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Moda

Ultimo Aggiornamento: 04/02/2015 23:03
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14/08/2011 10:07

L'abito su misura diventa globale
Trecento maestri sarti di tutto il mondo si sono dati convegno a Roma e hanno eletto il loro presidente, è il signor Kim Yong-Earn della Corea del Sud, che prende il posto di un classico e tradizionale sarto italiano, Mario Napolitano, che da 64 anni lavora in bottega.

La globalizzazione si è allargata anche a questa antica professione, di cui il fior fiore si è mosso da tutt’Europa fino all’Asia per il 34˚ congresso della Federazione mondiale dei maestri sarti, appuntamento che ha cadenza biennale. Quest’anno è stata anche l’occasione per festeggiare i cento anni della Federazione, che nasce nel 1865, anche se il primo congresso fu nel 1910 a Bruxelles, con la partecipazione di 250 sarti da 15 diverse nazioni. In quell’occasione la categoria elesse il proprio comitato esecutivo, allora presieduto dal fondatore Jacques Frickx, costituendosi come Federazione mondiale dei maestri sarti.

Nei primi anni non fu possibile rispettare la cadenza degli incontri, prima per lo scoppio della Prima guerra mondiale, poi per la generale recessione economica che ne seguì. I maestri delle forbici e dell’ago riuscirono dunque a riunirsi quindi a Parigi solo nel 1937, con la presenza di un centinaio di sarti, a Zurigo nel 1939 e a Londra nel 1950, dove si è svolto il quarto Congresso mondiale. Solo allora fu possibile rispettare la cadenza biennale stabilita nel corso della sua prima edizione.

Il nostro Paese, culla storicamente accreditata dell’alta scuola di sartoria maschile, è rappresentato dall’Accademia nazionale dei sartori, la più antica associazione italiana del settore abbigliamento, che oggi unisce più di 200 maestri italiani. L’accademia fa risalire la sua fondazione al 1575, quando per volontà di Papa Gregorio XII nacque l’Antica università dei sartori. I «Sartori», ora eletti al rango di accademici, si sentono portatori di una missione quasi sacrale, dalle loro voci è facile capire come stia loro a cuore tutelare la categoria del «sarto per vocazione profonda» come un patrimonio in via di estinzione.

Il vero dramma per un accademico sartore è forse oggi quello di essere scomparso come protagonista assoluto nella filiera della produzione di un abito di livello. Attualmente è il marchio dello stilista e la stampella di carne del testimonial che attribuiscono valore a un abito, il sarto sembra dissolto o per lo meno si immagina trascurabile il suo intervento. Le voci più rappresentative della categoria spiegano come il declino per i sarti tradizionali iniziò negli Anni 60, quando le prime sfilate erano accompagnate dalla raccomandazione martellante: «Vietato parlare male degli abiti confezionati». Era quasi un diktat. Negli anni in cui l’industria andava privilegiata per la rinascita del Paese, la famiglia italiana, davanti a Carosello, assaporava la vertigine del benessere sotto forma di fanciulle che sospiravano «Ho un debole per l’uomo in Lebole», o di Delia Scala che mostrava le meraviglie del Velicren, quando il tessuto naturale veniva considerato un cascame del passato in nome dei modernissimi abiti «antimacchia», o camicie «che non si stirano», figli anche loro della plastica. Poi arrivarono i grandi stilisti, nomi importanti, ma che poco avevano a che fare con la confezione personalizzata di un abito, quella che prescrive come condizione essenziale il rapporto fisico tra il sarto e il cliente e non meno di 60 ore di lavorazione. Infine un presidente di categoria che viene dall’Oriente. Per quanto tutti minimizzino la portata dell’evento, anche questo sarà un segno per nostri custodi dell’antica regola dell’ordine cavalleresco dell’ago e filo, delle forbici e del gessetto.



di GIANLUCA NICOLETTI
Fonte: http://www3.lastampa.it/moda/

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