1 in alta definizione che consente di analizzare nel dettaglio lo studio della fisionomie e delle espressioni. Si chiude con una rassegna di filmati, commentati dallo scrittore Arnaldo Colasanti, che evidenziano l'influenza di Leonardo sulla cultura e sul cinema.



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killing zoe
00mercoledì 30 novembre 2011 07:24
"Il Quirinale. Dall'Unità d'Italia ai nostri giorni" 30 novembre - 17 marzo 2012 Roma
Nel Cortile d'Onore c'è la famosa Lancia Flaminia modello 335 presidenziale del 1961, decappottabile, un'icona della memoria collettiva degli italiani, legata com'è all'immagine di tutti i capi di Stato. E poco prima ecco la berlina dorata di gala del 1877 usata dai sovrani Savoia. Parte da quei due mezzi di trasporto, usati da re e da presidenti, il viaggio della mostra «Il Quirinale. Dall'Unità d'Italia ai nostri giorni» che si apre domani, 30 novembre, per chiudere il 17 marzo e allestita tra il Cortile d'Onore e le sale del Piano Nobile del Palazzo più famoso d'Italia.
È il contributo concreto e visibile della presidenza della Repubblica alle celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Come spiega il presidente Giorgio Napolitano nell'introduzione, questa mostra «vuole rendere l'immagine e il senso dell'impulso e dell'influsso che dal Quirinale si sono trasmessi al corpo vivo delle istituzioni e della società nell'età monarchica e nell'età repubblicana». Un racconto che segue, sottolinea Napolitano, «il succedersi dei re e dei presidenti che da capi di Stato hanno vegliato, nella buona e nella cattiva sorte, sul farsi e sul crescere del nostro Stato nazionale unitario».
La mostra, esplicitamente destinata al vasto pubblico popolare e soprattutto alle scuole e ai più giovani, propone un corposo apparato di audiovisivi con materiali d'epoca (per esempio, a ciascun presidente della Repubblica è dedicata una tappa multimediale con schermi che mostrano foto e filmati accanto a riproduzioni di pagine di giornali). Ma non rinuncia ad accontentare la curiosità dei visitatori, proponendo momenti anche spettacolari: per esempio il grande ritratto della regina Margherita, consorte di Umberto I, con l'abito da Corte del 1880. O il cannocchiale usato da Vittorio Emanuele III durante la Prima guerra mondiale. L'incredibile olio su tela affollatissimo di personaggi riconoscibili e identificati che ricostruisce la visita di Vittorio Emanuele III e della regina Elena a Parigi nel 1904.
O le bandierine che sventolavano sulle auto per indicare la presenza del sovrano così come accade oggi con i presidenti della Repubblica. La mostra - promossa dal Segretariato generale del Quirinale e organizzata in collaborazione con l'associazione Civita - è allestita da Luca Ronconi e curata dal professor Louis Godart, Consigliere del presidente della Repubblica per gli Affari culturali, e da Paola Carucci. In tutto, 1550 documenti sulla storia del palazzo del Quirinale, dalla sua costruzione a oggi. Squisito, nella sua precisione, il progetto per il Torrino del 1584, che porta la firma del Mascarino, ovvero Ottavio Nonni.
Poi la benedizione notturna di Pio IX nella tempestosa stagione del 1848, e che descrive l'entusiasmo popolare per la concessione dello Statuto da parte del pontefice. Mobili rarissimi, quasi tutti provenienti dalle regge preunitarie delle altre dinastie italiane restate senza trono (Pio IX lasciò il Quirinale vuoto a Vittorio Emanuele II alla fine del 1870): davvero stupefacente il cassettone in legno, avorio, madreperla, tartaruga, ottone e bronzo di quell'autentico genio dell'ebanisteria che fu Pietro Piffetti. Quindi un Palazzo che racconta la propria vicenda perché «Casa comune degli italiani», e non come un luogo dove abita un potere lontano.



di Paolo Conti
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texdionis
00mercoledì 7 dicembre 2011 15:53
GIORGIO VASARI SOTTO I RIFLETTORI

E' di questi giorni l'appello di intellettuali e studiosi che chiedono lo stop delle ricerche, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, della perduta Battaglia di Anghia-
ri, di Leonardo da Vinci.

Ricercatori Usa pensano che possa trovarsi sotto un affresco del Vasari; chi si oppone allo studio teme venga danneggiato dagli esami scientifici.

Vasari sotto i riflettori dunque, e non solo per le polemiche fiorentine: nel 500esimo anno dalla nascita, tre mostre - una a Firenze e 2 nella natia Arezzo - lo celebrano come disegnatore, pittore, uomo rinascimentale.
texdionis
00domenica 18 dicembre 2011 14:06
IN MOSTRA ARTE DI DOMENICO PERTICA

La mostra "Domenico Pertica. Un'idea che aleggia su Roma tra giornalismo, impegno e arte", ospitata al Complesso del Vittoriano dal 20 dicembre 2011 al 22 gennaio 2012, promossa dal Comitato Romano Incremento Attività Cittadine e da Comunicare Organizzando, è un omaggio a undici anni dalla scomparsa di questo singolare giornalista professionista, pittore, ma anche scrittore e poeta permeato di quella "romanità " che lo ha portato ad essere uno dei più illustri ed eclettici figli nella Roma del secolo appena trascorso.

La mostra, con il patrocinio della Regione Lazio e della Provincia è curata da Marco Fabiano. Fino al 22/1/2012
texdionis
00lunedì 9 gennaio 2012 15:35
TORNANO A ROMA LE PIETRE D'INCIAMPO

Tornano a Roma le "Memorie d'inciampo" dell'artista tedesco Gunter Demnig: 72 sanpietrini in ottone lucidato, collocati sui marciapiedi delle case in cui vissero vittime del nazismo, deportate per motivi razziali, politici o militari.

Incisi sulle "pietra d'inciampo", i dati della persona deportata: a Roma, per la terza edizione, sono coinvolti sette municipi, dal centro alla periferia. Vicino alla chiesa di Santa Maria dei Monti, saranno 20 i sanpietrini, per ricordare i membri della famiglia Spizzichino uccisi alle Fosse Ardeatine e ad Auschwitz.
texdionis
00lunedì 16 gennaio 2012 15:34
CINQUE SECOLI D'ARTE VIAGGIANDO NEL TEMPO



Da Vermeer a Kandinsky o da Hopper a Warhol: cinque secoli separano gli artisti scelti come portabandiera di due esposizioni collegate, a Rimini e a San Marino.

Un viaggio nel tempo e nell'arte: otto sale a Castel Sismondo e la "sezione distaccata" nella Repubblica del Titano si strutturano in altrettanti luoghi culturali e dello spirito, per raccontare l'arte europea e americana attraverso le personalità artistiche e le tematiche di spicco emerse lungo i secoli da metà Quattrocento al Novecento.

www.televideo.rai.it/televideo/pub/articolo.jsp?id=11196
texdionis
00sabato 21 gennaio 2012 12:14
OLTRE ROMA. VIAGGIO AL TEMPO DEL GRAND TOUR

La mostra diffusa "Oltre Roma.Nei Colli Albani e Prenestini al tempo del Grand Tour", che si apre oggi in 10 siti del sistema museale della Comunità Montana dei Castelli Romani e Prenestini costituisce un affresco unico nel suo genere.
E' il racconto corale, su trame diverse, del Grand Tour, il lungo viaggio di studio e di svago che i giovani dell'aristocrazia, storici, artisti e intellettuali dell'Europa tra i secoli XVII e XIX intraprendevano nelle città d'arte d'Italia e a Roma e dintorni, in particolare. Un'esperienza culturale e formativa unica, che rivive nei diari, nei dipinti e stampe, persino nelle carrozze e negli oggetti dei viaggiatori del tempo.

Le singole esposizioni,ospitate nei musei di Albano Laziale, Frascati, Genazzano, Lanuvio, Monte Porzio Catone, Nemi, Palestrina, San Cesareo-Colonna, Valmontone e Zagarolo, ciascuna secondo tematiche diverse, ripropongono le suggestioni, le vedute, i racconti dei visitatori stranieri del passato attraverso le principali mete dell'hinterland romano.
Così,il Museo di Frascati,nelle prestigiose Scuderie di Villa Aldobrandini, narra il tema "Viaggio e viaggiatori", in una raccolta di dipinti e opere inedite. Il Museo di Albano propone "Dimore d'artista", dedicato ad alcuni artisti come Valadier, padre e figlio o Maratta, che scelsero di abitare ai Colli Albani.
killing zoe
00lunedì 6 febbraio 2012 22:25
"Wildt. L’anima e le forme tra Michelangelo e Klimt" 28 gennaio - 17 giugno Forlì
Cito dal Popolo d’Italia del 30 ottobre 1923, con un guizzo mentale in direzione di Crozza: «Il Presidente fissa per alcuni istanti il severo volto quadrato che interpreta in modo ammirevole la linea muscolare del Duce e esclama: “È veramente un’opera d’arte! La Signora Sarfatti gli presenta Wildt e il Presidente gli stringe vigorosamente la mano complimentandosi vivamente». Italo Cremona scrive in Il tempo dell’Art Nouveau,1964: «Wildt, quando noi eravamo giovani, era esaltato come un genio, oggi è del tutto dimenticato».
Dal recupero di quell’indubbio genio, introverso e angosciato all’inizio del secolo di Freud, poi sublimato da astrazioni mistiche, tradotte in forme ammirate da giovani allievi della scuola di lavorazione del marmo di Brera come Fontana e Melotti, è nata una doppia mostra, travolgente e inquietante. Da un lato abbiamo dunque il recupero di una personalità eterodossa della prima metà del secolo scorso al di fuori da ogni norma e regola, con 72 marmi e bronzi e 42 fogli grafici ai vertici della stagione simbolista e secessionista. Dall’altro il susseguirsi, ben meditato e scelto dai curatori Fernando Mazzocca e Paola Mola del catalogo Silvana, di capolavori lungo secoli di scultura e pittura fagocitati dall’occhio e dallo spirito cannibale del maestro: dal Torso del Belvedere allo Zuccone di Donatello e al bronzo di Dio fluviale di Michelangelo da Casa Buonarroti a Firenze, da Cosmè Tura a Dürer e al Bronzino, da Klimt a Casorati. All’inizio risultano un poco spiazzanti le copie - interpretazioni (ma fu il suo primo mestiere) della Venere di Milo e del Galata morente da Villa Merstorff di Pallanza, considerando il costante e duro anticlassicismo lungo tutta la vita dell’artista rintanato nei suoi atelier di Milano.
Ma tutto cambia nella serie di salette che risolvono il delicato problema delle memorie personali e pubbliche di chi, a differenza di Martini, si sentiva e si poneva intrinsecamente al di fuori della tradizione monumentale. Si parte, con la costante di un fondamentale stupefacente mestiere, dal medaglione marmoreo ad altorilievo della figlia Dina, accompagnato da due «tragici», contorti Autoritratti a carboncino del 1916, per approdare alla stele marmorea di raffinatissimo gusto dèco con la testa bronzea del «martire fascista» Nicola Bonservizi del 1925. Segue poi la serie Sarfatti con il busto marmoreo neorinascimentale di Margherita del 1930 e quello postumo del marito Cesare del 1927, di rara intensa introspezione di realtà psicologica.

Il culmine di ostentazione solipsistica di suprema perizia nella manipolazione del materiale è raggiunto nell’ultima saletta, che presenta due repliche in bronzo del mitico e mitizzante capoccione del Duce del 1923, con il secondo in collezione privata, ulteriormente storicizzato da colpi di piccone indubbiamente inferti il 25 luglio 1943. Essi sono accompagnati dalla Maschera marmorea ritagliata nel 1924 della Gam di Milano, con l’effetto funereo e incubico delle occhiaie vuote, e dal grande equivalente busto bronzeo di Vittorio Emanuele III, coronato da fronde di quercia, sorprendente per la spietatezza degli intagli sul volto rugoso. Il risultato del tutto è singolarmente catartico, a lode, oggi, dell’arte senza tempo di Wildt. Il primo piano si apre con l’opera prima del 1893, la piccola testa purista della moglie appena sposata tramutata in Vedova e vegliata dalla Vestale di Canova già «assorbita» mentre l’artista studiava a Brera.
Da qui inizia la cavalcata della prima fase corrispondente al contratto con il mecenate della Prussia Orientale Franz Rose, che gli garantiva il prototipo di ogni opera in marmo o in bronzo. È il periodo intimamente tormentato e plasticamente caratterizzato da un personale espressionismo fortemente anticipato anche a livello europeo, che trasmette quel tormento fin nell’intimo della materia stessa marmorea e bronzea. Ne risulta un incomparabile alleggerimento della massa tridimensionale e nel contempo un grande affinamento delle superfici: si susseguono in mostra Il Crociato, La maschera del dolore, Uomo antico, Carattere fiero-Maschera gentile. Il punto estremo, esasperato, è Il Prigione del 1915, già morto il mecenate tre anni prima, già ben lontana la Prussia e ben mutato il rapporto di Wildt con la società culturale milanese. Lo dimostra la marmorea estatica nitidezza anche spirituale dell’Anima e la sua veste, che nel 1916 era nella casa milanese del collezionista Chierichetti accanto alla Madonna dei gigli di Previati. La seguono in mostra nella nuova fase il grande gesso dello stesso 1916 La madre adottiva per la tomba Slasi Crespi al Monumentale di Milano, da Ca’ Pesaro a Venezia, e nel 1918 le due preziose testine infantili di Augusto Solari e di Julia Alberta Planet, che anticipano il capolavoro Filo d'oro del 1927.
Affascinanti ma inquietanti sono i purissimi ritmi lineari scarnificati di Un rosario-MCMXV e ancor più quelli sommamente ambigui di Maria dà luce ai pargoli cristiani, presente, fra l’immagine marmorea totale e frammenti, con ben sei versioni. Alla fine della vita e dell’opera nel 1931, sono proposti nella sala terminale il busto colossale quanto surreale, di Pio XI, che solo un Papa inquieto come Paolo VI ammise nei Musei Vaticani, e il modello in bronzo del Puro folle-Parsifal, il cui gesso alto 6 metri andò distrutto con lo studio nei bombardamenti del 1943.



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killing zoe
00giovedì 8 marzo 2012 21:58
"Dali'. Un artista, un genio" 09 marzo - 01 luglio 2012 Roma
Assente da quasi sessant'anni, il genio visionario di Salvador Dali' torna a Roma per una grande mostra che si apre il 9 marzo al Complesso del Vittoriano. Esposti olii, disegni, documenti, fotografie, filmati, lettere, oggetti, per raccontare la sua pittura intrisa di sogni, incubi e ossessioni, alla continua ricerca di quel 'meraviglioso', che fu la cifra del movimento surrealista. Dal titolo 'Dali'. Un artista, un genio', l'importante rassegna (prodotta da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia) presenta capolavori dalla Fundacio' Gala-Salvador Dali' di Figueres e vanta la collaborazione e il supporto di grandi istituzioni museali come il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, il Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, la Thyssen-Bornemisza Collection. A curarla Montse Aguer, direttrice del Centro per gli studi daliniani alla Fundacio' Gala-Salvador Dali', e Lea Mattarella dell'Accademia di Belle Arti di Napoli, che hanno puntato a documentare la grandezza dell'artista e l'originalita' del personaggio, il cammino umano e creativo di un uomo che ha contrassegnato un'epoca con la sua opera.
Nel percorso espositivo, particolare rilievo e' stato inoltre assegnato alla relazione tra Dali' e l'Italia, della cui cultura fu profondamente influenzato. Una relazione che e' stata oggetto di nuovi, inediti approfondimenti. Il confronto con i maestri del passato, soprattutto con quelli, insuperati, del Rinascimento italiano, e' infatti alla radice della sua poetica. Un dialogo costante che, lontano dall'emulazione, si tinge di scontro, sfida, lotta, competizione alla pari. Dali' vuole ardentemente essere Raffaello o Michelangelo, arriva a inserire perfino il suo nome in un foglio autografo (presentato in mostra) dove valuta stile, colore, invenzione, disegno dei giganti dell'arte antica.
A documentare questa tensione, ecco un'opera degli esordi che e' proprio il giovanile 'Autoritratto con il collo di Raffaello' del 1921, in cui l'artista rivela fin da subito il suo desiderio di identificazione con il Divin Pittore.
E non manca la sua rivisitazione di Michelangelo, che invece chiude la rassegna. Immagini ispirate alla Pieta' vaticana e al Giorno e la Notte delle Cappelle Medicee a Firenze mostrano come per il pittore spagnolo guardare all'antico non abbia significato fare a meno del proprio lato visionario. In mezzo ai due grandi del passato, scorre il mondo onirico, inquietante, denso di suggestioni di Dali'.
Dopo la fase divisionista (Bagnanti) e realista (Ritratto di ragazza del '25), arriva l'incontro con Picasso e il cubismo (Omaggio a Satie), ma soprattutto con Gala, sua compagna di vita, e il surrealismo, documentato da una carrellata di capolavori, tra cui 'Il sentimento della velocita'', 'Figura e drappeggio in un paesaggio', 'Gradiva ritrova le rovine antropomorfiche (fantasia retrospettiva)', 'Il piano surrealista', 'Cortile Ovest dell'Isola dei morti (ossessione ricostitutiva da Boecklin)', 'Coppia con la testa piena di nuvole', 'Autoritratto con pancetta fritta', 'Eclissi e osmosi vegetali',' Singolarita'', 'La couple', lo 'Spettro del sex appeal', 'Impressioni d'Africa', scaturite da un viaggio in Sicilia. Il rapporto con l'Italia non ha riguardato solo l'arte classica. Dali' entro' in stretto contatto con l'intera produzione culturale italiana del '900. Non solo i Valori plastici di de Chirico, ma anche l'interscambio con registi come Visconti o Fellini, o Anna Magnani con cui sognava di fare un film. In mostra c'e' perfino la Vespa della Piaggio su cui Dali' intervenne nel 1962: lo scooter, infatti, venne ribattezzato Dulcinea come la donna amata da Don Chisciotte, una delle molte ossessioni del visionario Dali'.



di Nicoletta Castagni
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killing zoe
00domenica 11 marzo 2012 10:51
"Americani a Firenze. Sargent e gli Impressionisti del Nuovo Mondo" 3 marzo - 15 luglio 2012
Nell’anno in cui ricorre il quinto centenario della morte di Amerigo Vespucci, la mostra celebra i forti legami tra vecchio e nuovo continente, illustrando la cerchia cosmopolita che lego` per sempre la cittàal nuovo mondo e trasmise in America cultura e raffinatezze europee.
Per la prima volta, dopo le recenti mostre tenute in Francia e Inghilterra, Palazzo Strozzi espone le opere dei pittori americani che accolsero il linguaggio impressionista e che soggiornarono in Italia, studiandone in particolare il loro rapporto con Firenze a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo sino ai primi del XX.
Nella mostra saranno rappresentati pittori che, pur non aderendo in maniera esplicita all’impressionismo, furono maestri fondamentali per le generazioni più giovani: William Morris Hunt, John La Farge, Tomas Eakins. Seguiranno i grandi precursori come John Singer Sargent, Mary Cassatt, James Abbott McNeill Whistler, che vantavano una forte componente cosmopolita. Il centro dell’esposizione saràcostituito dalle opere di artisti qualitativamente notevoli che soggiornarono a Firenze. Fra questi alcuni esponenti del gruppo propriamente impressionista americano i Ten American Painters come William Merrit Chase e Frederick Childe Hassam.
La vita e l’attivitàdegli americani a Firenze si intreccia con quella di intellettuali, collezionisti, scrittori, critici d’arte loro connazionali, con i quali talvolta avevano giàavuto rapporti in patria: Gertrude Stein, Mabel Dodge, Bernard Berenson, i fratelli Henry e William James, Egisto Fabbri e la sua famiglia (le sorelle Ernestine pittrice e Cora poetessa), Mabel Hooper La Farge, Bancel La Farge, Charles Loeser, Edith Wharton. Queste colonie americane in Italia, pur vivendo piuttosto isolate dalla popolazione locale, recepirono la lezione della più moderna pittura italiana contemporanea ed ebbero un certo impatto su artisti e intellettuali italiani, anche perchè introdussero stili di vita raffinati e cosmopoliti e, relativamente alle donne, atteggiamenti più liberi e spregiudicati.
Nella mostra saranno presenti ritratti femminili di grande qualità, in cui la donna diventa simbolo della moderna nazione americana: giovani, adolescenti o addirittura bambine, spesso vestite di bianco, incarnano la purezza e le speranze di un’intera nazione. Il tema del ritratto femminile si ricollega all’attività delle pittrici d’oltreoceano, molto più emancipate delle coetanee francesi ed europee in genere.
Numerosi i percorsi e gli intinerai tematici tra arte, storia e letteratura per scoprire, all’interno della cittàe nei dintorni, le dimore, i punti di incontro e i luoghi in cui vissero e soggiornarono gli artisti americani.



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texdionis
00martedì 26 giugno 2012 17:35
ROMA, I PERCORSI DEL MUSEO CAPPUCCINO

Oggi s'inaugura, presso il Convento dell'Immacolata Concezione a Roma, il Museo dei Cappuccini, un percorso di visita che, attraverso opere d'arte, oggetti liturgici e di vita quotidiana e anti- chi manoscritti, porta a due opere uniche: il 'San Francesco in meditazione' dipinto da Caravaggio e la celebre Cripta-ossario annessa alla Chiesa.

Da domani 27, il percorso sarà aperto al pubblico. Si articola in 8 sezioni: Convento, Ordine, Santità cappuccina, Cultura e spiritualità, San Francesco del Caravaggio, I cappuccini nel XX secolo, I cappuccini nel mondo e La Cripta-cimitero. Mirate tecnologie multimediali accompagneranno il visitatore
raggio di luna78
00martedì 26 giugno 2012 21:24
Re:
texdionis, 26/06/2012 17.35:

ROMA, I PERCORSI DEL MUSEO CAPPUCCINO

Oggi s'inaugura, presso il Convento dell'Immacolata Concezione a Roma, il Museo dei Cappuccini, un percorso di visita che, attraverso opere d'arte, oggetti liturgici e di vita quotidiana e anti- chi manoscritti, porta a due opere uniche: il 'San Francesco in meditazione' dipinto da Caravaggio e la celebre Cripta-ossario annessa alla Chiesa.

Da domani 27, il percorso sarà aperto al pubblico. Si articola in 8 sezioni: Convento, Ordine, Santità cappuccina, Cultura e spiritualità, San Francesco del Caravaggio, I cappuccini nel XX secolo, I cappuccini nel mondo e La Cripta-cimitero. Mirate tecnologie multimediali accompagneranno il visitatore



da vedere senzaltro
texdionis
00domenica 15 luglio 2012 15:57
DA SIGNORINI A ROSAI, FIRENZE IN MOSTRA

Oltre 49 dipinti dedicati a vedute e rappresentazioni di Firenze, vista da diverse prospettive:dalle ariose visioni 700esche di Giuseppe Maria Terreni a quelle romantiche di Giovanni Signorini, fino alle opere dal tono domestico di pieno '800 di Gelati, o agli spaccati cittadini di Telemaco Signorini, per approdare ai quadri 900eschi dove cambia il modo di raffigurare la città.

"Firenze negli occhi dell'artista", alla Galleria d'arte moderna di Firenze dal 17 luglio al 28 ottobre, documenta i luoghi di una città scomparsa o fatalmente cambiata. Un percorso visivo arricchito da foto delle stesse vedute: la città nel passato e nel presente.
killing zoe
00venerdì 10 agosto 2012 13:20
''Vermeer, il secolo d'oro dell'arte olandese'' 27 settembre - 20 gennaio 2013 Roma
Per la prima volta arriva in Italia, a Roma, una mostra dedicata a Johannes Vermeer (1632-1675), massimo esponente della pittura olandese del XVII secolo. Dal 27 settembre al 20 gennaio 2013, alle Scuderie del Quirinale, sara' possibile ammirare alcuni dei suoi capolavori nell'esposizione ''Vermeer, il secolo d'oro dell'arte olandese'', che gia' si annuncia come uno degli eventi culturali piu' importanti dell'anno, non solo in Italia. Conoscitore e mercante d'arte, ma soprattutto pittore, Vermeer lavoro' esclusivamente su commissione e non dipinse mai piu' di due o tre opere all'anno, il necessario per mantenere la moglie e gli undici figli.
Attualmente, le opere di Vermeer conosciute nel mondo sono 37, di cui nessuna in Italia. Sparse in 15 collezioni diverse, nessuna delle quali in Italia, solo 26 di queste possono essere spostate. Negli ultimi cento anni sono state 8 le grandi esposizioni su Vermeer e solo 3 hanno ottenuto in prestito piu' di 4 capolavori dell'artista: nel 1996 alla National Gallery of Art di Washington, seguita da L'Aja, nel 2001 al Metropolitan Museum of Art di New York e nel 2003 in Spagna, al Museo del Prado, che, come l'Italia, non ha opere dell'artista di Delft, ma riusci' a riunirne ben nove. La mostra romana dovra' 'accontentarsi' di metterne in mostra otto, dalle donne ''ideali'' alla celebre Stradina, che saranno affiancati da cinquanta opere di artisti suoi contemporanei, tutti accomunati da una particolare abilita' per le diverse tecniche di rappresentazione della luce su materiali e superfici differenti.
Saranno esposti quadri di Carel Fabritius e Nicolaes Maes, pionieri degli effetti sperimentali e naturalistici attinenti allo spazio e alla luce, che Vermeer utilizzo' per accrescere il realismo delle sue composizioni pittoriche; Gerard ter Borch, osservatore insolitamente empatico di giovani donne come lo stesso Vermeer, che da ter Borch trae ispirazione per i soggetti, migliorandone lo stile; Pieter de Hooch, tra i piu' celebri pittori dell'epoca, a sua volta ispiratosi a Vermeer.
E ancora Gerrard Dou, il maestro del chiaroscuro applicato alle scene notturne ''a lume di candela'', Gabriel Metsu, Frans van Mieris e Jacob Ochtervelt. La rassegna, organizzata dall'Azienda Speciale Palaexpo e coprodotta con MondoMostre, e' a cura di Arthur K. Wheelock, Curator of Northern Baroque Paintings, National Gallery of Art di Washington, Walter Liedtke, Curator of European Paintings, Metropolitan Museum of Art di New York e Sandrina Bandera, Soprintendente per il Patrimonio Artistico Storico, Artistico ed Etnoantopologico di Milano.




di Claudia Fascia
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killing zoe
00lunedì 10 settembre 2012 22:15
"Renoir La vie en peinture" 15 settembre – 16 dicembre 2012 Pavia

Dal 15 settembre al 16 dicembre 2012 le Scuderie del Castello Visconteo di Pavia ospiteranno un’importante retrospettiva dedicata ad uno dei massimi esponenti dell’Impressionismo: Pierre-Auguste Renoir. L’esposizione, a cura di Philippe Cros, - attraverso una selezione di dipinti, pastelli e disegni - ripercorrerà la carriera del grande Maestro francese mettendo in evidenza il ruolo dell’artista nella storia dell’arte moderna. Il pubblico avrà la possibilità di ammirare importanti lavori, alcuni dei quali esposti per la prima volta in Italia, provenienti da prestigiose realtà museali internazionali.



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killing zoe
00domenica 30 settembre 2012 21:46
“En liberté” 30 settembre - 3 febbraio 2013 Roma
Il bacio più celebre della storia della fotografia, certo, scelto oltretutto (inevitabilmente, forse) come simbolo della mostra. Ma sarebbe un errore confinare l'artista tutto in quell'immagine-icona, vista e riprodotta milioni di volte. Quel suo sguardo infatti è in grado, quasi quasi, di dar corpo a uno dei classici dell'utopia: la macchina del tempo... E pare davvero di risalire la marea dei decenni e di poter rivivere tutto - atmosfere, personaggi, luoghi, perfino odori - osservando le foto di quella sua città amatissima, alla quale, in migliaia di scatti e lungo tutta una carriera, ha tributato molto più che un semplice omaggio, contribuendo piuttosto al suo processo di mitizzazione.

Robert Doisneau/Parigi. Parigi/Robert Doisneau: un binomio quasi inscindibile per il grande fotografo (1912-1994) al quale il Palazzo delle Esposizioni dedica, da oggi al 3 febbraio, in occasione del centenario, una vasta antologica già ospitata nell'Hotel de la Ville della capitale francese e in due città del Giappone, Tokyo e Kyoto. Più di duecento le foto esposte in via Nazionale (tel. 06.39967500; da martedì a giovedì, e la domenica, 10-20; venerdì e sabato fino alle 22.30; lunedì chiuso), tutte scattate a Parigi tra il 1934 e il 1991, non ordinate cronologicamente ma raggruppate per temi ripercorrendo i soggetti a lui più cari, che tutti insieme compongono una sorta di gran sinfonia in bianco e nero, e con le mille sfumature dei grigi tipici della città.

I volti di Parigi: siano quelli di personaggi celebri - Picasso, Coco Chanel, Giacometti, Juliette Gréco, Colette, Simone de Beauvoir, Yves Saint-Laurent, Christian Dior - siano quelli delle anonime prostitute del Passage de la Trinité . Le strade di Parigi. I giardini di Parigi. I bistrot di Parigi. Le gallerie d'arte di Parigi. La poesia delle cose tristi di Parigi. Le panchine e le sedie di Parigi. Gli innamorati di Parigi (i «baci» fotografati sono tanti...). Insomma tutto, della città: «Ho molto camminato per Parigi - ebbe a scrivere Robert - prima sul pavé e poi sull'asfalto, solcandola in lungo e in largo per mezzo secolo».
Il Prévert dello scatto, si potrebbe dire di Doisneau quanto a «tipicità» parigina (e Jacques Prévert è oltretutto uno dei soggetti ritratti dal fotografo, anche lui «iconizzato» con basco di trequarti e mozzicone di sigaretta penzolante in bocca), ma forse sarebbe banalizzare la poesia dell'istante e la straordinaria capacità di Robert nel saper inquadrare l'eccezionalità del «normale» (ma le sue foto sono anche, letteralmente, «documento», come nel caso delle immagini che testimoniano della distruzione delle Halles, il ventre di Parigi di zoliana memoria). Facile, nel senso più nobile del termine, diretto, godibile per (quasi) tutti, poeticissimo ma antipittorico, ovvero del tutto scevro da velleitarismi e preoccupazioni intellettualistico-plastiche tipiche di tanta fotografia moderna e contemporanea: Doisneau è innanzitutto un grande narratore, capace con la sua macchina di evocare un tempo perduto già nell'istante stesso in cui scatta. E torna dunque ancora una volta utile, anche per lui, la celebre frase di Proust nella Recherche : «La fotografia acquista un po' della dignità che le manca, quando cessa di essere una riproduzione del reale e ci mostra cose che più non esistono».



di Edoardo Sassi
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killing zoe
00giovedì 8 novembre 2012 19:58
"Cinquant’anni vissuti diabolikamente" 10 - 21 novembre Milano

Diabolik compie 50 anni. E per festeggiare l'anniversario d'oro del fumetto del brivido al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano è in mostra la sua storia. Il titolo? «Cinquant’anni vissuti diabolikamente», dal 10 al 21 novembre al padiglione Olona. Una sorta di «diaboliko museo» itinerante, che ha già toccato numerose tappe italiane con grande partecipazione di pubblico e che arriva – in versione aggiornata e arricchita – nella città che ha dato i natali alla casa editrice Astorina e che ancora oggi ne ospita la redazione.

LA LOCATION - Nemmeno la scelta della location è casuale: la tecnologia e l’innovazione, unite alla creatività, sono da sempre presenti negli albi del Re del Terrore: l’ideazione di colpi apparentemente impossibili, la costruzione di marchingegni e apparecchiature futuristiche, le fughe rocambolesche per sfuggire agli agguati dell’implacabile Ispettore Ginko, caratterizzano da sempre le avventure di Diabolik. La mostra si articola attraverso 22 teche – divise per temi – contenenti scritti, tavole, oggetti e diabolike memorabilia che permettono di approfondire i molteplici aspetti del mondo di Diabolik.

I CIMELI - Per la prima volta sono esposti al pubblico numerosi cimeli di grande interesse per gli appassionati del fumetto e i semplici curiosi: le tavole originali dei primi numeri, una copia dell’introvabile e preziosissimo numero 1 del 1962, rari gadget d’epoca, pagine di sceneggiatura uscite dalla macchina per scrivere di Angela Giussani. Particolare attenzione è stata posta all’evoluzione del personaggio nei decenni: Diabolik è stato ed è testimone del suo tempo, e l’impegno nelle campagne sociali a favore del divorzio, contro la pena di morte o l’abbandono degli animali, documentate in una sezione della mostra, ne sono un esempio. Alcuni monitor mostrano ai visitatori filmati d’epoca, gallerie d’immagini, il trailer del film “Diabolik” del 1968 girato da Mario Bava… e sono solo esempi della ricca documentazione proposta. Sono inoltre disponibili tre totem interattivi per permettere al pubblico di “sfogliare” elettronicamente il primo numero di Diabolik e di interrogare la banca dati della redazione alla ricerca di curiosità, di episodi o nomi apparsi nei quasi 800 albi pubblicati fi no ad oggi. Infi ne un maxi schermo proietta il documentario “Le Sorelle Diabolike”, prodotto da Michele Bongiorno e dedicato all’appassionante vita di Angela e Luciana Giussani. Particolare attenzione è poi dedicata alla Jaguar E-type coupé del ’61, da sempre compagna d’avventure di Diabolik. Oltre all’auto vera, impeccabilmente restaurata per l’occasione, una serie di bacheche ospita modelli in scala della stessa realizzati da Franco Nodo e modifi cati per mostrare tridimensionalmente alcuni dei più spettacolari trucchi messi in opera dal Re del Terrore durante i suoi cinquant’anni di ininterrotte fughe. Per tutto il periodo della mostra, all’interno del bookshop del Museo sarà presente uno spazio dedicato a gadget e volumi realativi al Re del Terrore. In occasione della tappa milanese di “Cinquant’anni vissuti diabolikamente” verrà presentato, in anteprima assoluta, il trailer della serie televisiva in 13 episodi dedicata a Diabolik, prodotta da Sky Cinema, attualmente in lavorazione.

LA NASCITA DI UN MITO - Il 1° novembre del 1962 appare nelle edicole italiane il primo numero di Diabolik. Il titolo, “Il Re del Terrore”, non lascia dubbi sulla natura dell’albo. La fi rma è invece volutamente meno esplicita: “di A. e L. Giussani” ossia di Angela e Luciana Giussani, ma c’è il timore che il pubblico non sia pronto ad accogliere l’idea che dietro a un fumetto dai contenuti così duri ci siano due autrici, due colte ed eleganti signore della buona borghesia milanese. Perché Diabolik nasce a Milano negli anni del boom, boom che si misura anche dal fl usso incessante di pendolari che, scesi dai treni delle Ferrovie Nord, transitano ogni mattina da Piazzale Cadorna. Tale andirivieni non passa inosservato dalle fi nestre della casa editrice Astorina, appena fondata dalle due sorelle, che sul piazzale si affaccia. Ed è proprio per alleviare la noia del viaggio di quei pendolari che Angela e Luciana pensano di ideare un fumetto che, a differenza di tutti gli altri presenti in edicola, fosse rivolto a un pubblico adulto, che parlasse di delitti e che, per la prima volta nella storia del nostro fumetto popolare, avesse un cattivo vincente per protagonista. Anche l’innovativo formato tascabile, a due vignette per pagina, è adatto a essere facilmente letto anche in un vagone affollato e la durata di lettura di una storia è pensata pari al tempo medio di percorrenza dei pendolari: una quarantina di minuti. Nasce così quel Diabolik che, ancora oggi, si presenta ogni mese in edicola con una storia inedita (e due ristampe per gli appassionati) ed è tra i più letti e venduti fumetti italiani.



di Rossella Burattino
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Etrusco
00giovedì 8 novembre 2012 20:08
Umbria Libri
a Perugia, fino a domenica prox.
killing zoe
00domenica 28 aprile 2013 20:23
"Robert Capa - Retrospettiva" 15 marzo - 14 luglio Torino
Si può partire da quell’ultima immagine che diventa quasi simbolica: come nella scena finale di un film due motociclisti sembrano andarsene tra la polvere, in Vietnam, sulla strada che porta da Nam Dinh a Tahai Binh. È il 25 maggio del 1954, di lì a poco su quella stessa strada una mina farà saltare in aria, a soli 40 anni, l’autore di quello scatto: Robert Capa, uno dei più grandi fotografi del Novecento, fondatore tra l’altro, con Henri Cartier-Bresson, dell’Agenzia Magnum.
A rilanciare l’epopea di Capa, nel centenario della nascita, è da oggi a Palazzo Reale di Torino, la retrospettiva curata da Lorenza Bravetta, responsabile Europa della Magnum, e organizzata da Silvana editoriale in collaborazione con la stessa Magnum e con il patrocinio del Comune di Torino. La mostra ripercorre la breve e intensa carriera di Capa, proponendo 97 immagini in undici sezioni. Si parte così con le celebri foto di Trotsky, realizzate da Capa nel 1932 quando all’anagrafe faceva ancora Endre Ernö Friedmann ed era un giovane ungherese riparato a Berlino. Qui si arrangiava facendo l’assistente in camera oscura all’agenzia Dephot. Fu il suo primo grande scoop: il rivoluzionario sovietico doveva parlare allo stadio di Copenhagen, ma non voleva essere fotografato. Così i fotoreporter di tutto il mondo arrivati nella capitale danese con le loro voluminose apparecchiature vennero bloccati all’ingresso. «Io - racconterà anni dopo Capa - portavo in tasca una piccola Leica, quindi a nessuno venne in mente che fossi un fotografo. Quando arrivarono gli operai che dovevano portare lunghi tubi di acciaio nella sala, mi unii a loro e con la mia Leica, andai alla ricerca di Trotsky».
Ma l’avvento del nazismo costringe il giovane ungherese di origine ebraica a lasciare Berlino per approdare a Parigi. Qui si innamora non solo della città ma anche di Gerda Taro, una fotografa tedesca che prima gli consiglia di cambiare il nome in Capa e poi lo aiuta vendere le foto nelle agenzie parigine. Di quel periodo in mostra vediamo Leon Blum e i sostenitori del Fronte Popolare, leader sindacali sul palco e bambini con il pugno chiuso. Poi verrà la guerra di Spagna e qui Capa perderà la sua compagna Gerda Tara in un incidente sotto un attacco aereo tedesco, ma nel settembre del 1936 realizzerà il Miliziano che muore, una fotografia che diventa ben presto non solo l’icona della guerra di Spagna ma una delle più famose immagini del Novecento.
La rivediamo accanto a foto di gente che corre a Bilbao verso i rifugi e di profughi repubblicani nei campi francesi quando ormai la Repubblica è sconfitta, nel 1939. Nel frattempo Capa è riuscito anche ad andare in Cina, realizzando un reportage in cui ci sono tanto Chang Kai-shek quanto la moglie, spettacoli di propaganda e un’immagine di bambini che giocano nella neve con i loro cappotti lunghi che oggi ci colpisce perché sembra anticipare i pretini di Giacomelli.
Poi sarà la volta, tra il 1941 e il 1944, dei grandi reportage della Gran Bretagna sotto i bombardamenti e dell’Italia dove sono appena sbarcati gli americani:  Capa fotografa il contadino siciliano che indica la strada a un marine americano, le donne di Cassino con le ceste in testa, e (bellissima) i soldati americani feriti che fumano in una chiesa di Maiori trasformata in ospedale da campo. Poi il 6 giugno del 1944 Capa, cui non manca certo il coraggio, sbarca con gli alleati a Omaha Beach in quello che passerà alla storia come il D-Day. «Le pallottole aprivano buchi nell’acqua intorno a me», scrisse. «Era molto presto e la luce era molto grigia per scattare buone fotografie, ma l’acqua e il cielo grigi rendevano di grande effetto quegli omini che si barcamenavano fra i piani surreali della squadra hitleriana anti-invasione».
Capa scatta quattro rullini da 36 foto e ritorna in Gran Bretagna perché possano essere sviluppate al più presto: «Quando - raccontava ieri alla presentazione della mostra il 94 enne John Morris, che fu amico di Capa, nonchè direttore di Magnum e che all’epoca lavorava per «Time» a Londra - arrivarono nei nostri studi li mandammo subito in camera oscura. Ma un giovane assistente preso dall’ansia sbagliò qualcosa e venne da me costernato a dirmi che tutti i rullini erano inutilizzabili. Andai a vedere, era un disastro, ma nel quarto rullino riuscimmo a salvare 11 scatti». Sono quelli, in parte mossi e sfocati, che fecero il giro del mondo e che ancora adesso sono immagini simbolo della Seconda guerra mondiale. Dalla Normandia Capa segue le truppe alleate a Parigi e racconta la liberazione della città, con il generale De Gaulle in parata e le giovani collaborazioniste dalla testa rasata. Di qui si sposta in Germania a documentare le distruzioni di Berlino (e c’è una foto che sembra quasi, non fosse per quegli uomini in bicicletta, una Beirut di Basilico). Nel dopoguerra la curiosità spinge Capa in Ucraina dove ci restituisce contadine sorridenti e famiglie che mangiano in fattorie collettive e coppie che danzano a piedi nudi.
C’è ancora il tempo di andare in Israele, anche qui bambini in campi per immigrati e donne sfollate che portano pesanti valigie sulla testa. Poi ci sarà l’Indocina e il «finale di partita». Capa non è stato però solo un fotografo di guerra, ma un uomo di grande sensibilità e ironia (come si intuisce dal ritratto che gli fa Ruth Ohkin): amava la vita, gli amici e le donne. Per cui l’ultima sezione sfodera celebri immagini di Hemingway, Picasso, Faulkner, Truman Capote e lo splendido collo di Ingrid Bergman, con cui ebbe una travolgente e sfortunata storia d’amore, iniziata con un bigliettino fatto passare sotto la porta della stanza d’hotel dell’attrice. Per sintetizzare la sua grandezza val la pena ricorrere a quanto scrisse il suo amico John Steinbeck: «Capa sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più di un’emozione: Ma lui riuscì a catturare quell’emozione scattando accanto ad essa. Era in grado di mostrare l’orrore patito da un intero popolo sul volto di un bambino».



di ROCCO MOLITERNI
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killing zoe
00mercoledì 1 maggio 2013 11:34
"Ritorno a Venezia" 24 aprile al 18 agosto 2013 Venezia

Eccole una vicina all'altra entrambe sdraiate e rilassate, ma con lo sguardo vigile, attento nel fissarti dritto negli occhi, senza indugio. Basta solo questa visione a decretare l'eccezionalità della mostra che ha ''invitato'' a Palazzo Ducale di Venezia "l'Olympia" di Manet, che per la prima volta lascia la Francia e la "Venere di Urbino" del Tiziano (prestito eccezionale dalla Galleria degli Uffizi), due cortigiane, donne emancipate e fuori dagli schemi. Entrambe arrivate per presenziare nell'esposizione "Manet, ritorno a Venezia", che si candida a essere una delle principali attrattive della Serenissima, proprio ora che si appresta a essere invasa anche dall'arte contemporanea; tra meno di un mese la prossima Biennale conquisterà i Giardini, l'Arsenale e non solo.
Come si sa, tornando ai capolavori di prima, la più antica fanciulla ispirò la più recente, non per questo, però riuscì a evitarle tutta una serie di scandali che segnarono il suo destino. "L'Olympia", dipinta da Manet nel 1863, fu rifiutata al Salon del '65, da allora quello spirito di sconvenienza e di difficile accettazione l'accompagnò sempre, come quel malizioso nastrino che le cinge il collo, d'un nero ''ineludibile e poco impressionistico'', come scrive nel testo in catalogo Skira, Roberto Calasso. Manet venne in Italia a studiare l'arte antica e in particolare apprezzò la pittura di Tiziano, la descrizione delle forme così vivide e naturali, sempre accompagnate da un peso psicologico intrinseco, valori che trovò manifesti e perfettamente interpretati nella splendida Venere, che lo colpì a tal punto da volerne reiterare l'intensità, trasportandola nella sua contemporaneità. C'è chi sostiene che in realtà Manet si formò principalmente in Spagna, dove pure si recò da giovane, e si abbeverò davanti a Goya, El Greco e Velasquez. Sicuramente quell'educazione pose le sue fondamenta e lo strutturò, ma la mostra veneziana con le sue 80 tele straordinarie, fa capire quanto quell'imprinting dovette poi fondersi con altri influssi.

Manet per ben tre volte soggiornò a Venezia, assimilò Giorgione, Veronese e Guardi, come da Firenze portò con sé il tratto dolce dei "manieristi" e fu ingordo del nostro Rinascimento. La prima volta che vide la laguna fu nel settembre del 1853, poco più che ventenne, e nello stesso anno vi ritornò per un secondo viaggio. L'ultimo fu invece nel 1874, stesso anno della famosa mostra dell'Impressionismo a Parigi. Esposizione a cui non partecipò, si lasciò invece cullare dalla fantastica luce italiana e realizzò varie vedute del Canal Grande.

La mostra, sapientemente congeniata da Stéphane Guéguan e voluta da Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, riserva grandi emozioni: sono molti i capolavori prestati dal Museo D'Orsay, dal ''Balcon'' realizzato tra il 1868 e il 1869, opera importante che accenna e anticipa quella modernità che poi sarebbe esplosa senza mezzi termini, il celeberrimo pifferaio "Le fifre" del 1866 e ancora una copia dell'epocale "Déujeuner sur l'herbe" del 1863, che nonostante l'impianto compositivo classico, fece gridare allo scandalo per l'utilizzo di abiti moderni e per le proporzioni della donna nuda in primo piano; ci pensò la storia a tramutare il dipinto dai morbidi contrasti cromatici, in uno dei più significativi capolavori del XIX secolo.

L'impianto critico della mostra è volto a sostenere che non solo la pittura spagnola influenzò l'arte di Manet, ma in buona parte fu proprio l'arte italiana a plasmare l'impianto linguistico del grande artista francese. Oltre a ciò, però è stato realizzato: "Un grande sogno, che ha comportato un anno e mezzo di lavoro", ha dichiarato Gabriella Belli in conferenza stampa, e ha poi aggiunto "Si è concretizzato un desiderio che tutti i direttori di museo, storici dell'arte come me, hanno: riunire nella stessa sala due capolavori, l'uno nato di conseguenza all'altro, siamo riusciti a mettere finalmente a confronto "Olympià" e la "Venere di Urbino". Due immensi dipinti che nonostante i 300 anni di distanza, dialogano con estrema modernità.



di VALENTINA TOSONI
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